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le Adidas World Cup n. 47 e Domenica Sprint
01 IL CAMPO DEL PRETE, LE ADIDAS WORLD CUP N. 47 E DOMENICA SPRINT
Non ho mai avuto un’alternativa, io.
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E non lo dico per ipocrisia o per qualsiasi altro, futile motivo: lo affermo perché è la pura verità. O il calcio, o il calcio. Sarei potuto diventare un operaio, un meccanico, ma la mia strada era un’altra. Spesso la gente si trova a un bivio: destra o sinistra. E prova un senso di smarrimento. Resta ferma lì a pensare, a studiare un futuro mentre il presente sta già sfuggendo via di mano. Prendere decisioni non è mai facile, ne sono consapevole. È per questo che mi reputo molto fortunato. Scegliere può essere o un lusso o un tunnel dove la luce è ancora troppo distante per ragionare in maniera razionale: sono stato catapultato nell’unico mondo che sentivo mio, nell’unica realtà in cui volevo vivere. Nel posto più sicuro al mondo, quello che mi ha sempre protetto, soprattutto nelle situazioni difficili della mia vita. È l’àncora di salvezza, l’unica a cui puoi aggrapparti per realizzare qualcosa di vero. Non ho mai avuto una seconda strada e sono felice così, anche perché ho cullato un sogno e l’ho raggiunto. Fortuna, competenza, doti e tanti altri elementi. Quando ti arriva un’occasione
così importante non puoi sprecarla: sapevo che quella sarebbe stata l’unica possibilità per cambiare il destino della mia vita. E io, quell’opportunità, l’ho sfruttata al massimo. Narrare e ripercorrere le tappe della mia carriera significa riavvolgere il nastro, rivivere i ricordi e viaggiare con la mente tra diversi luoghi che mi hanno dato tanto, città che nel bene e nel male mi hanno formato. Qualche volta mi hanno anche preso a schiaffi, ma mi sono sempre rialzato, più forte di prima. Diverse città, diverse squadre e tante, tantissime storie, racconti e vicende che in un modo o in un altro hanno segnato la mia vita, la mia carriera: mi hanno fatto diventare ciò che sono ora. A questa lista bisogna però aggiungere un paesino sconosciuto alla maggior parte delle persone, perché le mie radici sono lì: Ceretolo. Qualche tempo fa Ceretolo era composta soltanto da sei vie: via Boccherini, via del Carso, via Morandi, via Massarenti, via Grandi e via Tizzano. Io e la mia famiglia abitavamo nella mitica via Boccherini 29, e lì ci ho passato tutta l’infanzia, fino a poco dopo la maggiore età. Mia madre, Maria Rosa, era casalinga; mio padre, Pier Luigi, faceva il camionista. Sono figlio unico, anche se ho sempre provato a convincere i miei a fare un altro figlio perché da piccolo desideravo un fratello: le mie suppliche non funzionarono mai. La nostra era una famiglia normale. Mio padre è sempre stato un tipo scontroso e introverso, ma una brava persona: sacrificò la famiglia per il lavoro. Era sempre fuori casa, sempre sul suo camion. È uno strano caso, il suo: oggi non tutti amano lavorare. Lui sì, era come una passione. Camionista in settimana e fisarmonicista il sabato e la domenica, ci sapeva fare. Quando non aveva impegni, prendeva in mano il suo strumento e andava in giro tra i locali bolognesi con il suo gruppo. Lo invitavano ovunque, a Bologna e dintorni era
molto popolare. Suonava il liscio, e molto altro. Quando ero piccolo mi portava spesso insieme a lui, a me non piaceva quella musica ma con il tempo ho imparato ad apprezzarla. Infatti, ora so ballare un po’ di tutto, dalla salsa alla mazurka. Sono anche andato a scuola di ballo. Mi muovo bene anche sulle note del rock and roll. Quando andavo con lui, spesso mi accompagnava mia madre, solo che dopo un po’ mi annoiavo, anche perché gli spettacoli erano sempre di sabato sera, e io volevo uscire con i miei amici.
Mio padre è stato molto duro con me. Da bambino gli volevo bene e l’affetto era ricambiato, ma è sempre stato molto severo. Non mi voleva male. Era solo un padre all’antica, non mi ha mai fatto alcun tipo di cattiveria. Poi c’era mia madre. Era una persona unica. È mancata cinque anni fa, ogni settimana la vado a trovare. Resta sempre con me, è in ogni odore e in ogni sensazione. È stata una perdita importante, ho perso il mio punto di riferimento. Era una donna fantastica, in tutte le sue infinite sfumature: ha dato la vita per me. Era la più piccola di quattro sorelle e ha fatto mille lavori per non farmi mancare nulla: la barista, la donna di servizio, l’infermiera. Quando sono arrivati i primi guadagni l’ho fatta smettere di lavorare. Aveva dato tanto ed era giusto che si riposasse. Era una grande cuoca: il tortellino in brodo che preparava era sublime, non ne ho mai assaggiato un altro così buono. Sapeva preparare anche le tigelle e le crescentine, cucinava le tagliatelle, le lasagne e gli gnocchi. Magari da lei non potevi aspettarti uno spaghetto aglio e olio, era la classica bolognese che cucinava piatti della tradizione. A casa stava sempre con il grembiule, non lo toglieva mai: puliva, lavava o cucinava. Era un suo tratto distintivo. Mi vedeva magro e per questo mi faceva mangiare molto, era sempre preoccupata per
me, e ogni volta che ero a casa mi coccolava. Non mi ha fatto mai mancare nulla. Non passavo molto tempo a casa, ma ci sono alcuni momenti che sono sempre stati speciali per me. La domenica, ad esempio: ascoltavo le partite con la mia radiolina e le cuffiette, guardavo 90 minuto e Domenica Sprint, restavo addirittura in piedi fino a tardi per controllare gli ultimi risultati di basket. Per il resto ero quasi sempre fuori: andavo a scuola la mattina e il pomeriggio ero a giocare o al bar. Quando iniziai a giocare, tra allenamenti e partite, a casa stavo ancora meno.
La prima parte della mia infanzia fu felice, serena come per la maggior parte dei bambini. E come la maggior parte di loro, ogni mattina mi toccava andare a scuola. La odiavo, non l’ho mai amata: sono stato anche bocciato in prima media. I miei presero malissimo il fatto, e l’ho presa male anche io. Ma sono consapevole di averla meritata: non avevo voglia di studiare e non stavo attento. Tutti i professori si ricordavano di me, e non avevano sempre ricordi piacevoli. Alle elementari avevo la professoressa Lenzi Giorgetta, con lei mi sono trovato bene. I problemi sono arrivati alle medie perché ogni professore aveva la propria materia: avevo un buon rapporto con il professore Veronesi, insegnante di disegno, o con Sgarzi e Vivarelli di educazione fisica. Queste erano le materie che preferivo, mentre non sopportavo storia e matematica. Eravamo poli opposti. In classe facevo molto caos e avevo un soprannome per tutti i miei compagni. C’era una ragazza che aveva i baffetti, io ogni tanto le regalavo le lamette. Un altro compagno lo chiamavo Pollo, diminutivo del suo cognome. Non erano mai cattiverie o fatti assurdi, ma non avevo voglia di seguire le lezioni e cercavo di riempire le mie mattinate con scherzi. Una volta andavano di moda le borse: usavo le lamette del
temperino per segarle tutte, con i libri che cadevano per terra. Oppure mettevo le puntine sulle sedie così da bucare i pantaloni. Non mi divertivo soltanto a scuola. A Ceretolo mi ero specializzato in uno sport che andava di moda tra i bambini: il suono del campanello. Suonavamo il citofono e scappavamo, l’obiettivo era chiaro: non farsi beccare.
Nonostante gli scherzi vari, avevo molti amici a scuola: ricordo Davide Finocchi, che purtroppo non c’è più a causa di una malattia. Già da piccolo non stava molto bene, ma era un ragazzo d’oro. Molti lo prendevano in giro, io preferivo prendermela con altra gente. Troppo facile accanirsi con chi ha seri problemi. Lui lo ricordo più di tutti. La mattina era una sagra a scuola, il pomeriggio facevo i compiti in mezzo minuto e poi andavo di corsa a giocare a calcio. Frequentavo il famoso “cantiere”: di fronte casa mia c’era questa costruzione abbandonata e mai completata che trasformammo in un campo da calcio. Ora è diventato un parcheggio, da piccoli usavamo quello spazio per divertirci. Trascorrevo le mie giornate anche ai Giardini di Ceretolo, su per l’Eremo. Questi erano i miei punti di riferimento. La mattina a scuola, controvoglia, poi il calcio che era il mio centro di gravità permanente. Lì potevi giocare a calcio o comunque divertirti con gli amici in altri cento modi, anche se però ero quasi sempre al campo del prete, dietro la chiesa del paese. Ho ricordi indelebili di quel campetto. Giocavamo quasi sempre lì, mentre in estate partecipavamo ai Tornei delle Vie. Una volta lo vincemmo e in porta c’era proprio Davide Finocchi. Lo facevamo giocare tra i pali perché, a causa della sua malattia, non riusciva a correre o a muoversi in maniera fluida. Parò il rigore decisivo del torneo e trionfammo 7-6, io all’epoca giocavo in attacco. Dopo la vittoria, con i miei compagni
di squadra andammo tra le vie del paese in trionfo con la coppa: ci fermammo davanti alla latteria di Ceretolo, dove la lattaia ci premiò riempiendoci la coppa di caramelle e dolciumi vari. Quel torneo lo aspettavamo ogni anno: veniva organizzato tutte le estati da don Luigi, che era anche il mio professore di Religione. Sul campo del prete si poteva giocare massimo cinque contro cinque, anche se a volte ci sfidavamo in undici contro undici. Un delirio. Aveva pochissima erba, quasi solo terriccio e quando pioveva si trasformava in una palude di fantozziana memoria. C’erano le porte regolari, formate soltanto dai pali; a volte però il parroco montava le reti e noi eravamo al settimo cielo. Mi ritiravo sovente a casa sempre ricoperto di fango, per la gioia di mia madre. Trascorrevo intere giornate in quel campetto. La sera, invece, ci spostavamo al bar Augustus con i miei amici a giocare a biliardo. Erano delle sfide all’ultimo sangue, combattute sino all’ultima buca, dopodiché gli sconfitti avrebbero pagato il conto: ogni ora di gioco costava circa quattrocento o cinquecento lire, per noi ragazzini si trattava di una cifra importante e facevamo quindi di tutto per uscire indenni dal tavolo. Ero bravo a biliardo e anche adesso me la cavo. Al fianco del bar c’era una discoteca: ha cambiato diversi nomi, io la frequentavo quando si chiamava Beethoven. Dopo aver giocato, scendevamo a ballare. Marco, Michele, Alessandro, Roberto, erano questi i miei amici d’infanzia. Sono rimasti al mio fianco nel corso degli anni, senza mai abbandonarmi, nemmeno quando sono diventato famoso: quando vinsi lo scudetto, organizzarono una serata alla quale partecipò tutta Ceretolo. Fu bellissimo, emozionante.
Oltre al calcio e a divertimenti vari, da piccolo facevo il chierichetto in chiesa e servivo messa. Una domenica
avevo l’abito un po’ lungo e ci inciampai dentro: le ampolle caddero tutte per terra, feci un disastro. Sono stato perdonato e ho continuato a farlo, mi piaceva molto. O il sabato sera o la domenica mattina, al fianco di don Luigi. La prima parte della mia infanzia fu serena e non mi sono mai lamentato. La ruota, però, cominciò a girare. In maniera inaspettata, turbolenta. I problemi, infatti, arrivarono quando i miei decisero di separarsi. Fu un trauma, mi cadde il mondo addosso. Tutto d’un tratto vedi crollare le certezze, i muri si abbattono e rialzarsi non è mai facile. I miei presero questa decisione quando avevo sedici anni: mio padre era deciso, ma anche mia madre aveva un carattere molto forte. Quando due persone dal carattere dominante si scontrano, gli effetti possono essere devastanti e i miei litigavano spesso, ogni scusa era valida per iniziare a urlare. Quando litigavano cercavo di mettermi in mezzo. All’epoca ero già alto e robusto, mi mettevo tra loro due perché a volte non volavano soltanto parole grosse, ma anche altro: non potevo far finta di nulla di fronte a una situazione così degenerata. È stato uno dei periodi più complicati della mia vita. La separazione l’ho vissuta come una liberazione: litigavano e discutevano quasi ogni sera, era diventata un’abitudine quotidiana brutta da vivere, soprattutto per un adolescente che non può desiderare altro che vedere i genitori felici e insieme. Per me è stato un trauma. Attenzione però, come tutti i problemi gli stessi prendono poi diverse sfumature. Quel loro allontanamento mi è molto dispiaciuto, però ho visto mia madre riacquisire quella tranquillità che prima aveva smarrito. Era tornata serena dopo tanto, forse troppo tempo. Per un figlio non è mai piacevole vedere i genitori affrontarsi testa a testa, per questo il periodo successivo alla separazione l’ho vissuto
bene da questo punto di vista. C’era però un problema: per un po’ restammo al verde. Per un paio d’anni, infatti, non comprai un paio di scarpe da calcio. Non potevamo permettercelo. Mia madre cominciò a fare diversi mestieri, pur di non farmi mancare nulla. Il giorno del mio compleanno, mi fece un regalo con i risparmi messi da parte: andò da Franco Sport per comprarmi un paio di Adidas. In quel periodo portavo il 45 ai piedi, mi prese il 47: il regalo però era più significativo di due numeri in più di lunghezza, quindi dovevo solo apprezzare lo sforzo. E così feci. Giocai due campionati con quelle scarpe, ma per la storia che c’era dietro calzavano meglio di un paio con il numero esatto e mettevo tre paia di calze per indossarle meglio. Quelle scarpe sono uno dei ricordi più importanti della mia infanzia, insieme al completo di Dino Zoff. Per me era un dio, un esempio; mia madre mi regalò quel completo il giorno della mia Prima Comunione. Lo indossai subito, andai a giocare a calcio e, come al solito, mi ritirai pieno di fango. Anche in quel giorno di festa. Per me era festa ogni volta che avevo un pallone, soprattutto in quel periodo di vita familiare così difficile.
La separazione dei miei genitori influì molto sul mio carattere. Da piccolo ero vivace ma anche insicuro, condizionato dal rapporto tra mia madre e mio padre. Per lui è stato un duro colpo, perché non si aspettava che mia madre avesse la forza di fargli recapitare le carte dell’avvocato. Invece è successo. Fui il primo ad acconsentire. Quando mia madre mi disse che non ce la faceva più non potevo fare altrimenti, era un continuo litigare che doveva terminare in qualche modo. Soprattutto per la sua sicurezza e tranquillità. Mi chiese il parere e io gli risposi di sì: l’unica strada era la separazione. Rimasi con lei nello
stesso appartamento, fu mio padre a trasferirsi. Dopo la separazione, non l’ho visto per tanto, troppo tempo. Cambiò idea dieci anni dopo: mi chiamò un suo caro amico per raccontarmi questo suo desiderio, voleva rivedermi. All’epoca ero il portiere della nazionale. Me la sentii subito, restava comunque mio padre. Nella vita si sbaglia, tutti commettono errori. Sono il primo a chiedere scusa ogni volta che riconosco di aver sbagliato. Aveva voglia di rivedermi e ho accettato, senza tante esitazioni. Ci incontrammo all’Hotel Amadeus, a Borgo Panigale. Abitava lì vicino, il suo amico era il proprietario dell’hotel. Quando mi vide scoppiò a piangere e vedendolo così mi commossi anch’io. Dopo tanti anni, lo ricordo come un incontro pesante: a tratti non sembrava reale, anche perché certe cose non si dimenticano. Dieci anni sono tanti, troppi. Cercò di giustificarsi e io gli chiesi di metterci una pietra sopra e andare avanti: la cosa più importante è rendersi conto dei propri errori. Abbiamo sbagliato da entrambe le parti, anche perché in tutto quel tempo – sbagliando – non l’ho mai cercato neppure io.
Dopo la separazione io e mia madre diventammo una cosa sola: mi fece da madre e da padre, visse per me. Non aveva nemmeno quarant’anni quando mio padre andò via di casa, ma sono convinto che dopo di lui non ebbe più nessuno. Pensava solo a me e le stava bene così. Dopo la separazione i miei non si sono più riconciliati. Lei, appena sentiva menzionare mio padre, cambiava espressione sul volto, diventava quasi glaciale: non voleva più vederlo, né sentirlo nominare, le faceva troppo male rivivere certi ricordi. Mio padre si è poi rifatto una vita, si è risposato, senza però fare altri figli. I miei sono stati molto innamorati e a mia madre non pesava il fatto che lui si fosse
risposato. Poteva rifarsene un’altra anche lei, era giovane: ma decise di occuparsi di altro. Non lo fece mai, diventai il suo centro di tutto. Poi il tempo, la mia determinazione e il destino l’hanno ripagata di tutti quei suoi sacrifici. La seconda moglie di mio padre è morta nel 2020 e lui ne sta ancora soffrendo. Con lei ho avuto un ottimo rapporto, e so che lui ne era davvero innamorato. Quando ci vediamo una volta alla settimana a pranzo si commuove sempre quando parla di lei. È bello vederlo in questa versione inedita e il tempo l’ha sicuramente cambiato e reso migliore. Venne al funerale di mia madre: c’è chi dice che doveva farlo per forza e chi era del parere opposto, io so solo che apprezzai molto quel suo gesto. Mi telefonò addirittura per chiedermi il permesso, e io felice gli dissi naturalmente di sì. Avevano la stessa età. È stata sua moglie e con lei ha avuto un figlio.
Con mio padre ora va tutto bene: io non ho più mia madre, lui non ha più sua moglie. Siamo sereni, sinceramente non mi aspettavo di recuperare con lui i rapporti ma sono felice che sia accaduto. Quella parte di vita del passato ormai non torna più, ci abbiamo messo una pietra sopra. Se uno mi fa del male non dimentico, ma lui resta mio padre. Tutti sbagliano, ma se sbaglia un genitore fai di tutto per recuperare. Cerchiamo di evitare sempre questo argomento, anche perché sa come la penso. Evito certi discorsi e lui fa lo stesso con me, darebbe fastidio a entrambi. Con l’esperienza migliori, cerchi di non sbagliare più. Così come ho fatto io. Da giovane, ad esempio, avrei potuto continuare con la scuola, ma volevo solo giocare a calcio. Sono stato fortunato, se non fossi diventato un calciatore sarebbe stata davvero dura. Sono stato fortunato e, credo, anche bravo. Avevo più qualità di altri e l’ho dimostrato.
Soprattutto nelle giovanili del Bologna: ci allenavamo con tutti i portieri e notavo di avere qualcosa in più degli altri, sentivo di avere qualcosa in più. Il primo allenatore che mi disse che potevo fare carriera fu Franco Bonini, proprio quando giocavo nelle giovanili rossoblù. Disse che vedeva in me delle doti importanti e io impazzii dalla gioia, come se avessi già esordito in Serie A. Ero al settimo cielo.
La mia storia con il calcio comincia a un anno, avevo sempre la palla in mano. Le nostre vite sono nate insieme, in modo parallelo. Quando ero a casa organizzavo da solo delle partite con le palline da tennis, contro la porta di una stanza. Tutti ricordano – soprattutto i miei vicini di casa – il gran casino che facevo. Quando non potevo giocare con i miei amici, prendevo il pallone e andavo a divertirmi o nel cortile di casa mia o in quello dei vicini. Un pomeriggio andai a giocare nel cortile di un’anziana signora che, dopo un po’, leggermente infastidita, mi invitò a lasciare la sua proprietà. Mi arrabbiai, presi una lacca per capelli e gliela lanciai contro. Si fece male, andò a dirlo ai miei genitori che, com’è giusto che fosse, andarono su tutte le furie. Soprattutto mio padre.
All’inizio della mia carriera non giocavo in porta, ho iniziato a stare tra i pali dai quattordici anni in poi. Spaziavo un po’. Oggi è quasi impossibile o strano cambiare ruolo in corso d’opera, qualche tempo fa era più facile. «Dove vuoi giocare oggi?» «In porta». «Oggi invece?» «In attacco, mister». Sono andato avanti così per un paio d’anni, ma mi divertivo comunque. In attacco ero anche bravo, qualche gol lo segnavo anche grazie alla mia statura imponente. In porta il momento più bello erano i tuffi, poi ho capito che quello sarebbe stato il mio ruolo.
La mia prima esperienza l’ho vissuta alla Ceretolese, la squadra del mio paese: ci ho passato quattro anni. Quando iniziai a giocare, tra allenamenti e partite, a casa stavo ancora meno. Giocavo al campo Esso, nome ripreso dal benzinaio che lavorava lì vicino, oppure al Tripoli di Casalecchio di Reno: tra questi due campi alternavamo le nostre gare casalinghe. All’inizio giocavo un po’ dappertutto. Nelle prime partite in porta indossando guanti di lana: nelle prime gare giocai con quei guanti, anche perché all’epoca non esistevano i classici guanti da portiere. Poi mi trasferii per un biennio a Casteldebole, dove vincemmo il campionato battendo in volata il Porretta: in quella squadra giocava anche Pierpaolo Bisoli, quando ci incontriamo ricordiamo volentieri quei momenti. L’anno dopo andammo nei Giovanissimi A, feci un anno lì con il Casteldebole che conquistò addirittura la promozione in seconda categoria. Il portiere non era molto abile tra i pali, quindi nelle partite decisive chiamavano me. Ero sotto età, non potevo giocare ma lo feci lo stesso. La prima partita la perdemmo ma giocai comunque bene; poi ci fu la gara decisiva, contro il Cagliari. Parai il rigore decisivo sullo 0-0 e ci salvammo. Gli avversari fecero però reclamo: noi ci salvammo comunque, ma io venni squalificato un mese insieme a Ceselli, un dirigente del Casteldebole. Alla Ceretolese avevo Grondona, Maccanti e Schincaglia come allenatori: Schincaglia purtroppo è morto in un incidente stradale. A Casteldebole incontrai sulla strada Zanni e Bellotti, che è venuto a mancare lo scorso anno. Quando ero a Casteldebole mi spostai definitivamente in porta, anche se a volte ero costretto a uscire: un giorno sfidavamo l’ultima in classifica, noi eravamo penultimi. Il primo tempo lo giocai tra i pali, il secondo tempo il mister mi chiese di
andare in attacco. Subii fallo da rigore e segnai, vincemmo 1-0. Ho capito sul serio che sarei diventato portiere quando feci il provino al Bologna. I dirigenti rossoblù quell’anno avevano già stabilito i quadri con tutti i portieri, dissero che mi avrebbero ripreso l’anno successivo. E così fu. Feci il provino con Pietro Battara. Era il 1982. Volevo emergere e avevo fame, l’ho sempre avuta: sapevo che quella possibilità non potevo buttarla via. Per i miei non è stato facile accettare che il mio futuro sarebbe stato da calciatore. Mio padre aveva per me altri piani, voleva che andassi a lavorare. E io ci sono andato. A diciassette anni facevo il benzinaio alla stazione del paese. La mattina tutti i miei amici andavano a scuola e io andavo a lavorare, mentre il pomeriggio mi allenavo con la squadra. Il mio caro amico Andrea mi faceva lavorare tutte le mattine, mentre il sabato mi lasciava libero, dato che quasi sempre c’era la partita. Per me è stato come un divertimento. «E se diventassi un grande calciatore?» dicevo a mio padre. Mia madre invece mi ha sempre appoggiata. Merito anche dei miei continui assilli, ma mi ha sempre lasciato libero di fare quello che il mio cuore desiderava. Certo, poi si arrabbiava quando andava a scuola per gli incontri con i professori: «Suo figlio non studia, non si impegna». Era la solita filastrocca. Gliene dicevano di ogni colore, non poteva essere soddisfatta. Nonostante questo, non mi ha mai però impedito di realizzare i miei sogni, voleva solo che andassi bene a scuola. E non sempre ci sono riuscito. L’ho detto all’inizio ma non mi stancherò mai di ripeterlo: non avevo una seconda strada, o il calciatore o l’operaio, oppure qualcosa del genere. Avevo il diploma di meccanico, la strada era segnata ma alla fine ho capito che c’era qualcosa che sapevo fare meglio: il portiere.
Gianluca Pagliuca con la maglia degli Allievi Bologna.