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Rovaniemi

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C’ è un momento esatto in cui ho sentito di morire e subito rinascere. Immagino che nell’arco di una vita accada spesso. A me è capitato molte altre volte. Non me ne sono accorto oppure ci ho fatto caso col tempo. Tanto comodo è il senno di poi. Quella volta di comodo però non c’era nulla anche se ero stato bene fino a poco prima. Forse era scritto nel mio destino già in partenza eppure ci sono voluti centoquaranta chilometri per realizzarlo, conosco vie più brevi in effetti. Ne mancavano una decina al traguardo, mi girai e ancora adesso non mi è chiaro perché l’abbia fatto. A ripensarci una fortuna ma in quell’istante non mi sembrò così per niente. Erano dieci ore che non vedevo nessuno a piedi e non sono mica tanto sicuro di averlo visto davvero. Magari un’allucinazione, non troppo vicino eppure nella mia testa già davanti. Come si chiamava non me lo ricordavo in quel momento e faccio fatica a mettermelo in testa anche ora, però sapevo benissimo chi fosse. Spagnolo, aveva corso la Maratona des Sables e perciò a differenza mia era cosciente di cosa stesse facendo, i suoi fantasmi li aveva inseguiti e battuti così come, ne ero certo, avrebbe fatto anche col sottoscritto. D’accordo, quello marocchino era il deserto e questa lappone è tutta una lastra di ghiaccio, che a rifletterci però hanno l’identica sospensione in equilibrio tra inferno e paradiso nel loro concetto monocolore di distesa.

Mi sono sentito senza forze, svuotato, morto. Ricoperto dalla valanga di ghiaccio della Lapponia, che se avessi potuto avrei dato fuoco al villaggio di Santa Claus. Ci avevo sorriso quasi per centoquaranta mila metri sull’oleografia di Babbo Natale, adesso non ci riuscivo. Il fanciullo aveva finito i suoi giochi e s’era levato di torno, voglio mangiare e scaldarmi, sciogliere la neve e bere, in poche parole non ce la faccio più e non sono capricci ma adulte sofferenze. Perché non mi sono fermato al ristoro del 140esimo km è la domanda che mi precedeva ossessiva a ogni passo trascinato, nemmeno somigliante alla scivolata armoniosa di prima. Disidratato e con lo stomaco vuoto non dormivo da un giorno e mi sembrava una vita. Avevo già urlato con un metro di neve fino alla cintura, dopo essermi perso venti chilometri prima. Le avevo seguite bene le bandierine catarifrangenti. Amo la neve e amo i laghi ghiacciati ma erano già passati 120 km e le bandierine non erano più quelle del percorso, io non ero più quello della partenza, allegro e lucido. Qua sotto tutto l’ammasso di neve, due secoli fa c’era stata la corsa all’oro. Adesso solo ghiaccio e la mia necessità di ritrovare la traccia Gps. Decisi allora di deviare e in un attimo mi trovai nelle sabbie mobili bianche. Distrutto, per la prima volta con l’ansia e gli attacchi di panico. Non riuscivo a tirare la slitta. Eccomi di nuovo nudo dopo quarant’anni di lotta per capire e capirmi, la leggerezza conquistata s’era trasformata per l’ennesima volta in un peso insostenibile. Diciassette chili a essere precisi, quando gli altri al massimo ne avevano caricati dodici. E chi ci pensava alla classifica quindici ore fa? Io volevo

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solo arrivare. Grido dalla rabbia senza che nessuno possa sentirmi, un pensiero angosciante e consolante come se le due cose potessero stare insieme. Ci perdo quaranta minuti a ritrovare il percorso, non sapevo nemmeno se fossi primo, secondo o terzo. Quando venti chilometri dopo ho visto Canet, ecco come si chiamava, ho realizzato la mia condanna. Ho pensato: “È finita”. Poi invece che non è finita mai, come un giorno di sole in autunno nella mia Sabaudia, capace di scaldare il cuore anche al Circolo polare. Stavo facendo una cosa fantastica e dovevo stare concentrato. Il significato della distrazione, anche solo quella di un attimo, l’avevo compreso bene in un giorno al Corno alle Scale, scivolato per 50 metri, morto e rinato già allora mentre stavo preparando la corsa in Lapponia. Lo sapevo che questo non era il dormiveglia del Passatore, quando spegni il cervello e trovi la pace dentro alla lotta infinita di 100 chilometri segnati uno dopo l’altro sulla strada leggendaria da Firenze a Faenza. Qui non c’è nemmeno l’ombra di un cartello, solo bandierine messe a cazzo, diciamocelo francamente. Se ti stai giocando la pelle devi ragionare, reagire. Trovare un senso nella tua angoscia. Rinascere, che significa sentire dentro un’energia inarrestabile. Mi ritrovai a correre a 6 minuti al km dopo averne fatti centoquaranta, una cosa pazzesca. Trascinando una slitta da diciassette chili che sembrava un emporio pieno di cose, alcune portate sapendo che non mi sarebbero servite se non a sentirmi tranquillo, rassicurato. Come un armadio pieno di camicie tutte uguali, la scarpiera riempita da una quantità di scarpe che non basterebbe una vita a indos-

sarle tutte, intanto ti serve sapere che ce l’hai per essere appagato. Ormai però mi trovo fuori dal caldo della mia camera, gli armadi non ci sono, lo spagnolo sì. Perlomeno io lo vedo ancora. Quattro, cinque volte, non riesco a evitare di girarmi ogni due o tre minuti ma non ho nemmeno la forza di farmi coraggio pensando a un’allucinazione. A mettermi il dubbio è l’organizzatore. A tre chilometri dalla fine, seduto sulla sua motoslitta mi urla che sto vincendo. «Guarda che c’è lo spagnolo» gli dico con la bava alla bocca e il contegno minimo trovato chissà dove per non mandarlo a quel paese. Invece poverino si stava preoccupando per me, pensava fossi posseduto. Pare che dietro non ci fosse nessuno, vai a saperlo se era quella la verità. In un momento così conta zero la verità. So solo che io continuavo a vederlo Canet, mentre pensavo che certi arrivi sono come una felicità inseguita giorno dopo giorno e perciò non li prendi mai. Da venti chilometri scorgevo il ponte della partenza, il lago dell’inizio. Ecco, il traguardo dev’essere lì, cercavo di pacificarmi con brividi d’emozione. Col cavolo, l’arrivo s’avvicinava inafferrabile. Ho iniziato a fare ripetute mentali. Un chilometro ogni sei minuti, poi tre minuti di camminata e quindi altri tre di corsa. Un’ora e mezza sono durati gli ultimi diecimila metri, se fossero mai davvero finiti sentendo di continuare a correrli oggi e per sempre. Arrivo sul ponte ma il traguardo non c’è, le bandierine vanno di nuovo in una direzione immaginifica. Ho fatto quindici ore di volo, da solo, ho corso tirandomi dietro un negozio di attrezzatura per la sopravvivenza e voi non avete pensato di mettermi un pallone all’arrivo?

Uno straccio di striscione da tagliare? Le bandierine mi riportano sulla strada, ora sì che inizio ad agitarmi. S’intravede qualche persona, chiedo dov’è l’arrivo e mi guardano come un matto. «Vai dritto» mi urlano. Continuo ad andar dritto, ma dove, per la miseria? A un certo punto compare l’hotel del briefing il giorno precedente la partenza, si apre la porta scorrevole e dentro trovo l’organizzatore. Con gli occhi di fuori gli chiedo: «E allora, sto traguardo?»

«È questo, hai vinto.»

Non lo sapevo, molte indicazioni tecniche non le avevo capite e poi non sono mai stato uno bravo con le tattiche. Quelle poche informazioni nascoste in qualche parte della mia testa se n’erano già andate assieme a tutto il resto, il cervello aveva fatto in tempo a liberarsi un istante dopo da ogni pensiero. La sensazione che avevo sognato per mesi, anni, da sempre. Inseguivo questo, altro che il traguardo; a vincere non ci pensavo proprio quando mi arrampicavo sulle salite del Corno alle Scale. Era la vita che volevo capire di poter fare, a meno 30 gradi, capace di cambiare un guanto al momento giusto, senza un movimento in più o in meno di quelli necessari. Tornare a vivere scoprendo l’essenza. Invece in quel momento stava succedendo anche altro. Salto, ballo, sento energie insospettabili. Mi portano in una stanza, premiazione all’istante, foto e io ancora non ho realizzato per bene. Mi danno la coppa, la medaglia di finisher e quella da primo classificato. Avevo studiato questa corsa mentre la sognavo. Pensavo di non finirla nemmeno. E invece mi ritrovo l’assegno virtuale con l’iscrizione pagata per due edizioni. Poi arriva lui, quando si dice

l’oggetto del desiderio. Un coltellino svizzero, di legno e penso del materiale estratto dalle corna di qualche animale, lo guardo e piango; ricordo quando credevo che mai l’avrei avuto e tanto lo desideravo.

«Hai fatto il record, ventiquattro ore e poco meno di due minuti.»

Decido di sedermi, forse me lo sono meritato. Mi portano un panino e una bottiglia d’acqua, il conto delle ore a digiuno ormai era perso. Non riesco nemmeno a masticare e ci metto un’ora a finirlo. Sono quasi all’ultimo morso quando arriva lo spagnolo. Ci abbracciamo, avevamo abbandonato i nostri fantasmi sperduti attorno al lago ghiacciato, qualche centinaio di chilometri più in là. Guardo un’altra volta il coltellino e piango di nuovo. Solo l’aurora boreale una decina di ore prima mi aveva commosso così tanto.

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