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Prefazione di Pupi Avati

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Orfeo Bianco

Orfeo Bianco

PREFAZIONE

L’ho detto più volte, ma giova ricordarlo per chi non lo sapesse ancora, e qui in queste pagine dopo aver letto il libro dedicato alla collaborazione artistica tra Dalla e Paola Pallottino: Lucio è stato la causa principale del mio “fallimento musicale”. Il confronto con quel “mostro” di bravura che è stato, ha portato alla mia irrevocabile decisione di chiudere anzitempo con la musica. Ma un momento, la mia storia con Lucio è cominciata tanti anni prima di quel “trauma” mai sanato. La prima volta che l’ho visto era un bambino di 8 anni ed era già una stella delle sale parrocchiali di Bologna, dove si esibiva sul palcoscenico. Saliva su elegantissimo, vestito con un frac e si accompagnava con una piccola fisarmonica. Non ci crederete, ma Lucio Dalla era un bambino bellissimo, che sapeva cantare, recitare, ballare e suonare benissimo. Era uno di quei bambini prodigio del cinema americano, uno Shirley Temple al maschile.

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Poi lo persi di vista per anni… Lo rividi molto dopo quando ero entrato fisso nella mitica Rheno Jazz Band. Una formazione talmente affermata che a volte, per divertimento, andavamo ad ascoltare quelle “bande” di ragazzini che ci facevano il verso provando a imitarci. In una di queste c’era Lucio che, come me, suonava il clarinetto. Ma la cosa che mi colpì nel rivederlo, non era per come suonava – allora a dire il vero con una certa approssimazione –, ma il suo incredibile cambiamento fisico: non era più quel bel bambino di un tempo, non era cresciuto in altezza ed era piuttosto grassottello. Insomma da cigno si era trasformato in un brutto anatroccolo. Quando il nostro capo orchestra, per simpatia o per chissà quale ragione, lo ingaggiò per entrare nella nostra band, la cosa non mi preoccupò affatto. Il jazz, si sa, è molto competitivo, ogni jam-session è come un incontro di boxe in cui nessuno ci sta a perdere, e io in quel momento mi sentivo un peso massimo rispetto a quel nanerottolo sgraziato. Potevo mandarlo ko quando volevo. Partimmo per la tournée con due clarinetti, il mio e il suo, che era diligente e rispettoso nel suo ruolo di “secondo”. Poi, improvvisamente, a Francoforte, le cose cambiarono, e per me in peggio. Lucio fece il suo primo assolo e in un attimo ho provato i brividi gelidi del pericolo mortale, impossibile da evitare. Lo rifece ancora, quell’assolo, e fu ancora più bravo. Il bello era che ogni sera Lucio migliorava sempre più. Piccolo com’era, suscitava simpatia in tutti, sapeva ingraziarsi il pubblico da artista consumato, così che alla fine di ogni concerto poteva bearsi del suo successo personale. In me montava un’invidia pari a quella che deve aver provato

Salieri al cospetto del genio di Mozart. Lo ammetto: sì, io sono invidioso per natura, soprattutto nei confronti di quelli che fanno cose grandi e migliori delle mie. E Lucio con il clarinetto faceva cose che io non sapevo e non avrei mai saputo fare. Gli veniva naturale, come ad ogni talento che si rispetti: senza aver studiato, avendo ascoltato pochi dischi jazz rispetto al sottoscritto e suonando uno strumento di qualità nettamente inferiore al mio. La fine, per me, e il grande inizio per Dalla, fu quando una sera al Whisky a Go Go venne ad ascoltarci Gino Paoli, che era già una star. Gino si sedette in fondo al locale e, tra una sigaretta e l’altra, seguì con molta attenzione il concerto. Noi alla fine eravamo eccitatissimi e quando avanzò verso il palco per venirci a salutare… Rivedo quella scena come se fosse ora. Paoli si avvicina e va diretto verso Lucio, per congratularsi per come aveva suonato ma, soprattutto, per come aveva cantato lo scat. Lo avrebbe portato a Roma (a suonare con i Flippers di Edoardo Vianello) e lui stesso avrebbe prodotto il suo primo disco. La notizia che Lucio Dalla si buttava nella musica pop e lasciava il jazz avrei potuto leggerla come la mia salvezza. Ma io il mio match contro di lui l’avevo perso e non mi restava che il ritiro, dal jazz. Per questo l’ho odiato per anni, pur seguendolo a distanza e informandomi sui suoi successi e gli insuccessi, che ci sono stati. Qui, nel libro di Massimo Iondini, ritrovo quella stagione ancora incerta ma molto creativa con Paola Pallottino, che non ho mai avuto la fortuna di conoscere. Lucio si è servito al meglio della Pallottino, ci sono dei testi poetici straordinari all’interno della loro collaborazione. E poi, insieme, hanno creato il

suo primo capolavoro, 4/3/1943. Anche se all’epoca il mio snobismo jazzistico non lo salutò affatto come un capolavoro… io la grandezza di Lucio l’ho capita molto dopo. È stato quando feci per la Rai il programma Hamburger Serenade dalla discoteca Bandiera Gialla di Rimini. Nei provini arrivavano cantanti che eseguivano L’anno che verrà e, riascoltando più volte quel testo e quella musica, mi resi conto che Lucio si meritava tutto il successo che aveva avuto. Lo chiamai per dirglielo e gli chiesi scusa per averlo invidiato e odiato per così tanti anni. Tornammo ad essere amici e, infatti, le due ultime colonne sonore le compose per i miei due film Gli amici del bar Margherita e Il cuore grande delle ragazze. Non dimenticherò mai il giorno della sua morte. Stavo girando la serie tv Un matrimonio quando ricevo la telefonata che mi annuncia: «Hai visto Lucio? È morto». Rimango per un attimo senza fiato, smarrito. Mi ridesto quando sento che i cellulari di tutta la troupe trillano simultaneamente perché anche loro ricevono la notizia. Mi affaccio alla finestra e vedo che le macchine che passano per via Veneto, di colpo, rallentano. Qualcuno si ferma e c’è gente che scende e commenta: «Oh, è morto Lucio Dalla». È stato un momento di incredibile dolore collettivo, come avevo provato già il giorno dell’attentato a Kennedy, il giorno della strage alla stazione di Bologna e l’11 settembre per le Torri Gemelle. E questo dà l’esatta percezione del valore profondo che ha avuto Lucio Dalla nella nostra vita… A cominciare dalla mia.

Pupi Avati

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