Alber to Alberici
«La visione di lei non concedeva tregua. Un’onda di piena irrazionalità lo investì, anche se si trattava di una ricerca senza speranza. Pensava che l’impossibile poteva diventare vero solo a patto che quella voglia che aveva dentro fosse cacciata fuori e non inghiottita. Rimandarla, l’avrebbe fatta marcire nel fondo dello stomaco, mescolata a scoli di acidi, rendendola mai più utilizzabile.»
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CERALACCA
CERALACCA
Alberto Alberici nasce a Castel San Pietro Terme, in provincia di Bologna. Da oltre trent’anni lavora nel settore della moda tra Milano, Bologna e Firenze.
Alberto Alberici
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MINERVA
Lorenzo si muove per le vie della città. Guida seguendo una percezione che lo porta in un posto conosciuto, dove non andava da anni. Qui riaffiorano alla memoria volti, nomi, cognomi di una vita. Questa volta però l’intuito lo avverte che il giro è diverso. Quel viso che gli manca, quello della prima volta, lì, a quarantanove anni, all’improvviso diventa un vuoto da colmare, un’esigenza imprescindibile di sapere, di dare un nome. La storia di quel volto assente lo reclama, costringendolo in uno spazio pluridimensionale dove passato e presente si mescolano senza tregua. Lorenzo comincia così un viaggio senza ritorno tra i locali e i personaggi di una Bologna estiva, per trovare un indizio, qualcuno che ricordi. Una notte e un giorno dove il possibile e il sogno, la realtà e l’immaginazione fanno da sfondo alla ricerca spasmodica di un volto e del suo nome.
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Questo libro è dedicato all’associazione abc Arte Bologna Cultura e a Terry Zanetti
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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
CERALACCA Alberto Alberici
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Martina Mugavero Redazione: Sara Panzavolta © In copertina En e Xanax, fotografia di Gilda Delucchi. © 2017 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-926-4
Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com
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... do not fear mistakes, there are none. Miles Davis
Alle serre dei giardini Margherita, Barbara, con indosso una T-shirt Notsnob 59 “se ci credi si avvera”, rigirava tra le mani un bicchiere di vino bianco, fermo e secco, dei Colli bolognesi. «Mi raccomando secco, – aveva chiarito al giovane barman con la barba hipster – molto secco e freddo.» «Se continui a tenerlo, poi si scalda quel vino.» le disse Mirca, che aveva optato per un moscow mule con il ginger beer, rigorosamente senza cetriolo. Mirca, capelli corti, femminilità e un cappello di paglia. Erano arrivate con le biciclette, che avevano parcheggiato dove un tempo c’era la gabbia del leone. «Non che troveremo fresco – le aveva anticipato Mirca – ma il posto è comunque carino, frequentato un po’ da tutti, non è a senso unico e la musica
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è ascoltabile. Anzi, sul tardi diventa anche bella. – aveva aggiunto – In bicicletta, da casa, sono poi dieci minuti, ma neanche. Così ti faccio conoscere un posto nuovo di Bologna.» Sì, perché Barbara era di Milano. Città dove mesi prima si erano conosciute. Accompagnavano l’aperitivo con fiori di zucca fritti e patatine. «Gli avevo chiarito bene che lo volevo secco...» lamentò Barbara. «Senti, ti avevo avvertito. Secco, come lo intendi tu, dei Colli bolognesi non si trova, sono tutti lievemente fruttati. Ma ti piace almeno...?» «Buono è buono... solo non secco come volevo...» Alla stessa ora, poco più in là, un cliente abituale entrava in un bar di via Orfeo, ordinando al barista un bicchiere di vino rosso e lamentando un cerchio alla testa che lo tormentava dal mattino. Spostandosi di un centinaio di metri, fuori dalla rosticceria La Gallina Bolognese, un signore stempiato, con i capelli brizzolati, in ciabatte e una mezza età portata a fatica, si era intromesso in una discussione sulla musica e le discoteche, e provava a convincere due ragazzi sui vent’anni che le persone si dividevano rigorosamente in due categorie: «... insomma vi dico che il mondo è diviso in due tra chi è stato almeno una volta alla Baia degli Angeli e chi no. È tutto qui. Chi non c’è stato, come voi, non ha il diritto di parlare di discoteche, locali, musica e luci. Be’, non voglio essere categorico fino all’estremo, ne
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può anche parlare, ma se prima accetta il fatto di non aver conosciuto il meglio. Vi dico in definitiva che la Baia era un’epoca al suo massimo splendore, quello che precede la fine. I R R I P E T I B I L E. Tenetevi pure tutte quelle isolette come Ibiza e quell’altra la greca... Mykonos. Nulla di paragonabile.» A est, sul litorale romagnolo, due ragazzini biondissimi scendevano le scale di un hotel, dirigendosi verso la grande sala, allestita per la cena. Entrambi con lo sguardo basso e fisso sui cellulari. Alle loro spalle la nonna, telefono all’orecchio, discuteva animatamente con una delle tante sorelle, sulla lunghezza della spiaggia di Cervia, rispetto a quella di Cesenatico. Circa duemila chilometri a ovest, Laura usciva rinfrescata dalla doccia, avvolgendosi in vita un grande telo bianco e domandando all’amica se avesse visto, da qualche parte, la crema doposole. Aveva la pelle arrossata perché era stata tutto il tempo in spiaggia, godendo finalmente del sole, dopo due giorni di pioggia incessante, leggera e fitta, a volte rinforzata da raffiche di vento atlantico. Sempre nel bar di via Orfeo il barista, non avendo trovato l’Oki, non aveva faticato poi tanto a convincere l’abituale cliente a colmare di Sangiovese un altro bicchiere. Poco distante, in un appartamento della zona universitaria, Rino, il professore, dopo un intero giorno di lavoro al pc, salvava con un click il penultimo capitolo di una pubblicazione sociologica, che doveva essere data alle stampe entro pochi giorni.
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Allo scoccare delle 19.30, nella boutique Barrow in via San Felice, Francesco piegava e sistemava due maglie, Andrea aggiungeva un tocco artistico alla vetrina, mentre Simone, sotto il portico, fumava l’ennesima sigaretta in compagnia dell’ultimo cliente. All’aeroporto della città, Vince “Enzo” Costa guardava l’ora. Ancora trenta minuti prima di staccare dal turno, spegnere l’aspirapolvere, chiudere la tuta da lavoro nell’armadietto e filare via, dentro quella sala prove, a picchiare sulla batteria, insieme a quel nuovo gruppo, che non era male dopotutto. Più in alto, sui pendii, tra le ultime colline e le prime montagne, Gio e Alessandra se ne stavano abbracciati sopra un vecchio cigolante letto in ferro battuto di prima della guerra. Sulla spiaggia di sassi di Cogoleto, Anna finiva di bere il suo mojito, prima di mettersi in macchina e raggiungere la sua amica, in un posto tra Genova e Santa, che avrebbero poi deciso dopo sentendosi al telefono. Carola, l’amica di Anna, dopo aver chiuso degli scatoloni per tutto il giorno, con l’aiuto della madre, se ne stava seduta in terrazza, ad attendere la telefonata dell’amica e a pensare a come sarebbe stata la sua nuova vita, via da lì, insieme a quell’uomo dalla faccia da ragazzo e gli occhi blu.
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C’è sempre una differenza tra il pieno e il vuoto di un’intuizione del senso, tra un più e un meno nella pienezza della presenza intuitiva, in ciò che Husserl chiama il riempimento dell’intuizione. Jacques Derrida
Lorenzo guidava la macchina, senza tempo. Tra le mani l’intuizione di un’idea. Fuori, una semideserta Bologna provava a distrarlo con i colori di un torrido crepuscolo estivo. La Saab nera accelerò entrando nell’ombra di via degli Orti. Passò la sartoria Jezzi sotto il portico sulla sinistra e poi la libreria Ulisse, poco più avanti, sulla destra, per fermarsi al semaforo della piazzetta dove prima c’era un benzinaio. Al verde tagliò via Murri, sorpassando sulla destra la piscina Sterlino e gli anni passati alla paninoteca Franco & Beppe e alla discoteca 101. Spense il climatizzatore e abbassò entrambi i finestrini. Provò a cercare il profumo della città, che salendo lasciava i palazzi per il verde delle colline. Prese a destra. Fu in quel momento che l’idea divenne pensiero. Attraversò l’incrocio con via Siepelunga, continuando su via Santa Barbara. L’aria era solo di
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poco meno calda. Non gli era ancora ben chiaro il senso di quella cosa, ma si sentiva eccitato all’idea di rivedere quel posto. Dopo giorni passati a dilungarsi sulle cose, immerso nell’afa cittadina, con una stanchezza sopita e leggera addosso, ora un’accesa sensorialità verso il mondo intero lo aveva di colpo risvegliato. Seguiva questo sentire che aveva un che di corporale e che gli aveva permesso di trasformare l’idea in pensiero. L’auto cominciò decisamente a salire passando da via Santa Barbara a via Santa Margherita al Colle. Posti conosciuti un tempo lo guardavano passare. Cercava di fare meno rumore possibile, proseguiva con il motore al minimo tra ville chiuse per ferie. Quella strada era un rimando continuo a giorni lontani, nel mentre il presente cresceva in futuro semplice. Nonostante fossero passati decenni dall’ultima volta, poteva guidare a occhi chiusi sicuro di non sbagliare. Come era certo delle facce e dei cognomi di quei ragazzi con cui a volte, nei pomeriggi dopo le medie, saliva la stessa strada di ora per andare a trovare una compagna di classe. Le facce le aveva presente, le conosceva. Ricordava anche quelle viste per caso, magari una volta sola. Le storie seguivano di conseguenza. La mente lo ingarbugliava solo con i nomi, sovente dimenticati. A soccorrerlo allora era il ricordo dell’iniziale del nome. Legando l’iniziale alla faccia l’amnesia poteva sparire. Si chiamava Donati uno di quei ragazzi che saliva con lui. Giocava a baseball. Una faccia senza nome e senza iniziale. La curva sulla destra, via del
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Pagnone e la strada che si stringeva lo avvertivano dell’imminente arrivo. Il primo scollinamento, il muretto in cemento sulla destra. Il posto era quello. L’ultima volta era stato lì dentro una macchina azzurra con un amico e un’amica. Cristina. Lei gli teneva la mano nonostante fosse seduta davanti e lui dietro. Davide guidava e arrivò in quel posto. Guardarono in silenzio le luci della città, senza dirsi nulla. Venivano su da un ritrovo a casa di gente. Lei per tutta la sera con uno stuolo di ragazzi intorno a tampinarla. Qualche amica a deviare il tiro. Lui e il suo amico tra sigarette e birre. Un consumato Risiko aperto sopra uno di quei lunghi tavoli da taverna. Da una parte carte da ramino. Il tentativo naufragato di un poker da pochi soldi. Qualcuno su di un divanetto verde rullava in continuazione, altri vicino a uno stereo azzardavano quattro salti fermi sul posto. Prima new wave, neppure un funky. Difficile da digerire. Poi quei tre dentro la macchina, fermi su quella collina. La notte c’era tutta, come la città in fondo allo sguardo. Stettero lì. Prima con la musica piano in sottofondo, poi fuori dalla macchina nel silenzio. Poi se ne andarono, dopo la cenere buttata, dopo il primo brivido di lei. Intanto adesso lui era quasi arrivato. Un ultimo rimando di chimica cerebrale indotto dal senso lo ripiombarono a un tempo anteriore alla macchina azzurra. Alla compagna di classe Maddalena, alla sua faccia, al nome e al cognome e alla sua grande casa, in cima a quella collina con dentro le prime feste, intorno a un tavolo
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da biliardo. Si faceva chiamare con un soprannome, un nomignolo: Pulce. Cinque ragazzi un pomeriggio lo scrissero con il gesso sull’asfalto, nello stesso posto della macchina azzurra. Una lettera scritta da ciascuno. Cinque ragazzi. Li ricordava tutti. Erano sicuri che lei la mattina, scendendo per arrivare a scuola, l’avrebbe vista. Troppo grande per passare inosservata. Allora loro avrebbero giocato con lei su chi c’era e chi era stato, lei avrebbe sorriso, loro sognato. Sull’ultimo strappo, prima di un leggero piano, in quel preciso istante, l’intuizione dell’idea si concretizzò sotto forma di un cerchio mai chiuso e che quando si sanno le cose e si desiderano e ci sono le parole adatte e i tempi giusti, le cose e tutte le parole vanno fatte e dette o scritte. O forse semplicemente si stava avvicinando troppo a un passato suo e quindi il pensiero diventava malinconico. Perché non esisteva nessun cerchio da chiudere. Non era una storia che ricordava, questa del cerchio, anche se sapeva bene chi gli aveva parlato dei cerchi che nella vita bisogna chiudere, ma non era nel suo sentire quello di dover chiudere cerchi. La macchina si fermò, come quella azzurra, puntando i fari nel vuoto. Scese solo dopo qualche minuto. Poi, appoggiandosi alla portiera chiusa dell’auto, guardò la città e le luci appena accese dei lampioni e dei palazzi. Sentì che c’erano delle parole non dette nella città, e anche dei gesti non fatti. Gli parve di rivedere le facce di chi conosceva e le iniziali e i nomi e cognomi di quelle facce e i cuori di ogni singola faccia battere e
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pulsare, vibrando quasi, e allineandosi all’unisono in un battito unico che comprendeva il suo. Un ritmo cadenzato di cuori amplificati. L’idea diventò pensiero, tangibile e gli ricordò l’unica faccia che non conosceva: la faccia della prima volta. Prese questo grembo di pensiero per spostarlo, per divincolarsene, perché nella sera, trasformata dal buio che scendeva, non voleva rimanerne prigioniero. Ma sapeva bene che quella storia, vera o inventata che fosse, era un cerchio da chiudere, per poter sistemare in modo migliore quelle poche cose che aveva addosso. La mente presto ne fu coinvolta. Stava cercando, come dentro un sogno, di dare, se non un nome, almeno un volto a quella ragazza. Facce, storie e cognomi ben presenti tranne che per quella prima volta, che forse veramente era stata solo un sogno lisergico e che non era andata come raccontavano in compagnia. A questo punto, pensava che quella fantasia collettiva, o verità che fosse, non poteva interessarlo se non come curiosità. Nulla sarebbe comunque cambiato. Ma quel volto lui non se lo ricordava. La storia balenava solo come somma di racconto di altri. Una leggenda. Certo che se fosse andata in quel modo, come un tempo si diceva in giro, da qualche parte della mente qualcosa doveva esserci. In un pezzo di inconscio quel fatto accaduto doveva stare. O semplicemente aveva perso qualcosa. Come era già capitato in altri punti della vita, aveva lasciato andare via cose o persone, perché nel momento di avere tra le mani un significato,
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provava una voglia irresistibile di trovarne un altro. Una pervasiva idea che fermandosi quell’altro sarebbe sfumato. Non avere il volto di quella ragazza, a cui legare una storia, vera o falsa che fosse, era non avere la storia stessa. Cercò di perdere il pensiero di lei, di lasciarlo libero. Alle sue spalle fari passarono incuranti, decisi a scendere in città, mentre la notte lo aveva ovattato di sentimentalismo e lui voleva evitare di starci dentro, a questa sorta di pianto posticipato non liberatorio. Ma c’era oramai dentro, come mai prima, a quella storia del volto. La domanda di lei saliva dai campi scuri delle colline mescolandosi alle luci della città. Tutte accese, con le più lontane che si dilatavano avvicinandosi tra loro, come osservate da uno sguardo miope, dando forma a un’unica vasta zona luminosa. Sapeva bene che buona parte della gente che aveva conosciuto era laggiù, con le singole vicende, con i destini spesso intrecciati. Pensò che, con uno sguardo appena, poteva racchiudere l’intera città e migliaia di persone e inizi e finali di incontri e discorsi e dentro quel cosmo, forse, c’era anche lei. Magari ai piedi della collina stessa, o giù in pianura. Era sera. Calpestava scalza il pavimento della camera, di un minuscolo appartamento sopra un portico antico. Il rumore dei fari svanì. Pensò che quella ragazza era probabilmente un vecchio, malconcio, semplice sogno. Dalla tasca dei jeans prese le sigarette e l’accendino. Aspirò osservando la città definirsi fino ai limiti scuri di luci sparse nel vuoto. La vide assumere una forma geometrica, con una de-
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finizione esatta data dal gioco di luce e ombra. Seguì con l’indice della mano i confini esterni della città. La città era sempre stata piena di confini, pensò. Quegli stessi confini che in gioventù esistevano per essere scavalcati con la forza dell’improvvisazione e con la tecnica appresa di striscio, con una necessità corporale e metafisica dell’oltre, dovunque si trovasse. Nessuna quiete in gioventù, se non chimica. Solo una semplice, pulita e onesta logica dell’azione che era riuscita a spazzare via ogni sorta di timidezza infantile. Ci fu poi il tempo della riservatezza. Ora quello dei confini come solide mura, dietro le quali mettersi all’ombra. Certo, uno scoppio fu l’età adulta. Allora disse tra sé e sé che quella ragazza, che cercare il suo viso, che trovarla, era un atto di gioventù che andava fatto, per spezzare le trattative, per togliersi il casco e di nuovo dare gas. Se lei era veramente là sotto, probabilmente ricordava ogni cosa. La sua vita era cambiata da quella sera. E lei ne ricordava anche l’odore. Ma perché poi tacere, non manifestarsi? Forse lui la conosceva bene, lei c’era sempre stata. Spense la sigaretta. Pensò che doveva lasciarla dov’era. Questa convinzione giunse con la città pronta alla notte, con le prime luci abbassate. Lei doveva vivere solo nel liquido della mente, un posto sicuro. Tralasciò per un attimo il pensiero del vero o falso. Gli era sufficiente continuare a tenere l’idea di lei, potendo colorarla di qualunque sensazione. La fantasia poteva lavorare sull’illusione. Poteva immaginarsela, quella sera e quella festa. Tutto
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era andato bene, il momento era esatto, la musica perfetta, il suo essere pronto e lei bellissima. La più bella della sera, la più desiderata e lui, in quell’inverno del 1980, era arrivato lì per lei. Lei lo sapeva che sarebbe arrivato e lo stava aspettando. Capì che non cercando nulla e pensando in quel modo, la cosa poteva continuare per sempre. Ogni giorno poteva vestirla di colori diversi e sfamarla e chiamarla con tutti i nomi, così da non dimenticarlo, il suo nome, e poteva finalmente guardarla andare via, sapendo che sarebbe sempre tornata. Se nella realtà lei non era, invece, in un piccolo posto della sua anima c’era, quasi tangibile, gli bastava abbassare lo sguardo, socchiudere gli occhi, per sentirla. Pensò che la vita non era altro che il resto dato tra chi non tornava e chi arrivava. Lei non aveva avuto importanza per decine di anni. Era un’apparenza, un volto, una ragazza venuta dal caso, ma certo un caso contagioso che forse aveva sfiorato la sua vita. Lorenzo rimase fermo, con la sua ragazza senza volto divenuta oramai un pensiero fisso e ingombrante, la sua città senza sole, la macchina, probabilmente lei appoggiata a lui, tra la strada e il vuoto. Fermo, nel tentativo mal riuscito di sedurre la notte, in un’attesa silenziosa, senza sigarette, di un paesaggio di un nero tattile, poco udibile. L’intuito, seguito, di trovare quella ragazza, avvertito nel cambio dei cieli tra la luce del pomeriggio e il buio della sera, si era trasformato per la prima volta in bisogno. Usciva luce dalle stanze dei palazzi, che si aprivano alla ricerca
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di brezza notturna. La visione di lei non concedeva tregua. Un’onda di piena irrazionalità lo investì, anche se si trattava di una ricerca senza speranza. Pensava che l’impossibile poteva diventare vero solo a patto che quella voglia che aveva dentro fosse cacciata fuori e non inghiottita. Rimandarla l’avrebbe fatta marcire nel fondo dello stomaco, mescolata a scoli di acidi, rendendola mai più utilizzabile. Certo com’era che lei coincidesse con il suo ideale femminile, capelli biondo cenere, occhi castani, dita affusolate e quell’odore familiare, provò, come mai prima, ad andare in profondità al ricordo di quella festa. Ma aveva mente e occhi bui, nell’indifferenza della notte, sotto il peso di un universo che non lo guardava neppure. Evitando frammenti di storie, attigue all’epoca, cercava di scovare un particolare che lo potesse aiutare nel cominciare a costruire una visione. Per rimanere, però, sempre con il suo vuoto tra le mani. Capì che non era con il ricordo sezionato delle azioni di quel tempo che poteva venire alla luce il vuoto. Doveva, per dove possibile, rintracciare l’emozione epidermica, poi mentale, e chiedere, a chi c’era ancora, se era tutto vero e come erano andate le cose e se la conoscevano, se l’avevano vista, se, almeno loro, ricordavano qualcosa. Aveva sempre continuato, consapevole di avere un vuoto addosso. Una mancanza. La avvertiva ogni tanto, ma non era una sensazione insopportabile e tantissime altre cose avevano riempito quel vuoto, perfino dei figli. Era, certo, stato un vuoto lisergico, di un lisergico tagliato
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in due. Della faccia di Paperino sezionata in due e del mondo dopo, fino alla ricomparsa del mondo prima e, tra i due mondi, un vuoto con in mezzo lei. Restò a guardare senza quel volto, pensando che nessuna verità poteva andare oltre la parola detta e la parola era una voce, un suono pronunciato per dire al mondo qualcosa. E lui era lì, con la voglia di gridarlo, il nome di lei. Dirlo alla notte, dove quel grido si sarebbe perso inascoltato. Mancava lei e gli sembrava mancasse tutto. Certo, pensava che poteva rimanere ancora su quella collina, vivere e fare i conti con le proprie miserie e cercare di capirle e, riuscendo, anche amarle, senza intercessioni di angeli, di demoni o di dèi. Infilò le mani nelle tasche dei jeans, sapendo bene che le sigarette erano finite. Guardò l’abitacolo con la stessa scarsa convinzione. Poi, voltandosi, fissò la linea scura della collina che saliva alle sue spalle per proseguire fino in fondo all’ultima curva, verso destra, illuminata dalla luce gialla di un lampione, di quelli in cemento che si trovano ancora lungo le vie di campagna. Rivolse nuovamente lo sguardo alla città, sedendosi sulla parte sinistra del cofano. Una scarpa appoggiata sopra la ruota. Involontariamente manteneva latente una sorta di stato di eccitazione. L’immobilità faceva da contraltare a un’ebbrezza permanente sottocutanea, che stimolava la mente a passare da un ricordo a un altro. La notte funzionava da grande e avvolgente filtro. Un vetro oscurato dietro cui passavano continue visioni. Rimaneva, tuttavia, distante dalla di-
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mensione del riflettere, se non per la convinzione che la pochezza fosse l’unità di misura di intere esistenze. Provò disgusto per le proprie pochezze. Per quella dell’autoritarismo e della tolleranza, per la pochezza della verità e del sacro e per quella profonda, invasiva, attonita della bocca del padre, spalancata nella morte, da cui era fuoriuscita un’intera vita. Non si ricordava la voce del padre morto due anni prima. Questo non voleva permetterlo. A pensarci bene, si rese conto di aver perso un sacco di roba importante, il padre e la sua voce, quella ragazza e il suo volto. Sapeva che i ricordi rinvenuti si erano mescolati con sensazioni dolorose e che il pensiero della morte era giunto scortato da quello del padre, che quel momento di dolore poteva terminare solo richiamandolo a lui. E così fece. Immagini di vita, posti, luoghi, stagioni, casa, sempre ognuno nei propri ruoli definiti. Non tante parole, le solite. Le sue. Mai conosciuto abbastanza, non compreso abbastanza. Visioni differenti. Forse verso la fine, ma non lo sapeva ancora. Non si aspettava neppure la fine. Aveva pensato di avere ancora tempo per domandare, per farsi raccontare, per, con la cautela di una troppo assurda riservatezza, parlare. Aveva scoperto tardissimo, che sapeva disegnare. Non gli aveva mai fatto un disegno. Eppure ci fu una ragazza un tempo, una ragazza dai capelli lunghi che, vedendoli insieme un giorno, gli disse che suo padre gli voleva bene, che dal suo sguardo il bene veniva fuori forte, limpido, ma sempre nei limiti dei ruoli. Calcestruzzo da abbattere. Come risultava allora vorticosa e rapida
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e senza seconde chance la vita intera. Presa a pezzi era un passaggio continuo nel riguardare, nel cercare dentro tutte le pagine, con la convinzione errata che ancora si potesse fare qualcosa. Aggiustare sembrava pur sempre una possibilità, ma non era tale, era solo vana. Negli ultimi tempi era andato lui a parlare e per salutarlo picchiettava con il dito la lastra di marmo. Che cosa era questo esercizio di necessità, come di parte genetica simile che ancora, oltre il sentimento, sente che il distacco non è avvenuto. Non era solo rigore, sangue, prassi comandata, era ancora stupore. Stupore. E allora la voce diventava fondamentale. Doveva ricordarla, sentirla o staccarsi per sempre. Abbassò la testa lievemente e sentì il pianto salire come lo può sentire una persona che non aveva mai pianto e che, quindi, è incapace di guidarlo e di lasciarsi guidare. Non furono lacrime. Non scesero, non caddero. Si unirono creando un liquido denso dentro lo sguardo e fu così che non vide più le luci nella città e neppure la notte. Non vide nulla per un tempo indefinito, fino a un sospiro d’aria profondo. Poi solo silenzio e un brivido che lo trapassò, scivolando via sotto la terra. Cullato dall’anarchia del silenzio, aveva preso coscienza che quella notte non aveva pietà neppure per un cuore malconcio come il suo. In quello spazio di tempo senza sole le differenze tra fatti e azioni cominciavano a pesare, mentre le parole del futuro erano ancora immerse nell’immaginazione. In quella città davanti a lui gli venne in mente che molte vie erano intitolate a morti, che le persone cammina-
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no tra lapidi. E allora cosa poteva rimanere tra questo momento e l’alba? Cosa poteva salvare e tenere stretto al caldo? Il telefono vibrò. Lo guardò indeciso. «Pronto» disse. «Allora ci sei ancora» una voce di donna dall’altra parte. «Certo che ci sono, Laura, dove dovrei essere? – continuò – Tu piuttosto, è passato qualche mese... un anno... come stai?» «Lorenzo, non ti sto disturbando spero.» «Figurati.» «Sei stato gentile a rispondere a quest’ora. Sai, quelli di una certa età vanno a letto presto, ma poi ho pensato che è estate e forse eri ancora in piedi...» «Occhi verdi, miss simpatia, ti piace ricordarmi che ci separano vent’anni, ma non mi tocca.» «È per questo che te lo ricordo. Non ti tocca, ma la cosa rimane lì, nella tua testa, e so che non vedi l’ora di dimostrarmi il contrario. Un tempo era così...» «Sei a Milano o in vacanza da qualche parte?» le chiese. «Lorenzo ti ricordi che da me c’è quel pannello con le foto dei posti dove sono stata e accanto una carta geografica del mondo, con gli spilli con la capocchia colorata piantati in ogni posto che ho visto... la Galizia – continuò – quando tornerò avrà il suo spillo.» «La Galizia... ci sono stato...» «Lo so! Me ne parlasti tu. Mi piacque come ne parlasti.»
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«Ma che ore sono... c’è ancora la luce da te?» «È sera da poco. – rispose lei e continuò – Come da noi quando a maggio e giugno la luce cresce e sembra non arrestarsi mai. Poi già verso la metà di luglio ti accorgi che le sere arrivano prima. Sai, allora avevi ragione tu che si può andare a ovest, in Francia, in Spagna, in Portogallo, verso l’oceano, per provare a recuperare quell’ora di luce, quella dopo le ventuno, che diventa un’ora regalata. Quando la mattina in vacanza si dorme, quella luce che persiste oltre le dieci di sera è veramente un regalo di vita, è come se fosse sempre l’inizio dell’estate, un giugno che non muore, un autunno che tarda.» «Laura la romantica è una Laura che non ha cenato ed è al secondo giro di aperitivo» disse Lorenzo. «Non si cena questa sera, Lorenzo. Si continua così, in questo chiringuito sulla spiaggia di non so quale ria baix, dove continuano a portarci cozze e padellate di peperoncini verdi fritti piccanti e vino bianco freddo, con l’oceano che si fa sentire in questa terra che finisce, con l’America che è dall’altra parte, ma non troppo lontano e...» «E... cosa?» disse lui. «Dove sei tu, Lorenzo? Come stai?» «Sono a Bologna, Laura» rispose. «A Bologna in casa? – proseguì lei – Non sento rumori, sei con i bambini?» «Sono a Bologna in cima a una collina, sono quasi le undici e guardo giù.»
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«Da solo!» disse lei. «Esatto, – rispose Lorenzo – da solo. Tu guardi il mare, io la città.» «Stai bene però... è tutto ok... vero? – gli domandò lei – I bambini?» «Sto benissimo, Laura, e anche i bambini, sono ragazzi oramai. Avevo voglia di questo posto e di guardare giù. Di rimanere qui per un po’– continuò – Con chi sei in vacanza, Laura?» «Con un’amica che non conosci e negli ultimi giorni anche con una coppia che abbiamo incontrato a Luarca e che fa il nostro tragitto. – proseguì – Cosa cerchi lassù, Lorenzo?» «Una faccia... il ricordo di un volto.» «Sembra una cosa grossa, per come l’hai detta...» «Adesso lo è... Siete in aereo o in auto, Laura?» «Cerchi di sviare il discorso ragazzo... siamo in auto. Partite da Milano. Il viaggio è lungo, ma avevamo tre settimane e con qualche tappa, siamo arrivate in Galizia. Abbiamo fatto anche un pezzo del cammino per Compostela. Mi piace quello che vedo.» «Siete state a Biarritz?» «Sì, ci siamo fermate per una notte e abbiamo cenato in quel posto dove sei stato anche tu da Chez Albert, sul porto vecchio. Mangiato benissimo.» «È ancora come me la ricordo Biarritz?» «Sì, occhi blu... Esattamente tale e quale a come me ne avevi parlato. Bel posto, pulito, tenuto bene. Bella gente. Un posto anche da starci.» «Piove spesso, però...» disse Lorenzo.
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«Senti, – continuò – è da quando ci sono stata che volevo chiamarti per dirti una cosa... ascolta: stavo andando a prendere l’aperitivo in quel locale sulla scogliera dove c’è la spiaggia del centro, quella piccola... te lo ricordi?» «Sì, ma non mi viene il nome adesso...» «Fa lo stesso, non lo ricordo neppure io... insomma, camminavo sul marciapiede intorno a un piccolo parcheggio, quando ho visto una ragazza seduta nel posto di guida di un vecchio furgone. Il furgone era aperto e dentro c’erano dei surf. La ragazza si stava passando il rossetto sulle labbra guardandosi nello specchietto retrovisore. Aveva ancora i capelli bagnati. Mi sono avvicinata per osservare meglio, ma cercando di non farmi vedere. Non che a lei sarebbe importato. Si era appena tolta la muta lasciandola accanto sul sedile... mi senti...? Mi stai ascoltando?» «Sì, ti sento...» «Si vestiva, si stava tirando di tutto punto per uscire, per l’aperitivo, per la serata. Così, dentro a un furgone, con il mare ancora nei capelli. Ho pensato che quella ragazza era la mia immagine di spirito libero... sono rimasta folgorata... i francesi lo chiamano...» «Esprit libre...» la interruppe Lorenzo. «Esatto, così. – continuò lei – Penso di non averlo mai avuto, almeno non in quel modo. Mi sei venuto in mente, subito dopo aver visto quella ragazza, perché da quando l’ho vista mi sto chiedendo se per caso non era un’altra la vita che dovevo vivere...»
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«Laura...» «Ti ho chiamato, Lorenzo, devi essere sincero. Te lo chiedo per piacere. Mi conosci. È quella che mi hai visto fare la vita che fa per me, o dovevo cercarne un’altra...» «È quella che fai, Laura.» «Ne sei sicuro?» «Ne sono certo, Laura. Il tuo lavoro, dove sei sempre più brava, dove cresci professionalmente e andrai a guadagnare bene, una famiglia, dei figli. È la vita che sai fare meglio, che desideri...» «Vedi, Lorenzo, dici che so fare meglio. Io vorrei sapere se è la mia... dimmelo.» «Non lo so, Laura... come faccio a dirlo... a sensazione è la tua...» «... Ti ho messo con le spalle al muro, scusami, non volevo essere aggressiva. Mi fido di quello che mi hai detto, della tua sensazione. Grazie, Lorenzo, ti lascio alla tua collina. Chiamami a settembre...» «Laura...» «Sì...» «Stai fumando...?» «Sì... perché...?» «Niente occhi verdi... stai bene mi raccomando...» «Anche tu, Lorenzo...» Dopo la telefonata Lorenzo pensò che Laura era un’immagine da tenere al caldo, insieme alla macchina con la capote abbassata che li stava portando lungo quell’autostrada scura, con il mare sempre sulla
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sinistra dalla partenza, anch’esso nero, dello stesso colore dei suoi capelli, mossi dal vento caldo. Lei addormentata con il viso reclinato sullo schienale, la mano sinistra a peso morto sul bracciolo. Fuori, dalle lenzuola rosa di quella casa a picco sul mare, l’inverno esisteva solo nei campi. Il corpo diafano di lei lo circondava rendendolo muto, stordito da sensi che andavano oltre il tatto. Questo lo poteva salvare prima dell’arrivo della luce. E anche tutti quei frammenti di vetro, lasciati in giro, rotti nei giochi dell’amore. Ma sopra ogni cosa voleva salvare tutte le anime fragili che aveva incontrato. A pensarci, non poteva credere quante fossero. Anime lievi e semplici, di una genuinità da togliere il fiato. Come Guido, fragile da spararsi a quindici anni per amore, con un colpo alla tempia, con la pistola del padre. Anime talmente fragili e lievi da morire per gioco, lungo una striscia d’asfalto, con la Vespa contro un camioncino. Da buttarsi in mare dall’alto di una grotta dentro la scogliera, da cadere in mare cariche di vita e non riemergere più. Voleva salvare a tutti i costi il ricordo di Silvia, la più fragile, dentro i cui occhi blu si perse tanti anni prima. Silvia, con quei capelli neri e gli occhi scintillanti che si vedevano di notte, quegli occhi disperati di un meccanismo frantumato. Occhi in cerca di aiuto, del bisogno di ritrovarsi davanti allo specchio. Silvia, con gli occhi tossici di chi si sforzava a parlare d’amore, ma solo capaci di vagare, avvolti dal tentativo del nulla, sorretti a malapena da un corpo magro, con mani strette,
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tremanti, con dentro sempre pochi spiccioli. Silvia, che quando lui incontrò, gli disse che aveva i capelli troppo lunghi per un ragazzo, ma di un bel colore. Silvia, che gli chiese di restare quella sera e quella dopo ancora e anche quando le cose si sarebbero aggiustate. Amore arrotolato su se stesso, senza via di scampo. A quel tempo lei ascoltava Lou Reed e portava spesso un cappello nero, di foggia maschile, che abbinava a un trucco leggerissimo, impercettibile. Per lei che amava i non colori, meglio se mischiati tra loro, quello era l’unico vezzo femminile. Dove gli altri percepivano solo sfumature di grigio, lei vedeva una realtà colorata. Era uno dei suoi modi di uscire da un’esistenza amara. In lei si mischiavano razionalità e pazzia, spesso lasciandola a terra. Viveva come se affrontasse nemici invisibili che la potevano colpire all’improvviso. Era decisa a combatterli, fregandosene di come sarebbe finita. Sarebbe andata avanti con le sue belle scarpe maschili, incapace di trovare il limite tra il dannoso e la vita. Negli ultimi tempi non riusciva a fissare negli occhi le persone, sviava lo sguardo, non per paura di un giudizio, ma per il timore che quello che vedeva fuori differisse dal dentro. Avvertiva troppe e tante verità e non ne seguiva nessuna. Alla fine si era resa conto di aver gettato quegli ultimi anni e che non riusciva a farsi capire dalla gente, come avesse un modo solo suo di concepire le cose. Un giorno gli disse che era sicura di essersi giocata la vita e che l’impegno, anche a oltranza, poteva non bastare. Quel provare
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ogni volta. Era possibile cedere e lei cedette. Una sera, dentro una camera con una finestra stretta, urlò al muro che provava gusto a farsi del male, che voleva che ogni cosa esistesse e che la voleva subito, che aspettava la luna per farla finita. Aveva occhi furenti, poi fatti, finiti. Scendeva la sera quando lei si sedette con le spalle contro la parete bianca. Lui aveva i suoi capelli tra le mani, lei si calmò. Ma fu un attimo. Poi arrivò un’amica e poi un’altra e infine delle persone che la portarono via. Lei continuò a nuotare sott’acqua, a non parlare per non bere, ma a rimanere sotto. Ora lui avrebbe voluto staccarsi da se stesso e lasciarsi lì, fino all’arrivo della luce, se mai fosse arrivata. Sentì il desiderio del mare, di mollare ogni pensiero, tutta quella strana notte e mettersi in macchina e guidare fino al mare, di vedere l’alba dalla spiaggia. Come anni prima, quando dopo giorni di continua pioggia, decise di andarlo a scovare, il sole, e allora prese la macchina, dovendo poi guidare fin dopo Nizza, dove all’improvviso sbucò da una nuvola, appena in tempo per il tramonto. Davanti a lui la città si stava spegnendo, finestra dopo finestra, mantenendo luminoso solo lo spazio pubblico, le luci rosse dei palazzi più alti. Una sigaretta mancava come l’aria. L’umidità era salita dai campi, allacciò la giacca di cotone blu Corneliani. Guardò l’ora sul display del cellulare. Venti minuti a mezzanotte. Decise di chiamare il suo amico Rino. Il Professore. Trovò il contatto sul cellulare, lo sfiorò. Uno squillo, un altro e poi al quinto un pronto e una voce degna
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di una notte non ancora finita, di un mattino che non ci sarà. «Sei al Miky e Max?» domandò. «Esatto! Nel mezzo esatto... vieni qui?» «Se mi aspetti, Rino, arrivo... chiude?» «Non ancora, non se c’è qualcuno... dai, arriva.»
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