Baricella
1943-1945 Un PICCOLO PAESE NELLA GRANDE TRAGEDIA
Paolo Bedeschi
BARICELLA 1943-1945 Un piccolo paese nella grande tragedia
L’autore ringrazia: Albertina Buriani Giorgio Golinelli Adriano Diolaiti Annarosa Venturoli Wilma e Claudia Corradi Mauro Cazzara Fabio Vecchietti Giorgio Riccioni Alberto Salicini Francesco Gaiani Ezio Stracciari Nevio Ballandi Edoardo Bonzi
Inoltre un ringraziamento particolare ad Anna per l’incoraggiamento e l’aiuto che mi ha sempre dato.
In copertina, Baricella - Fiera d’ottobre, 17/10/1943, giovani ignari prima della bufera.
In quarta di copertina, la foto datata 20 ottobre 1940 (giorno della Fiera) di due amiche di Baricella: a sinistra Faustina “Tina” Castelli (madre dell’autore) e a destra Elia Vecchietti.
Paolo Bedeschi
Baricella
1943-1945 Un PICCOLO PAESE NELLA GRANDE TRAGEDIA Minerva edizioni
Prefazione
Quando Paolo Bedeschi fu eletto Sindaco di Baricella, gli capitò di imbattersi in un documento autografo del Sindaco di Baricella, Luigi Bolognesi, nominato all’indomani della Liberazione. Si trattava di un appello ai cittadini, un appello accorato affinché si ponesse fine a rappresaglie, vendette, spargimenti di sangue: Miei Compaesani Il ripetersi del sequestro di persone in questo Comune da parte di gente sconosciuta, mi spinge a rivolgermi a Voi, non solo per dichiararVi nel modo più categorico che tali atti criminali non sono stati ordinati da alcuna autorità costituita, e tanto meno da dirigenti di partiti politici, ma anche per manifestarVi il mio vivo rammarico di quanto fino ad oggi è accaduto ad opera di comuni delinquenti, che hanno agito esclusivamente di propria iniziativa e per rancori del tutto personali, approfittando della situazione attuale. Si è lottato lungamente, con sofferenze e dolori indescrivibili, per abbattere il regime fascista, sanguinario e dispotico, e sarebbe ora più che criminale pensare di ammettere, instaurare un nuovo regime di terrore e sangue […]. I fascisti colpevoli di reati saranno puniti secondo le leggi vigenti, senza che da parte di chicchessia si ricorra ad atti di violenza, disgregatori della compagine sociale. E così chiunque abbia subito qualche torto nel passato regime, può presentarne regolare denuncia. 5
Contro i responsabili sarà legalmente provveduto: ma, ripeto, nessuno deve farsi giustizia da se. Non si deve mai per qualsiasi motivo trascendere ad atti bestiali: essi costituivano il mezzo di vita del nazi-fascismo […]. L’invito che Vi rivolgo alla calma, all’assoluta legalità di ogni Vostra azione, alla fraterna concordia trovi in tutti il pieno consenso, tenendo soprattutto presente che soltanto col rigido rispetto delle patrie leggi potrà aversi quell’ordine sociale, tanto invocato e tanto necessario per lo svolgimento di ogni proficuo, costruttivo lavoro di ripresa del nostro Paese. Dalla Residenza comunale, li 29 maggio 1945 A distanza di qualche decennio, Paolo Bedeschi, radicato con amore alla sua terra e al “suo” Comune di Baricella, ha voluto ricostruire vicende che accaddero su quel territorio dopo l’8 settembre 1943. Lo ha fatto documentandosi con scrupolo, ascoltando la voce di chi quelle vicende le visse in prima persona, riflettendo, con la mente sgombra da pregiudizi, su quel periodo che ha rappresentato una fase cruciale nella storia del Paese e della quale si discute ancora a quasi 70 anni di distanza. Baricella, piccolo comune del bolognese, esce da queste pagine, scritte con passione e con senso dell’equilibrio, come un luogo che ebbe più importanza di quanto si immagini, poiché lì ebbe sede il Comando del XIV Corpo d’armata corazzato affidato al Generale von Senger, da cui dipendevano tutte le forze tedesche operanti sulla linea Gotica e a Nord di essa più o meno dall’imolese al modenese, comprendendo quindi anche la città di Bologna. 6
Il libro di Paolo Bedeschi si dipana fra vicende storiche e storie di famiglie e di persone che vissero e soffrirono. Un libro prezioso perché si inserisce in quella microstoria del territorio che può contribuire a rendere più leggibile e comprensibile il quadro più generale delle vicende di quegli anni. Come si suole dire, la storia si scrive sempre due volte, come minimo: la prima è quella scritta dai vincitori, mentre la seconda è quella scritta da chi vuole interrogarsi sulle zone d’ombra e far luce sulle vicende più oscure e deformate dalla propaganda. La Resistenza fu il risultato dell’impegno di tanti, uomini e donne, che animati da diverse passioni e speranze, misero in gioco la loro vita per poter dar vita ad un futuro diverso, per poter porre fine ad un incubo e investire nella speranza e nella libertà. Tuttavia, della Resistenza e delle vicende ad essa collegate si è fatto spesso un uso politico spregiudicato che ha finito per mortificarne il vero portato e trasformare la celebrazione del 25 aprile in anniversario non condiviso. Infatti, la Resistenza ha assunto un significato simbolico e poi, via via, è diventata, soprattutto nella nostra terra, equazione matematica di tipo storico-politico: i militanti del PCI erano la “magna pars” dei resistenti, la Resistenza ha combattuto i nazifascisti, dalla sconfitta del nazifascismo nacque la Repubblica e da essa la Costituzione con le libertà civili e democratiche. Dunque, il risultato dell’equazione è che tutte le conquiste democratiche sono avvenute per merito prevalente dei comunisti. Credo che, oggi, appaia evidente come una tale ricostruzione sia frutto di una vulgata propagandistica, di natura ideologica, 7
formulata e avallata nei decenni da uomini di cultura e intellettuali organici al PCI: un PCI che, all’epoca e per decenni – va ricordato- fu un fedele alleato dell’URSS, di quella URSS che per 22 mesi era stata alleata della Germania di Hitler. Eppure, purtroppo, abbiamo ancora oggi la riprova che quell’equazione non è un’opinione di chi scrive e che, addirittura, perdura ai nostri giorni, come dimostra una lapide alla Bolognina, collocata il 15 novembre del 2009 in occasione del 65° anniversario della Liberazione. Ecco il testo: Il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino, nel 45° anniversario della battaglia qui avvenuta, Achille Occhetto annunciò il cambiamento politico che prese il nome di “svolta della Bolognina”. La Germania, sconfitta dagli alleati contro il nazismo, smembrata dalla guerra fredda si riunificava senza ostacoli ed in pace, anche grazie al rifiuto del Presidente sovietico Michail Gorbaciov di usare la forza contro la volontà popolare. Gli 11 partigiani della Bolognina caduti in battaglia o fucilati dai nazifascisti nel 1944 non morirono invano. Il loro sacrificio ci ha lasciato un mondo migliore. Nel loro ricordo salutiamo la liberazione dal nazifascismo, la democrazia e la costituzione della Repubblica Italiana, sicuro baluardo di pace e di progresso in Europa e nel mondo. L’A.N.P.I. Bolognina, il Comitato antifascista, il Quartiere Navile ed il Comune di Bologna posero nel 65° anniversario 15 novembre 2009 8
Dunque, il filo che lega resistenza, liberazione, repubblica, costituzione, democrazia, libertà e pace altro non sarebbe se non il PCI, le sue “svolte” e, addirittura l’URSS di Gorbaciov che, bontà sua, non ha ritenuto di dover usare “la forza contro la volontà popolare”, come è scolpito nella lapide. D’altronde l’uso politico della storia è una prassi non nuova: il passato è spesso territorio di escursioni strumentali da parte di coloro che sono animati da una volontà pregiudiziale e ideologica e non dalla serena passione per la ricerca. Passione che, invece, ha animato Paolo Bedeschi che si è gettato con generosità nell’impresa di ricostruire pagine non scritte o strappate di una storia che è presente nella memoria delle persone e che, spesso, non coincide con la storia scritta; un’operazione faticosa, quella di Bedeschi, fatta con il desiderio di presentare ai giovani di oggi i drammi dei giovani di ieri. Oggi, può capitare che l’eccesso di informazione metta a rischio il ricordo o, quantomeno, lo renda opaco. E allora è buona cosa ricorrere alla scrittura, impegnarsi nella paziente ricostruzione, ricorrere al conforto dei documenti e delle testimonianze per restituire dignità alla memoria e restituire il diritto al ricordo. Il ricordo che il sindaco Luigi Bolognesi ha voluto fissare sulla carta con quel manifesto che invitava alla calma, alla legalità, ad accantonare i rancori personali a non compiere atti bestiali è significativo: parole che quell’uomo sicuramente pesò con attenzione prima di scriverle e che, forse, gli costarono amarezza e dolore, ma che volle ugualmente scrivere convinto che occorresse costruire 9
il futuro abbandonando l’odio, la vendetta personale o politica. E Paolo Bedeschi dipanando con abilità e scrupolo il filo aggrovigliato degli avvenimenti, ponendosi nel ruolo di chi vuole trasmettere la memoria come si tramanda un patrimonio, ci ha regalato un libro prezioso perché, oltre che essere documentato e gradevolissimo nella lettura, raggiunge l’obiettivo che si è proposto di rileggere quegli avvenimenti in modo più sereno e quindi più vero. E ha voluto rammentare ai lettori che il passato è l’altra parte del nostro presente, e non il luogo della nostalgia. Marco Poli
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Premessa
Sono nato nel 1947, due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. I ricordi dei discorsi degli adulti su quei terribili fatti posso farli risalire ai miei 7-8 anni di età, cioè al 1954-1955, quando erano appena trascorsi una decina di anni dagli eventi che hanno pesantemente segnato tutti i nostri genitori e nonni. Allora quelle persone erano giovani e i fatti, per loro, erano ancora recenti. Ora, a distanza di oltre 65 anni, i ricordi sbiadiscono, ma soprattutto una buona parte di quelle persone sono già mancate. Prima che sia troppo tardi, è necessario fare una raccolta di tutto quanto, documenti e testimonianze orali, che possono essere utili per rileggere quegli avvenimenti in modo più sereno e quindi più vero. Da sempre si è detto che “la storia la fa chi la scrive”, però il materiale che si è prodotto fino a pochi anni fa è stato troppo di parte, grondante di retorica e con un orientamento unico espresso dai vincitori. I buoni erano i partigiani e i cattivi erano tutti i tedeschi e tutti i fascisti, definiti indistintamente “nazi-fascisti”. Il fatto che, a tanto tempo di distanza, escano i libri scandalo di Giampaolo Pansa sul sangue dei vinti, sul triangolo della morte, ecc.; che, a fatica, dopo oltre mezzo secolo, si sia parlato di foibe e dei massacri di italiani compiuti dai partigiani titini e che addirittura nel 2009, di fatto, si sia ostacolata la diffusione del film sul massacro di Katyn ordinato da Stalin nei confronti di migliaia di militari polacchi - che per oltre 50 anni era stato imputato ai tedeschi - dimostra 11
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che ricercare la verità è un esercizio utile se vogliamo fare capire ai giovani e alle future generazioni la società in cui vivono. La libertà e la democrazia sono valori nient’affatto scontati e sconosciuti nel nostro Paese prima della guerra e rimasti tali fino al 1989 nella metà orientale dell’Europa. Non aver svolto prima queste analisi e riflessioni probabilmente ha creato qualche generazione indifferente, non attratta da una versione convincente dei fatti, mentre altri, accettando quelle verità senza senso critico, hanno ingrossato le file degli schematici, di quelli che conoscono solo il bianco o il nero, dei giustizialisti, in sostanza di quelli che una volta si diceva “portavano la testa all’ammasso”. La responsabilità di fare chiarezza e recuperare la verità spetta a noi che per età, siamo nella fase in cui possiamo svolgere la funzione di trasmettitori di una storia fondamentale per il nostro Paese e per il mondo intero. A questo punto gli schematici possono essere già all’erta, pronti ad attaccare con la parola “revisionismo”, utilizzata come il “vade retro Satana” nei confronti degli eretici nel corso del medioevo. Non si tratta di infangare nessuno e neppure di gettare il bambino con l’acqua sporca, ma di analizzare quei fatti e quegli avvenimenti, calandoli nel clima, letteralmente di terrore, in cui i protagonisti, la popolazione civile, i militari di una parte e dell’altra, i partigiani, i “renitenti alla leva” nascosti, erano costretti a vivere e, purtroppo spesso anche a morire. Ma c’è un altro ingrediente che in gran parte è mancato per comprendere l’evoluzione dei fatti, cioè la POLITICA, innanzitutto quella che gli alleati condussero tra di loro e 12
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nei confronti delle nazioni e dei popoli più o meno toccati dalla guerra. Gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Unione Sovietica, le tre potenze alleate e vincitrici, hanno convissuto e collaborato, pur se con divergenze enormi, sulle modalità degli interventi militari, sugli interessi da perseguire contemporaneamente, e nei rapporti da tenere con le nazioni perdenti e con le popolazioni coinvolte. Solo recentemente siamo venuti a conoscenza di alcuni di questi aspetti che certamente hanno avuto un peso determinante negli sviluppi di quel periodo. Anche l’atteggiamento dei militari di carriera tedeschi nei confronti del nazismo è stato nascosto per troppo tempo, forse perché la politica aveva deciso che tutti i tedeschi, senza eccezioni, dovevano essere considerati responsabili di un’infame dittatura, senza cercare di approfondire ed interpretare lo scenario che si sarebbe potuto determinare se l’attentato ad Hitler del colonnello von Staunferberg, il 20 luglio 1944, fosse andato a buon fine. Nel suo piccolo, Baricella ha partecipato a questi avvenimenti per essere stata scelta, per un certo periodo, come sede del Comando del XIV Corpo d’armata corazzato affidato al generale von Senger, da cui dipendevano tutte le forze tedesche operanti sulla linea Gotica e a Nord di essa, più o meno dall’imolese al modenese, compresa quindi anche la città di Bologna. Il generale è morto nel 1963 ma ci ha lasciato un libro sulla storia delle sue gesta che è stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1968 dalla casa editrice Longanesi con il titolo “Combattere senza paura e senza speranza” 13
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e ripubblicato nel 2002 dallo stesso editore con il titolo “La guerra in Europa”. In esso sono riportati avvenimenti riguardanti il nostro territorio e riflessioni politiche estremamente utili per il lavoro che intendo svolgere. Forse negli anni settanta questo libro non fu letto, oppure fu letto ed accantonato. In compenso, in quel periodo, furono scritti quantità enormi di libri sulla Resistenza, furono scoperte lapidi, inaugurati cippi e monumenti, con un fervore che ebbe il suo culmine il 25 aprile 1975 in occasione del trentesimo della Liberazione. Non ho vissuto la seconda guerra mondiale, ma ho partecipato attivamente alle celebrazioni del 1975 e fu in quell’occasione che maturai la convinzione che non si poteva raccontare la storia in tal modo. Erano trascorsi trent’anni dalla fine della guerra, e non solo si continuava a non dare risposte a tanti dubbi mai sopiti, ma addirittura si elevava tutta la materia sopra un piedistallo, confidando evidentemente che quella versione dei fatti venisse definitivamente accettata per sempre. I massimi assertori di tale linea furono i comunisti, perché potevano cogliere l’occasione per affermare che la Resistenza aveva visto il loro contributo di un peso tale che, di fatto, tutte le altre forze che vi avevano partecipato apparivano marginali, e gradualmente relegate a ruoli comprimari. A questa lettura partigiana si aggiungeva immediatamente la constatazione che se la Repubblica veniva retta da una Costituzione democratica, derivata dalla Resistenza, avendo essi il primato della medesima, la democrazia in Italia si era ottenuta per loro principale merito. 14
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In quel periodo mi capitò di essere nominato Sindaco del Comune di Baricella, attraverso un soffertissimo accordo con il PCI locale. Era talmente evidente l’astio nei miei confronti, che alcuni comunisti cosiddetti unitari - cioè quelli che credevano fosse opportuno che le forze di sinistra collaborassero e tra queste fossero intanto il PCI e il PSI a trovare e mantenere ragionevoli accordi - cominciarono a tenere con me colloqui settimanali che si svolgevano nel mio ufficio in municipio. Ricordo con gratitudine e rispetto le visite di “Nanni” Gruppioni, che sicuramente rappresentava quell’ala comunista unitaria. Nanni aggiungeva alla tipica saggezza del mondo contadino, da cui proveniva, anche quella derivante dall’età allora aveva 62 anni mentre io ne avevo 28 - ma soprattutto nei nostri incontri metteva a disposi- A destra “Nanni” Gruppioni mentre illustra la di via Bocche. A sinistra Ivo Regazzi, zione la notevole battaglia al centro l’assessore Sandro Montanari, in una esperienza maturata foto del 1979 circa 15
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come Sindaco nel periodo 1951-1956 e quella di autorevole membro del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Baricella durante la Resistenza. Spesso Nanni si faceva accompagnare da un altro partigiano, Ivo Regazzi, anch’egli comunista della stessa tendenza. Da loro mi veniva il sostegno a proseguire nel mio incarico, minato molto spesso da quelli che mi consideravano un intruso. Fu così che ebbi l’occasione di iniziare a conoscere quel periodo e quella lotta, ma anche ad accorgermi come questa storia venisse sempre più rappresentata in maniera univoca, in gergo “aggiustata”, cioè come ricostruita ad uso esterno. Una volta Nanni mi presentò Elio Cicchetti, nome di battaglia “Fantomas”, ex vice-comandante della 4° Brigata S.A.P. “Venturoli”, operante nel territorio di Baricella e Minerbio attraverso il Battaglione “Oriente”. Cicchetti aveva appena scritto un libro di memorie dal titolo “Il campo giusto”, di cui mi donò una copia con dedica. Quella mattina avemmo un lungo colloquio a tre. Quando mi sentii sufficientemente in confidenza, trovai il modo di porre una domanda che mi ronzava nel cervello da diverso tempo e che più o meno era questa: - non credete che i giovani come me, sarebbero più attratti dai vostri racconti se ci fosse qualche concessione alle ragioni degli altri ed anche qualche autocritica? - Ricordo che entrambi ebbero un momento di silenzio, ovviamente dedicato alla riflessione che la mia domanda imponeva, poi concordemente mi risposero che forse avevo ragione, ma che il momento non lo consentiva. Nei loro visi si leggeva un certo imbarazzo, 16
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Il Partigiano Elio Cicchetti “Fantomas” nel 1945 convalescente da ferita
ma anche una serietà che mi fece cessare il confronto. E così non raccontai loro una barzelletta appena ascoltata a Bologna in un momento di pausa di una riunione presso la Federazione socialista di Piazza Calderini. A raccontarcela era stato l’allora segretario regionale del PSI, il simpaticissimo ravennate Paolo Pedrazzoli, che pochi attimi prima aveva manifestato tutta la sua stanchezza per la quantità di manifestazioni e celebrazioni, riguardanti il trentesimo anniversario, a cui doveva partecipare per l’incarico politico che ricopriva. La barzelletta era questa: - L’UNESCO, (organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) tra le tante attività che svolge, ogni anno bandisce un concorso per 17
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la migliore monografia su un argomento più o meno attinente alla sua funzione. Dopo i primi anni in cui erano stati proposti temi molto interessanti, gradualmente le idee si stavano esaurendo, fino a quando nell’anno in corso, alla scadenza del termine, non era uscita ancora alcuna proposta. Presso la sede dell’UNESCO già serpeggiava tensione e malumore. Il responsabile dell’ufficio preposto, non sapendo cosa proporre, era già in paranoia, tanto che la notte prima della scadenza si confidò con la moglie per giustificare il suo stato di insonnia. Questa, per acquietare il marito buttò lì la prima idea che le passò per la testa, avendo intravisto sul comò della camera da letto un sopramobile a forma di elefante. Fu così che quell’anno, la seriosa UNESCO uscì con un bando di concorso internazionale per la migliore monografia su… l’elefante. Dopo i sessanta giorni concessi, giunsero alcune di queste monografie. Dalla Germania arrivò “L’elefante nel sistema produttivo asiatico, africano ed europeo”, dalla Francia invece venne fatto pervenire “L’estetica dell’elefante, una bella forma che può entrare nell’arte”. Dall’Italia, abbastanza inaspettatamente, visto l’argomento, giunsero due monografie, una da Napoli “I cento modi di cucinare l’elefante” ed una dalla Emilia-Romagna “L’elefante nella resistenza”… -
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Un po’ di storia
Per comprendere il periodo in esame occorre fare alcune considerazioni sull’azione che il fascismo, dopo l’avvio della dittatura, aveva condotto attraverso un’informazione radiofonica e giornalistica univoca e un’insistente propaganda, per convincere gli italiani sui successi ottenuti in tutti i campi. Mentre le persone mature potevano mantenere forme mascherate di scetticismo, i giovani, attraverso un indottrinamento martellante nelle scuole, difficilmente potevano farsi opinioni diverse. Tra il 1936 e il 1938 il regime fascista raggiunse l’apice del successo. Il 9 maggio 1936 con la conquista dell’Etiopia, Mussolini proclamava la nascita dell’Impero annunciando che il titolo di Imperatore veniva assunto dal Re d’Italia e dai suoi successori. Con l’Etiopia, che si aggiungeva a Somalia ed Eritrea, si formava l’Africa Orientale Italiana. Sempre in Africa si doveva annoverare anche la Libia che era stata conquistata tra il 1911 e il 1912. L’avventura coloniale italiana, il famoso “posto al sole”, si poteva così ritenere compiuta, anche se l’aggressione all’Etiopia ci era costata dalla Società delle Nazioni sanzioni economiche, le cosiddette “inique sanzioni”, che permisero al regime di chiamare a raccolta gli italiani con un programma autarchico orientato ad incrementare le produzioni interne al fine di ridurre le importazioni. L’au19
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tarchia fu trasformata in un grande successo propagandistico che permise allo Stato di avviare anche la raccolta dell’oro per la Patria e del ferro per la Patria che costò le fedi alle persone sposate e le cancellate a tantissimi edifici, pubblici e privati. Nel luglio del 1936 scoppiò la guerra civile spagnola: la destra non riconobbe la vittoria delle elezioni da parte del Fronte popolare che riuniva repubblicani, socialisti, comunisti e anarchici. Il Generale Francisco Franco chiese aiuti ad Hitler e Mussolini. La stessa richiesta venne avanzata dal Governo del Fronte popolare agli antifascisti di tutto il mondo. Dopo poco tempo, il Fronte potè contare sulla partecipazione di circa 30.000 volontari provenenti da una cinquantina di paesi, di cui gli antifascisti italiani erano calcolati in circa 3.000 unità, mentre gli aiuti alla destra franchista furono decisamente superiori perché solo i fascisti volontari italiani nel novembre ‘36 erano già circa 35.000 (nel 1938 diventeranno 60.000) dotati anche di mezzi aerei e navali. Diverso fu l’atteggiamento di Hitler che inviò aerei e artiglieria con 14.000 militari dietro il compenso di minerali vari. La partecipazione tedesca servì inoltre per sperimentare le nuove armi; infatti il bombardamento della città di Guernica diede modo di verificare gli effetti delle nuove strategie belliche tedesche che seguivano il riarmo, vietato dalla trattato di pace di Versailles, ma che stava alla base del successo del nazismo. Le imprese belliche africane e spagnole si andavano a sommare alle grandi opere del regime, come le bonifiche, 20
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soprattutto dell’Agro Pontino, alle imponenti opere pubbliche, alla nascita dell’Opera Nazionale della Maternità ed Infanzia, all’organizzazione dell’IRI, al sistema sanitario e previdenziale, alla nascita dei Dopolavoro, mentre sul fronte della gioventù si sviluppò un consistente piano di scolarizzazione. Nel 1937 venne fondata la “Gioventù Italiana del Littorio” (GIL) per riunire in una unica struttura paramilitare tutte le associazioni educative e ricreative che prima facevano parte dell’“Opera Nazionale Balilla”. Si calcola che tra “figli della lupa”, “balilla”, “avanguardisti”, “giovani fascisti”, “piccole italiane”, “giovani italiane” e “giovani fasciste”, il regime potesse disporre di un bacino di 8.000.000 di ragazzi e giovani che trovavano nelle scuole un’istruzione indottrinata e nel tempo libero tanti altri momenti in cui il regime veniva magnificato. Anche lo sport era favorito nella pratica perchè forgiava i nuovi italiani e perché dava sostegno al regime attraverso prestigiose vittorie, come le coppe del mondo di calcio del 1934 e 1938, le medaglie alle Olimpiadi di Berlino del 1936, in cui per la prima volta un’atleta azzurra, Ondina Valla, vinse una medaglia d’oro. Anche nel ciclismo un atleta non fascista come Gino Bartali, con il trionfo riportato nel Tour de France del 1938, portò lustro al regime. Con lo slogan la cinematografia è l’arma più forte, Mussolini inaugurò Cinecittà il 21 aprile 1937 (l’anniversario dei natali di Roma). Circa un mese più tardi venne istituito il “Ministero della cultura popolare” (Minculpop) che aveva come compi21
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to il controllo e il coordinamento delle attività riguardanti radio, cinema, teatro, editoria e cultura in genere. Sempre nello stesso anno divenne obbligatoria l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista per tutti i dipendenti pubblici. Il 30 marzo 1938 Mussolini chiese ed ottenne dalla Camera e dal Senato il grado di Primo Maresciallo dell’Impero per essere unico comandante delle forze armate. La cosa provocò qualche tensione con il re che, a norma dello Statuto albertino, era la massima autorità militare della nazione. Il compromesso, insoddisfacente per Mussolini, venne raggiunto alla vigilia dell’ingresso in guerra, quando il re gli cedette il comando delle truppe operanti su tutti i fronti (un potere di cui Mussolini già disponeva). La coabitazione tra re e duce diventava sempre più difficile. Vittorio Emanuele III di Savoia era nato nel 1869 e divenne Re d’Italia quando nel 1900 l’anarchico Bresci, a Monza, uccise suo padre, il re Umberto I. Salì quindi al trono in età molto giovane, trovando un Paese arretrato, ancora preso dal processo di unificazione avviato 39 anni prima, cioè quando fu proclamata l’Unità d’Italia, pur senza il Trentino e la Venezia Giulia. Dal Sud, assai poco integrato nella nuova nazione, partivano a centinaia di migliaia gli emigranti soprattutto verso le Americhe, mentre al Nord si avviava un processo industriale molto meno efficace di quello avviato in Inghilterra e Germania. Sul piano politico in Italia si stavano registrando gli stessi fermenti socialisteggianti e anarcoidi che si erano 22
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manifestati in Europa, soprattutto nelle aree industriali, in cui lo sfruttamento selvaggio della mano d’opera, anche infantile, non poteva essere ulteriormente tollerato. Nel nostro Paese queste lotte furono molto efficaci nelle campagne, dove, soprattutto in Valle padana, esisteva un’agricoltura che necessitava di enormi quantità di manodopera nei momenti delle grandi lavorazioni, manodopera che poi veniva abbandonata al proprio destino negli inverni o durante i periodi di maltempo. Lotte durissime furono condotte e tutte le volte le conquiste dei lavoratori furono pagate a caro prezzo, con uno stato monarchico che mai si schierava dalla loro parte, salvo nel periodo del Governo Giolitti, quando si compresero i benefici che potevano derivare dall’aumento dell’occupazione, attraverso lavori pubblici e quelli che si potevano ottenere dal sostegno alle prime cooperative di lavoro. Nel 1892 a Genova, in rappresentanza dei lavoratori nacque il Partito Socialista, dilaniato fin dalla sua origine per la presenza delle correnti anarchica e rivoluzionaria che mal si conciliavano con l’orientamento riformista impostato sulle conquiste graduali. Sul piano delle alleanze internazionali, l’Italia nel 1882 aveva sottoscritto con l’impero di Germania e con l’impero Austro-Ungarico la cosiddetta Triplice alleanza, dalla quale, in cambio delle pretese italiane sulle “Terre Irridente”, veniva concessa la possibilità di avviare una fase di colonialismo. Iniziò così l’avventura in Africa, condotta prima da Umberto I in Eritrea e Somalia e poi da Vittorio Emanuele III in Libia, nel 1911-1912. 23
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Quando nel 1914 scoppiò la Prima Guerra mondiale, l’Italia, pur impegnata nella Triplice Alleanza, in una prima fase si dichiarò neutrale, per poi allearsi con Francia, Inghilterra, Russia, Stati Uniti, ecc. ed entrare in guerra il 24 maggio 1915 contro gli ex alleati. La prima fase della guerra fu tragica, perché l’esercito italiano subì la drammatica rotta di Caporetto, per poi riprendersi e battere un avversario che nel frattempo era attaccato su diversi fronti. Dalla vittoria, il Regno finalmente conquistava Trento e Trieste, oltre al Sud Tirolo fino al Brennero, l’Istria e la Dalmazia. La Grande Guerra lasciava però anche altre conseguenze. Intanto nella fase di avvio si era determinata una frattura insanabile tra interventisti e neutralisti, che per effetto della vittoria diede ai primi un vantaggio enorme che si collegò al nazionalismo derivante dalla raggiunta unità totale d’Italia. Un altro grande aspetto riconducibile alla guerra, combattuta da centinaia di migliaia di soldati affiancati nelle trincee, fu l’avere messo tanti italiani nelle condizioni di conoscersi, di dialogare e di capire le profonde differenze tra le popolazioni del Nord e del Sud e delle Isole. Sul piano internazionale, la sconfitta degli imperi di Germania e di Austria determinò un profondo risentimento perché il trattato di pace di Versailles fu particolarmente pesante; l’altra grande novità determinatasi durante il conflitto fu la riuscita Rivoluzione di Ottobre in Russia ottenuta dalla fazione bolscevica del partito socialista di quella nazione. 24
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La rivoluzione fu particolarmente cruenta e fortemente impressionò la fine riservata allo Zar e alla sua famiglia che fu sterminata. In tutte le case regnanti europee, inevitabilmente quell’evento lasciò il segno. In Italia, dove gli anarchici avevano già ucciso Umberto I e la fazione rivoluzionaria, ampiamente presente nel Partito Socialista, manifestava un crescente interesse per gli esiti della rivoluzione russa, la monarchia e il re, usciti fortissimi dalla vicenda bellica, non potevano non guardare con grande interesse ad una novità politica che intanto si stava affermando, il fascismo. Questo si presentava come un misto di reducismo, nazionalismo, antibolscevismo e antisocialismo, che però propugnava un coinvolgimento popolare attraverso concetti di socializzazione. Il fascismo di fatto non metteva in discussione la monarchia e neppure la struttura borghese della società e utilizzava anche la violenza per raggiungere i propri scopi. Di metodi violenti il fascismo ne usò tanti tra il 1919 e il 1922, sotto gli occhi praticamente indifferenti delle autorità preposte al mantenimento dell’ordine pubblico. È evidente che ciò poteva avvenire solo attraverso disposizioni provenienti dall’alto. Una manifestazione di forza, molto propagandistica, che secondo gli organizzatori avrebbe dovuto impressionare l’opinione pubblica, ma che in pratica aveva raccolto solo qualche migliaio di partecipanti, fu organizzata a Roma il 28 ottobre 1922, con il roboante nome di “Marcia su Roma”. Benito Mussolini ne era così poco convinto che raggiunse la Capitale in treno con molta calma, quando or25
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mai i partecipanti avevano esaurito lo scopo dell’iniziativa. Gli storici sono dell’opinione che se il re avesse dato l’ordine all’esercito di disperdere i manifestanti, l’impresa non sarebbe riuscita, invece il re non diede tale ordine, anzi, pochi giorni dopo convocò al Quirinale Mussolini per conferirgli l’incarico di formare il Governo. Iniziava così un sodalizio di reciproco interesse che consentì al fascismo di imporsi superando la grave crisi del 1924, quando sicari fascisti uccisero il deputato socialista Giacomo Matteotti che alla Camera aveva denunciato i brogli elettorali delle elezioni politiche tenutesi pochi giorni prima. Da quella crisi addirittura si uscì con la promulgazione delle leggi liberticide del 1925, quando si misero fuori legge i partiti e i sindacati, si istituì il tribunale speciale e si mandò in carcere o al confino tutti coloro che si esprimevano contro il fascismo.
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