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photo MONICA CORDIVIOLA _model portrait FRANCESCA MONTRASIO
It’s Different magazine edizioni Mille srl anno 7 n.43/2016. free press Autorizzazione Tribunale di Ravenna n.1329 del 05/05/2009 - itsdifferent.it
VITA CONTEMPORANEA
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info@itsdifferent.it n.42/ 2016 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Carlo Lanzioni - Claudio Notturni - Mara Pasti FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto
Ravenna via Cavina, 19 tel.0544.684226 - 348.7603456 - 0544.1990044 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE:GRAF srl Edizione Emilia Romagna
73°MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA La Biennale di Venezia 2016
SPIRITI ARDENTI Ho avuto occasione di visitare la prestigiosa mostra Spiriti Ardenti, fra arte & fotografia, presso la Galleria Comunale d'Arte del Palazzo del Ridotto a Cesena. Un omaggio al 170° anniversario del Teatro cesenate "Alessandro Bonci" e al suo costruttore, l'architetto Vincenzo Ghinelli. Presenziavano all'inaugurazione, molto partecipata dalla Città, l'Assessore alla Cultura Christian Castorri e la curatrice della mostra, l'architetto Marisa Zattini, oltre ad alcuni degli artisti esposti: si tratta di un evento voluto e promosso dall'Assessorato e dal Comune di Cesena nell'ambito della valorizzazione dell'arte contemporanea. Dal 1846, il Teatro Bonci è stato fulcro di numerosi e significativi eventi, che hanno lasciato spazio -fra le altre- a due compagnie cesenati di fama internazionale: il Teatro Valdoca e la Socìetas "Raffaello Sanzio". Dei vari spettacoli ospitati sul palcoscenico del Bonci sono state selezionate alcune fotografie ed è stato poi chiesto ad alcuni degli artisti invitati di reinterpretarle secondo il loro modo di fare e di concepire l'arte.
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È stato così possibile ammirare l'insieme di queste neonate opere, dirette ad omaggiare l'attività del teatro, creando un ponte tra arte figurativa e arte scenica. In mostra, anche alcuni documenti dell'architetto Ghinelli gentilmente concessi per l'evento dall'Archivio di Stato di Cesena. « S p i r i t i A r d e n t i v u o l e e s s e re l'ouverture di questo nuovo capitolo per riscoprire l'identità dei luoghi. Perché l'identità col territorio si riconquista attraverso i luoghi fortemente connotati, che da sempre costituiscono il ganglio culturale della nostra città» hanno dichiarato il Sindaco Paolo Lucchi e l'Assessore alla Cultura Christian Castorri, nel testo introduttivo del voluminoso catalogo, che accompagna l'evento espositivo. Edito dall'editore Il Vicolo di Cesena, esso documenta tutte le opere degli artisti invitati e le fotografie degli spettacoli,
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tra cui un corposo nucleo di scatti dell'architetto-fotografo Gian Paolo Senni, esposti in mostra. Insieme ai testi critici, è da segnalare il contributo a firma dell'architetto Elisabetta Vasumi Roveri, che riassume le vicende storiche del "glorioso" Teatro Alessandro Bonci, insieme ad una riflessione del poeta e drammaturgo Fabrizio Parrini. Gli artisti esposti sono stati: Paola Babini, Moreno Bondi, Paola Campidelli, Daniele Masini, Carlo Ravaioli, Eros Renzetti. La mostra si completava con un omaggio al maestro Ilario Fioravanti (Cesena 1922 - Savignano sul Rubicone 2012). Riccardo Nalin
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Cucina e tradizione i sapori della nostra terra �a carne dire�amente dai nostri alle�atori italiani ed esteri Il pesce di prima sce a
Giovedì La Graticola Degustazione di carne al barbeque Il Venerdì El sabor de Espana La Paella
Il concetto di Albero della Vita è il nocciolo essenziale di un mito diffuso nelle mitologie di tutto il mondo, in relazione al concetto di albero sacro e più in generale, quindi, nella tradizione religiosa e filosofica creatasi sin dai tempi più remoti; se ne hanno notizie già dall'antico Egitto e dai popoli assiri. L'espressione Albero della Vita è stata usata come una metafora per l'albero filogenetico di discendenza comune nel senso evolutivo, in un celebre passo di Charles Darwin (1872). L'albero della conoscenza, che collega il cielo e gli inferi, e l'Albero della Vita, che collega tutte le forme di creazione, sono entrambe le forme dell'albero del mondo o albero cosmico, secondo l'Enciclopedia Britannica, e sono ritratti in varie religioni e filosofie dal buddhismo (Bodhi) al taoismo (Fusang), dal cristianesimo (vedere il mosaico capolavoro nel pavimento della cattedrale di Otranto) all'islam (Sidrat al-Muntaha), dall'ebraico (Etz Hayim) all'induismo (Akshaya Vata) . Claudio Notturni ( info@sturbgraphic.com) Nella pagina precedente: Tempio di Wat Xieng Thong (1559-1560) Luang Phrabang Nel tondo, l'albero creato per l'EXPO In questa pagina (da sinistra): scultura/fusione in filo di ottone tipica della tribù dei Kutia Kondh (Orissa, India) moschea di Sidi Saiyad's (1573) ad Ahmedabad (Gujarat, India) moschea di Nagina (XVI sec.) a Champaner (Gujarat, India)
ARMANI /SILOS
EMOTION OF THE ATHLETIC BODY Giorgio Armani presenta Emotions of the Athletic Body
Una mostra fotografica dedicata alla celebrazione dello sport e degli atleti che affrontano sempre nuove sfide e che sanno emozionare. Ăˆ stata inaugurata a Milano il 22 settembre, con un cocktail esclusivo, la mostra Emotions of the Athletic Body, per quale Giorgio Armani ha curato personalmente la selezione delle immagini, attingendo da un vasto archivio di fotografie che egli stesso ha commissionato nel corso degli anni. La suggestiva raccolta di scatti, dal 1985 fino a oggi, occupa l'intero piano terra dell'Armani/Silos. Il design dello spazio è stato completamente ridefinito dallo stilista per dare il massimo risalto al tema: le immagini in
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bianco e nero sono stampate su enormi lastre rifinite a cemento, come le pareti dell'edificio, mentre i pavimenti sono rivestiti nello stesso materiale di colore rosso di cui sono ricoperte le piste di atletica. Nell'atrio, il visitatore viene accolto da un'enorme statua che riproduce a grandezza naturale un atleta in equilibrio su un globo di pietra. “Lo sport è da sempre una delle mie passioni” afferma lo stilista. “Credo che rappresenti quelle qualità che ci permettono di migliorarci: dedizione, spirito di sacrificio, perseveranza e forza di volontà. Lo sport fa bene al corpo ma anche allo spirito e dimostra che il successo non si raggiunge senza impegno”. Gli sportivi, uomini e donne, non sono solo modelli di comportamento, ma anche affascinanti soggetti fotografici perché all'apice della condizione fisica. Per questo Giorgio Armani ha invitato nel corso degli anni molti atleti di fama mondiale a indossare i suoi capi
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davanti all'obiettivo. Emotions of the Athletic Body presenta alcuni significativi esempi di queste collaborazioni con immagini tratte da campagne pubblicitarie, dai magazine Emporio Armani, dalle pubblicazioni Athlete e Facce da Sport. Oltre a una selezione inedita di Kurt e Weston Marcus, in mostra appaiono scatti di noti fotografi, tra cui Aldo Fallai, Howard Schatz, Mert Alas e Marcus Piggott, Serge Guerand, Cliff Watts, Eric Nehr, Vangelis Kyris, Tom Munro, Richard Phibbs, Antoine Passerat, e video istallazioni con filmati inediti. La mostra fa da sfondo alla quarta edizione dell'Armani/Silos Film Series che da ottobre presenterà una rassegna di film legati al tema dello sport. Con Emotions of the Athletic Body, Giorgio Armani sostiene ancora una volta Special Olympics, l'organizzazione sportiva internazionale per persone con disabilità intellettive. La mostra resterà aperta al pubblico fino al 27 novembre.
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Piazza Saffi, 13 Punta Marina Terme (Ra) Tel.0544.437228 www.ristorantecristallo.com chiuso mercoledĂŹ
FOTO DIEGO FINOTTO
La 73ª mostra del cinema di Venezia verrà ricordata, forse, solo per gli spacchi vertiginosi sul red carpet esibiti da Giulia Salemi e Dayane Mello: tutto il resto, tranne pochissimi titoli, è già caduto nell'oblio, a poche settimane dalla conclusione della kermesse. Torneremo sugli ettari di pelle scoperta delle due attrici, e degli altri dettagli di costume della mostra, ma prima il dovere. La giuria quest'anno era presieduta da Sam Mendes, regista di American Beauty e marito di Kate Winslet, mentre il gruppo di lavoro da coordinare era estremamente eterogeneo (tra gli altri, segnaliamo Laurie Anderson e Chiara Mastroianni), e questo forse spiega l'assegnazione apparentemente eccentrica del Leone d'Oro 2016. A vedersi consegnare la statuetta è stato il filippino Lav Diaz per il film Ang Babaeng Humayo (The woman who left): girato in bianco e nero, per quasi quattro ore (ma si dice sia il film più sobrio di Diaz…) parla di una donna di mezza età che dopo un'ingiusta reclusione in carcere, durata trent'anni, cerca vendetta e trova redenzione. Impossibile dire di più, il senso del film sta nella sua visione, che per uno spettatore convenzionale sembra sfiorare il martirio, mentre per critici ed esperti ha una maestosità che il cinema dovrebbe riprendersi, abbandonando logiche commerciali. Impossibile, infatti, che questo film abbia una qualche forma di distribuzione, al di là di esangui circuiti d'essai.
AMY ADAMS
ANNA SAFRONCIK
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ASHLEY GREENE
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Probabile che non se ne senta più parlare, se non in ambienti cinematograficamente colti. Curioso, però, che si resti sempre nelle Filippine per il film Pamilya Ordinaryo, vincitore del premio del pubblico BNL: vi si racconta la storia di una sedicenne e del suo giovanissimo fidanzato, soli al mondo e ladri per le strade di Manila per sopravvivere; quando diventano acerbi genitori, subiscono il rapimento del figlio neonato e per riaverlo dovranno compiere scelte durissime. Tra i film che vedremo sicuramente al cinema, invece, segnaliamo Jackie, pellicola vincitrice del premio alla migliore sceneggiatura (Noah Oppenheim), un ritratto della vita di Jacqueline Kennedy durante la settimana successiva all'assassinio del marito, in tutte le sue dimensioni, pubbliche e private. “Finora ho sempre avuto protagonisti maschili, era venuto il momento di raccontare una donna e ho scelto Jacqueline Kennedy perché è un personaggio allo stesso tempo iconico e misterioso, di cui sappiamo pochissimo. Questa sensazione di mistero volevo che rimanesse anche alla fine del film” ha dichiarato il regista cileno Pablo Larrain. Si dice che la protagonista Natalie Portman, tra le più ammirate apparizioni in passerella e sala stampa, meriti l'Oscar, e non facciamo alcuna fatica a crederci; non è
NAOMI WATTS
JUDE LAW
JAKE GYLLENHAAL
però riuscita a portare a casa la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, assegnata invece a Emma Stone per La la Land dell'americano Damien Chazelle. Se cercate nomi italiani, resterete delusi: nel palmares del festival troviamo solo un Premio Orizzonti per miglior film a Liberami di Federica Di Giacomo, mentre per trovare un titolo italiano -tra l'altro già adocchiati dai più importanti festival internazionali- bisogna andare nella sezione Giornate degli autori, naturalmente fuori concorso: Indivisibili di Edoardo De Angelis, con le giovani gemelle Fontana protagoniste in un ruolo (fittizio) di siamesi che si esibiscono, cantando in feste e matrimoni, per il sostentamento della famiglia di origine, finché la scoperta della possibilità chirurgica della loro separazione e la libertà che ne conseguirebbe genera una crisi. Segnaliamo, infine, The young pope di Paolo Sorrentino, una fiction i cui primi due episodi sono stati presentati proprio alla mostra di Venezia e che ha debuttato su Sky Atlantic, in Italia e altri paesi, il 21 ottobre, con grandissimo successo. Si narra dell'ascesa al soglio pontificio di un prete giovane, bello e ambizioso: Jude Law è risultato perfetto per la parte, ed è stato sicuramente tra i più ammirati a Venezia 73. E qui torniamo agli spacchi vertiginosi di cui sopra: è stato proprio in occasione della proiezione di questo lavoro che sono apparse in passerella le due bellezze praticamente desnude (fin qui note solo per dimenticabili apparizioni in passate edizioni
GABRIELE MUCCINO
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PAOLO SORRENTINO
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DAKOTA FANNING JUDE LAW
FRANCESCO FACCHINETTI E MOGLIE PAOLO SORRENTINO
SILVIO ORLANDO JAKE GYLLENHAAL
JAMES FRANCO GABRIELE MUCCINO
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di Pechino Express e Ballando con le stelle), a braccetto del loro stilista Matteo Evandro Manzini. Tutt'altra classe per la madrina della manifestazione, l'attrice Sonia Bergamasco, che pur sfoggiando splendidi abiti trasparenti e leggeri, in grado di svelare una sensualità naturale, ha incantato tutti per stile e misura. Da segnalare, e provato in prima persona, il rigorosissimo servizio d'ordine di questa edizione e che ha coinvolto tutti gli operatori dell'informazione. La paura di eventuali attentati ha tenuto lontani anche molti nomi di richiamo, ma tutto sommato anche quest'anno noi di It's Different siamo stati felici di esserci e di raccontarvi con queste foto un appuntamento che resta sempre tra i più suggestivi e irrinunciabili.
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Per la prima volta, saranno riuniti alcuni tra i più importanti artisti dell'arte contemporanea, come Yayoi Kusama, Andy Warhol, Francesco Vezzoli, Joana Vasconcelos, con opere dai linguaggi fortemente esperienziali (All the Eternal Love I Have for the Pumpkins della Kusama è tra le più instagrammate al mondo) e adatte a coinvolgere il pubblico attraverso molteplici sollecitazioni. L'esposizione romana intende affrontare uno dei sentimenti universalmente riconosciuti, raccontandone le diverse sfaccettature e le sue infinite declinazioni. Un amore felice, atteso, incompreso, odiato, ambiguo, trasgressivo, infantile, che si snoda lungo un percorso espositivo non convenzionale, caratterizzato da input visivi e percettivi. Love va oltre il concetto di museo. Il vero protagonista della mostra è infatti il pubblico, che si riappropria degli spazi espositivi, divenendo fruitore e divulgatore allo stesso tempo, avendo la possibilità di fotografare liberamente tutte le opere esposte (hashtag ufficiale #chiostrolove). Un coinvolgimento sensoriale a 360° caratterizza l'esperienza museale, abbracciando il concetto di 'open access' e di museo in continua evoluzione. Il percorso della mostra inizia proprio con l'opera Love (1966-1999), un quadrato di lettere che Robert Indiana ha tracciato agli inizi degli anni Sessanta e che da allora continua a rappresentare l'icona più forte e suggestiva di un'immagine che si fa parola, che invade lo spazio, che espone l'essenza dell'arte stessa. Amore è anche il mettersi in gioco in prima persona, la scelta estrema fra ammirare e partecipare, la necessità, ancor prima del piacere, di esserci nell'opera e non più guardarla da fuori. È ciò che Yayoi Kusama chiede a chi “entra” nella sua ultimissima Infinity Mirrored room, All the Eternal Love I Have for the Pumpkins (2016), dove lo spazio è ripetuto all'infinito in un caotico gioco di specchi nel quale bisogna immergersi, abbandonarsi, respirare la solitudine. Sono i confini tra uomo e mondo, tra verità e incanto che crollano nell'attimo in cui si chiude la porta dell'Infinity room e allucinati paesaggi di zucche restituiscono il mistero di atmosfere mentali, sogni psichedelici nei quali le dimensioni si falsano, le prospettive si capovolgono, gli oggetti e i personaggi si confondono. Essenzialità stilistica e centralità assoluta dell'immagine sono poi protagoniste di Smoker #3 (3-D) del 2003 di Tom Wesselmann: un'immagine volutamente stereotipata e commerciale, dettata dalla cultura di massa che impone la propria grammatica, il proprio vocabolario che va a scardinare l'ordine sociale delle immagini attraverso un amore pop e coraggioso, che non teme di sfiorare anche la seduzione e l'erotismo. Infido e paludoso è il terreno sul quale fluttuano gli acquarelli di Francesco Clemente: i suoi lavori respirano gli aromi delle spezie orientali e presentano infiniti volti, come Androgyne Selfportrait III (2005), dove sorriso e dolore convivono, dove la vita e la morte si abbracciano indissolubilmente. In queste immagini l'amore si riconosce in tutta la sua ambiguità, si riflette su una piccola barca alla deriva prima di affondare e alzare dal proprio cuore il simbolo della resa, come nell'opera Surrender (2015). Allo stesso universo turbolento appartiene l'opera di Marc Quinn con le sue rappresentazioni vittoriose di una natura felice, colorati mazzi di fiori e quel tripudio abbagliante di luci che allontana il sospetto del male ma che lascia spiragli al biancore gelido della fine, del tempo scaduto: sono fiori recisi come in Thor in Nenga del 2009:colori bloccati dalla chimica,natura
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congelata, è il meraviglioso sorriso della morte che si affaccia, con arabeschi e pennacchi, in tutto il suo trionfo. Sono immagini dell'intensa bellezza dell'amore che custodisce la propria tragedia, la gioia di un sentimento profondo che affoga nelle lacrime di un inganno. Ma è forse, in assoluto, l'immagine di Marilyn Monroe con One Multicoloured Marilyn (Reversal Series) del 1979-1986 a rappresentare, con più solida suggestione, il complesso ingorgo emotivo dell'amore. Marilyn è il volto stesso dell'amore, ed è naturale che la sua immagine sia diventata la firma di un artista come Andy Warhol: non solo l'icona più riprodotta della contemporaneità, ma un sogno visionario, allucinato di bellezza e disperazione, di eleganza e povertà, di infantile dolcezza e segreta perversione. Un'intera vita contorta e contraddittoria congelata nella santità di un volto, il silenzio di uno sguardo in cui convivono tutte le espressioni, tutti i sentimenti, tutte le immagini possibili. Videoistallazioni raccontano nel percorso espositivo differenti linguaggi sperimentati da Ragnar Kjartansson, Tracey Moffatt, da Nathalie Djurberg e Hans Berg. L'amore è raccontato nell'ingannevole impianto teatrale di God (2007) di Ragnar Kjartansson e nelle romantiche e storiche scene dei baci cinematografici in Love (2003) di Tracey Moffatt; voci distorte di un mondo oscuro, fiori giganti di cartapesta che alludono a una bellezza inquietante, una struttura teatrale e filmica sono invece i protagonisti dell'opera The Clearing (Pastels and Red and Purple, 2015) di Nathalie Djurberg e Hans Berg. L'arte e la scrittura raccontano indelebili frammenti di vita attraverso l'intima e luminosa grafia di Tracey Emin con My Forgotten Heart (2015); fragilità e timore si manifestano in tutta la loro evidenza nei corpi torturati e feriti delle sculture femminili di Mark Manders. Con Francesco Vezzoli il linguaggio scultoreo e quello filmico si accarezzano in un dialogo sottilmente seducente: in Self Portrait as Apollo del Belvedere's (Lover) del 2011 il silenzio marmoreo della statuaria romana imperiale e la cinematografia lussuosa e barocca alla Luchino Visconti si fondono nel gioco di un amore impossibile ricamato con lacrime, colto in sguardi intensi, profumato da labbra sfiorate. E ancora un esercizio di equilibrio è quello espresso in Crystal Gaze (2007) da Ursula Mayer e l'algido involucro che avvolge le sue modelle eteree, bellissime e lontanissime, prive di respiro, manichini eleganti dai sentimenti impossibili sul vortice del peccato. Lo stesso feticistico rapporto con la statuaria classica è quello di Vanessa Beecroft che privilegia il corpo reale delle modelle e la fotografia come in VBSS.003.MP (2006). Altro azzardo è compiuto da Gilbert & George che in Metalepsy (2008) sfigurano i loro stessi corpi in un intreccio di immagini e in un gioco in cui è impossibile abdicare al grande sogno identitario di arte e vita. E, perché l'arte è anche musica, a completare il caleidoscopico quadro di sensazioni Coração Independente Vermelho #3 (PA) [Red Independent Heart #3 (AP)], il gigantesco cuore fatto di posate di plastica rosse di Joana Vasconcelos canta, con la voce di Amalia Rodriguez, l'incanto del fado. Si contrappone così l'armonia della musica alla cantilena della tristezza, l'immagine simbolica dell'amore alla quotidianità ripetitiva raccontata dalle posate di plastica con cui la Vasconcelos rincorre ora gli aspetti più tormentati del simbolo, ora quelli più concettuali della grammatica compositiva.
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atmosfera e sapori Cucina del territorio rivisitata Specialità di carne e pesce Pane fatto in casa Preparazione a base di foie gras e tartufi in stagione Formaggi d’alpeggio con mostarde e confetture Ampia selezione di vini nazionali
Aperto a pranzo anche per colazioni di lavoro. Ideale la sera, per cene intime, in una romantica atmosfera
AL BOSCHETTO OSTERIA
Una tessera gastronomica nella mosaicale creatività di Ravenna
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Di Laura Sciancalepore Ormai è diventata una piacevolissima abitudine per me interpellare Claudia, a cadenza annuale, sugli sviluppi della sua attività. Sempre in grado di sorprendere con le sue creazioni nel campo dell'interior design, ha un'energia pronta a espandersi in realizzazioni inedite senza soluzione di continuità, ed è naturale per me tornare ad avere la curiosità di raccontare Claudia, e di ciò che ha cercato, inventato, voluto e realizzato tra un'intervista e l'altra, verso l'orizzonte del suo continuo, necessario divenire. Ogni anno porta un'ulteriore evoluzione alla creatività di Claudia Meraviglia… Sì, attualmente ho preso un 'possesso buono' dell'intera parete: le richieste maggiori si sono infatti focalizzate sulla carta da parati, tornata decisamente di moda. Le mie immagini han dunque modo di esprimersi pienamente, in forma creativa ed emotiva sulle stanze altrui. I clienti mi affidano i loro muri in cerca di originalità e personalità. Al tempo stesso non perdo mai occasione di fare ricerca, di sperimentare su nuovi materiali e di sognare linee innovative… ma questo ce lo sapremo dire al prossimo step evolutivo.
VIVERE CREANDO CLAUDIA MERAVIGLIA
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A questa evoluzione artistica corrisponde un'evoluzione personale, immagino: come "dialogano" tra loro queste tue dimensioni? Da cosa traggono linfa? Laura, come ti ho confidato da subito, un po' per empatia tra noi e un po' per trasparenza di vita, il mio mestiere è assolutamente il prolungamento di me stessa e viceversa. Son sempre collegata e questo mi permette di girare con me in cerca di me. Lo faccio spesso con la mia macchina fotografica e sempre con la mia fantasia. Mi nutro tutti i giorni di quell'humus creativo che, fortunatamente, trovo ad ogni angolo di quotidiano. Rubo scatti ovunque e li porto sulle mie opere. Fermo gusti, modi e atteggiamenti delle persone e tento di collocarli nelle mie linee artistiche. Insomma, dialoghi e linfa non mancano mai! Come vivi i cambiamenti che il tuo lavoro ti impone, sia per la scala via via più ampia in cui si muovono, sia nell'ambizione che sostiene idee sempre più ardite? Mi son sempre definita un'imprenditrice creativa, e non un'artista. Per questo motivo non fatico a muovermi nel compromesso del cambiamento, ma mantengo sempre una linearità ed una coerenza di fondo, indispensabile per farmi creare ogni giorno con gioia e con desiderio. Insomma, ho necessità quasi sempre di stupirmi, quindi ovvietà, banalità e linee imposte solitamente non le produco. Ho comunque una mia idea di bellezza e cerco, con le mie immagini, di girarci intorno il più vicino possibile. In una delle nostre primissime interviste su It's Different, mi parlavi dell'ascolto costante che metti in atto verso il tuo modo di esprimerti e di comunicare col mondo. Quando le parole hanno esaurito il loro potere, dopo l'esperienza con la casa editrice che avevi creato, sei passata alla fotografia: avverti già l'esigenza di cambiare o hai trovato nelle immagini una dimensione ancora tutta da svelare a te stessa? Ecco appunto! Sento di aver appena iniziato a muovere i primi passi nel mondo delle arti figurative applicate al settore dell'arredo. Non vedo l'ora di correre e di esplorare altro. Di osservare i miei lavori da prospettive differenti. Spero che muri, stanze, case portino la mia firma appesa. Non ho esigenze di cambiamento, ma di radici in questo settore. Il mio grande desiderio, da umile-ambiziosa quale sono, è quello di lavorare tanto, di fare progetti con architetti, designer e aziende importanti. Di viaggiare per scoprire altri lati di me che conosco poco. Di portare la mia creatività in luoghi che silenziosamente mi capiscano interamente senza parlare. Concludendo, progetti? Diversi progetti con le carte da parati. Sto definendo linee nuove e mirate per il prossimo mercato. La sto utilizzando molto anche per rivestire armadi e porte. Quindi, non solo a parete. Con un'azienda tessile sto cercando di dar vita ad un elegante progetto di tende con le mie immagini stampate. Intanto, proprio in questo mese (novembre 2016) sarò candidata, con la mia porta blindata, creata per Vighi Security Doors di Parma, alla nomination del GranDesignEtico International Award 14ª edizione a Milano.
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LE ISOLE DEI TIWI Gli aspetti di un paese esteso, e a tratti misterioso, come l'Australia possono essere veramente infiniti: dalle magnificenze moderne delle città del sud al deserto senza tempo dell'Australia centrale, agli splendidi parchi naturali del Territorio del Nord fino a Darwin, all'estremo nord, dove ci si cala nuovamente in una dimensione urbana e moderna. Eppure è sufficiente percorrere ancora 80 chilometri verso nord, sorvolando l'oceano con un piccolo aereo ad elica, per incontrare un nuovo e affascinante aspetto di questo paese. Dopo il breve tragitto, ci accoglie il piccolo aeroporto dell'isola di Bathurst, isola “sentinella” dell'Australia, insieme all'adiacente isola di Melville. Tale soprannome è stato dato alle due isole tropicali per la loro posizione di avamposto all'Asia. Qui vivono le popolazioni aborigene Tiwi, che proprio dall'Asia potrebbero essere giunte circa 40.000 anni fa sul continente australiano. Essi giunsero a bordo di larghe zattere di bambù, che alcuni antropologi affermano essere state le prime imbarcazioni da oceano di tutto il mondo.͒Ciò che spinse queste popolazioni
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asiatiche a viaggiare verso sud, da isola a isola, fino a raggiungere l'Australia potrebbe essere stata la ricerca di cibo in seguito a carestie. Quello che è sicuro, è che a Melville e Bathurst questi visitatori hanno trovato un ambiente decisamente adatto a soddisfare le proprie necessità.͒ Attualmente, sulle isole vivono circa 1800 Tiwi (1200 a Bathurst e 600 a Melville), molti dei quali stabiliti in villaggi che erano originariamente missioni cristiane.͒ Descrivere in poche parole le due splendide isole Tiwi è difficile. Le spiagge sono lunghe, bianche, pulite e bellissime. Specialmente sull'isola di Melville c'è acqua in abbondanza. Verso il nord dell'isola, nella stagione umida cadono sulle verdi foreste lussureggianti enormi quantità di pioggia (fino a 2286 mm). Girando nell'interno si incontrano spesso piccoli fiumi e cascate dall'acqua cristallina. ͒ Il mare, limpidissimo, è popolato da una enorme varietà di pesci, oltre a tartarughe, dugonghi e coccodrilli di acqua salata. Questi ultimi, insieme alle meduse velenose e agli squali, sconsigliano di cercare ristoro dalla calura nelle acque marittime. Tuttavia ci si può facilmente consolare con le numerose pozze di acqua dolce che presentano meno pericoli.͒ Anche gli abitanti del luogo sono dello stesso avviso; prima di avventurarsi anche solo in acque poco profonde alla ricerca di crostacei e pesci, scrutano attentamente il mare per alcuni minuti per assicurarsi che nessun pericolo sia in agguato.͒ Caratteristica del clima tropicale è quello di avere solo due stagioni, una umida durante il periodo estivo e una secca nel periodo invernale. In quest'ultima, il clima è particolarmente piacevole e, grazie al cielo limpidissimo, è possibile assistere a spettacoli naturali di rara bellezza.͒Certamente furono affascinati da queste isole anche i primi visitatori
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europei. Tuttavia l'assenza di risorse naturali sfruttabili per l'economia occidentale scoraggiò presto i coloni che concentrarono i propri sforzi sul continente, permettendo alle popolazioni locali di continuare indisturbati la propria vita tradizionale. Solo recentemente i Tiwi si sono dedicati ad attività più moderne, grazie ad un programma di collaborazione reciproca portato avanti con i missionari, che dal 1911 sono gli unici bianchi a dividere queste isole con gli aborigeni.͒ L'anno del bicentenario australiano ha portato, in tutto il paese, un grande interesse per gli abitanti originari del continente e la loro cultura millenaria. Dunque si parla dei problemi di inserimento, di alcolismo (autentica piaga introdotta dai bianchi), di parità di diritti. Eppure sono bastati ottanta chilometri perché tutto ciò suonasse come un eco lontano; per approdare in un'altra dimensione in cui la vita tradizionale non ha perso valore, acquisendo senza forzature gli aspetti positivi della cultura occidentale introdotta dai missionari. ͒ I Tiwi (trad. we people) praticavano fino a pochi decenni fa la nudità totale, che oggi è quasi scomparsa tranne che, talvolta, nei bambini.͒Come tutti gli aborigeni australiani, i Tiwi hanno una struttura sociale basata sulle relazioni totemiche, ovvero di parentela. Infatti è il gruppo familiare a costituire la cellula base del gruppo. La famiglia estesa forma l'unità sociale ed economica basilare della società aborigena. ͒Gli uomini Tiwi possono avere più di una moglie e avere un grande numero di mogli equivale a grande prestigio. Tuttavia oggi pochi hanno più di una compagna al proprio fianco, mentre rimane molto elevato il numero dei figli per famiglia.͒Ad ogni bambino viene assegnato un posto in un intricato sistema di parentela, con regole che determineranno numerose decisioni per tutta la sua vita. Il gruppo è così importante che molto spesso l'interesse del
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singolo deve essere sacrificato a quello della comunità. Tutti i membri del gruppo sono considerati indispensabili. La gente, le terra e l'ambiente sono legati insieme inestricabilmente in una totalità, che il gruppo sa essere essenziale per la propria sopravvivenza fisica e culturale.͒I gruppi familiari si dedicavano alla caccia e alla raccolta del cibo, con una divisione dei compiti molto precisa e che dura ancora oggi: gli uomini si dedicano alla caccia della selvaggina più grande, mentre le donne e i bambini si occupano della raccolta di vegetali e piccoli animali.͒I Tiwi sono una delle poche popolazioni al mondo a non aver mai praticato l'agricoltura e l'allevamento. Ogni forma di possesso della terra è bandito, il Tiwi non possiede ma è posseduto dalla terra. Non a caso, il tratto essenziale della cultura Tiwi è il legame spirituale con la terra stessa. Nelle parole di un anziano abitante delle isole: “La terra mi dice come siamo venuti al mondo e come dobbiamo vivere, la legge della storia dice che noi non dobbiamo possedere terra, batterci per la terra, cedere terra… e così via. La mia terra è mia solo perché io venni in spirito da quella terra, come fecero i miei antenati. La mia terra è la mia spina dorsale, la mia terra è il mio fondamento.”͒I gruppi familiari, che oggi sono quasi sempre stabiliti in comunità e villaggi, sono stati nomadi fino all'arrivo dei bianchi. I loro spostamenti erano determinati da una ricerca ragionata del cibo, oltre che dalla necessità di incontrare nuovi gruppi per scambiare materie che non erano reperibili sul territorio, come terre colorate e pietre particolari per la costruzione di attrezzi.͒ Durante gli spostamenti, i Tiwi costruivano talvolta delle piccole capanne a forma di tenda, quando avevano necessità di ripararsi nel periodo delle forti piogge o di effettuare soste prolungate.͒Ancora oggi sulle isole di Melville e Bathurst è possibile imbattersi in capanne di questo tipo, che i Tiwi costruiscono durante battute di caccia prolungate. Esse sono il segno di una tradizione tenace, con la loro struttura identica a quella che gli antenati costruivano agli albori della storia.͒ Viaggiando nell'entroterra delle isole ci imbattiamo spesso in incendi che avanzano minacciosamente nella radura (il bush come è chiamata la radura che copre grandi parti del territorio delle isole, tradizionale luogo di vita del Tiwi). La stagione secca e calda autorizza a pensare ad incendi spontanei.͒Invece, non è così. Si tratta di incendi appositamente creati dai Tiwi che, come tutti gli aborigeni, hanno una grande conoscenza e padronanza del fuoco.͒Poco fuori dall'area incendiata, troviamo infatti gruppi di giovani cacciatori. In perfetto silenzio (durante la caccia i Tiwi comunicano con gesti per non far udire la propria presenza agli animali), si muovono alla ricerca di serpenti, wallabies (piccoli canguri) e altri animali stanati dalle fiamme. Quella di incendiare periodicamente porzioni di bush è una pratica molto usata, poiché offre diversi vantaggi. Oltre a quello già menzionato di stanare gli animali, questa pratica permette di fare piazza pulita dei detriti, incoraggia le piante a dare
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nuove germogli (il che attirerà nuovi animali cacciabili sul territorio); inoltre permette di avere nuove sezioni di bush a differenti fasi di crescita. Molto importante per i Tiwi è la produzione artistica. Disegni e dipinti hanno significati magici. Per esempio, nelle cerimonie funebri hanno grande importanza i totem poukamani, che la famiglia del defunto commissiona ad artisti.͒ Questi totem vengono intagliati in un legno denominato iron wood per il suo altissimo peso specifico. Talvolta, tombe contorniate da poukamani colorati si confondono con la vegetazione, talvolta svettano in una radura o su una spiaggia. È il defunto che ha scelto -quando era in vita- il luogo di sepoltura. Spesso, i Tiwi scelgono di essere sepolti vicino a persone amate. In questo caso, più tombe vicine creano piccole foreste di poukamani, veramente suggestive a vedersi.͒I quattro colori che vengono usati per tutte le decorazioni, comprese quelle corporee, sono il giallo ocra, il rosso, il bianco e il nero. Ancora oggi, sulle isole, i colori sono ricavati dalla pietra bianca e gialla (quest'ultima realizza il rosso quando viene cotta) e dai residui di combustione per il nero.͒La cerimonia funebre Tiwi è lunga e complicata. I parenti del defunto si coprono con drappi rossi o gialli, a seconda del grado di parentela, e si dipingono su tutto il corpo; questo per nascondersi alla vista dell'anima del defunto, che ancora vaga nei dintorni alla ricerca di una persona amata da portare con sé. Alcuni mesi dopo la sepoltura ha luogo la seconda cerimonia, quella con i poukamani che vengono disposti intorno alla tomba di terra, insieme con i possedimenti materiali del defunto, che vengono bruciati sulla tomba. I canti e le danze possono durare alcuni giorni. Oggi alla cerimonia tradizionale viene affiancata una breve cerimonia cristiana, tenuta dai missionari dell'isola. Sulle tombe si possono curiosamente trovare coperture di lamiera ondulata, resti bruciacchiati di attrezzi moderni e, talvolta, croci o altri simboli cristiani. Quello che colpisce è la totale naturalezza che si ritrova in ciò. I Tiwi hanno utilizzato tutte le innovazioni tecniche e culturali portate dai missionari,
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integrando in una tradizione antica che continua evolvendosi, senza bruschi sconvolgimenti.͒Gli aborigeni australiani sono stati spesso definiti “gente di due epoche” per la loro tenacia nel mantenere tradizioni e usanze antiche, pur adottando schemi di vita occidentali. I Tiwi si adattano benissimo a questa definizione. L'integrazione delle due culture procede per gradi e senza i contrasti che si vengono a creare nella comunità che vivono ai margini delle aree urbane sul continente.͒La vita quotidiana che abbiamo potuto dividere per alcuni giorni con i Tiwi nel villaggio di Nguiu, sull'isola di Bathurst, è particolarmente significativa per comprendere come si è potuto verificare tutto ciò.͒Il primo edificio che abbiamo incontrato quando siamo giunti a Nguiu è la chiesa presbiteriana, completata nel 1951.͒Lo stabilirsi nel 1911 a Nguiu della prima missione presso i Tiwi è il primo grande avvenimento a segnare la storia delle popolazioni Tiwi in questo secolo. Dopo un periodo di diffidenza verso i missionari bianchi, i Tiwi di Bathurst iniziarono a radunarsi intorno alla missione; nei pressi di questa, nel 1926 vivevano 80 adulti e 46 bambini e nel 1921 fu battezzato il primo bambino Tiwi. I Tiwi tuttavia non lasciarono che la religione cristiana prendesse il sopravvento sulla propria e, con il passare del tempo, le usanze cristiane sono state assorbite solo a livello superficiale. Oggi la presenza dei missionari ha un ruolo significativo per quanto riguarda l'organizzazione delle nuove attività economiche e scolastiche, ma il peso della religione e delle tradizioni ha avuto decisamente il meglio su ogni tentativo di colonizzazione culturale.͒Sempre nel 1951 è stato introdotto nei villaggi missionari l'uso della moneta. I Tiwi non avevano mai conosciuto il denaro e ancora oggi faticano a capirne il valore. L'introduzione del denaro fa parte di un programma di graduale preparazione delle popolazioni Tiwi ad un futuro in cui sarà difficile vivere isolati dalla realtà del continente.͒Questo programma e condiviso e portato avanti con decisione e grande autodeterminazione dai Tiwi che hanno avuto occasione di studiare in qualche grossa città (grazie alle borse di studio offerte dal governo agli studenti più promettenti).͒Attualmente sulle isole Tiwi esistono scuole primarie e secondarie bilingue (inglese e lingua Tiwi) con insegnati aborigeni e bianchi e frequentate da circa trecento studenti; grazie a ciò è possibile portare avanti un discorso di integrazione nella realtà australiana senza perdere di vista il valore culturale della tradizione.͒ Nelle scuole la difficoltà maggiore è rappresentata dall'apprendimento mediante la lettura; questo perché attraverso i secoli e ancora oggi, i Tiwi hanno sempre tramandato localmente il loro bagaglio culturale, usando canti e filastrocche. Così nella scuola sono stati creati grandi libri illustrati stupendamente a mano per facilitare e rendere più piacevole l'apprendimento della lettura.͒Minore difficoltà ha invece creato l'apprendimento bilingue, poiché i Tiwi sono abituati a conoscere più di una lingua oltre a diversi dialetti (fino a 5-6 lingue). Ogni gruppo tradizionale parla una lingua differente da quella di altri gruppi e diversi dialetti e linguaggi vengono usati per cerimonie particolari.͒Molti Tiwi preferiscono la vita tradizionale del bush a quella del villaggio, tuttavia anche per loro il villaggio è divenuto un punto di riferimento e ne utilizzano le scuole e i servizi.͒Intorno alla metà degli anni '70 sull'isola di Bathurst, e ora anche su quella di Melville, si iniziarono a praticare due attività finalizzate al finanziamento della comunità Tiwi di Nguiu. La prima di esse, denominata “Tiwi design”, consiste nella creazione di oggetti artigianali destinate ad essere venduti nei negozi turistici di Darwin. Poco dopo, il governo dotò Nguiu di una stamperia con cui gli aborigeni, aiutatati dai missionari, iniziarono a produrre tessuti e abbigliamento (il “Bima wear”), con i disegni tradizionali.͒Ora le due attività hanno preso maggior consistenza e i prodotti dell'artigianato Tiwi possono essere trovati anche sui mercati di Sidney. Commercianti d'arte della maggiore città australiana acquistano grandi quantità di pesanti poukamani per rivenderli a prezzo decuplicato nelle loro gallerie. Le fabbriche appartengono all'associazione dei Tiwi e sono offerte in gestione ai bianchi, che insegnano ai locali stessi l'organizzazione del lavoro moderno.͒ La paga viene data a cottimo, cioè per ore lavorative prestate o per numero di
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prodotti eseguiti. Uno dei gestori di questi laboratori ci ha confidato le difficoltà che incontra quotidianamente per ottenere continuità nel lavoro dei Tiwi, che si assentano per lunghi periodi in occasione di cerimonie particolari, per partecipare a battute di caccia, o semplicemente perché ritengono di aver guadagnato ciò che è sufficiente per sfamare sé stessi e le proprie famiglie.͒L'arte e la cultura aborigena stanno ottenendo un riconoscimento crescente sul continente e questo fa ben sperare per le prospettive di inserimento di tutte le comunità aborigene australiane, oltre che per i Tiwi.͒Sempre negli anni '70, i Tiwi sono stati dotati di case dal governo australiano. Si tratta di costruzioni simili a baracche, ma con corrente elettrica e acqua. Nel 1984 ogni famiglia aveva una casa, per la quale deve pagare al governo un regolare affitto (20$ alla settimana). È il governo stesso a fornire ai Tiwi non impiegati in attività remunerative un sussidio con cui possono pagare l'affitto. In virtù di ciò molti Tiwi che non si dedicano alle attività artigianali, possono continuare le loro attività tradizionali senza rinunciare a qualche comodità moderna.͒La caccia, la pesca e la raccolta garantiscono la sussistenza a tutti coloro che non gradiscono dedicarsi alle nuove attività.͒Abbiamo accompagnato donne Tiwi nella boscaglia alla ricerca di miele, formiche da usare come medicinali, fibre vegetali e radici colorate (che sono usate, sbriciolate e bollite, per colorare le fibre stesse). Intrecciando queste fibre vegetali colorate le donne ottengono reti per la pesca e cestini. ͒Molti uomini si dedicano alla caccia e non è raro imbattersi in gruppi di cacciatori orgogliosi di mostrare il proprio bottino. Oggi sono state abbandonate le armi tradizionali e la caccia si svolge con moderni fucili. Le donne si aiutano con piccoli specchi per verificare la presenza di rettili o di opossum dentro i tronchi cavi.͒Tuttavia pur essendo mutati i mezzi, queste attività mantengono la saggezza e le caratteristiche di un tempo. I Tiwi cacciano solo ciò che serve per il consumo immediato e la selvaggina non viene immagazzinata né venduta, ma semplicemente divisa con altri membri del gruppo. I sistemi di cottura rimangono quelli di un tempo e raramente il cibo viene preparato; i rettili e piccoli animali vengono semplicemente arrostiti su un fuoco di legna. Le conchiglie e la selvaggina più grande vengono invece cotte in tradizionali forni di terra. La dieta base viene variata con miele, formiche, vermi, uccelli, uova di tartaruga e vegetali. Non esiste un limite reale alla varietà di animali che possono rientrare nel menù dei Tiwi, qualsiasi animale che essi riescono a cacciare viene subito inserito. Quando si praticava la caccia dei coccodrilli (prima cioè che venisse proibita dal governo) anche i pericolosi rettili, che tante vittime hanno mietuto anche negli ultimi anni, entrarono a far parte della dieta alimentare Tiwi.͒ Sono storie che paiono lontane nel tempo e che sembra strano vivere in prima persona in un continente come l'Australia.͒ Dall'alto dell'aereo che ci riporta a Darwin osserviamo l'isola di Melville, i piccoli fiumi, le foreste incontaminate e la radura; è stato un viaggio in un'epoca che è impossibile posizionare nel calendario, magicamente sospesa tra un passato vicino ed un futuro ancora da inventare.
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CALORE ANTICO Di Lehila Laconi. La stufa a legna è il sistema di riscaldamento per eccellenza, dopo il caminetto, che con la continua ricerca sul mercato del riscaldamento ecosostenibile, si distingue per la capacità di adattarsi perfettamente ad ogni gusto e stile di arredamento per ogni abitazione, diventandone protagonista. La stufa a legna più diffusa è sicuramente quella con focolare in ghisa o in materiale refrattario che, nonostante la minor possibilità di lavorazione del materiale nella sua struttura, si presenta come il modello ottimale per potenzialità di conduzione e resa termica. Questa tipologia di stufa favorisce, in maniera ottimale, la propagazione del calore imprigionato durante la combustione, mentre l'aria calda generata entra dalla griglia collocata generalmente sotto la stufa e viene distribuita tramite un sistema di ventilatori.
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Oggigiorno sul mercato è facile trovare stufe a legna in maiolica finemente decorata e in pietra ollare e spesso, in molte case, soprattutto condomini e appartamenti, sostituisce il caminetto tradizionale. In questa tipologia di abitazione è, infatti, interdetta la costruzione di un camino per cui, la soluzione più pratica, veloce ed economica è l'acquisto di una stufa a legna che può essere collegata alla canna fumaria preesistente attraverso un sistema di tubi per la fuoriuscita dei fumi e si propone come un pezzo di arredamento che oltre a riscaldare tutta la casa la decora e ricrea. Inoltre, il combustibile a legna, oltre a essere ecologico e pulito, si dimostra sul mercato come il più conveniente dopo il pellet, permettendo di risparmiare sensibilmente sui consumi del combustibile e riducendo le emissioni di CO2 nell'ambiente. Analizziamo nel dettaglio quali possono essere i vantaggi di questo particolare tipo di riscaldamento. Le stufe a legna presentano numerosi vantaggi, che partono dalla sua alimentazione con un combustibile completamente rinnovabile, passando per il prezzo iniziale - di gran lunga inferiore rispetto ad una stufa a pellet - fino a toccare altre caratteristiche che implicano le sue potenzialità nel riscaldamento, nella distribuzione del calore e della sua ottimizzazione, con lo sfruttamento delle
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prestazioni di accumulo, come l'autonomia di accensione di 24 ore, senza riaccensioni o un nuovo carico di combustibile. In alcuni modelli di stufa a legna sono necessari due carichi a giornata, ma ciò dipende anche dall'ampiezza degli ambienti da riscaldare, permettendo un largo risparmio economico per la qualità nella tenuta del calore nell'ambiente; un alto rendimento del combustibile, permettendo di sfruttare anche il calore della brace in seguito allo spegnimento dell'impianto; la possibilità di produrre acqua calda per il fabbisogno famigliare e per integrare il vostro sistema di riscaldamento; un basso rilascio di CO2 e di polveri e ceneri nell'ambiente, e grazie al sistema di regolazione di accendimento, spegnimento e della fiamma, la stufa a legna può riscaldare la vostra casa in piena autonomia, senza aver timore della caduta di tronchi, scintille tipiche del caminetto tradizionale a focolare aperto. Un'ottima soluzione per chi è a lavoro tutto il giorno e desidera al suo rientro trovare la casa già riscaldata. Con una sola regolazione è possibile automatizzare il vostro impianto di riscaldamento, permettendo di sfruttare la canna fumaria di un camino preesistente ed evitando l'esecuzione di altri interventi edilizi o opere murarie nella vostra abitazione, ottimizzando i tempi d'installazione e consentendovi di riqualificare un vecchio caminetto - soluzione ideale anche per i caminetti di antiche abitazioni. Scegliere una stufa a legna per la propria abitazione significa quindi, regalarsi il benessere del calore che solo la legna può regalare, permettendovi di riscaldare in autonomia tutti i locali della casa, riducendo i consumi energetici. Per realizzare la reale ottimizzazione del combustile e massimizzare la resa calorica della vostra stufa a legna (ed evitare rischi d'incendio, sebbene oggigiorno siano sempre più ridotti grazie alle tecnologie sempre più affinate,) è necessario seguire determinati accorgimenti e strategie che consentiranno di installare il vostro impianto di riscaldamento in maniera davvero proficua. Per questo motivo è consigliabile disporre la stufa al centro del locale da riscaldare, garantendovi anche una maggiore e omogenea diffusione del calore nei locali dell'abitazione. Si consideri, inoltre, che la stufa va sempre installata nel piano principale - il primo - per permettere che il calore, salendo, si diffonda in maniera ottimale in tutta l'abitazione, ed è necessario disporre la stufa lontana dalle pareti - i rivestimenti si surriscaldano - permettendone così un buon tiraggio e un'ottimale resa termica. Se, invece la stanza in cui si desidera installare la vostra stufa a legna presenta un pavimento in moquette o parquet è fortemente consigliato optare per la costruzione di un pannello di rialzo che garantirà sicurezza e diminuirà il rischio di deterioramento della pavimentazione stessa.
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HUGO PRATT
CORTO MALTESE 50 ANNI DI VIAGGIO NEL MITO A 50 anni dalla nascita di Corto Maltese, apparso per la prima volta nel 1967 in Una ballata del mare salato, CMS- Cultura e Genus Bononiae - Musei nella CittĂ , col sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, portano a Bologna una grande antologica per celebrare Hugo Pratt e il suo personaggio piĂš famoso.
Hugo Pratt e Corto Maltese- 50 anni di viaggi nel mito, dal 4 novembre 2016 al 19 marzo 2017 a Bologna, Museo della Storia - Palazzo Pepoli, è curata da Patrizia Zanotti e realizzata in collaborazione con Cong-Hugo Pratt art properties. L'esposizione presenta oltre 400 opere tra disegni, acquerelli, chine, riviste e rarità. In mostra non solo Corto Maltese ma anche Anna della Giungla (1959), Ernie Pike del 1961, Sg.t Kirk del 1955, e ancora le incredibili tavole e acquerelli di Wheeling e degli Scorpioni del Deserto, che conducono il visitatore-viaggiatore nell'Etiopia del 1941/1942 e nelle cui storie a personaggi dell'immaginario si sovrappongono personaggi storici. Come una sorta di mostra nella mostra, saranno esposte tutte insieme per la terza volta, da quando sono state create- le 164 tavole originali di Una ballata del mare salato, un classico della letteratura disegnata. L'esposizione, attraverso le opere di Pratt, accompagna il visitatore in un viaggio tra finzione letteraria e biografia; un avvincente racconto segnato da incontri fortuiti, alterne vicende intessute in un panorama storico-geografico che abbraccia l'Africa dell'Italia fascista, come la magia alchemica di Venezia e molto altro ancora dacché, come scrive la curatrice Patrizia Zanotti: “in questa mostra abbiamo cercato di intrecciare la vita e lo spirito di Hugo Pratt e di Corto perché sono le due facce della stessa personalità”. Questa mostra intende dunque rende omaggio a Hugo Pratt e alle sue creazioni oltre che al suo alter ego Corto Maltese. Mille suggestioni condurranno i partecipanti tra le acque dei Mari del Sud fino ai profumi dei vicoli di Samarcanda, in un percorso che sarà una vera esperienza multisensoriale, per vivere con ogni senso un percorso espositivo studiato per essere goduto da appassionati del fumetto e non. I Servizi educativi di Genus Bononiae propongono per l'occasione un'offerta didattica rivolta al mondo della scuola e alle famiglie, con iniziative appositamente dedicate e numerose possibilità: per informazioni, www.mostrapratt.it “Per quattro mesi il Museo della Storia di Bologna – dichiara Fabio Roversi Monaco, presidente Genus Bononiae - apre le porte ai disegni e agli acquarelli di Hugo Pratt. I visitatori di Palazzo Pepoli, attraverso le avventure del suo personaggio più famoso, Corto Maltese, saranno accompagnati in un lungo viaggio in terre lontane e in mondi fantastici e avventurosi.
La mostra - allestita in alcune sale del Palazzo che ospita il percorso dedicato alla storia, alla cultura e alle trasformazioni di Bologna - ben si adatta alla vocazione del complesso museale, percorso che rimane intatto, e che allo stesso tempo vuole offrire una testimonianza puntuale, ma sempre nuova e dinamica, dell'ingegno e della creatività di una civiltà per secoli gloriosa. L'avventura che ci prepariamo ora a vivere con Corto Maltese, sarà molto apprezzata dai bolognesi, dai turisti e dai moltissimi appassionati delle vicende dell'affascinante pirata, nato dalla mano felicissima di un artista tra i più fertili del Novecento.” “Accarezzavo da anni il sogno di celebrare il racconto romantico e letterario di Pratt con una grande mostra» - dice Giulia Fortunato titolare di CMS-Cultura. “Hugo Pratt, a tratti come Omero, mi ha accompagnata nel guardare con occhi diversi albe dalle dita di rosa, ma anche sguardi di popoli e genti. Pratt ha lasciato l'incoraggiamento a non perdere mai lo spirito di curiosità, di avventura, di apertura verso il diverso, l'altro, l'ignoto. In un momento storico come quello in cui viviamo, una mostra su Hugo Pratt fa riflettere su alcuni grandi capitoli del '900 e permette di guardarci allo specchio con spirito critico.” Ma la “letteratura disegnata”, come definiva Hugo Pratt il fumetto, è anche declinazione della poesia che - come scrive Antonio Calabrò, nel catalogo edito da Rizzoli-Lizard – “ha tanti strumenti per esistere, compreso il tratto d'una matita, un velo di colore acquerello, il segno grafico che fa pensare a un'onda marina. Attraversa miti, leggende, sogni, Corto marinaio. E incubi. Vi si immerge, sino ai confini della follia. E poi ne esce, memore d'una lezione appresa da un maestro rabbino, nel ghetto di Venezia, sull'abitudine dei veneziani d'aprire una porticina, in fondo a una corte, 'per andarsene verso altri mondi, altre storie'.” Una mostra da non perdere per chiunque ami il fumetto e per chi vorrà aprire per la prima volta una porta verso un'altra dimensione, che ha in sé tutta la dignità dell'arte.
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Di Laura Sciancalepore Ogni propria creatura, in qualunque settore si realizzi, gode d'un amore incondizionato, intoccabile, un affetto in cui si concentrano tutte le ore spese per la sua nascita e gestione, tutte le piccole e grandi idee concepite per definire meglio la sua fisionomia nel quotidiano e per renderla, a tutti gli effetti, una cosa viva. “Quando siamo arrivati, questo luogo era la prima costruzione in muratura di Marina di Ravenna ed era la Casa di Salvataggio. Fino ai primi del '900 è stato un rimessaggio di barche, che dava direttamente sul mare. Nel 1986 era un classico ristorantepizzeria, ma noi abbiamo pensato da subito di farne un ristorante di solo pesce. Nel 1999 abbiamo demolito il vecchio edificio e ricostruito tutto” racconta Manuela Savorelli del Ristorante Da Matteo. Ci vuole poco a capire che l'anima di questo splendido locale è proprio la sua: tutta la famiglia contribuisce alla realizzazione di un'offerta davvero pregevole, ma è lei che l'ha fortemente voluto, curato, che ogni giorno lo arricchisce di nuove idee e suggestioni. “Tutta la nostra famiglia vive qui da sempre, è quindi a tutti gli effetti la nostra abitazione. Sentirsi a casa è un'esigenza primaria soprattutto per noi, e di riflesso anche per il
cliente. Quando compro lampade, soprammobili, quadri che si potrebbero mettere a casa, io preferisco metterli qui, nel ristorante. La mia preoccupazione è star bene.” Una grande chiarezza di idee, l'esatta percezione della portata di scelte e decisioni da parte di Manuela, mostra i suoi effetti su un ristorante di grande impatto scenico e su un menù che incanta, per freschezza di materie prime e idee. “Fino a poco tempo fa, il pesce veniva cucinato in modo più tradizionale” ci spiega Manuela. “Ora in cucina c'è mio figlio: è giovane, ha fatto prima il cameriere, poi è finito tra i fornelli per darmi una mano e ha scoperto di avere un talento da poter mettere a frutto. Così, la sua proposta è diventata più moderna, creativa. Io sono sempre lì, in cucina, ma apprezzo questo cambiamento.” Ormai sono lontani i tempi in cui il ristorante era identificato esclusivamente come un'occasione di festa: ormai esso costituisce un'esperienza ricorrente, per un'uscita con amici e stare in compagnia, per fare serata solo con la cena, anche se i costi esigono un'estrema attenzione nella scelta del locale. “A queste condizioni, diventa fondamentale l'ambiente, l'atmosfera, la qualità del cibo, più che la sua quantità, che era forse l'unico parametro davvero importante, in passato, nella scelta del ristorante” ricorda Manuela, che però ha accolto questa nuova attitudine dei tempi con estremo piacere. “Il cliente è diventato più selettivo, più competente -o comunque crede di esserlo, anche se non sempre ciò corrisponde a verità- grazie a programmi come Masterchef. È sicuramente stimolante essere sotto l'occhio attento di un cliente di questo tipo: cerchiamo sempre di essere ricercati, ma senza dimenticare la semplicità della tradizione. Piatti belli da vedere e buoni da gustare, insomma. Noi viziamo talmente tanto che si siede ai nostri tavoli,che
non ci perdonano la minima sbavatura. I clienti che adoro, quindi, sono proprio quelli cui non va mai bene niente, perché mi porta a inventarmi qualcosa per la volta successiva, e così non mi fermo mai.” Ampie vetrate, una suggestiva scala elicoidale, uno splendido lampadario, quadri evocativi, piantine di erbe aromatiche come discreti ospiti gentili su ogni tavolo, dalla melissa alla menta piperita, dal rosmarino al basilico, e su tutto il pesce freschissimo, la sua sapiente preparazione, un vincolo di gusto indimenticabile. Se c'è un elemento chiaramente identificabile, tra molti altri che probabilmente resteranno per sempre tra le pieghe dell'inconscio, per capire la scelta di Manuela Savorelli di occuparsi sin da giovanissima di ristorazione- una vera e propria scommessa con sé stessa- è proprio l'amore per la sfida. Una passione, una “voglia” che vorrebbe tanto trasmettere ai suoi figli, naturali eredi di un luogo che è nato per questo. “Io non lascerei mai
questo lavoro: una volta che inizi, lo ami e non riesci più a smettere. Noi lo viviamo come un altro figlio, che non abbandoneresti mai. Nella mia lunghissima esperienza, mi è capitato tante volte di vedere chi aveva passato la vita davanti ai fornelli, nel ristorante, e anche se non camminava più o non ne aveva più le forze, voleva con tutto sé stesso essere ancora parte di quella vita. Immagino sarà così anche per me, che ho cominciato come semplice cameriera per necessità, laddove i sogni di ragazza mi avrebbero portato a fare l'avvocato. Mi piacerebbe che i miei figli, che ora lo vedono solo come un lavoro, prendessero le redini del comando e ne assumessero anche la passione, e ricavarne nel tempo la stessa soddisfazione che provo io” conclude Manuela.
Di Alessandro Barile
C'è una piazzetta a Granada, su, all'Albaicin, il vecchio quartiere degli zingari. Si sale un monte, per una strada che attraversa i quartieri della città , via via restringendosi. Ad un certo punto, dopo insolite deviazioni, si apre, quasi in cima, questa piazza raccolta, chiusa, candida. Una piazzetta tipicamente andalusa, ma che nell'immaginario rievoca piuttosto un qualche paesino messicano abbandonato. Una piazza d'acciottolato, una chiesina con un grande campanile, paglia e polvere perennemente in movimento per la strada. Il tutto imbiancato a calce, di un bianco lucente e doloroso, caldo.
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Una chiesetta senza pretese, una facciata piatta, abbagliante, e un tetto di cocci rossi male assemblati, da cui spuntano qua e là germogli d'erba. E un campanile anch'esso privo di fronzoli, di una bellezza ardente. Nel retro di questa chiesa, un grande spazio lasciato incolto, in parte acciottolato, che deve forse servire a spazio per i canonici e per i ragazzi dell'oratorio. Al di là della chiesa, un numero imprecisato ma adeguato di casette a uno o due piani, anch'esse bianchissime. Case senza pretese, ma che nell'equilibrio di colori e architetture divengono struggenti prove di umana creazione. Al centro, un insieme acciottolato su due livelli, uno di uno scalino più alto dell'altro. Alle spalle di questa plazuela, si apre la vista più immaginifica che si possa ammirare di Granada, e di ogni altra città. Ma è una visione che già s'avverte dietro le case, come se la piazzetta fosse sospesa, e questa sospensione si avvertisse perennemente. Saranno i venti che la puliscono, o la luce così trasparente. Eppure, tutto ciò che si scopre si ha come la sensazione di averlo già intuito. E così, una decina di metri alle spalle della piazza, si apre lo sguardo d'insieme della città. Una macchia bianca, adagiata sui monti degli ultimi rilievi delle Alpujerras.
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Un paese di angosciosa malinconia, soprattutto se visto nel tramonto di una sera di piena estate, quando il caldo opprimente si attenua, e si scopre una visione immobile. Una città ferma da secoli, sempre uguale, immodificabile. Una visione che si sarebbe potuto intravedere simile cento, o cinquecento anni fa. Si torna poi nella piazzetta silenziosa, priva di macchine, ma con qualche cavallo annoiato che stancamente la attraversa, col sole svanente che rende ancora più bianche le costruzioni tutt'intorno. La si supera, per arrivare in cima al monte, da dove ammirare silenziosamente l'Ahalambra, sul monte prospiciente. Il palazzo rosso, che sembra così vicino, a poche decine di passi, e invece è già un altro panorama, con alle spalle la neve perenne dei ghiacciai sempre imbiancati, anche d'estate. Un andamento montuoso, così diverso rispetto alla città adagiata sulle colline che si gettano a mare visto dall'altra prospettiva. Continuiamo a vagare per il quartiere, e ci sembra di rilevare qualcosa di nascosto, diverso ma che non riusciamo a cogliere, rispetto ad una solita città. C'è qualcosa di discorde nell'aria e nel contesto, che rende questo ammucchio di case così insolito rispetto a tutte le altre città d'arte che ci è capitato
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di vedere nei nostri girovagare. Poi d'improvviso, ci appare tutto fin troppo chiaro. La polvere, gli animali per strada, la paglia, le voci. E poi ancora, maghrebini e andalusi, come un tempo, senza soluzione di continuità. Granada si è fermata a quattro secoli fa. Passeggiare per Granada significa scoprire il passato. Toccare con mano una vita che continua sempre uguale, da secoli, senza rimodernamenti o pulizie recenti, senza interventi esterni e successivi. Perdersi per l'Albaicin è come rovistare nel passato. Lo splendore estetico in fin dei conti normale diviene immortale, struggente, sincero. Lo spettatore imbarazzato non riesce a coglierlo immediatamente, ma il contesto lentamente disvela la peculiarità che si cela allo sguardo superficiale. Non si avverte la sensazione di camminare in una antica città dei nostri giorni, ma di passeggiare in un caotico ambiente secentesco nel vivo del giorno del mercato.
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E' questa la vera opera d'arte andalusa: la sua malinconica immobilità rispetto al tempo che scorre. Ed è il turista, ora, a sentirsi fuori posto. Con i suoi vestiti moderni, i suoi occhiali, la sua macchina fotografica. Diverso, ecco, si sente diverso, rispetto ad una normalità fatta di sandali e veli bianchi, di bambini scalzi e cavalli defecanti lungo la strada. Di gatti randagi che si contendono il magro boccone, e di signore sdentate che risalgono lentamente gli ultimi scalini di casa. Tutto questo è Granada, e basta in fondo una passeggiata al tramonto per scoprirne la sua immensità taciuta. Che rimane negli occhi, nel naso, nelle sensazioni che si sedimentano nella propria coscienza. Sensazioni che, indelebili, proveranno, per una volta nella vita, l'estasi di un salto nel tempo non ricostruito, ma reale. Ne vale la pena.
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Di Lehila Laconi Ci sono artisti che non vogliono separare il lavoro (arte) dalla vita quotidiana e decidono di vivere totalmente in simbiosi con la propria arte. Essi trasformano la loro stessa casa in un'opera artistica, in un museo attivo che non pone confini tra opera e vita. Celebre è l'esempio della casa Museo di Remo Brindisi, artista e collezionista (1918-1996) che, per raccogliere le sue opere e la sua collezione, decise di costruire un edificio molto
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simbolico che divenne la sua abitazione. Per la costruzione del suo museo, Remo Brindisi scelse un valente architetto, Nanda Vigo, la cui ricerca si svolgeva in territori radicalmente innovativi e alla quale era legato da un rapporto di amicizia, oltre che di stima. Remo Brindisi e Nanda Vigo hanno condiviso con questo progetto soprattutto l'intenzione di sperimentare nuovi metodi di allestimento museale e di conciliare in un unico spazio di vita e d'arte le funzioni che la villa doveva assolvere: abitazione, laboratorio e spazio espositivo, casa e museo al tempo stesso. Tutte le forme d'arte, dall'architettura al design, all'arredo, all'utensileria, sino alla collezione, dovevano integrarsi per costituire un unico insieme armonico. Brindisi ha sintetizzato questo concetto nei termini di “Museo Vivoâ€?. La casa si compone di uno spazio pubblico costituito da una grande struttura cilindrica centrale su tre piani che, intersecandosi con un blocco strutturale esterno a base rettangolare, ritaglia spazi ad uso privato. All'interno, attraverso l'uso del vetro, dell'acciaio, delle superfici a specchio, Nanda Vigo ha creato un ambiente rarefatto, "iperuranio". La casa, nella sua parte pubblica - lo spazio cilindrico centrale, il giardino e il padiglione delle sculture -, consentiva al visitatore di entrare in contatto con un cospicuo spaccato del panorama artistico del secondo Novecento, italiano ed europeo, avendo la massima libertĂ di muoversi e focalizzare liberamente, e a distanza assai ravvicinata, la propria attenzione su di ogni singola opera. Erano anche previsti luoghi atti a ospitare mostre
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estemporanee di vario genere, performances e manifestazioni. Oggi è possibile visitare quasi tutti gli ambienti, i quali conservano intatte le caratteristiche di uno straordinario progetto di architetture e arte, ma anche tracce della vita di tutti i giorni e della personalità notevole di Remo Brindisi. "L'idea di dar vita al Museo Alternativo è nata da una prima esigenza di raccogliere le numerose opere d'arte che possedevo (e quelle che intendevo aggiungere alla collezione) in un ambiente appositamente costruito - scrisse Brindisi - naturalmente quando pensavo alla costruzione di un ambiente destinato alla raccolta delle mie opere, pensavo a Milano, la città in cui vivo. Ma la volontà di acquistare un terreno, anche in periferia, fu subito scoraggiata dai prezzi assolutamente proibitivi. Nel 1963 mi capitò di andare a presiedere una giuria al Lido degli Estensi - prosegue il maestro - ed alcuni amici del posto mi condussero a visitare l'attiguo Lido di Spina per farmi vedere i primi insediamenti turistici. La visita mi portò indietro nel tempo quando, in quella zona (tra Ferrara e Casal Borsetti), ufficiale di complemento, ammiravo la landa delle Valli di Comacchio fino al mare. Mi venne l'idea che, forse, quanto non potevo realizzare a Milano avrei potuto farlo lì. Mi informai circa i costi della terra e alla fine scelsi un terreno che mi fu offerto a buon prezzo.”
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GAUGUIN E LA PITTURA D’AVANGUARDIA
di Sara Milan Palazzo Roverella ospita a Rovigo la mostra “I Nabis, Gauguin e la pittura d'avanguardia” fino a gennaio. Curata da Giandomenico Romanelli, la mostra racconta il viaggio emozionante di una rivoluzionaria soluzione artistica. La rassegna è strutturata in cinque sezioni, che fanno saltare agli occhi, anche al più svagato visitatore, la sperimentazione estetica agli inizi del XX˚ secolo e come questa abbia permesso lo sviluppo di tutti i movimenti d'avanguardia successivi. Il trait d'union delle sezioni è il concetto di semplicità, sia per quanto riguarda la ricerca formale sia nei soggetti rappresentati. Siamo nel 1888 a Pont-Aven, in Bretagna, e qui una comunità internazionale di artisti, tra tutti e su tutti Paul Gauguin, condividono idee, sentimenti ed emozioni. In questa località di mare, lontani dai ritmi e dai fasti di Parigi, gli artisti trovano il modo di ripensare la pittura: l'impressionismo stava mostrando al mondo il colore della realtà, del vero, attraverso lo studio della luce, ma aveva perso il sentimento. Gli artisti di Pont-Aven recuperano la dimensione rurale, e con essa le sue tradizioni religiose, i suoi simboli e l'imprescindibile legame con la natura. Alla semplicità degli usi e costumi della popolazione bretone si fonde una semplificazione formale. I dettagli vengono via via trascurati in favore del colore: un colore vivo, perché viva è l'emozione della scena. La linea si fa più spessa, più scura, più espressiva. L'opera “Donne bretoni sulla spiaggia e covone di alghe” di Emile Bernard, considerato (per alcuni, impropriamente) l'inventore del Cloisonnisme o Sintetismo, per l'appunto, racchiude tutti i principi estetici di questa rivoluzione. L'opera è tanto semplificata all'essenziale da diventare quasi astratta: le figure delle Bretoni velate sono prive di dettagli; il covone e l'orizzonte sono marcati da una grossa linea scura. I colori sono ridotti a campiture compatte. Questo dipinto trasmette tutta la forza della religiosità antica e della natura. È un chiaro richiamo ai riti primitivi in rapporto con la natura. “Donne bretoni sulla spiaggia e covone di alghe” si può considerare esemplare, di riferimento
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per il Sintetismo. La sperimentazione di Emile Bernard e la ricerca di Paul Gauguin danno il via, quindi, a tutti gli sviluppi successivi. Paul Sérusier, di ritorno dalla Bretagna, porta a Parigi una scatola di sigari dipinta, il Talisman, che farà da traccia per i pittori che lo frequentano: Georges Lacombe, PaulElie Ranson, Charles Filiger, Jan Verkade, GeorgeDaniel de Monfreid e Cuno Amiet. Le opere di Maurice Denis sono più numerose e mettono in risalto la capacità dell'artista di sperimentare varie soluzioni espressive: dall'impressionismo al simbolismo, dal naturalismo all'espressionismo. Si fonda nel 1889 il gruppo dei Nabis dei profeti in lingua ebraica, cioè coloro che “vedono avanti”, che anticipano il futuro: sarà proprio così in effetti, e basti ammirare “Paesaggio di Le Pouldu” di Charles Filiger per rendersene conto. Sulla parte destra del dipinto, una figura dalla linea morbida sembra essere un richiamo alla vegetazione ma, considerati i suoi contorni così ambigui, sembra prender forma una creatura magica. Ammirare quest'opera è come entrare in un sogno, sospeso, indefinito. Evidentemente, essendo il dipinto del 1892, si può asserire che chiude in sé tutto il Surrealismo, che sarà pensato e formalizzato in un manifesto solo nel 1924. Nelle opere di Amiet, invece, si rivivono le suggestioni dell'espressionismo e si pongono le basi per l'imminente Fauvisme. Da questa sezione, inoltre, si colgono anche le influenze delle mode sugli artisti: l'orientalismo e il primitivismo di Lacombe, l'interesse per le arti applicate di Ranson, che sfocerà di lì a poco nell'Art Nouveau. La rassegna prosegue con le opere di Gino Rossi, che agli inizi del '900 compie fondamentali viaggi a Parigi e in Bretagna, acquisendo la lezione dei Nabis e innamorandosi del primitivismo bretone, e rivede nella laguna di Venezia la possibilità di creare una comunità di artisti, sulla falsa riga di quella di PontAven. Rossi, diviso tra la vita ritirata a Burano e il sistema dell'arte della neonata Galleria Ca' Pesaro, sotto la direzione di Nino Barbantini. Così giovani artisti come Arturo Martini, Umberto Moggioli e Tullio Garbari, portano avanti le loro ricerche divisi tra il Sintetismo francese e la Secessione austrotedesca. Dalla semplificazione negli aspetti formali alla semplicità dei soggetti: l'ultima sezione propone un confronto tra la pittura francese e quella italiana d'inizio secolo. L'estetica della semplicità sceglie gli interni, i momenti domestici della borghesia, i gesti quotidiani, come il cucire e il giocare. Alla bidimensionalità raggiunta da Gauguin, si preferiscono tuttavia ardite costruzioni prospettiche. Soluzioni simili e d'effetto sono state trovate dai pittori italiani: come il poco noto Oscar Ghiglia, che riprende il simbolismo classico della natura morta e della dimensione borghese. La mostra dedica l'ultimo spazio all'avanguardia italiana: Felice Casorati, Mario Cavaglieri, Cagnaccio di San Pietro, riprendono la lezione del Sintetismo e la arricchiscono di rimandi simbolici. Un'estetica della semplicità, come semplice appare sempre la pungente genialità. Si vada ad ammirare l'opera “Primo denaro” di Cagnaccio di San Pietro che di semplice ha solo la loquacità con cui parla all'osservatore. La mostra “I Nabis, Gauguin e la pittura d'avanguardia” segue un filo logico stringente ma originale e unisce, con competenza ed eleganza, sotto la bandiera di questa rivoluzionaria scoperta estetica.
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