Giuseppe Lattante
Roberto Beccaceci Stile, etica, poetica
Milella
Š 2015 by Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. ISBN - 978-88-7048-580-6
Edizioni Milella di Lecce Spazio Vivo s.r.l. Tel. e fax 0832/241131 Sito internet: www.milellalecce.it email: leccespaziovivo@tiscali.it Impaginazione: Emanuele Augieri Copertina: Yukiko Tanaka
Ai miei genitori Ada e Benito e alla felice memoria di zia Maria
Prefazione
La musica di Roberto Beccaceci parla di un distacco dal mondo, ma non dal tempo. Il tempo, infatti, esiste prima del mondo; e la musica, accelerandone la curvatura, ne dimostra l’estraneità. Il tempo ha creato il mondo come una cista dentro l’esistenza. La musica è la risoluzione di una simbiosi mal concepita. Nel Novecento, i compositori hanno, tutti, affrontato il problema dell’identità. Il concetto di individuo, nella musica del Novecento, non ha campo. è diventato una linea di fuga: un problema prospettico. Nella musica contemporanea, il protagonista è il suono, che talvolta diventa pensiero. Beccaceci ne è consapevole, e risolve la distonia trasformando il tempo in una seria di variabili sotto il controllo della volontà. La sua musica nasce da intervalli elementari, che la caduta nel tempo rende linee di forza. È il problema della struttura: in alcuni, è una conseguenza dell’idea; in altri, è la Grande Muraglia dell’immaginazione. Beccaceci, lui, vive la struttura come un destino da superare. La struttura è il sogno di qualcuno che si spaccia per l’Artefice. Un collasso della Forma, che non ha saputo resistere alle sue stesse tensioni. Beccaceci fa della struttura un luogo di inganni, dove la materia sfugge alla redazione del tempo. Il tempo, per lui, non è una metafora del destino: è un’immanenza delle cose. A questa visione il compositore giunge per vie interiori. Ci sono artefici che vedono il mondo come una galleria di specchi che riflettono il proprio Io; altri, prendono i sentieri dell’oblio e della (s) memoria. Beccaceci, è uno di questi: pensa che la musica trascenda l’esistere. La musica si radica nell’essere: è uno stato di coscienza. Fare esperienza dell’essere, signifca costruire un mondo con i suoni. Alessandro Zignani
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Introduzione
Questo lavoro è il frutto di una sinergica collaborazione che mi lega, da oramai oltre un decennio, al maestro Roberto Beccaceci. Una collaborazione nata sui banchi del Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, quando, da studente del Corso quadriennale di Didattica della Musica prima e biennale poi, mi sono formato alla sua scuola di composizione. In quel gymnasium di formazione musicale, fucina insostituibile di idee, quale è stato il Meeting della Didattica, è scaturito il progetto di presentare l’analisi delle composizioni di Beccaceci. È stato un percorso musicalmente entusiasmante e culturalmente stimolante; entrare nei meandri della partitura significa scandagliare, anche, l’animo del compositore, rovistando nel proprio intimo e carpendo segreti e passioni. Come sostiene Renzo Cresti, “[…] è importante conoscere personalmente l’Autore e vivere, insieme con lui, la sua opera, solo così si può testimoniare: la testimonianza è solo diretta, non può esistere da lontano, ed è legata alla contemporaneità, non è possibile testimoniare se non si è presenti. Il volto, gli sguardi, i gesti e le parole dell’uomo sono, per qualsiasi cosa, il vero a priori, questo non vuol dire sottovalutare il cosiddetto professionismo, l’abilità tecnica, né professare poetiche romantiche o legate all’analisi psicologica, ma ribadire come l’arte, se non nasce da esigenze interiori, è mero calligrafismo e le opere vanno a incrementare l’enorme e inutile settore dell’accademia […]1”. Sempre il Cresti, a proposito di Beccaceci, così si esprime: “È persona tenera, rispettosa, educata, ricca di qualità umane, così rare nel nevrotico ed egocentrico mondo della musica (contempora1
http://www.renzocresti.com/dettagli.php?quale=3&quale_dettaglio=14. 9
nea), umanità che sostiene anche la sua musica2. […]”, ed io da allievo prima, ed amico poi, non posso che confermare queste parole. Un lavoro di analisi musicale intensa non sarebbe stato possibile senza l’insostituibile preparazione elargitami dal prof. Galliano Ciliberti, docente illuminato e raffinato musicologo, che mi ha introdotto allo studio della partitura con dedizione e passione assoluta; un amico che considero un punto di riferimento certo nella mia formazione culturale e musicale. L’idea di accostare Beccaceci a Pasolini, poi, è scaturita dallo studio del testo Sul senso affabulante – Milella, 2001 – del prof. Carlo Alberto Augieri, ordinario di Critica Letteraria presso l’Università del Salento, a cui rendo il mio devoto grazie per aver dato lustro al mio lavoro con il suo prezioso intervento. La capacità affabulante di entrambi gli artisti e il loro personale e rispettoso modo di intendere la fede, mi sono sembrati il nesso migliore su cui intessere un parallelismo tra il compositore marchigiano e lo scrittore friulano. Rivolgo, ancora, un particolare ringraziamento al dott. Stefano Bazzanella, mio fraterno amico, che con impegno, interesse e dedizione mi ha supportato nella redazione del presente lavoro con illuminanti consigli e preziosi suggerimenti che hanno contribuito a renderne più snella e fruibile la lettura. E infine, il mio grazie più sentito al curatore di questa pubblicazione, a colui che ha creduto nel presente progetto fin da subito, da quando era solo un abbozzo, un embrione, una crisalide; mi ha spronato a crederci senza se e senza ma, fino a quando l’idea ha iniziato il suo processo di evoluzione e ha preso forma nelle pagine di questa opera: il mio più sentito ringraziamento al prof. Alessandro Zignani. Giuseppe Lattante 2
Ibidem.
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I Missa pro pace Una messa laica
Cristo alla pace del tuo supplizio nuda rugiada era il Tuo sangue
P. Pasolini
E ‘n la sua volontade nostra è pace (Par. III 85). È tra gli endecasillabi danteschi, uno dei più conosciuti e certamente pregno di simbolismo1 che identifica il concetto di beatitudine con la volontà di Dio, ovvero nella volontà del Creatore è implicito il senso di pace per gli uomini. Nella Divina Commedia si riscontra la parola pace per ben trentasei volte. Appena cinque nell’Inferno, il regno dell’antipace per antonomasia, laddove Dante colloca i seminatori di discordia e nel Canto XXIX, dove si incontra il “Cantore delle armi” Bertran de Born2, signore di Altaforte. Nel Purgatorio, luogo in cui le anime anelano desiderose alla divina pace, si registra il più alto numero di presenze del lemma, cui Dante ricorre per ben diciassette fiate, come egli stesso avrebbe detto. Per approfondire l’argomento si rimanda a: Guénon, R., L’esoterismo di Dante, Adelphi, Milano 2001; Vinassa de Regny, P., Dante e il simbolismo pitagorico, Fratelli Melita, La Spezia 1988; Terenzoni, A., L’ideale teocratico dantesco, Alkaest, Genova 1979. 2 Bertran de Born, (1140ca-1215ca), poeta francese, è stato uno dei più importanti trovatori del XII sec. Dante lo inserisce tra i seminatori di discordia per aver contrapposto Enrico II con il figlio Enrico III d’Inghilterra; l’aver diviso in terra comporta, per la legge del contrappasso, l’essere separato dalla propria testa, che tiene in mano a mo’ di lucernario. Bertran, consapevole della propria colpa, mestamente esclama: “così s’afferma in me lo contrappasso”. Cfr. Petrocchi, G., a c. di La Commedia secondo l’antica vulgata, Società Italiana Dante Alighieri, A. Mondadori, Milano 1967. 1
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L’espressione di beatitudine rilevata dal Paradiso è rafforzata da quattordici occorrenze di pax, che diviene metafora stessa di Dio. Sarebbe fin troppo ovvio, quasi banale, presentare il lavoro di Roberto Beccaceci secondo riferimenti canonici che, seppur artisticamente sublimi, rischierebbero di depauperare la simbologia laica presente nella sua Missa pro pace. Per non incorrere in incresciosi equivoci semantico-letterali, è bene chiarire il modo giusto di intendere il concetto di laicità nel presente lavoro. L’occorrenza, la cui etimologia è da ricercarsi nel termine greco λαός cioè popolo, individua “chi non appartiene allo stato ecclesiastico3”; già queste poche parole basterebbero a fugare qualsivoglia interpretazione faziosa della parola; si legge ancora: sono quindi laici, in opposizione ai chierici, (è ovvia l’incidentalità del concetto di opposizione a mero titolo sostanziale) nella Chiesa cattolica tutte le persone battezzate che non hanno alcun grado nella gerarchia ecclesiastica, ma con comuni diritti e doveri. Sarebbe tendenzioso e fuorviante far riferimento alla radice tardo latina laicus, a sua volta derivata dal greco λαικοσ ossia profano4. Il valore semantico in questo caso si tinge di un carattere fortemente negativo: alla voce profano, che ad litteram significa colui che sta fuori dal sacro recinto (pro – avanti, fanum – luogo sacro) si legge: che non ha carattere sacro; estraneo, contrario a ciò che è sacro o religioso; la parola non esprime un concetto positivo, ma negativo, in quanto acquista valore solo nella sua contrapposizione con sacro. Con la certezza che questa breve, ma necessaria, disquisizione linguistico-semantica sia servita a chiarire il senso giusto con il quale debba essere inteso il significato di laicità, si può procedere con l’analisi della Missa pro pace per coro misto a cappella, con un riferimento particolare alla sacralità espressa Cfr. laico in La piccola Treccani. Dizionario enciclopedico, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1995. 4 Cfr. profano ivi. 3
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