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Arriverà l’aurora
Entrare nella hall non liberò solamente la mia testa da tutti i pensieri. In un’ora mi chiamarono quelli che sapevano, anche loro piuttosto sollevati. Grazie al tracciatore Gps che avevo appresso erano stati con me tutta la notte svegli dall’Italia e io me li ero sentiti vicini, con il loro affetto e la preoccupazione. Anche perché mentre stavo con la neve fin sopra i calzoni si era scaricata la batteria e mi avevano perso, come io avevo fatto col percorso. Trovai i loro messaggi e capii che condividemmo l’angoscia di quei momenti.
«Stai andando troppo forte, fermati.» Ci aspettavamo tutti che finissi in quaranta ore almeno e così per cento chilometri mi era sembrato di sentire mia mamma gridare: «Vai piano, dove stai andando?» E copriti, naturalmente. Le telefonate più care arrivarono subito, una delle cose che mi porto nel cuore. Intanto però cominciavo a rivedermi la corsa in testa. In uno stato semi incosciente avevo chiare solamente due cose. Ritrovarmi campione senza averci mai pensato, felice non di aver vinto ma di essere lì integro, non solo e non tanto fisicamente quanto per aver messo insieme i pezzi della mia anima. Ricostruito tutto intero dopo gli anni della bici, le cadute, le chitarre, le montagne. Il ghiaccio della Lapponia mi aveva compattato e mai più sarei tornato indietro disunito. Perciò, ed era la seconda certezza, io Rovaniemi
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l’avrei portata fino alla fine, per sempre. Battesimo, comunione, maturazione, morte e rinascita. Un film che rivedrò tutti i giorni, mangiando in cucina o cercando il cielo su un’altra salita innevata, quei 150 chilometri busseranno di continuo pure sul balcone di casa e quella follia di andarci avanti e indietro per sentirmi libero una volta di più al tempo del Covid-19 e dell’isolamento forzato. È lì in Finlandia che ho davvero imparato a vivere e a morire, che le due cose non possono andare separate. Passando dentro a quelle cazzate, che tanto le fai anche se sei pronto a non farle e te lo sei ripetuto per settimane e mesi quanto sia meglio evitarle. La prima e decisiva tra i chilometri 83 e 85. Stavo volando e continuavo a non farci troppo caso, ero ancora nella mia vacanza avventurosa. Dopo due chilometri ci sarebbe stato il ristoro al chiuso, l’occasione unica di fermarsi, bere e mangiare al caldo, sistemarsi, prepararsi a ripartire. Secondo voi quante di queste cose ho fatto? Avete capito, nessuna. Come se tutta la neve della Lapponia e del Circolo polare stesse bollendo dentro al petto e allo stomaco, decido di fuggire via come in autostrada davanti a un autogrill di scarsa qualità. Incurante della segnalazione del ristoro successivo, a 36 km più in là, troppi per un’urgenza al volante di un Suv figurarsi su questa neve su cui tra qualche ora mi muoverò come uno che ha consumato tutta la sciolina. E fermala ‘sta macchina, mettila ‘sta freccia, riposati, mangia e bevi, mi ripeto più volte sapendo che non avrei ascoltato. Lo spagnolo è là e lo vedo come mai era successo dalla partenza. Penso che non può essere, lui è il primo e io sono solo un quaran-
tenne in cerca di se stesso, uno che va forte non fortissimo, che la passione è tutto ma non abbastanza per mettersi uno specialista alle spalle. Però nel dubbio mi dico che è meglio passarlo e poi vediamo. Gli tendo la mano e non so se sentirmi più commosso, partecipe della sua fatica che è anche la mia o un pizzico ipocrita perché sto cercando di levarmelo di torno. Egoista, voglio restare da solo su questo manto come se 150 chilometri fossero un buon motivo per pensare solamente al proprio ego. Però mi viene così, quel gesto, senza filosofeggiare, un attimo prima di ragionare sul fatto che questa è la mia vita e tu caro mio Canet, che in quel momento sei solo l’esperto spagnolo in testa alla corsa, puoi entrarci un istante appena. Fattelo bastare, stanco come sembri. Raggomitolo tutti gli altri pensieri, tanto adesso non mi servono. Li lascio squartati sotto le lame della slitta e faccio come se dovessi sbrigare una formalità in ufficio atteso da un appuntamento importante. Sentendomi in ritardo, io che invece sono molto più avanti della tabella di marcia, se mai ne avessi avuta una. Saluto sciatori e ciclisti, firmo il passaggio all’interno del ristoro, mi dicono che sono primo. No, amici miei, sono in trance. Non mangio, prendo l’acqua come se fossi al supermercato e stessi cercando la macchina nel parcheggio. Dove l’ho messa? Apro il bagagliaio e ce la butto dentro, distrattamente, che tanto oggi è sabato, andiamo fuori a cena e magari mi ricordo di portarla su a casa il giorno dopo. Invece non c’è nessuna cena e soprattutto non funziona così a -30 gradi e lo so benissimo. Ma se sono venuto qui con l’intento di vivere per davvero non posso pensare di ambire
alla perfezione, perché la vita perfetta non lo è. L’improvvisazione è un dono, purché non sconfini in una cavolata. Quella di infilare l’acqua tra i vestiti senza metterla al sicuro mi sembrò esserlo, in effetti. Non subito ovviamente, esattamente quando, dal -15 del giorno, la temperatura si abbassò in modo drastico. Il tappo ghiacciato, all’interno l’acqua era diventata un inutile solido. Ma non c’era altro in quel momento che mi interessasse come far vedere a quel Canet che stavo bene, meglio di lui seduto a mangiare come fosse in trattoria. Vecchio mio, è la solita storia. Se sei tu che non hai capito lo spirito o se sono stato imprudente io resterà una sfumatura impercettibile. Decisiva.
«Non mangi?» mi chiede preoccupato sia per me sia per il suo primo posto.
«No, non ho fame.» Ce l’ho, eccome.
Ma cosa c’entra la fame in tutto questo? Adesso conta solo che tu sei vestito pesante, hai freddo, non riesci a resistere con lo stomaco vuoto. Io invece ho abbandonato in partenza tutti i miei bisogni, le debolezze. Non ho nemmeno il piumino pesante, solo il pile a riscaldarmi. Sto pattinando leggiadro con i miei 17 chili di sogni appresso. Lo lascio lì col suo piatto caldo pieno di dubbi, adesso sono il primo e non mi fermo più. Mancano ancora 65 chilometri, è come non essere nemmeno partiti in una gara. Appunto, questa per me non è una gara e quindi non posso perderla, al limite l’ho già vinta. Ho scelto la Lapponia perché pensavo di trovarci il senso di tutto, perché ho sempre creduto che la cosa più bella sia provare piacere in ciò che si sta facendo. E questa per me è la massima espressione del pia-