AMARCORD ROMAGNA di Roberto Balzani e Giancarlo Mazzuca

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Roberto Balzani (Forlì, 1961) è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna. Si è occupato di regionalismo, di storia del Risorgimento, di governo municipale fra Ottocento e Novecento e delle vicende del patrimonio culturale italiano. Fra il 2008 e il 2009 è stato preside della facoltà di Conservazione dei Beni culturali dell’Alma Mater, sede di Ravenna. Autore di manuali di storia per le scuole, da sindaco di Forlì, carica alla quale è stato eletto nel 2009, si è dedicato all’analisi del ceto amministrativo dell’Italia contemporanea, dando alle stampe un fortunato pamphlet: Cinque anni di solitudine (Bologna, 2012).

Il racconto di una terra che si legge come un romanzo, tutto d’un fiato; e insieme i personaggi, i luoghi e i fatti che hanno reso la Romagna, regione “immaginaria” unificata dall’amministrazione solo ai tempi del cardinal legato di Ravenna e, più brevemente, dal prefetto napoleonico di Forlì, uno spazio della memoria collettiva efficace e condiviso come pochi altri nel Paese. Questo l’obiettivo di Balzani e Mazzuca, un professore di storia e un grande giornalista: stimolare un’opinione pubblica romagnola di massa, al di là dei municipalismi deteriori e delle divisioni della politica. E nello stesso tempo comunicare agli italiani lo strano tentativo, compiuto da un piccolo lembo di pianura padana, di compendiare in sé una sorta di storia concentrata della penisola, dai Galli a Cesare, da Giustiniano a Dante, da Machiavelli al Risorgimento, da Mussolini alla guerra mondiale. Un dado da brodo delle grandezze e delle miserie italiane. Con quale finalità? Oltre al divertimento intellettuale, oltre a trasformare in storia vera, documentata, tanti luoghi comuni, anche l’ambizione di contribuire a sviluppare la sensibilità per una riforma amministrativa dal basso che potrebbe sconvolgere un quadro secolare, unendo comuni e province e imponendo un nuovo sguardo su quello che siamo stati. Una grande occasione di crescita e di maturità che i romagnoli – precoci sperimentatori, nell’Ottocento, della politica moderna – non debbono lasciarsi sfuggire.

Giancarlo Mazzuca, romagnolo di Forlì, già direttore de “Il Resto del Carlino”, del “QN”, de “Il Giorno” e direttore editoriale della Poligrafici Editoriale, è stato inviato speciale de “Il Corriere della Sera”, vicedirettore a “Fortune” e a “La Voce” di Montanelli, caporedattore a “Il Giornale”. Attualmente è consigliere d’amministrazione della Rai e commentatore de “Il Giornale”. Ha scritto diversi libri, tra cui Il leone di Trieste (con Claudio Lindner), La Fiat, da Giovanni a Luca (con Alberto Mazzuca), I signori di Internet, La Voce di Indro Montanelli, I Faraoni (con Aldo Forbice), La Resistenza tricolore (con Arrigo Petacco) e infine, edito da Minerva, Sangue romagnolo (con Luciano Foglietta), vincitore del Premio “Acqui Storia” 2011. Ha vinto premi giornalistici come il “Saint Vincent economia”, il “Campione d’Italia”, il “Guidarello”, il “Silone”, il “Montanelli”.

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Si può dedicare un libro a una terra? E che se ne farĂ poi, la terra, del nostro libro? Eppure, noi vogliamo credere che la Romagna fisica che guardiamo e immateriale che pensiamo non passi solo attraverso il senso e la memoria dei romagnoli. Vogliamo credere che essa esista come soggetto: un luogo e un’anima insieme. Per questo, essendo figli suoi, ci permettiamo di offrirle in omaggio le pagine d’inchiostro che seguono. Nella speranza che non le dispiacciano. R.B. e G.M.


CLESSIDRA Collana di saggistica storica

ROBERTO BALZANI GIANCARLO MAZZUCA

Amarcord Romagna Breve storia di una regione (e della sua idea) da Giulio Cesare a oggi

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Redazione: Elisa Azzimondi Grafica e impaginazione: Ufficio grafico Minerva

© 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-472-6

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ROBERTO BALZANI GIANCARLO MAZZUCA

Amarcord Romagna Breve storia di una regione (e della sua idea) da Giulio Cesare a oggi

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INDICE Come fu che i Romani “inventarono” la Romagna Bisanzio sull’Adriatico I cavalieri dalla testa di cane e la Romània La croce di Ravenna Storie dell’anno Mille La Romagna dei Comuni nell’età di Dante I signori della guerra Dinastie del Rinascimento 11 aprile 1512: Ravenna campo di battaglia Il lungo dominio del papa-re Le città barocche I papi romagnoli Armée d’Italie Il Dipartimento del Rubicone La Restaurazione infinita La Romagna carbonara La “rivoluzione” del 1831-32 e le origini del mito La regione nel Risorgimento Pio IX e il 1848 La Repubblica romana e la “trafila” garibaldina Esuli romagnoli La Romagna nello Stato unitario (e nell’Emilia) Una regione all’opposizione La “questione Cipriani” e la visita di Umberto I La Romagna come spazio e come metafora La Romagna giolittiana L’apprendistato politico del giovane Mussolini Aldo Spallicci e il regionalismo culturale romagnolo Spallicci e “La Piê” nella Romagna del primo dopoguerra La Romagna mito fascista La Resistenza come “secondo Risorgimento” Fra Santarcangelo e Rimini: la cultura regionale rifiorisce in riviera XXXIII. La stagione del regionalismo politico XXXIV. La Romagna possibile In ricordo di un romagnolo Doc Ringraziamenti I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII. XIII. XIV. XV. XVI. XVII. XVIII. XIX. XX. XXI. XXII. XXIII. XXIV. XXV. XXVI. XXVII. XXVIII. XXIX. XXX. XXXI. XXXII.

p. 11 p. 19 p. 29 p. 37 p. 43 p. 47 p. 55 p. 63 p. 69 p. 73 p. 81 p. 89 p. 95 p. 101 p. 107 p. 115 p. 121 p. 127 p. 133 p. 139 p. 145 p. 155 p. 165 p. 173 p. 179 p. 185 p. 191 p. 197 p. 203 p. 209 p. 219 p. 227 p. 235 p. 243 p. 253 p. 255



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I COME FU CHE I ROMANI “INVENTARONO” LA ROMAGNA

Prima c’erano i Galli, Boi e Sénoni. Superate le Alpi, dall’Europa continentale erano scesi nella valle Padana, ricca di boschi e di acque, e soprattutto connotata da un clima mite. Avevano avuto rapidamente ragione degl’insediamenti tardo villanoviani preesistenti: una civiltà scoperta a metà dell’Ottocento dal conte Giovanni Gozzadini vicino a Castenaso, ma diffusa in tutta l’Italia centrale, in relazione con gli Etruschi, le cui reti commerciali avevano dato vita a fiorenti empori a partire da Felsina, la futura Bologna. I Celti presentavano comunità di non grandi dimensioni, impegnate soprattutto nella caccia e nella pastorizia. Erano guerrieri e divennero stanziali. Da quando? Le tracce archeologiche si perdono nel passato, in quell’età del ferro tanto oscillante nei suoi estremi da apparire un’etichetta, più che una collocazione temporale. Siamo di fronte a un mondo di esseri umani che vivevano in simbiosi con la natura e da lì derivavano idee, immagini, percezioni. I fatti si tramandavano oralmente e perciò venivano presto dimenticati: solo la ritualizzazione di alcuni momenti forti della vita – individuale e collettiva – impediva all’oblio di prevalere. La morte soprattutto incombeva sulle tribù e sui villaggi: fosse per malattia, per incidente o per ferita, essa determinava l’investimento più significativo; e le necropoli, infatti, sarebbero rimaste, oltre il muro della memoria, a raccontarci qualcosa di una protostoria per il resto immersa nel flusso dei piccoli eventi di ogni giorno, apparentemente senza sbalzi, senza le impennate della Grande Storia. Solo quando incrociarono le spade con quelle dei Romani, i Sénoni ottennero inconsapevolmente la titolarità di un posto nei libri di testo di oltre duemila


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anni dopo. Accadde con la sfida portata da Brenno dentro la stessa Roma, violata nel 390 a.C., che generò – si racconta – l’orgogliosa reazione degli autoctoni e di Marco Furio Camillo: «non con l’oro, ma col ferro si difende la Patria». Reminiscenze da elementari, ricalcate sulle pagine di Tito Livio. Pensare che i Galli “romagnoli” abbiano partecipato alla prima “marcia su Roma” di successo, fa tuttavia un certo effetto e ve la proponiamo in apertura di questa scorribanda intorno a un lembo bizzarro ed estremo di pianura Padana, i cui orli si arricciano in colline e poi in remoti, alti gioghi azzurrognoli. In ogni caso, raccomandiamo di tenere a freno l’immaginazione: i Galli con gli elmi cornuti, i cinghiali e la cervogia tiepida non sono esattamente quelli nostrani: appartengono, piuttosto, alla fantasia dei creatori di Astérix e a una rigogliosa tradizione culturale francese soprattutto dell’Ottocento. Altre popolazioni italiche avevano colonizzato le zone paludose e costiere, che disegnavano una vasta area senza confini precisi, dalla periferia dell’odierna Bologna al mare. In queste zone, per lo più malsane, dove si costruiva su terreni precari e ci si nutriva soprattutto di pesce, gli scambi con l’esterno erano però più frequenti, il controllo del territorio meno ferreo. Un embrionale artigianato ci riconduce al contesto dell’Etruria, a effimere strutture urbane di cui non conserviamo praticamente nulla, salvo una vaga impronta nei suffissi in -enna delle città (Ravenna, ad esempio). Siamo di fronte, ancora, al vuoto. Del resto, quanti potevano essere? Qualche migliaia? Gli abitanti della Romagna, a quei tempi, potevano verosimilmente raccogliersi in un paio di quartieri attuali di Rimini o di Forlì. Se non riflettiamo su questo elemento – la rarefazione e l’isolamento degli insediamenti –, non riusciamo a rappresentarci, con gli occhi di allora, uno spazio che doveva sembrare immenso e assai poco pervio (ponti non ce n’erano, strade neppure: piste, piuttosto), e che per noi invece è dominabile in un paio d’ore di automobile.


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La Romagna non esisteva. Non esisteva come luogo naturale e antropizzato separato nettamente da “qualcos’altro”. L’esperienza di vita si svolgeva per lo più entro limiti angusti: pochi chilometri quadrati. Si nasceva, ci si riproduceva, si moriva lì, a meno di eventi catastrofici. La grande foresta, da un lato, e la grande palude, d’altro, erano l’habitat, la cornice del ciclo biologico di questa porzione di umanità. Nelle valli, verso i crinali che guardavano a sud, popolazioni italiche meglio organizzate avevano dato vita a realtà evolute: Sarsina era un centro di scambi lungo il Savio, con una propria struttura urbana e, con ogni probabilità, con un embrione di società. Se Tito Maccio Plauto vi nacque proprio l’anno in cui i Romani l’espugnarono, il 266 a.C., dobbiamo immaginare che l’import culturale della Repubblica avesse rapidamente trovato un luogo fertile per attecchire e fruttificare. Altrimenti, al netto della genialità di Plauto, sarebbe difficile comprendere la rapidità con cui le storie, i modi di dire, gli scherzi, le passioni di quella comunità periferica diventarono lingua e poi racconto e poi poesia, mescolandosi con gli dei, le abitudini e le figure di Roma. Plauto, considerato il fondatore del genere comico in lingua latina, squarcia il velo del silenzio, e, improvvisamente, ci mostra una rete di relazioni personali sorretta da battute, ammiccamenti, equivoci, ironie. E chi se lo immaginava? Li avevamo lasciati pescatori e cacciatori. Ora, grazie alla plasticità della lingua scritta, qualcosa resta. I Romani, che avevano fondato la colonia di Ariminum, di diritto latino, nel 268 a.C., impiegarono un paio di generazioni per scendere a valle e risalire l’asse pedemontano. Non c’erano solo i Galli da battere: c’era la natura da addomesticare. Senza una radicale campagna di trasformazione ambientale, infatti, la colonizzazione, per la Repubblica, non aveva senso. Ecco perché i tempi furono lunghi. Le piste sul fondovalle dovevano diventare strade. E, lungo le strade, andava garantita la sicurezza delle stazioni e dei mercati.


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Ergo, l’insediamento prevedeva lavori di abbattimento della foresta, di utilizzo del suolo a fini agricoli, di controllo non solo militare, ma soprattutto sociale del territorio. Nel frattempo, un cataclisma aveva investito la penisola: Annibale, con il suo esercito “multinazionale” aveva catalizzato intorno a sé scontenti e sconfitti; e, al Nord, il contesto si era fatto rapidamente più insicuro, determinando arretramenti e ripiegamenti che non erano nella consuetudine dei soldati di Roma. Solo dopo la conclusione della seconda guerra punica, l’espansione era ripresa a ritmo serrato, ora anche per motivi strategici: il centro dell’Impero non doveva più essere esposto al rischio di un assedio, e la pianura Padana avrebbe rappresentato il bastione umano che, unito ai gioghi degli Appennini, avrebbe reso Roma imprendibile. Il Rubicone avrebbe segnato il confine territoriale fra l’Italia metropolitana e quella in via di assimilazione. Lo avrebbe reso celebre Caio Giulo Cesare, il 10 gennaio del 49 a.C., al tempo della prima (o seconda, se contiamo Brenno) “marcia su Roma”: e sarà questa la ragione per cui Mussolini volle a tutti i costi individuarlo, il Rubicone estinto, con un regio decreto del 1933. Ma torniamo a noi. La via Flaminia, che attraversava il Centro Italia e si arrestava a Rimini, fu proseguita assecondando l’asse pedemontano; e finì per assumere il nome del console che la volle nel 187 a.C., Marco Emilio Lepido. La romanizzazione cominciò, sul serio, solo allora. E continuò per oltre un secolo, con la deforestazione sistematica e la creazione di poderi per i legionari giunti al termine del servizio. Strade perfettamente diritte, intersecate da altre vie secondarie, ad angolo retto, gettarono sulla pianura un disegno geometrico – la centuriazione – che è ancor oggi visibile nella nostra struttura viaria, soprattutto fra Cesena e Ravenna. Se escludiamo Rimini, snodo fra l’Italia centrale e quella settentrionale, non dobbiamo immaginare insediamenti


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particolarmente significativi. I fori lungo la via Emilia, infatti, erano centri di scambio di prodotti agricoli e artigianali, ma non esibivano edifici di particolare qualità architettonica. Li abitavano persone semplici, dedite a una tranquilla vita di provincia: lo si può dedurre dai testi delle lapidi per i defunti e dagli oggetti che ci sono rimasti, di materiali per lo più poveri. Nulla di paragonabile alla grande aristocrazia o alla grande borghesia romane, o allo splendore delle Beverly Hills ante litteram affacciate sul golfo di Napoli. Però i Romani erano ordinati e, con la razionalità che li contraddistingueva, definirono un assetto urbano: Ariminum, Caesena, Forum Popilii, Forum Livii, Faventia, Forum Cornelii… La via consolare era scandita da una serie di agglomerati, i quali, a loro volta, si collocavano allo sbocco di vallate. Gli abitanti delle vallate portavano materie prime e altri beni sulla Grande Strada, e lì avveniva il commercio. La via Emilia era un grande emporio strutturato per tappe (tenuto conto della popolazione dell’epoca, ovviamente): in questo, essa non ha cambiato fondamentalmente natura da allora, se non per gli aspetti del sistematico consumo di territorio e per la natura tutt’altro che peculiare dei “non luoghi” che si sviluppano lungo il tracciato. La via Emilia è anche un grande asse egualitario e narrativo: egualitario, perché la strada mescola esistenze importanti e trascurabili senza soluzione di continuità; narrativo, perché fatti incredibilmente diversi vengono compressi in un nastro lungo centinaia di chilometri, stretto e diritto. Ascoltiamo Alfredo Oriani, uno dei primi a percepire questi indicatori e a restituirli nelle prose di Fino a Dogali (1889): «Nella strada come nella natura uomini e viventi sono eguali. Nessuna feroce e demente fantasia di tiranno ha mai pensato ad interdire la strada a qualcuno, alzandola a privilegio di classe […]. All’ombra dello stesso albero, forse nel medesimo giorno si saranno fermati un gran poeta e un accattone scemo; dal medesimo parapetto di ponte avrà


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abbassato lo sguardo Giulio Cesare e la bimba reduce dalla più vicina bottega coll’ampolla dell’olio nelle mani. Mentre Caio Mario sarà passato ruminando il gran disegno di distruggere i Cimbri, dietro di lui un vecchio mendicante, incantatosi nello spettacolo delle legioni, avrà sorriso lungamente calcolando il guadagno del concime raccattato entro un cesto, estremo capitale di tutta la sua vita di lavoro». I Romani, però, avevano bisogno di un porto: un porto militare nell’alto Adriatico, che mettesse in sicurezza i traffici di quel mare interno e rendesse semplice il contatto con le sponde illiriche e greche, ormai parte integrante della loro area d’influenza. La scelta di Ravenna sembrava felice. A nord, essa presentava un vasto sistema irregolare di valli, generato dalla foce del Po, ed era quindi inattaccabile. A sud, il telaio delle città rurali/commerciali verso l’interno la rendeva sufficientemente protetta. Essi piantarono una foresta di pini, importandoli dal litorale tirrenico, e “inventarono” così la grande pineta (che sarebbe stata la prima “bellezza naturale” tutelata da un’apposita legge oltre duemila anni dopo, nell’Italia liberale del 1905, grazie al ministro dell’Agricoltura dell’epoca, Luigi Rava), che da allora ha mutato per sempre lo skyline dei lidi ravennati: l’approvvigionamento del legno utile alla flotta era assicurato. Dopodiché, e siamo a cavallo della primissima età Imperiale, investirono nella base militare: le fondamenta dell’urbs maxima – così l’aveva chiamata Strabone, il grande geografo greco dell’età di Augusto – erano poste. Classe divenne non solo un porto, ma una porta: la porta d’Oriente. Attraverso i marinai penetrarono nella valle Padana idee e riti religiosi sconosciuti, che affiancarono e poi soppiantarono il povero culto contadino degli antenati e degli dei del raccolto e dell’abbondanza, oltre a quello “ufficiale” dell’Olimpo della Repubblica: Mitra – il Sole – e Iside conquistarono gli altari, le case e le menti. Li ritroviamo a Forum Livii e perfino a Sarsina. Se le seduzioni del Levante funzionarono, non altret-


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tanto può dirsi del sistema militare imperniato sull’arsenale e i moli di Classe. Irreggimentare le acque che circondavano Ravenna si rivelò un’impresa impossibile e così, nel volgere di qualche tempo, le paludi e l’insabbiamento ebbero la meglio. Il sogno di una grande base adriatica si rivelò fallace e, del grande sforzo urbanistico compiuto restò la dimensione amministrativa, commerciale, culturale. Ravenna era, oggettivamente, il cuore pulsante dell’hinterland, nonostante i problemi logistici e naturali che ne minavano alla radice il potenziale sviluppo. Fu questa la ragione per cui, nel declino di Roma e sotto l’urgere dell’invasione visigota, nel 402, per volere dell’imperatore Onorio essa divenne addirittura capitale dell’Impero: il rango della città era tale da collocarla di fatto fra i luoghi deputati al governo della penisola, anche in virtù alla poderosa flotta che vi stazionava. È vero, d’altra parte, che, dopo la crisi del III secolo d.C. e l’incrinatura del sistema difensivo imperiale, quello che era stato un limite posto alla crescita del centro – la sua perifericità e la sua remota collocazione – era divenuto improvvisamente un pregio. Chiunque avesse voluto prendere Ravenna avrebbe dovuto fare i conti con tali e tanti ostacoli naturali da farlo desistere. Anche Roma, d’altronde, s’era dotata di mura (quella di Augusto non ne aveva!): le preoccupazioni della difesa prevalevano sulla facilità di comunicazione e sulla raggiungibilità. Il sistema viario romano, con i capillari degli empori minori, la rapidità dello scambio e l’internazionalità del bilinguismo (latino e greco) e della moneta, cedeva il passo a forme sempre meglio organizzate di autarchia territoriale, dove produzione, consumo e difesa da predoni di varia natura e provenienza prevalevano sulla sicurezza formale assicurata un tempo dall’articolazione amministrativa e infrastrutturale dell’Impero. In questa prospettiva, l’area (attualmente) romagnola, eccezion fatta per il suo porto, era decisamente esposta a infiltrazioni d’ogni tipo.


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La capitale fra le paludi, no. Per questo, già ai tempi di Traiano, essa si era dotata di un acquedotto che, dalla valle del Bidente, giungeva fino al mare. Un’opera straordinaria, poi ristrutturata da Teoderico, della quale non sopravvive più nulla, se non qualche labile testimonianza e qualche toponimo (Pieve Acquedotto, fuori Forlì, lungo la via per Ravenna). Negli anni Ottanta dell’Ottocento la cercarono invano nel tentativo di riscoprire le “favolose” falde che avevano dissetato i Romani e che ora avrebbero potuto dissetare i romagnoli, costretti ad approvvigionamenti di modesta portata e soggetti a frequenti inquinamenti. La campagna di scavi, nel duplice segno dell’archeologia e dell’idraulica, condotta alla periferia di Meldola sotto la guida dell’architetto e ingegnere Antonio Zannoni, già reduce dal successo del ripristinato acquedotto del Setta a Bologna (1881), non diede i risultati sperati: l’opus romanum, l’opera dei Romani, era perduta per sempre.


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II BISANZIO SULL’ADRIATICO

L’imperatore Costantino fondò una nuova Roma sul Bosforo nel 330 d.C. L’asse dell’Impero si spostava a Oriente, mentre nella parte occidentale cominciava lo sfaldamento: dopo la prima, forte pressione delle popolazioni centroeuropee sul confine germanico e danubiano; dopo i tentativi di assimilazione e di coinvolgimento, in particolare nelle strutture militari, dei cosiddetti “barbari”, l’articolazione provinciale di Roma, sorretta dalla distribuzione impeccabile delle sue legioni (paragonabili alle portaerei americane nel XX secolo), franò poco a poco. Il senso di sicurezza determinato dall’esser parte di una cittadinanza romana si perse via via che le scorrerie di tribù fuori controllo, la trascuratezza delle manutenzioni e delle infrastrutture (strade, porti, ponti), la privatizzazione del potere a vantaggio di élite dedite all’accumulazione e non all’esercizio consapevole del governo, spogliarono di risorse lo spazio pubblico. Come in ogni grande civiltà al tramonto, il tema della violenza legittima e di quella illegittima divenne centrale: e il denaro che si concentrò nelle mani dei potenti o dei capi militari, nel tentativo di comprare la tranquillità di cui l’Impero aveva goduto ai tempi di Augusto, rese visibile il passaggio da un’età in cui si investiva nella pace a una in cui diventava giocoforza inevitabile investire nella guerra. Neppure l’Italia fu risparmiata, né la doppia barriera delle Alpi e degli Appennini salvò Roma dal saccheggio di Alarico, nel 410: una data ben più significativa e traumatica della deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre, nel corso dell’ennesima congiura di palazzo e dell’ennesima sostituzione di figure insignificanti, ai vertici


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di un Impero che dell’antica grandezza conservava ormai solo la retorica esteriore. L’area padana fu la prima a essere sconvolta dal mutamento di gruppi al potere e, per quanto le popolazioni germaniche di cui parliamo fossero state in gran parte inserite da tempo nei gangli dell’esercito e fossero pienamente “romanizzate”, per lo meno a livello di élite, ciò non toglie che la fine delle famiglie della vecchia aristocrazia e della vecchia “borghesia” autoctona dovette apparire impressionante. La via Emilia fu risparmiata dal primo, vero, duro confronto fra etnie che non si capivano, al tempo degli Unni di Attila, fermatisi al Po; ma la paura che – lo sappiamo dalle testimonianze – si diffuse nelle città e nelle campagne diede il senso di un collasso definitivo e irreversibile. La corte di Roma, trasferitasi a Ravenna, aveva potuto fare ben poco: la macchina bellica era ormai in mano alle stesse milizie di stirpe germanica e gli scontri fra “signori della guerra” avevano assunto un carattere tribale, recando con sé il classico corollario del controllo territoriale da parte delle minoranze predatrici che le legioni della Repubblica, e poi dell’Impero, avevano in un tempo lontano annichilito con la geometrica precisione di un’arte della guerra “statale” e “professionale”. La componente più dinamica della classe dirigente romana si convertì al Cristianesimo, se non lo aveva già fatto, assumendo, con la fusione di funzioni pubbliche e religiose, quel ruolo di perno della comunità che le cariche laiche ormai non assicuravano più. I vescovi, non potendo contrastare la crisi dell’amministrazione, per lo meno predisposero un ombrello protettivo a difesa delle società locali bisognose di affidarsi a un Dio caritatevole, dato che la stagione dei consoli vittoriosi e delle “aquile che predavano lontano” era finita. Restava la formale adesione al tessuto culturale di Roma, o a quel che ne restava: ma tutto era ora concentrato a livello di municipio o poco più. Le stesse prassi religiose, tutt’altro che stabilizzate, rendevano il culto cri-


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stiano qualcosa di precario, determinato dalla personalità e dal profilo intellettuale dei capi periferici della Chiesa. La stagione dei protovescovi – Mercuriale a Forlì, Apollinare a Ravenna – è questa: siamo di fronte alle prime figure di riferimento per la città, ai primi “eroi locali”: in una parola, ai fondatori della tradizione civica. Vescovi, taumaturghi e soldati martiri: non sono loro, d’altronde, alle origini dell’agiografia di provincia? Mentre nel resto della penisola non era chiaro dove fosse finito il potere, tanto le guerre fra tribù e comandanti militari avevano confuso il quadro rendendolo incomprensibile, a Costantinopoli, fra la fine del V secolo e l’inizio del VI, si decise d’intervenire. Lo fece un imperatore ambizioso, Giustiniano, che aveva immaginato una “restaurazione romana” a partire proprio dalla Roma d’Oriente. Uno dei punti forti della strategia giustinianea, nel Nord, era Ravenna: da lì avrebbe preso avvio la riconquista. In effetti, le campagne militari che interessarono il Sud e il Centro Italia ebbero successo e, dall’avamposto padano, il potere dell’imperatore si estese lungo la via Emilia e oltre il delta del Po. Per Ravenna fu l’inizio di una stagione gloriosa, che confermava il recente exploit d’età teodericiana, quando a un re goto era venuto il ghiribizzo di restaurare lui l’Impero: l’afflusso di uomini e mezzi che provenivano da Oriente, oltre che il potenziamento delle strutture pubbliche, resero il medio Adriatico, decaduto dopo l’impaludamento di Classe, di nuovo vivo e dinamico. La dimensione urbana, visibile ancora nella localizzazione delle basiliche e dei battisteri, si ampliò considerevolmente, fino a raggiungere livelli in proporzione mai più toccati. La ricchezza si espandeva poi nell’hinterland, considerato un’area di approvvigionamento della capitale: toponimi come Filetto (dal greco phylakes, cioè guardie in armi) ancor oggi testimoniano il radicamento in profondità di un potere neo-statale di cui si era quasi perduta la memoria.


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L’orientalizzazione del territorio (attualmente) romagnolo, un tempo attestata da culti non tradizionali (Mitra, Iside), ora passava attraverso le meravigliose navate musive dei “Romani” di Costantinopoli, il denarius (il dollaro dell’età tardo antica e del primo Medioevo) e i cibi importati da fuori: come le focacce di farina, sale, acqua e prive di lievito molto diffuse, in varie forme e con vari nomi, nei territori del Mediterraneo orientale. Ai Bizantini, come li chiamiamo noi per comodità, siamo soliti associare convenzionalmente, sulla scorta di uno stereotipo ancora vitale fino a tempi recenti (basti pensare alla figura di Teofilatto dei Leonzi ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli, del 1966), rituali estenuanti, menti sottili, una certa doppiezza e una scarsa capacità d’azione: in realtà, i “Romani”, come si facevano chiamare loro, sia pure utilizzando il greco e non il latino (quindi Romàioi), almeno quelli dell’età di Giustianiano, erano tutto fuorché inerti. La struttura militare, anzi, rivitalizzata da generali capaci, era riuscita a rinnovare i fasti delle legioni di Traiano e di Marco Aurelio, mentre l’amministrazione – grazie a una burocrazia degna di questo nome – aveva ripristinato il controllo sul territorio. L’espansione su scala mediterranea dell’Impero giustinianeo offriva un’efficace rappresentazione della superiorità tecnica della strategia di Costantinopoli, che coniugava il dominio dei mari al reclutamento delle forze terrestri incentrato sulle province (temi) dell’Asia Minore. A sconvolgere un piano che prometteva di bissare il successo dei “primi” Romani cooperarono vari fattori: il primo, terribile e imprevedibile, fu la grande peste che insistette, endemica, nel Mediterraneo per molti anni, culminando fra il 541 e il 543. Le strutture politiche e militari, ma soprattutto la civiltà urbana, ne uscirono fatalmente indebolite, mentre gli stessi circuiti economici, autentiche arterie del sistema bizantino, finirono per ridurre il proprio raggio d’azione per tornare allo spazio limitato dello scambio centro abitato-campagna.


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La frammentazione generata dalla paura del contagio rese più vulnerabile il nuovo disegno imperiale; e anche la seconda Roma ripristinata sulle rive dell’Adriatico, Ravenna, splendente di oro, di mosaici e di basiliche, si ritrovò appendice periferica in una plaga malsana, resa più micidiale dal contagio di un morbo che annientava la popolazione. L’espansione subì una battuta d’arresto. Nel Nord, la già tenue influenza di Costantinopoli si ridusse all’appendice orientale della valle Padana. A Ravenna fu nominato un esarca, che aveva il compito di reggere le province settentrionali italiane di un potere che batteva in ritirata, concentrandosi sull’Italia meridionale. La città, da luogo d’irradiazione della spinta imperiale, divenne un avamposto perso in uno spazio sempre più ostile. Le acque che la circondavano furono utilizzate per scopi difensivi più che di comunicazione, mentre la militarizzazione dell’hinterland risultò inevitabile. I Romani d’Oriente, per altro verso, avevano conservato, della Roma sul Tevere, un’idea: che i confini, al di là del limes danubiano fisicamente costruito, passassero soprattutto nella testa degli individui e non nel territorio. La civiltà romana viveva là dove i cives, con i loro atteggiamenti e la loro mentalità, la facevano vivere. Non c’era bisogno, in altri termini, soprattutto in una realtà così profondamente latinizzata come la penisola italiana, di un vallo trincerato a separare geograficamente un contesto dall’altro, tanto erano permeabili gli ambienti urbani, le eredità e le identità sulle quali le prime istituzioni religiose avevano investito onde resistere al collasso dello Stato. Per questo, trasferire su cartina l’influenza irradiata da Costantinopoli nell’attuale Romagna non è cosa facile. Si potevano pagare imposte all’esarca, ma conservare, a livello di comunità, forme d’indipendenza cospicue; si poteva utilizzare la macchina bellica di Ravenna, senza per questo rinnegare una saldatura tutta locale fra vescovo e proprietari terrieri, e così via. E poi c’erano i resti delle tribù germaniche in parte inserite nelle


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società dei territori, anch’essi conviventi con un potere del quale potevano essere tributari. Insomma, via via che ci si allontanava dal cuore dell’Esarcato, il senso della romanità si traduceva in tante ricomposizioni e in tanti equilibri, più o meno precari, elaborati e sperimentati artigianalmente. Ravenna, però, era un’altra cosa. L’Impero aveva investito sulla Roma adriatica e, per la prima volta, un’area urbana fra la Flaminia e l’Emilia viveva di luce propria, staccandosi dall’anonimato dei fori, delle stazioni, degli empori, degli accampamenti militari. Ravenna aveva intellettuali che cominciarono a raccontare la città non casualmente (il poeta latino Marziale l’aveva ricordata incidentalmente, a proposito di un oste imbroglione: non più di qualche verso), ma mettendone in rilievo le peculiarità: la mancanza d’acqua potabile, l’abbondanza di acqua mefitica; il patrimonio edilizio; la corte. Ricordiamoci che siamo nel VI, VII secolo dopo Cristo. Pochissimi sono i centri sui quali si è acceso il riflettore della storia: Roma, nella penisola italiana, ha fatto la parte del leone. Delle città del Sud, grazie a una schiera di autori straordinari (basti pensare alla grande requisitoria contro il rapace Verre, condotta da Cicerone in Sicilia), sappiamo abbastanza: oltre l’Appennino, invece, i vuoti prevalgono sui pieni. Ciò accade sia per la minore strutturazione della rete urbana, sia per la caratura più modesta delle élite locali: il cuore della penisola italiana, quella aggiornata e “civile”, pulsava tutto da Roma in giù. I cronisti di età Giustianianea, e di quella successiva, sviluppano, invece, una cultura e un’identità urbane che, pur nel declino precoce del potere di Costantinopoli, offre tuttavia a Ravenna un “vantaggio competitivo” sugli altri piccoli agglomerati vicini che durerà per secoli. L’ombrello della Roma d’Oriente, cui si sostituirà l’ombrello dell’arcivescovo, primo proprietario fondiario del territorio, sarà il vero mastice dell’hinterland più tardi battezzato “Romagna”. Né poteva essere diversamente: la debolezza intellettuale dei


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ceti dirigenti – ma è già una parola grossa – di Forum Livii, di Caesena, della stessa Ariminun è visibile nell’inconsistenza della memoria tramandata, nella scarsa significatività dei lacerti, nella povertà e nel conformismo delle lapidi e delle testimonianze. È vero, però, che, promossa rapidamente al rango di città imperiale, Ravenna avrebbe conosciuto una rapida cristallizzazione, in parte conseguenza del ritiro dei Romani d’Oriente dalla penisola italiana, in parte oggettivamente determinato dall’ambiente naturale sfavorevole e dai vincoli posti dal territorio alla realizzazione di un’urbs di rilevanti dimensioni. Ravenna, quindi, tocca l’apice del successo e poi si ferma, restando ad alti livelli per alcuni secoli. Durante questa stagione prodigiosa, essa accumula un tesoro inestimabile, che – grazie alla sua perifericità e al lungo autunno del tardo antico – riuscirà a preservare praticamente intatto fino alle soglie della modernità. A questa monumentalità così evidente e pervasiva, alla quale attingerà l’identità cittadina dal XVI secolo in poi, riscoprendola, non si accompagnerà, tuttavia, un autentico dominio sul resto del territorio (se non nella fase iniziale, di stabilizzazione dell’influenza arcivescovile), conservando soprattutto la natura d’influente mito ideologico e letterario, già fondato in senso nostalgico all’epoca di Agnello ravennate (IX secolo), quando la polis non era più – ma avrebbe ambito esserlo ancora – capitale. Se vogliamo, nella parabola della Roma sull’Adriatico, voluta dai Romani d’Oriente, si scorge già il destino della futura Romagna: un potente magnete culturale, prima che uno strumento funzionale all’ordine gerarchico, politico e sociale della regione circostante. Aggiungiamo un elemento, oggi trascurato nelle narrazioni patrie anche a causa della complessità incontrata nel restituire in modo comprensibile un’epoca, quella tardo antica, della quale la ricostruzione scolastica ha privilegiato tratti per lo più fasulli, a partire dalle “invasioni barbariche”


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intese come “scontri di civiltà” fra gruppi etnici totalmente estranei: Ravenna è l’anello mancante. L’anello mancante rispetto a che? Rispetto alla continuità del racconto dopo la caduta dell’Impero romano (quello vero, il primo). La storia di Galla Placidia, la figlia dell’imperatore Teodosio che sposa Ataulfo, figlio di Alarico e re dei Visigoti, così come la presenza del mausoleo di Teoderico, infatti, rinviano alla commistione fra elementi latini e germanici, fra culti cristiani ariani e altri “ortodossi”, fra forme espressive diverse, unificate dalla grande koinè del mosaico, che solo qui, in questa preziosa documentazione storico-artistica e archeologica, danno il senso di una catena che non si spezza, di una civiltà che riaffiora fra le pieghe di un potere non più definibile attraverso i paradigmi della limpida amministrazione latina. Le toghe restano, anche se i suffissi in –ic/ico appartengono a un’altra tradizione linguistica; la croce o il Buon Pastore sopravvivono alla babele delle interpretazioni intorno alla natura di Cristo, che pure hanno effetti pratici concreti, quando si tratta di decidere a chi spetti guidare il “gregge” dei fedeli nelle comunità. La Ravenna del V secolo, prescelta da ciò che restava della corte di Roma come angolo remoto e munito, lontano dalle minacce d’assedio che avevano piegato l’Urbe nell’agosto del 410, era già un pregevole campionario di fusioni consumate e di tentativi di assimilazione, trapassato dal terreno pratico a quello della rappresentazione. Basti pensare alle monete dell’epoca, che ancora riportano, insieme alla croce cristiana, il motto salus reipublicae, salvezza dello Stato, quale attributo dell’imperatore/imperatrice: come avrebbero potuto scrivere i Romani di cinquecento anni prima. Ma di tutto ciò non sarebbe probabilmente rimasta traccia senza l’innesto dell’Impero di Costantinopoli, il cui obiettivo era appunto quello di assicurare la continuità di Roma, anche fisicamente. È questa la ragione per cui, accanto al mausoleo di Galla Placidia, c’è il trionfo di Giustiniano a San Vitale:


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fra i due corre più di un secolo, ma la vicinanza fisica, e il perdurare dell’altissima qualità dell’elemento musivo sono lì a dimostrare che, sotto il profilo delle idee, nulla è davvero cambiato in profondità: che Roma è ancora presente, con il suo apparato e la sua grandezza, e che un filo ininterrotto lega la città di Romolo e Remo alla città sul Bosforo, attraverso l’“anello” di Ravenna. «La formidabile forza di Roma che ha suo regno nel cuore degli antichi schiavi per il secolare suggello di una stirpe dominatrice; la forza latente ed indistruttibile che si perpetua anche se ruini, masso su masso, la granitica compagine dell’Urbe; abbaglia il re Goto, che nel suo sogno ardimentoso tenta guardar negli occhi il sole», questa la prosa enfatica di Antonio Beltramelli, anno 1907, a proposito del transito teodericiano, la cui funzione è chiaramente connettiva, dall’Urbs alla Polis. Funzione delicata e pericolosa, la sua: difatti egli pagherà l’indebita ambizione, secondo la leggenda rinvigorita dai celeberrimi versi di Carducci, con il rapimento da parte del demonio sotto forma di nero destriero e la precipitazione nel cratere vulcanico di Lipari. Vedremo fra poco come nasca il nome “Romagna”. Per ora, limitiamoci a osservare che qui, in questo territorio circoscritto e marginale, si può osservare una “saldatura fra civiltà” non casuale, ma tenacemente costruita come fatto ideologico. Una saldatura prima cercata dall’elemento germanico latinizzato, nel tentativo effimero di legittimare il proprio potere, poi sigillata dall’imperatore di Costantinopoli che si fa carico, per così dire, dello sforzo pregresso – parziale, frammentario, non perfettamente riuscito – di difendere l’idea di Roma per recuperarla all’interno di una storia diversa, spostata su un altro versante dell’asse mediterraneo. Con i mosaici del grande sistema delle basiliche tutto sembra tornare, come i fascicoli di un testo disperso e ora finalmente ricomposto: Gerusalemme, Roma, Costantinopoli, Ravenna acquistano una loro collocazione nello spa-


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zio simbolico, perché gli intellettuali messi al servizio dell’ideologia sono di prim’ordine, fra i migliori di cui, in quel momento, disponga il mondo cristianizzato di tradizione greco-latina. Sono loro che incastonano le gemme dell’età appena conclusa – mausoleo di Galla Placidia, il battistero degli Ariani, il mausoleo di Teoderico – dentro uno spazio urbano dove la storia acquista un suo ordine, una sua continuità, una sua chiara leggibilità. Un capolavoro.


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