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Orfeo Bianco

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Paola e Lucio

Paola e Lucio

ORFEO BIANCO

Orfeo scende all’inferno: la fabbrica o la banca, Orfeo cerca l’estate sulla tua pelle bianca. La tredicesima ora, l’ora della libertà non c’è orologio ancora che la suonerà… Orfeo non ti voltare, non avere pietà se ti fermi hai già perduto, un amico ti tradirà. La tredicesima ora, l’ora della libertà non c’è orologio ancora che la suonerà… Orfeo scorda il tuo nome e guardati allo specchio fuori la gente canta, dentro il tuo cuore è vecchio. La tredicesima ora, l’ora della libertà non c’è orologio ancora che la suonerà…

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Nei negozi di dischi giace da qualche giorno il nuovo singolo di Lucio Dalla Per fare un uomo basta una ragazza, quando gli si presenta la trentenne illustratrice romana aspirante paroliera, da poco sentita al telefono.

A Paola Pallottino il contatto con il promettente, ma ancora inconcludente, cantante bolognese, l’aveva dato l’amico Umberto Santucci, fotografo e critico jazz, ex allievo di suo padre e marito della cantante Gianfranca

Montedoro (che avrà poi modo di collaborare con Paola qualche anno dopo).

L’incontro tra i due, nella casa atelier di piazza Cavour dove Lucio viveva con la madre Iole, si presenta subito molto cordiale e Dalla non si dimostra affatto perplesso che per la prima volta una donna provasse a entrare nel suo mondo musicale.

Oltretutto proponendogli di primo acchito degli insoliti testi e mettendosi di fatto in concorrenza con la sua già collaudata coppia di autori: l’amico di una vita Gianfranco Baldazzi e il direttore artistico della etichetta Arc (costola della Rca), Sergio Bardotti.

«Paola Pallottino non aveva mai fatto questo lavoro – ebbe poi a raccontare –, quindi viveva una situazione simile alla mia. Cioè non aveva esperienza. Era la classica ex bambina prodigio, figlia di un grande etruscologo, madre precoce, piena di istinti creativi e narrativi. Mi portava dei testi che all’inizio erano irrealizzabili, però a forza di guardarli e di leggerli fungevano da provocazione».

Nel suo atelier la vedova Dalla era la regina assoluta, anche se, come diceva Lucio, non sapeva cucire nemmeno un bottone.

Un posto sempre frequentato da signore della Bologna bene che andavano a provare le nuove creazioni, tutte realizzate però dalle sue lavoranti.

Un viavai che intrigava moltissimo Lucio e i suoi amici, da Baldazzi ai fratelli Stefano e Giorgio Bonaga e a quel Paolo Bonetti a cui Lucio nel ’68 aveva dedicato il brano scat Cos’è Bonetti?. Per poi evocarlo, nove anni

dopo, insieme a zonzo nella Berlino del muro in Disperato erotico stomp.

La casa di piazza Cavour era il luogo dove, fin da ragazzini, Lucio e i suoi amici si rintanavano ad ascoltare dischi, a sognare a occhi aperti e a sbirciare le signore e signorine in lingerie.

«Cominciai gioco forza a frequentare la madre di Lucio. – racconta Paola – Era una donna certamente molto creativa, ma anche un po’ invadente. E soprattutto molto possessiva nei confronti di quel figlio che considerava prodigioso e che era il suo fine ultimo.»

Passano i mesi e, sul finire del ’69, Paola comincia ad andare sempre più assiduamente a casa Dalla. Lucio aveva il vezzo di sparire ogni tanto, abbandonando gli ospiti. Soffriva d’insonnia e di notte spesso stava sveglio per ore, così durante il giorno sentiva l’insopprimibile bisogno di andarsi a coricare.

«Si doveva sottostare ai capricci di Lucio, – ricorda Paola – quando si assentava capitava che tornasse a farsi vivo dopo ore. Io, più di una volta, a un certo punto me ne andavo scocciata. Ricordo che ogni tanto la signora Iole per intrattenerci veniva a portarci dei dolcetti ghiacciati al cioccolato che preparava lei stessa.»

Paola non aveva ancora piena contezza di cosa significasse fare la paroliera. Vantava però un naturale e spiccato senso della metrica che le permetteva di parlare tranquillamente in endecasillabi o in martelliano.

Testi metaforici, i suoi. Visivamente potenti, evocativi, talvolta ermetici o sfumati. Testi spesso abbaglianti e

suggestivi come se fossero folgoranti illustrazioni, il suo innato terreno artistico.

Testi poetici, memori anche degli apprezzamenti di Aldo Palazzeschi, l’illustre letterato e poeta vicino di casa dei Pallottino in quel grande palazzo romano che il marchese Giuliano Capranica del Grillo aveva regalato alla moglie – l’attrice drammatica Adelaide Ristori – che vi aveva abitato fino al 1906, anno della sua morte.

Un giorno Paola lascia davanti alla porta di Palazzeschi un rotolino di carta pieno di poesie e, il 18 aprile del 1955, prima di una sua temporanea assenza, lui manda alla sedicenne aspirante poetessa una toccante lettera.

«Gentile Signorina, Le lascio un saluto in fretta e furia prima di partire, giacché il mio inverno romano, di solito abbastanza tranquillo, è stato quest’anno particolarmente laborioso da non lasciarmi un’ora di riposo. Le sue poesie mi hanno fatto buona compagnia, e con un certo stupore data la sua età. Sono una testimonianza così precoce, dalla quale io deduco senz’altro che lei è un’artista. Di questo sono sicuro, anche se, come mi accennò un giorno, i suoi studi la portano su un altro piano. Alla base di ogni arte è la poesia, e da qualunque parte Ella possa in avvenire dirigersi, la poesia sarà ad animare ogni sua attività, non escluso il fatto di divenire una vera e propria poetessa. Non ho bisogno di incoraggiarla a lavorare e a pensare giacché capisco troppo bene che ogni sua aspirazione è rivolta in questo senso, e ogni suo pensiero. La vita degli artisti è dura, travagliatissima, ma è una fatalità alla quale non si sfugge, se questo è il suo destino nulla varrà a farle cambiare strada; fra tanti affanni che l’artista incontra sulla sua via ci sono dei momenti capaci di far-

glieli dimenticare, momenti che possono provare soltanto i Santi e gli eroi. Arrivederci questo autunno, allorquando, magari durante la salita dell’ascensore, mi parlerà del suo lavoro. Voglia presentare i miei devoti saluti al Papà e gradire un pensiero affettuoso da parte del suo vecchio amico. Aldo Palazzeschi.»

Sul finire degli anni Sessanta, Lucio stava vivendo uno dei periodi più bui della sua vita e della sua carriera artistica. La Arc, diretta da Sergio Bardotti, che aveva il compito di lanciare nuove “frecce” nel panorama della canzone italiana e di cui Lucio era una delle promesse, era ormai agli sgoccioli. E alla fine del ’69, con una ventina di ultime uscite, chiude i battenti.

In quel periodo, Lucio vivacchia, con la pubblicazione di alcuni 45 giri in cui a emergere sono soprattutto le sue straordinarie doti vocali, che raccolgono l’apprezzamento più che altro degli addetti ai lavori e della critica. Su tutti Renzo Arbore, con Gianni Boncompagni in radio alla conduzione di Bandiera gialla e di Per voi giovani.

A Lucio il grande pubblico continua invece a girare le spalle. Il beat, che aveva dominato la scena musicale dall’inizio del decennio e a cui Lucio aveva strizzato l’occhio impastandolo con la sua naturale vena soul alla James Brown, sta ormai mostrando la corda.

Dalla non sa più a che santo votarsi. Gli insuccessi si susseguono. E, dopo i due Festival di Sanremo del ’66 (con Paff… bum) e del ’67 (con Bisogna saper perdere), nonché l’effimero parziale riscontro nello stesso anno con Il cielo (novantamila copie vendute e il primo premio del-

la critica al romano Festival delle Rose), all’infuriare della contestazione giovanile del ’68 Lucio non batte un colpo.

La politica e le istanze giovanili non lo infatuano, anzi lo lasciano a dir poco indifferente. Non crede alle rivoluzioni studentesche e non cede alle lusinghe dei miraggi sovversivi.

E poi lui era già stato sovversivo l’anno prima, nel ’67, con i fratelli Taviani, nel terzo film della loro carriera, il primo a firma Paolo e Vittorio dopo i due girati insieme a Valentino Orsini. «Nel film facevo il contestatore – raccontò Lucio –, ma magari i miei guai fossero dipesi dalla politica.»

Ambientato nell’agosto del 1964, I sovversivi racconta le vicende di alcuni militanti del Partito comunista italiano che si recano a Roma per partecipare ai funerali di Palmiro Togliatti.

Tra questi, il neolaureato in Filosofia Ermanno, ventitreenne irrequieto, anticonformista e contraddittorio, già con un fallito matrimonio alle spalle. Nel ruolo c’è Dalla: un’interpretazione per cui viene persino candidato al Leone d’Oro come migliore attore non protagonista alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma non vincerà.

Così ebbe a raccontare Paolo Taviani alla giornalista Dina Luce sul settimanale “Gioia” il 17 agosto 1972: «Lucio Dalla è cantante e attore, ma è anche un po’ mago. Riesce a capire i pensieri della gente che vede magari per la prima volta. Per me Dalla resta una faccia, una grande faccia nera e pelosissima, che suggerisce malinconia e tenerezza. Forse Lucio non sapeva recitare, ma era sufficiente la sua apparizione sullo schermo per suscitare emozione».

Del resto non è certo il cinema la strada che vuole, nonostante altre apprezzate interpretazioni come nel film drammatico del ’69 Amarsi male di Fernando Di Leo e in alcuni cosiddetti musicarelli: da Altissima pressione di Enzo Trapani e Questo pazzo, pazzo mondo della canzone di Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi entrambi del ’65, fino a Little Rita nel West con Rita Pavone e Terence Hill e I ragazzi di Bandiera gialla del ’67.

I problemi di Dalla in quel momento sono altri. Sono personali ed esistenziali e si potrebbero sintetizzare con il titolo di un suo brano dell’anno prima, Lucio dove vai?. «Lucio chi sei tu / un vestito diverso non ti cambierà / Lucio chi sei tu / perché hai coperto col berretto rosso / il grigio che c’è in te.»

Superati i severi test d’ingresso a casa Dalla, Paola comincia intanto a entrare sempre più in sintonia con il mondo musicale di Lucio e, dopo alcuni iniziali tentativi, ecco arrivare i primi risultati.

Così, ad aprile del 1970, il nuovo decennio del cantante bolognese comincia proprio in coppia con l’unica donna di tutta la sua carriera artistica. E l’apprendista “paroliera” della musica leggera italiana firma la sua prima canzone.

S’intitola Orfeo bianco ed esce come lato B del singolo Sylvie, brano tra i più belli del primo Dalla (con il testo dei soliti Bardotti e Baldazzi).

Si tratta, tra l’altro, del primo disco di Dalla a essere pubblicato direttamente dalla Rca, dopo la chiusura della Arc diretta da Bardotti.

Con questo singolo, che anticipa di due mesi il 33 giri Terra di Gaibola (il secondo della carriera dalliana), Lucio taglia definitivamente i ponti con il decennio precedente in cui aveva sperimentato tutto il possibile: dal jazz al beat, dal soul al pop.

Orfeo bianco è dunque l’insospettabile debutto discografico di Paola Pallottino. Un testo il cui titolo colpisce subito per quel richiamo alla mitologia.

Anche la musica di Dalla (con gli arrangiamenti di Armando Franceschini) presenta novità e suggestioni, pur mantenendo echi vagamente beat.

Il testo è costituito di strofe brevi e incisive che raccontano di un ipotetico Orfeo d’oggi, uomo comune il cui inferno è rappresentato dal quotidiano lavoro da operaio o da impiegato e dall’attesa illusoria e falsamente liberatoria dell’estate.

Un’alienante, quotidiana ripetitività che ha come unico effimero obiettivo una marittima oasi di felicità («Orfeo cerca l’estate sulla tua pelle bianca»), mentre il cuore fatalmente è destinato a invecchiare e rinsecchire.

Il ritornello irrompe potente invocando invano lo scoccare della tredicesima ora, quella della chimerica libertà. Un’ora che però nessun orologio terreno può contemplare. Ci vuole forse un altro utopistico tempo, al di fuori della moderna società del consumo.

Nella parte centrale del brano Dalla scatena vocalmente il suo scat con una suggestiva sovrapposizione di voci che crea un effetto quasi ipnotico, caratteristica dell’intero pezzo. Un piccolo gioiello, perlopiù dimenticato.

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