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Introduzione di Gianni Morandi
INTRODUZIONE
All’inizio andavo davvero a cento all’ora, fin dalla partenza della mia carriera. Proprio come diceva la canzone d’esordio, in quel lontano 1962. Due anni dopo esordiva come cantante anche Lucio Dalla, che aveva un anno più di me e veniva dal jazz. Noi due bolognesi ci eravamo trovati per la prima volta insieme a un Cantagiro, nel 1964.
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Lucio, scoperto e prodotto da Gino Paoli, debuttava con Lei (non è per me), il suo primo 45 giri, la cover di un brano soul-blues americano. Era arrivato quasi ultimo nel girone B, mentre io ero primo nel girone A con In ginocchio da te.
Eravamo già molto amici. Ogni giorno aveva qualcosa da farsi prestare, una volta non sapeva cosa mettersi e gli avevo dato una mia camicia. Poi non sapeva mai come presentarsi al pubblico. Durante una tappa aveva deciso di tagliarsi la barba e non sembrava più lui. Aveva metà
faccia bianca e metà nera perché eravamo in estate ed era abbronzato.
Scriveva tante canzoni, ma non riusciva a sfondare. Quando buttava giù qualcosa me lo faceva ascoltare e la sua prima canzone cantata da me è stata Occhi di ragazza, nel 1970. Al mio produttore, Franco Migliacci, però non piaceva: diceva che era troppo popolare e che sembrava uno stornello. Invece quella canzone era solare e autentica, bellissima. È nel mio repertorio da cinquant’anni ed è una delle più amate.
Io, allora, ero al culmine del successo, Lucio invece arrancava, ma aveva la stima di tutto l’ambiente. I discografici e la critica sapevano riconoscere il suo talento. Aveva delle intuizioni musicali straordinarie, ma era troppo avanti per il pubblico. Anche per quel modo di cantare troppo originale, che gli derivava dal jazz. Lucio era anzitutto un grande musicista e io gli invidiavo questa sua straordinaria capacità di suonare.
Poi, come capita spesso nella vita, le cose si sono capovolte. Nei primi anni Settanta aveva cominciato a circolare un’aria nuova: i gruppi e la musica internazionale, i cantautori, la canzone impegnata. Io, però, tutto questo non lo stavo capendo. Mi sono poi reso conto che quello che facevamo noi cantanti in voga negli anni Sessanta non era più in sintonia con i tempi che stavano cambiando.
Anche Lucio era fuori tempo all’inizio, ma lui era in anticipo e, in ogni caso, era un talento a sé, trasversale, al di là dei generi.
Poi finalmente fece l’incontro giusto, con una signora che illustrava libri per bambini e scriveva originalissimi testi. E proprio con un testo di Paola Pallottino fece
centro, a Sanremo. Lui nel 1971 esplodeva e io, invece, cominciavo il mio declino. Sembravamo in altalena, io e Lucio. Mentre saliva lui, scendevo io.
Poi però Lucio ha un po’ allungato i tempi del successo. Non si decideva a fare il passo che doveva fare. Ennio Melis, il grande capo della Rca, glielo continuava a dire. Ma lui, per tutta risposta, si mise a fare tre dischi con Roberto Roversi prima di capire e decidersi ad abbracciare il suo vero destino: fare tutto da solo. Era come se non volesse mai credere in sé stesso fino in fondo. Ma è chiaro che delle esperienze con Paola Pallottino e Roberto Roversi ha fatto immensamente tesoro.
Quando Lucio spicca il volo nel ’77, e nell’80 diventa il numero uno, io sono ormai quasi sparito nel nulla, sono finito nel dimenticatoio discografico e dei programmi della televisione. I nostri destini si erano completamente rivoltati. Ma non avevamo mai perso i contatti, i nostri rapporti non si erano mai interrotti. Io mi ero messo a studiare contrabbasso al conservatorio e Lucio continuava a dirmi che dovevo rimettermi in pista. Era sempre pronto a difendere gli amici. Facemmo anche un tentativo al Festival di Sanremo del 1980 con la canzone Mariù, scritta con Ron e De Gregori, ma non erano i tempi giusti per me. Io, di fatto, ho avuto due carriere diverse: una dal 1962 al 1971-72 e l’altra dall’81-82 in poi.
Quegli otto anni in totale silenzio sono stati, comunque, una fortuna, perché sono cresciuto, ho riflettuto e ho reimparato a cantare al conservatorio con una insegnante di canto corale che con Bach e tutti i grandi della musica mi ha aperto un nuovo mondo.
Sotto la cenere covava però il mio ritorno. E ci è voluto proprio un pezzo come Uno su mille nell’85 per poter ripartire. Poi, due anni dopo, sono tornato a Sanremo con Ruggeri e Tozzi ed è arrivata la definitiva svolta.
Ad aspettarmi non poteva che esserci Lucio, che mi disse: «Ecco, è arrivato il momento di fare una cosa insieme». Quel tour meraviglioso nell’88-89 resterà sempre una pietra miliare della mia e nostra carriera. Un segno del destino, un nostro ideale “Cantagiro” in cui io non ero primo e lui non era ultimo, né viceversa. E Occhi di ragazza potevamo cantarla insieme.
Il nostro sodalizio è durato fino a quando lo obbligai a venire al Festival di Sanremo nel 2012, che io conducevo. Lui però non ne aveva nessuna voglia e si inventò, allora, di fare il direttore di orchestra per la canzone di Pierdavide Carone.
Poi ci siamo visti a fine febbraio, allo stadio Dall’Ara, ma non stava molto bene. Il Bologna perse con l’Udinese e Lucio se ne andò via prima della fine, mi disse di andarlo a trovare a una data del tour europeo che stava per cominciare. Mi propose Francoforte, dove avevamo suonato anche nel nostro tour. Arrivò invece quella telefonata di Bibi Ballandi, che la mattina del 1° marzo era appena stato chiamato da Marco Alemanno da Montreux, la patria del suo amato jazz.
Lucio nell’ultimo periodo aveva una travolgente inquietudine che lo ha accompagnato fino alla fine. Faceva tutto, non riusciva a dire di no a niente e a nessuno. Sembrava presagire, sembrava voler abbracciare tutto insieme. Forse anche per il fatto di non avere avuto una famiglia
propria, una famiglia vera. Come quel Gesubambino senza padre di Paola Pallottino, a cui il destino ha voluto mettere la sua data di nascita.
Gianni Morandi