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Prefazione di Enrico Ghidoni
Prefazione
di Enrico Ghidoni
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Chi affronta tanti chilometri ne ha fatti molti di più dentro di sé. È un’introspezione incredibile che ti porta a rintracciare energie impensabili, altrimenti nascoste nel nostro quotidiano. Io Gianluca lo conoscevo, ma poco. Sapevo cosa aveva fatto, sapevo di Rovaniemi e di quel ghiaccio che mi ricordava lo Yukon, ma non sapevo neanche tutto. Si può dire che siamo amici? Come si fa? È la fatica, la sofferenza, il disagio che ci rende amici, ci avvicina. Siamo stati distanti migliaia di chilometri ma abbiamo provato le stesse cose e adesso sono orgogliosissimo di stare qui accanto a lui, tenere in mano queste pagine e condividerne il viaggio senza fine. Più si vive in difficoltà e più ci si conosce. Se dovessi raccontare la mia storia ci vorrebbero almeno 8 giorni e 21 ore, il tempo in cui ho percorso e vinto la Yukon Arctic. Non mi sarebbe possibile riassumere quello che ho fatto, non potrei lasciar fuori dal racconto neanche un solo minuto perché non ce n’è stato uno inutile. Quando vivi nell’estremo non ce ne sono mai. Ogni azione, giusta o sbagliata che sia, può avere conseguenze enormi, decisive. Se apro la giacca a vento, se tolgo un guantone, se faccio cadere una goccia di sudore che gelando sulla cerniera non mi consente più di aprirla, sto mettendo a rischio
tutto. Lo so io e lo sa Gianluca. Tra me e lui però c’è una differenza, soprattutto. Ho iniziato tardissimo, a 48 anni ho comprato un paio di scarpe da corsa e di pantaloncini per correre le prime gare. Lui invece ha fatto molto presto, era uno che i numeri li aveva, voleva vivere di quello. La sua sofferenza mi ha impressionato, in quell’esasperazione non so come ci si trovi. Lo Yukon per me è stata una liberazione, ha significato trovare la strada. Provavo il disagio di vivere la normalità, ammesso che ne esista una, ho avuto bisogno di cercare una via svincolata da tutto e senza il condizionamento degli uomini. Là al centro c’è una sola giuria e sta al piano di sopra, non gliene frega niente del portafoglio che hai, di come vuoi apparire tutti i giorni quando vai in ufficio o a fare la spesa. Ci siamo arrivati da indirizzi diversi, ma ora siamo allo stesso punto. Non é una scelta, solo pura esigenza che a molti suona male. Io ho corso assieme ad atleti, dovessi fare mille gare “normali” contro di loro ne perderei mille e una. Chi veniva da un mondo perfetto, addestrato alla perfezione, tra 700 chilometri di ghiaccio si è ritrovato d’improvviso in mezzo alla vita, che perfetta non lo è, anzi. Immaginate la loro frustrazione mentale, nessun piano d’allenamento ti fa essere pronto alla vita. Io che sono storto da sempre, di perfetto non c’è mai stato nulla, ho dovuto trovare l’equilibrio in condizioni disastrose. In Canada come in un incanto anima, corpo e mente hanno iniziato improvvisamente a correre uno vicino all’altro e non saprei esattamente spiegare come e perché sia accaduto. Ho gareggiato con atleti
da 2h08’ in maratona, io che debuttavo a 53 anni. Dove sarei dovuto andare a nascondermi di fronte a loro? Qual è il segreto? Mi chiedono ossessivamente e me lo chiedo spesso anch’io. La verità è che ho vissuto questa cosa da innamorato. Per Gianluca è stato lo stesso, è andata proprio così. Non ho mai sentito disagio, né sfiorato dall’idea che la natura fosse cattiva. Semplicemente è imparziale, ciò che non avevo nel quotidiano. A centinaia di chilometri da forme di vita organizzate ho potuto esprimermi anche se ero l’ultima ruota del carro. A differenza del trascinarmi in mezzo a tutti i giorni, quando ogni volta che decidevo di parlare, di ribellarmi o di aprire il cuore ricevevo solo bastonate in cambio. Là, dentro quel nulla che è tutto, ho detto stavolta parlo io e sono rimasti ad ascoltarmi. Un miracolo. Anche se le nostre sofferenze suonano così diverse, alla fine si rivelano uguali. Il rapporto con la famiglia, la determinazione verso un obiettivo che si trasforma in ossessione, lo straordinario racconto che mi stordisce per quanto sappia arrivare in profondità all’interno delle pagine, non è stato parte della mia storia. Soffrivo per le piccolezze degli uomini, le meschinità, qualcosa che ormai era diventato insopportabile. Ho cambiato cento posti di lavoro nel mio calvario. Avevo bisogno di esorcizzare tutto questo, di rendermi libero su un pezzo di strada non battuto, mai calpestato. Nessuna meta, nessun traguardo vale come la propria strada. Con la fisicità ho trovato un modo per scoprire di avere risorse ed energie che non immaginavo, rimuovere col bisturi quella massa dentro che
non capivo cosa fosse. Sentirmi parte della natura sotto un abete, mentre i lupi ululano e fuori dalla tuta ci sono -50 gradi. Provare felicità nelle stesse situazioni in cui gli altri andavano in difficoltà, questo non è allenabile e ha fatto la differenza. Una cosa che viene fuori così e non capisci neanche il perché, è una sensazione imparziale e giusta, roba che nel mondo normale non esiste. C’è sempre una prima volta. È arrivata dopo aver guardato mio fratello negli occhi, era appena tornato dall’Iditarod. Quando si dice avere una luce diversa, esattamente così. Ho pensato che l’Alaska avesse qualcosa di magico e mi ci sono tuffato dentro senza sapere cosa mi aspettasse. All’inizio di una gara, il pettorale resta intrigante e c’è poco da dire. Ma una volta immerso in quella fatica indicibile ho perso di vista tutto il resto, dimenticato i problemi, caduto in amore, come dicono loro. E c’è un momento in cui ti appare finalmente ben chiaro. Se a 20 km dall’arrivo oramai dell’atleta non è rimasto più nulla, sei sopraffatto dalla disperazione di arrivare, sognando una cioccolata calda, una doccia, chiamare casa, sedersi, dormire, cioè l’essenziale che ti fa sentire un fantasma sulla neve, e allo stesso tempo provi il sentimento opposto, ti giri indietro e non sai come farai fuori di qui, al culmine dell’emozione tanto da averle lasciate tutte sul ghiaccio, ecco che la riconosci la strada. Non la strada maestra, una strada, la tua. Per molti altri è un calvario, ho visto autentici mostri nelle loro discipline distrutti e mai più tornati. Non so come l’abbiano vissuta loro, so come mi sono sentito io. Non ho mai pensato alla classifica, a chi avessi avanti da inseguire e dietro
da allontanare. Capivo di essere primo se non c’erano più impronte nella neve e certo non mi cambiava la prospettiva. Quando nello Yukon hanno raccontato le mie vittorie dicevano tutti la stessa cosa: «L’ho visto sempre felice». Non mi hanno chiamato “The legend” perché primo, ma per come sono arrivato a esserlo. Il modo. Ho rotto la bici dopo 600 km e non ho fatto una piega andando a riprendere il ragazzo, con l’età dei miei figli, che pedalava in testa. Nella prima edizione sono arrivato al traguardo con una babbuccia prestata perché a un certo punto il piede gonfio non stava più nella scarpa. L’intensità con la quale ho creduto nel sogno, nel progetto, è l’unica risposta possibile. Mia, di Gianluca e di tutti quelli che hanno imboccato una via. Mi colpisce come lui sia riuscito a dire tutto, a tirare fuori questa ulteriore liberazione, il bisogno di raccontarsi per davvero e fino in fondo. Mi sono emozionato leggendo dell’incontro con i genitori al traguardo. Ho ripensato a Hanno Heiss, il mio amico per sempre dal 2015, da quando abbiamo condiviso una notte terribile, sfocata dalle allucinazioni e dai micro sonni. «Hanno, entra nel sacco a pelo» lo supplicai non appena mi disse che aveva visto un’aquila spargere polvere d’oro dalle ali e capii che stava andando in ipotermia. Da quel giorno non ce n’è stato uno che non ci siamo sentiti al telefono anche più volte. Ecco, magari lavori vent’anni a stretto contatto con la gente e non scatta niente, poi all’improvviso la sorpresa, la comunione. Le difficoltà smascherano le persone. Lì abbiamo capito di essere fratelli, di avere tante cose in comune. Cosa può unire di più che risolvere insieme quel piccolo problema
di continuare a vivere? Io avevo la bicicletta rotta, lui una tromboflebite dopo 300 km, una gamba che era diventata un pilone, tutto fasciato è andato a vincere. Cosa che io feci in bici nonostante mille altre disgrazie. Ma alla fine forse è quello che vai a cercare, non per follia sia chiaro. È che a tavolino l’introspezione non riesce, questa credo sia la verità. Sì, Hanno, Gianluca e io siamo fratelli, identici nella nostra qualità dei sentimenti che non si misura col cronometro o il dislivello. La mia felicità nello Yukon è pari alla loro, o a quella di un ragazzo che vince una disabilità e sale in vetta. Mi chiedono sempre qual è stato il momento più duro di una gara e io rispondo: «Il giorno dopo». Vivo a Bovegno, con i suoi 27 abitanti e a dire il vero anche un po’ lontano da loro, nel bosco. Devo fare 4 km per andare a comprare il pane. Sono immerso nella natura eppure non è lo Yukon, non è come stare a 250 km dal primo paese abitato. Ci penso ogni tanto, per non dire spesso, che sarebbe bello togliere il pettorale, la gara, quelle che una volta chiamavano le sovrastrutture, in una parola togliere tutto e andarsene per sempre dall’altra parte del mondo, in un altro mondo. Lo Yukon è una volta e mezzo l’Italia ma c’è una sola strada e quattro villaggi indiani per appena 31mila abitanti. Bisogna chiedersi perché e la risposta è che la natura ti respinge. Allora tengo tutto nel cuore, dove solo chi ti ama sa leggere davvero. Mia moglie per esempio, mi dice sempre che sono tornato da lì e però non del tutto. L’armonia di anima, corpo e mente non è matematica, anzi penso sia l’esatto contrario. Quando il fisico
stava cedendo era allora che subentrava l’euforia, la felicità, la stessa aurora boreale mia e di Gianluca. Finito in un branco di lupi trovavo il coraggio e sentivo la fortuna dentro un’alba che mi faceva credere di essere stato simpatico a qualcuno lassù. Intanto mi chiedevo se avessi barattato la zuppa per un rolex, rispondendo di no. Ecco cos’è che ci tocca per sempre. Io la chiamo la conquista dell’inutile. Cosa vuoi dimostrare, Enrico? Che sei fortunato? Che non sei dentro la corsia di un ospedale? Che i tuoi stanno bene e tu sei libero di andare dove vuoi? «Perché lo fai?» chiede la gente. Una risposta sincera, vera, ce l’ho. Per il diritto-dovere di essere felici. La felicità è un dovere. Se il quotidiano non va e lo porti a casa fai stare male tutti quelli che hai intorno. Bisogna trovare la propria strada, a ogni costo. E costa sempre la stessa cosa: l’idea di essere un disadattato agli occhi degli altri. Perché vai oltre le certezze, oltre la macchina e la casa, la carriera e il confronto continuo con le persone. Viaggi controcorrente e rompi le scatole. E lì inizia l’avventura. Quando accetti con serenità il giudizio degli altri, che non significa fregarsene, semmai il contrario, metterlo finalmente in conto. Io sono stato felice. Gianluca anche.