Achille Lauro. Il comandante tradito

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con Toni Iavarone

Corrado Ferlaino “Quante sorprese in un libro: anche una donna misteriosa legata al Comandante Lauro che portò, attraverso un intrigo, Corrado Ferlaino alla presidenza del Napoli.” Antonio Corbo

IL COMANDANTE TRADITO

TONI IAVARONE (Napoli, classe 1954) giornalista, ha cominciato al Gazzettino di Napoli, poi alla Rotopress, infine a Il Mattino, dove è stato capo dei servizi sportivi. Nel frattempo si sono susseguite esperienze ben vissute in radio e in tv, particolarmente a Crt-Telenapoli, Canale 21 e Canale 9. Il suo blog sul mondo del calcio e sull’amato Napoli è tra i più seguiti in Italia. Stella d’argento e di bronzo al Merito sportivo del CONI.

ACHILLE LAURO

CORRADO FERLAINO (Napoli, classe 1931) è un imprenditore, ingegnere e dirigente sportivo italiano, ex presidente della Ssc Napoli con la quale ha vinto 2 scudetti, 1 Coppa Uefa, 2 Coppe Italia e 1 Supercoppa Italiana.

Corrado Ferlaino con Toni Iavarone

ACHILLE LAURO IL COMANDANTE TRADITO MINERVA EDIZIONI

Achille Lauro, O’Comandante, ovvero il politico, l’armatore, l’editore ed il proprietario del Napoli visto e raccontato da Corrado Ferlaino che ha vissuto con lui gli anni della consacrazione e del declino, diventando a sua volta protagonista di una storia di calcio e di vita. Ferlaino, il presidente del Napoli degli scudetti e di Maradona, debutta come scrittore con questo libro che è anche un duro atto d’accusa. Scritto insieme al giornalista Toni Iavarone, rivisita la leggenda de O’Comandante, con la curiosità di chi vuole raccontare i retroscena mai narrati, e scoprire cosa c’è dietro la facciata di un’esperienza politica ed imprenditoriale che Napoli rischia di dimenticare. Achille Lauro è stato il primo sindaco metropolitano; il fondatore di un partito personale; creatore di una grande flotta navale, la più potente d’Europa; una grande esperienza editoriale attraverso “Il Roma” e la tv regionale Canale 21; e poi il Napoli, serbatoio di voti e passione. Il libro racconta anche il Lauro privato: la famiglia, le tante avventure romantiche e non, ed il tenero amore con la vera donna della sua vita, un nome fino ad oggi mai rivelato. Corrado Ferlaino alza finalmente il velo su Achille Lauro dove Napoli fa da sfondo a questo volume.


Achille Lauro Il Comandante tradito



Amate chi vi ha amato Corrado Ferlaino

Il sole dei vecchi è un sole stanco. Trema come una stella e non si fa vedere, ma solca le acque d’argento (Alda Merini)


RITRATTI Collana

Corrado Ferlaino con Toni Iavarone

Achille Lauro

Il Comandante tradito

Gli autori ringraziano Marcello Pelillo per la preziosa collaborazione

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2015 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Referenze fotografiche:

Pagine: 162(basso), 168, 169(alto), 176(b), 180-186, 187(b), 188, 189, 192 (Archivio Riccardo Carbone). Pag. 172 (Foto Barra). Le restanti immagini provengono dall’archivio personale del direttore del “Roma”, Antonio Sasso e dall’album di famiglia di Corrado Ferlaino. L’editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile rintracciare.

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di marzo 2015 per i tipi di LiPe, Bologna Rilegatura a cura della Legatoria Carfi, Bologna ISBN 978-88-7381-715-4

Minerva Edizioni

Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Corrado Ferlaino con Toni Iavarone

Achille Lauro Il Comandante tradito

Minerva Edizioni



Indice

Prefazione di Antonio Corbo

p. 9

Lauro

p. 21

Visto dallo specchietto retrovisore

p. 29

L’armatore

p. 35

Capitolo politica Intervista a Giuseppe Del Barone

p. 51 p. 53

Le mani sulla città o su Lauro? Intervista a Giuseppe Galasso

p. 57 p. 63

Il Napoli

p. 69

Il Napoli tra propaganda e passione Intervista a Luis Vinicio

p. 79 p. 92

Lauro editore e il mistero dell’incontro con Mussolini

p. 97

Le donne di Lauro

p. 109

La donna mai rivelata Intervista a Raffaella Corcione

p. 123 p. 128

L’epilogo

p. 133

Il parallelo tra Lauro e Berlusconi

p. 151

Ringraziamenti

p. 156


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Ci comparve davanti, io e i miei amici Enrico Verga e Enrico Del Vecchio rimanemmo piacevolmente storditi sotto il fragore del suo passo deciso. Indossava un abito di un lino d’ottima fattura, era beige tenue, la giacca in doppiopetto, la camicia di un bianco abbagliante, pochette in tinta, il pantalone sagomato da tante pences, che il Comandante portava a vita alta, quasi ascellare. Fumava una sigaretta al mentolo, col filtro infilato nel bocchino di tartaruga. Achille Lauro mi sembrava un uomo d’altri tempi. Altero, poco cerimonioso, un’eleganza antica. Cappello compreso, immancabile su una testa grande, dalla fronte spaziosa. Ci guardò di sfuggita mentre aspettava l’autista e la Mercedes Pagoda; tra le mani rigirava la catenina d’oro del suo immancabile orologio da taschino: ne possedeva una quantità, più che una collezione. Un po’ c’intimorì nell’imponenza della sua figura. A incontrarlo per la prima volta, don Achille rappresentava una grande sorpresa tanto era differente dallo stereotipo che gli avevano costruito intorno e che lo voleva sguaiato, un po’ rozzo, un fastidioso accento napoletano, il fare perentorio: insomma un ricco lazzaro. Era, invece, di pelle chiara, con i capelli che avevano ancora una luce dorata. Lo avresti detto olandese, uno di quei vecchi uomini di mare disegnati da Brueghel. Io e i miei amici eravamo seduti a un tavolo della Zi’ Teresa, poco più in là c’erano i circoli nautici storici della città, la Rari Nantes, l’Italia e il Savoia. Don Achille Lauro era, per noi ragazzi degli anni Trenta, un romanzo fattosi uomo, una leggenda da raccontare. Era qualcosa di unico, di particolare, di tutto. Noi ciondolavamo tra pigrizia gio-


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vanile – io matto per l’automobilismo e per la motonautica (praticavo entrambi) – e impegni imprenditoriali: avevo già progettato un rione collinare, che ribattezzai Rione Alto. Eravamo io, il caro amico scomparso Enrico Verga ed Enrico Del Vecchio, tutti affiatatissimi, pronti a guardare il presente e pensare al futuro. Perché ognuno di noi, amici da giovani e in età matura oltre gli “anta”, ha sempre avuto grandi sogni ancora da vivere e da raccontare. Uno dei miei sogni è sempre stato quello di sciogliere gli ultimi nodi sulla vita di Achille Lauro. Forse, se mi fosse capitata l’occasione, l’avrei fatto molto tempo fa. Ci sarei riuscito se il Napoli non mi avesse catturato l’anima, il cervello e il portafogli. O forse è stato il destino che ha voluto così, che ha deciso che io entrassi nel mondo del Comandante soltanto dopo tanti anni. O forse ancora, sarà stato proprio lui, il Comandante, che affidandomi una parte del suo impenetrabile cuore, il Napoli, avrà sussurrato al destino: «A sto Ferlaìn (mi storpiava così il cognome), teniamolo lontano, facciamolo accanire col Napoli, poi si vedrà». Già, perché egli era capace di tutto, anche di allacciare intrighi con la fatalità. Ne aveva viste e vissute di ogni risma, di ogni colore, nel male e nel bene. Introverso, umano e solo: viveva per le sue navi. Duro con i suoi uomini e con se stesso, le sue affollate giornate erano, tuttavia, immerse in una profonda solitudine, squarciata solo dalla passione per il Napoli e dai lampi gioiosi delle vittorie. «Secondo me, il Comandante è stato un giovane – mi disse una volta Bruno Pesaola, il mai domo Petisso – che aveva sognato di diventare il Comandante e poi lo è diventato davvero. Così come, mi si consenta il paragone ardito, Enzo Ferrari aveva sognato di diventare Enzo Ferrari e c’è riuscito, Lauro è diventato Lauro». Mi chiese una volta, Giorgio Tosatti, durante un’intervista: Lei era amico di don Achille? «No, l’ho


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solo conosciuto bene. Non ho mai avuto una particolare predisposizione per i porti e le navi, però il Comandante mi ha costantemente affascinato. L’ho sempre visto come un eroe del West: solitario, scontroso, difficile, ma ricco di una sua particolare forma di tolleranza. Non stava mai sulle sue, non si metteva in mostra per difendersi, ma per passare all’attacco. Per lui esistevano solo il rumore dei suoi bastimenti e delle rotative del Roma. E il silenzio delle sue riflessioni. Non era un napoletano buontempone, era un uomo che viveva con se stesso e che si faceva ragionevole compagnia». In quell’intervista, Tosatti mi chiese pure quale fu il rapporto di Lauro con la moglie e le donne: «Credo che le donne gli piacessero a dismisura e in questo non vedo, dove sia l’inconveniente. Qualcuna, addirittura, scrisse lettere infuocate sul suo priapismo. Qualcun’altra, offesa per un probabile abbandono, sparlò di lui ai quattro venti. La parola più dolce fu che era un ingrato, un irriconoscente a letto e fuori». Quando ebbi la sorte di parlare con lui per la prima volta, ovviamente egli non sapeva neppure chi io fossi e ignorava, con altrettanta disinvoltura, i miei amici, che quella volta mi accompagnarono sin sotto il palazzo dove avevano sede gli uffici della flotta Lauro e la redazione del Roma. I due Enrico s’erano mostrati incuriositi dopo lo stupore di quando, dinanzi a quel ristorante di Borgo Marinari, a ridosso di Castel dell’Ovo, Lauro ci passò a fianco e lanciò uno sguardo di distaccato saluto verso di noi. C’era quindi voglia di sapere tutto sul mio primo incontro. Lauro era una sorta di personaggio da mitologia per noi. Avevo comprato un’azione del suo Napoli, pagandola centomila lire, anche e soprattutto per avvicinare lui. Per me non era più un comune mortale, ma un simulacro dell’imprenditoria e in generale della vita. Di quel tête à tête, assai breve per la verità, ricordo ogni attimo: durò né


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più né meno che qualche minuto. Mi viene in mente la mia apnea, emozionato com’ero, varcando la soglia di un mondo trattenuto col fiato, tra una nebbia densa di fumo – era un fumatore asfissiante – e le poche cose che mi disse. Lo seguivo strabiliato mentre parlava al telefono e calcolava a mente quanto avesse consumato di nafta una sua nave di trentamila tonnellate in arrivo dall’Australia. Parlava un buon italiano con qualche colpo di dialetto “per lo mezzo”. E poi di quell’incontro ricordo che quasi mi cacciò via, mandandomi a colloquio con il suo fidato assistente Umberto Manfellotto. Ci rimasi male al punto che non mi fermai più un solo istante, girai i tacchi davanti a Manfellotto e me ne andai. Il Comandante aveva così rimarcato la differenza che c’era tra un giovanotto, qual ero, e lui all’apice del potere e dell’importanza sociale. Eppure io m’ero preparato un bel discorsetto sul calcio e sul suo tifo per il suo amato Napoli; poi avevo pronto un paio di rime sulla sua Sorrento “rima di bastimento ma pure di firmamento”, e una dedica per la sua villa a Massa Lubrense che Lauro rinominò con me, anni dopo, “La stellata”. Non sapevo che il mio compito – come quello di chiunque andava a parlargli dopo aver ottenuto il placet per incontrarlo – era quello di ascoltare le sue parole e basta. Si poteva interloquire ma solo quando lui accennava a coinvolgerti nel discorso. Mai nessuno, sua sponte, si sarebbe permesso di accennare a un avvio di conversazione. I pochi malcapitati che osarono, si trovarono congedati dal Comandante senza una parola, per cacciarli a Lauro bastava portare ripetutamente la sua mano sinistra ben aperta sul dorso della destra, nel gesto molto popolaresco che si compie per mettere qualcuno alla porta. Recandomi nei suoi uffici, mi colpiva quell’edificio di vetro e cemento, era il più all’avanguardia di Napoli. L’ho sempre chiamato “Il Palazzo del Roma”, ma c’era pure chi


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lo indicava come il Palazzo della Flotta, doveva essere il simbolo del boom della città “più cambiata d’Italia” (così ripeteva ai suoi e agli altri il Comandante, sindaco di Napoli), quando lo cominciai a frequentare era fresco d’inaugurazione con i suoi 5.400 metri quadrati su dieci piani. Anche lui sognava un grattacielo. Il suo, doveva essere sovrastato da una grande “stella bianca in campo blu”. Simbolo della sua flotta, ma anche simbolo svettante di un uomo che, come si diceva allora, si era fatto da sé. Il sogno di Achille Lauro, purtroppo, si infranse contro il “no” degli architettiingegneri. Mi confidò una volta: «Mi dissero che il terreno in via Marina, cento metri in linea d’aria dalle banchine, quindi sabbia e acqua, non era adatto a reggere un gigante di cemento. Pazienza: ma li fregai comunque, ho avuto lo stesso il mio grattacielo. Però... sdraiato: tremila metri di uffici su quattro piani, erano quelli della Flotta, gli altri, tanti, scanditi da 724 finestre e coronati dall’insegna gialla con la scritta “Il Roma”, per esteso, erano per il giornale, rotative incluse». E ancora altri uffici. Sono passati più di quarant’anni: il palazzo è ancora lì. Rifatto, rivisitato quanto e come volete, ma dentro aleggia sempre la stessa anima. La strada, nel frattempo, non è diventata via Achille Lauro, come accade altrove: che so? A Milano c’è via Angelo Rizzoli, dove nacque la Rizzoli, etc.... Qui, invece, non c’è più nulla che lo ricordi, o meglio c’è un equivoco: si tratta di un vicolo corto e buio a Ponticelli intitolato ad Achille Lauro, ma non è il Comandante, bensì un omonimo caduto in guerra. A Napoli la storia di Lauro è tuttora molto lontana. Eppure la sua vita da romanzo d’avventura ha segnato nel bene e nel male non solo la città, ma un’epoca che, per grandi linee, è stata già consegnata alla storia: le miserie del Dopoguerra, decenni di sacrifici in macerie, la tenacia, il duro lavoro, i guasti e gli errori di


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quegli anni. E poi la ricostruzione, il successo, il ritorno alla bellezza della città, meta indiscutibile del gran turismo, i panfili di lusso. E ancora il declino, inclusa la parabola calante di Lauro, gli eredi non sempre all’altezza. E la rovina. Un disastro forse annunciato dal suo intimo: la famiglia. Se la gente di talento lo incantava, Achille Lauro, invece, non ha mai amato i ricchi. A cominciare dai suoi figli Gioacchino ed Ercole. Spesso rimproverava loro di non essere nati poveri e di non aver provato i morsi della fame e il gravame delle fatiche fisiche e morali. Giovannini, uno dei grandi direttori del Roma, mi ricordò che durante una cena, il Comandante prese una bottiglia e disse: «Questo monte alto sono io». Poi afferrò due bicchieri e sentenziò: «E queste sono le colline del Vomero e dei Camaldoli: Ercole e Gioacchino». Eppure, per tutta la vita, soprattutto Gioacchino avrebbe cercato di essere all’altezza della situazione. Entra in azienda ancora giovane, ma c’è chi dice che sia stato annientato dal padre. C’è invece chi sostiene che, in privato, il Comandante lo ascoltasse, e molto. Ma in pubblico, davanti ai vertici dell’azienda, lo umiliava. Senza pietà: «Statt zitt, guagliunciello», stai zitto, ragazzino. Non è vero, però, che non gli volesse bene, ma quel figlio non gli assomigliava, non abbastanza. Anzi: forse cercava in ogni modo di essere diverso da lui. Quanto il Comandante era sicuro di sé, ma chiuso e distaccato, tanto il figlio è stato cordiale, allegro, estroverso sino all’esagerazione. Quanto il padre era scettico e sospettoso, tanto Gioacchino è stato esageratamente ottimista: don Achille odiava i giornalisti che s’intrigavano delle sue cose, le foto, gli eventi mondani. E anche nel look sono stati molto diversi: Gioacchino amava la moda, i tocchi un po’ eccentrici, il sigaro cubano pendente dal sorriso. Il Comandante era sempre in grisaglia,


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cravatta e scarpe scure, espressione imbronciata. Qualcosa in comune però l’hanno avuta: la passione per il calcio e l’amore per le belle donne. Due grandi pregi, almeno per uno come me. Vi pare? Anni dopo ero insieme a don Achille nel suo ufficio in via Marina. Fremevo per dolermi con lui degli attacchi che ricevevo ripetutamente da “Il Mattino”, tuttavia aspettavo il suo consenso. Il Comandante cominciò a parlare del Napoli, deviò su Pesaola, girò intorno a come, secondo lui, dovesse giocare la squadra, tuttavia senza accennare a farmi entrare nel suo monologo. E io ero lì ad ascoltarlo, mentre mi ribolliva il sangue per le accuse quotidiane che venivano dal giornale a lui concorrente: era editore del Roma. Ma non solo: il Mattino gli era politicamente ostile perché sposava la causa della Democrazia Cristiana, all’opposizione nel Comune governato dal Partito Monarchico. A un certo punto si girò verso di me e dandomi l’immancabile “voi”, chiese: «Ferlaìn mi dovete dire qualcosa?...» «Sì, Comandante, posso?» Fece cenno di sì, roteando nella mano destra i suoi occhiali scuri che portava per non rivelare agli altri quel che aveva dentro l’anima. «Il Mattino mi martella a ogni occasione e con qualsiasi pretesto, sono diventato il suo bersaglio fisso, scrive su di me cose da Sant’Uffizio e…» «E voi leggete il Roma». L’incontro finì lì, su quella risposta.


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