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cere. Avevo chiesto se saremmo riusciti a vedere l’aurora boreale, «bisogna avere fortuna» è stata la risposta. Al chilometro 95, a cavallo tra il 18 e il 19 febbraio del 2017, io ero la persona più fortunata del mondo. In pace con me stesso, intento a portare la mia esistenza davanti agli altri. Non volevo vincere nulla, solo poterla ammirare senza qualcuno che oscurasse la visuale. Capirla come non ero mai riuscito a fare. Fu allora, da poco passato il ristoro del sorpasso, che guardai il cielo. Chiazze di un verde pallido, meno intenso di quello in tv o sul web. Vent’anni che ce l’avevo in testa eppure non fu semplice riconoscerla. Mi affianco a un ciclista italiano spuntato non so da dove e chiedo a lui se fosse davvero l’aurora boreale. Dice di sì piangendo, non doveva essere la prima allucinazione allora. Cominciai a piangere anch’io. Mi sentivo il viandante di Gibran, «eternamente alla ricerca della via più solitaria». L’aurora non mi avrebbe trovato dove il tramonto mi aveva lasciato. Ho sentito che stava andando veramente tutto bene. Novantacinque chilometri, forse cento. Ero già arrivato anche se dovevo ancora partire.
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