20 minute read

3. Quella sera a Villa Mantovani

03 QUELLA SERA A VILLA MANTOVANI

Dopo la chiamata di Soncini ero al settimo cielo, c’era solo un problema: ero ancora al Comando militare. Mi venne un’idea geniale e folle al tempo stesso: un militare aveva a disposizione un’ordinaria, una licenza di dieci giorni che poteva reclamare per qualsiasi motivo. Feci la richiesta per averla senza pensarci due volte, l’accettarono e mi lasciarono andare. Partii, e il giorno successivo avevamo già la prima partita del torneo, ero molto emozionato: sarebbe stato il mio primo torneo importante. Ai quarti trovammo di fronte il Genoa a Marassi: lo stadio era pieno, più di 25mila persone, strano per un derby Primavera. Le curve erano esaurite. Era il mio battesimo in quella che sarebbe diventata la mia casa: il vecchio stadio era fantastico, emanava quell’odore di storia e capivi di essere in un tempio, in un luogo importante. Nel Genoa c’erano Franco Rotella, Roberto Simonetta, Stefano Eranio: fu una gara combattuta ma alla fine vincemmo di misura. Fu un bel derby. A seguire la sfida in tribuna c’era anche Roberto Mancini e a fine partita venne da me a salutarmi, ci conoscevamo di vista: lui era molto legato al Mago Bicoc-

Advertisement

chi, il custode di Casteldebole che conoscevo anche io in quanto eravamo amici di famiglia. Il debutto al Viareggio mi donò una carica di adrenalina e non vedevo l’ora di andare avanti. Arrivammo poi in semifinale, contro il Milan. Parai tre rigori e vincemmo contro i rossoneri che avevano il lusso di poter schierare gente come Alessandro Costacurta. Dopo la semifinale mi scadde la licenza e dovetti rientrare in caserma, a Poggio Renatico: una volta lì mi arrivò la lettera che notificava il mio spostamento a Bologna. Mi chiamò il tenente: «Sei aggregato alla Compagnia Atleti». Senza nessun avviso. Salutai tutti quasi in maniera liberatoria: escluso un ragazzo, tutti gli altri non erano molto simpatici, non avevo stretto un rapporto con loro. Mi trasferii dunque alla Compagnia Atleti e lì mi diedero un’altra licenza, questa volta per quattro giorni. Andai quindi a giocare la finale del Viareggio contro l’Inter: purtroppo perdemmo ma, per me, quella manifestazione fu determinante. Fu il mio primo torneo importante, c’era la diretta televisiva e per me era un grande onore, un importante privilegio anche perché quella squadra era davvero forte: c’erano Maurizio Ganz, Michele Zanutta, Antonio Paganin. In tribuna a seguire i propri ragazzi c’era sempre Paolo Mantovani, il presidentissimo della Sampdoria: non si perdeva una sfida. Poco dopo la finale contro l’Inter venne da me e mi fece i complimenti: «Sei bravissimo» mi disse. Lo ringraziai visibilmente emozionato. Dopo la finale tornai al Bologna per sei mesi e fino a giugno ho continuato a giocare lì, diventando il terzo portiere della prima squadra. Intanto stavo pensando al mio futuro, non sapendo cosa mi avrebbe riservato il destino; qualche settimana più tardi mi chiamò il presidente del Bologna, dicendomi che l’anno successivo mi avrebbero mandato in

prestito all’Ospitaletto. All’epoca giocava in Serie C2 ma per me andava bene così, ero giovane e sapevo di dover accumulare esperienza. Il mio destino però non era quello: un paio di settimane dopo, infatti, ricevetti la telefonata di Domenico Arnuzzo, all’epoca direttore della Sampdoria, che mi disse: «Ti stiamo per acquistare, vorresti trasferirti alla Sampdoria?». Non esitai nemmeno per un secondo, accettai subito. La dirigenza blucerchiata mi chiese di non parlare con nessuno e di rifiutare tutte le eventuali offerte che avrei ricevuto da lì fino a giugno; Arnuzzo chiamò direttamente me, la società rossoblù non ne seppe nulla. Qualche giorno dopo mi contattò il direttore sportivo del Bologna, Nello Governato, che mi ribadì la volontà di mandarmi in prestito; lo bloccai subito e gli dissi che non ero più interessato alla loro proposta.

Passò un po’ di tempo fino alla prima svolta della mia carriera: dopo qualche mese da quella chiamata, la Sampdoria concretizzò l’affare e mi acquistò per 300 milioni di lire, il Bologna fu stupito dalla mia scelta, ma secondo me nemmeno tanto. Voci di corridoio dicevano che il preparatore dei portieri del Bologna, Rino Rado, disse alla dirigenza di vendermi senza problemi perché in porta avevano un certo Ivan Gamberini, che reputavano più forte di me. Mi cambiava poco: sono stato io a scegliere la Samp, non sono stati loro a mandarmi via. Mia madre era contenta da un lato e triste dall’altro: non avrebbe potuto più vedermi con frequenza, ma sapeva che per me era una grande opportunità. Firmai un contratto molto lungo, cinque anni: avrei guadagnato tre milioni di lire al mese, stavo toccando il cielo con un dito. Andai a ufficializzare l’accordo a Milano Marittima dal direttore sportivo della Sampdoria, Paolo Borea, che aveva la casa lì. Partii da Bologna con il mio

amico Davide Venturi. «Sarai il portiere del futuro della Sampdoria» mi disse Borea. Pensavo fosse la solita frase di circostanza, una di quelle buttate lì per caricarti o forse per manipolarti. Fortunatamente non fu così.

Iniziò così la mia avventura a Genova in maniera inaspettata. La mia vita stava cambiando di giornata in giornata senza alcun avviso, e forse era bello proprio per questo: avevo diciannove anni e lasciai casa per raggiungere i miei sogni. La città ligure era ed è diversa da Bologna, Genova è taciturna, silenziosa, il classico genovese è molto chiuso. Anche io sono un po’ così avendo vissuto lì per tanti anni, mi faccio gli affari miei e sono una persona molto tranquilla. Per entrare in un gruppo di amici dovevi conoscere qualcuno, ma nonostante questo mi ambientai subito. Iniziai il mio percorso alla Samp come terzo portiere dietro Guido Bistazzoni e Roberto Bocchino: arrivai a Genova senza scarpe o guanti, pensavo mi avrebbero dato tutto loro. Arrivato al centro sportivo mi si avvicinò uno dei due magazzinieri, Claudio Bosotin: «E la tua roba?» «Non ce l’ho» gli risposi. Mi diedero un paio di scarpe vecchie dell’Adidas, anche perché le famose scarpe numero 47 erano inutilizzabili, bucate dopo due anni in cui avevano patito molto; il magazziniere chiese un paio di guanti per me a Guido, ma lui non me li diede. Riuscii a recuperarne un paio da Bocchino, il suo secondo. Fu un episodio che diventò noto. Un paio d’anni dopo, Bosotin mi disse: «Belin, non ti ha voluto dare i guanti e adesso gli fai le scarpe». Nonostante questo, Guido era un bravo ragazzo, molto chiuso, avevamo un discreto rapporto. Aveva solo un problema: prima di ogni gara andava sempre in bagno. Gli altri compagni non lo stimavano molto proprio per questo motivo, gli imputavano la mancanza di coraggio

e di personalità, sentiva molto la pressione delle partite. Non credo sia stata colpa della concorrenza tra portieri, anche perché io ero molto più giovane di lui, forse in allenamento notava le mie potenzialità, ma non credo avesse paura di me: sarebbe stato strano avere addosso la pressione di un ragazzo che non aveva ancora esordito in Serie A. In quel periodo mi allenavo tutta la settimana con la prima squadra, mentre il sabato mi mandavano a giocare con la Primavera; facemmo un bell’anno con i giovani e arrivammo nelle parti alte della classifica. Io mi sentivo già pronto per la prima squadra e avevo voglia di misurarmi con i grandi, sapevo di essere pronto. Ovviamente la società voleva che io giocassi per non farmi perdere il ritmo. Terminato il primo anno andai a parlare con Mantovani, dicendogli che avrei voluto già compiere un salto in avanti. Lui, però, aveva dei piani per me. Un giorno ci incontrammo e mi disse: «C’è il Prato che vorrebbe ingaggiarti, in Serie C. Probabilmente ti manderemo in prestito lì con l’obiettivo di riprenderti, perché per il futuro puntiamo su di te». A me andava bene così. Nel frattempo, dopo la prima stagione diventai il secondo portiere, pronto per debuttare in Coppa Italia, dato che di solito i secondi portieri giocavano proprio quel torneo. E così fu: debuttai ufficialmente con la Samp nella gara contro il Torino: era il 6 settembre 1987. In maniera inaspettata. Una volta la Coppa Italia era composta da gironi da sei squadre, dovevi giocare cinque partite per qualificarti. Le prime quattro le giocò Bistazzoni, mentre l’ultima la giocai io contro la squadra granata. Fu una grande emozione: ricordo l’ingresso in campo, mi sentivo importante e sapevo che sarebbe stata la mia prima grande occasione. Al Comunale vincemmo 2-0 grazie a una doppietta di Vialli.

Non subii gol e vincemmo, non poteva andare meglio. Fu un giorno decisivo, emozionante, mi caricò molto: da lì in avanti ero sempre più consapevole di poter diventare il numero uno. Giocai poi le due finali anche se i piani di Boškov erano diversi. Qualche giorno prima della trasferta di campionato contro l’Inter, venne da me e mi disse: «Sei pronto? Le ultime tre di campionato le giochi tu, mentre Guido gioca la finale di Coppa Italia». «Va bene» gli risposi. Andammo a giocare a Milano contro i nerazzurri; perdemmo 3-1 e Bistazzoni non giocò bene, subì due gol evitabili. Qualche giorno dopo eravamo in ritiro all’Hotel Astol, era un giovedì mattina. Mi si avvicinò Boškov e mi disse: «Oillallà, sei pronto per giocare?». «Giocare cosa?» gli risposi. «Tu giochi la finale di Coppa Italia». Impazzii, avrei giocato la finale. Non me l’aspettavo ma sapevo di dover dimostrare qualcosa, nonostante avessi saputo senza preavviso, sarei cresciuto anche attraverso questi tranelli. Infatti non sbagliai, giocai molto bene. Vincemmo 2-0 la finale d’andata contro il Torino e a fine partita andai a festeggiare alla Manuelina, dove facevano la focaccia più buona di Genova. Fu una settimana piena di emozioni.

Tre giorni dopo quella vittoria in Coppa arrivò anche il debutto in Serie A, contro il Pisa: 8 maggio 1988. Prima della gara pensai a tante cose. Pensai agli inizi, a quando mia madre fece tanti sforzi per acquistarmi quelle Adidas numero 47. Ero felice. Contro i toscani la partita era diversa rispetto a quella contro il Toro: avevano bisogno di un pareggio per la salvezza, mentre noi eravamo già tranquilli. Ricordo l’ingresso in campo, come un pugile che entrava sul ring, mi sentivo a casa. Mi gustai tutto, dall’erbetta perfetta alla Curva Sud, con i colori blucerchiati che dominavano Marassi e dominavano me. Fu una partita

scialba: all’ultimo rischiammo anche di perdere, si presentò davanti a me Mario Faccenda ma gli chiusi lo specchio. Non subii gol e per me fu come una vittoria, nonostante il pareggio. Quella partita mi diede molta determinazione: volevo dimostrare – di partita in partita – dove sarei potuto arrivare.

La domenica successiva andammo a giocare al San Paolo contro il Napoli di Maradona, anche se lui in quella partita non giocò perché aveva da poco litigato con Ottavio Bianchi. Boškov mi confermò, non me l’aspettavo. Lì subii il mio primo gol in A: segnò Andrea Carnevale ma vincemmo lo stesso. Quattro giorni più tardi era in programma la finale di ritorno di Coppa Italia contro il Torino, eravamo reduci dal 2-0 dell’andata ma in quell’occasione la situazione si fece complicata. I granata andarono sul 2-0 e più volte rischiarono di fare il terzo. Riuscimmo a resistere, e ai supplementari segnammo e alzammo la Coppa. Fu il mio primo trionfo. Non me lo sarei mai aspettato: in poco tempo sono passato dai campi di paese al trionfo in Coppa Italia con la maglia della Samp. Già un trofeo in bacheca, forse stavo sognando ma non volevo svegliarmi. Dopo la vittoria andammo a festeggiare da Carmine, a Quinto; i tifosi ci attendevano fuori e quando uscii dall’autobus sentii l’affetto delle persone. «Grazie, Pagliuca» per me era un sogno. Dopo quel trionfo capii che avrei potuto fare il titolare, sentivo di avere qualcosa in più degli altri e anche i senatori della squadra, Mancini e Vialli, avevano molta fiducia in me. Lo stesso pensava la società. A Bologna non avevo sentito la stessa fiducia, a Genova era diverso. Il giorno dopo il trionfo, i festeggiamenti proseguirono nella villa del presidente: Villa Mantovani, sulle colline di Sant’Ilario. Durante la cena mi guardò sen-

za dire nulla e mi fece segno di andare nel suo studio, feci un cenno con la testa e lo seguii. Mi sentivo come Dante che seguiva Virgilio, ma non verso l’Inferno: ad attendermi c’era la porta del Paradiso. Credevo mi annunciasse il trasferimento al Prato, in Serie C. Non mi aspettavo nulla, sapevo di essere giovane ed ero consapevole che, in caso mi avesse mandato in prestito, lo avrebbe fatto solo per farmi maturare. Ci sedemmo e mi disse: «Preferisci fare il titolare al Prato o il titolare alla Sampdoria?». Mi bloccai per un po’. «Non rispondere, dalla tua faccia ho già capito tutto.» Da lì iniziò tutto. Quella sera a Sant’Ilario capii che sarei diventato un perno di quella squadra. Lo spogliatoio mi accolse bene. Mi prendevano in giro perché loro arrivavano agli allenamenti con auto di lusso, mentre io avevo il Pandino. Spesso dovevo fermarmi in autostrada perché a volte, superati i cento all’ora, dovevo per forza far respirare l’auto.

Sono stato accolto bene soprattutto dai senatori: Roberto Mancini, Gianluca Vialli, Pietro Vierchowod e Luca Pellegrini, il capitano. A differenza dei primi tre, Pellegrini era molto schivo e chiuso, si faceva gli affari suoi. Durante le partite erano Mancini e Vialli che prendevano in mano le redini dello spogliatoio, Luca interveniva se ne sentiva l’esigenza, altrimenti preferiva non esporsi. Era comunque un grande spogliatoio, quello del primo biennio a Genova. Prima delle gare, Mancini metteva le canzoni della Sampdoria, era appena uscito il disco: sette canzoni, tra cui Lettere da Amsterdam. Che persona, il Mancio. Ha sempre avuto un grande carattere e un forte carisma, lo stimavo molto. Aveva tanti pregi e un difetto ben riconoscibile: era molto permaloso. Come me, d’altronde, forse per questo ci capivamo bene.

I primi tempi legai molto con Marco Lanna: con lui strinsi subito un ottimo rapporto d’amicizia, in un periodo ci fidanzammo con due sorelle e nello spogliatoio eravamo diventati “i cognatini”. Abbiamo condiviso molto, è stato anche il mio compagno di camera per tanto tempo, eravamo sempre insieme.

Vierchowod era il “bastian contrario” di tutto: in campo generoso, fuori era molto ruvido. Eravamo poli opposti, due caratteri diversi quasi in ogni sfumatura; una volta ci mettemmo anche le mani addosso ma questa è un’altra storia. La cosa bella era che, nonostante i litigi, il giorno successivo eravamo sempre a pranzo insieme, sempre nello stesso ristorante: La Ruota in via Oberdan, a Nervi.

Vialli era il leader dello spogliatoio, aveva una buona parola per tutti: era bravo e capace perché aveva un metodo di approccio diverso per ogni compagno, sapeva come parlare con me e sapeva come comportarsi con gli altri, perché capiva come avremmo reagito in base al nostro carattere. Cercava quindi di evitare scontri. Vialli era solito fare scherzi, come quello degli stuzzicadenti o quello dell’uovo in testa. Tagliava i calzini e le mutande, una volta urinò nella Gatorade al limone di Salsano, temperatura ambiente: Fausto la prese malissimo.

Poi c’era Enrico Chiesa, salito dal Settore giovanile; Pietro lo chiamava “Pippo”. Faustino Pari era un ragazzo meraviglioso, il nostro ragioniere: guardava i nostri conti e pagava le nostre multe, incassava i soldi. Poi c’era Toninho Cerezo, mi chiamava “il belu di Bulogna”: arrivava al campo con i suoi cani che quasi ogni giorno si liberavano nei punti vicino la porta in cui mi dovevo buttare. Mi arrabbiavo ma lui mi diceva: «Sì, ma da qualche parte devono pur farla». Bocchino lo ebbi sia a Genova sia ad

Ascoli, lì come preparatore: anche lui un bravo ragazzo, era molto amico di Vialli. Si è sempre accontentato, a lui andava bene fare il secondo. Hans Briegel era fantastico, una forza della natura e gentile d’animo: si trovava bene con i giovani, usciva spesso con noi mentre con gli altri non strinse un ottimo legame. Antonio Paganin lo ebbi al Bologna Primavera e poi all’Inter: era particolare ed estroso, a volte gli partiva la brocca. Ho avuto un ottimo rapporto anche con Marco Branca che però ebbe diversi problemi con Boškov, infatti fu ceduto e poi ripreso, anche perché tecnicamente era davvero forte. Fulvio Bonomi mi ha aiutato molto, di solito andavo a mangiare a casa sua e di sua moglie, Antonella. Era molto amico di Luca Fusi e spesso uscivamo in tre. Prima della partita non mangiava mai. Adesso è fondamentale l’alimentazione, lui all’epoca non toccava niente. I primi tempi era in camera con me: si alzava la mattina, si faceva la barba e andavamo giù a far colazione per poi restare a digiuno, nemmeno un caffè. Nonostante questo, fu proprio lui a gestirmi perché amava accudire i giovani come me, Ganz, Paganin. Eravamo tutti sotto la sua custodia e lui sapeva come gestirci. Anche il presidente credeva molto in me, per lui la Sampdoria era una passione. Quando iniziai a essere titolare, per lui cominciò il “ciclo Pagliuca”, perché da lì in poi abbiamo iniziato a vincere trofei. Diceva sempre che ero la sua assicurazione per il cuore, Lombardo era l’assicurazione per la sua vita e Mancini era la sua vita: fino a quando lui sarebbe restato alla presidenza dalla Sampdoria noi non saremmo più andati via, e sono convinto che se Mantovani avesse vissuto per altri anni io sarei rimasto a Genova.

Il mio primo anno tra i grandi lo chiudemmo al quarto posto e – grazie alla conquista della Coppa Italia – ci

qualificammo di diritto per la Coppa delle Coppe. Finalmente esordii anche in Europa. Passare dai campi di paese all’Europa è stato un salto triplo, giocammo subito contro l’Ifk Norrköping per il primo turno della competizione: mi avevano appena convocato per le Olimpiadi di Seoul, fu un periodo fortunato. Feci molto bene nonostante il giorno prima presi un calcio in faccia in allenamento, giocai con un labbro spaccato. Nonostante una prestazione positiva perdemmo 2-1, mentre a Marassi la ribaltammo grazie a Salsano e Vialli e riuscimmo a qualificarci: buona la prima.

Mi ambientai subito alla realtà europea, percepivo una forte adrenalina e provavo emozioni più forti rispetto alle partite di campionato. Mi sentivo al posto giusto. Al secondo turno beccammo il Carl Zeiss Jena, squadra della Germania dell’Est diventata celebre per aver eliminato la Roma in Coppa Uefa con una grande rimonta: 0-3 all’andata, 4-0 al ritorno. Con noi la storia era diversa, giocammo in un campo dove c’erano ancora quelle trombette tedesche, stile anni Ottanta, molto folkloristico. Prima della partita andammo a comprare i cannocchiali di Jena, famosi in tutto il mondo. Dopo qualche ora di svago scendemmo in campo; fu una partita combattuta, cercarono di aggredirci ma ci difendemmo: alla fine pareggiammo 1-1 lì in un freddo glaciale. Al ritorno a Marassi riuscimmo ad avere la meglio: vincemmo 3-1, avanzammo ai quarti di finale e le cose iniziarono a farsi più complicate. Affrontammo la Dinamo Bucarest di Mircea Lucescu, il centravanti di quella squadra era un certo Rodion Cămătaru, scarpa d’oro, un fisico imponente, non un cliente facile. La cornice allo stadio era impressionante, 20mila persone: non semplici tifosi ma militari, perché la Dinamo era la

squadra dell’esercito. Eravamo costretti a giocare all’ora di pranzo, perché in Romania c’era il coprifuoco. Pareggiammo 1-1, poi tornammo subito a casa perché non potevamo viaggiare dopo il tramonto. Al ritorno – giocato a Cremona per via di lavori a Marassi – impattammo 0-0 e riuscimmo a passare il turno. Non avevamo un obiettivo minimo in quella manifestazione, ma più andavamo avanti e più eravamo consapevoli di poter fare qualcosa di importante. Arrivammo dunque in semifinale pronti a sfidare il Malines, squadra detentrice del trofeo: erano molto pericolosi e sicuramente più esperti di noi. Lo stadio era piccolissimo ma c’erano 20mila persone e il tifo era stile inglese. Il loro portiere, Michel Preud’homme, fece arrivare ogni rinvio verso la mia porta, aveva un tiro lunghissimo. Alla fine perdemmo 2-1. Nonostante la sconfitta sapevamo di poterla ribaltare: infatti al ritorno li schiantammo 3-0 in una gara senza storia, e riuscimmo a qualificarci per la finale.

L’ultimo atto lo giocammo a Berna, in Svizzera: avremmo affrontato il Barcellona. Arrivammo a quella partita in condizioni fisiche complicate: il Mancio era infortunato, Gianluca si stirò durante il riscaldamento, Pellegrini non stava bene e inoltre lo stadio era in condizioni orribili. Tutto questo ci condizionò e infatti non giocammo una buona gara, perdemmo 2-0 in una partita senza storia. Fu una bella esperienza ma perdere in finale ha fatto davvero male, eravamo a un passo da un grande traguardo ma non riuscimmo a superare gli spagnoli, che si dimostrarono più forti ed esperti di noi. Fu comunque un importante banchetto di prova per la mia mentalità e il mio carattere.

Quattro giorni più tardi ci fu la conclusione della stagione con la Supercoppa italiana, contro il Milan: purtroppo perdemmo 3-1 e a nulla servì il gol di Vialli. Erano

più forti di noi e ci surclassarono. Nonostante la sconfitta, la stagione fu positiva e preparammo l’annata successiva consapevoli di poter fare qualcosa di importante. Ci concentrammo sul campionato e sulla Coppa delle Coppe, anche perché in Europa volevamo rifarci.

Il cammino in Serie A fu altalenante, sapevamo che c’erano squadre più attrezzate di noi per poter competere per lo scudetto; infatti negli scontri diretti non riuscimmo quasi mai a imporci. Sbagliammo molto contro le grandi squadre, e tutto questo portava a litigate interne. Io discussi con Vierchowod; ci beccavamo spesso già in allenamento ma l’apice lo raggiungemmo in partita, contro la Lazio. Cross di Di Canio, Pari la deviò e la palla si impennò, la lasciai rimbalzare e la bloccai. Pietro iniziò a urlarmi contro: «Che cazzo fai, esci prima». Non ci vidi più, lo presi per il collo e lo alzai da terra, tutto questo sotto la curva della Samp. «L’anno prossimo, o te ne vai tu o me ne vado io» mi disse. «Vai via tu» gli risposi. I tifosi iniziarono a gasarsi, non si aspettavano che un ragazzino potesse avere una reazione così. Vincemmo comunque 2-0. A fine partita andammo a salutare i tifosi, Vialli venne da me e mi disse di andare ad abbracciare Pietro, ci siamo dati il cinque. Nello spogliatoio arrivarono poi Mantovani e Boškov, Vujadin disse: «Presidente, multa per Pagliuca». Mantovani rispose: «No, niente multa per Pagliuca, è stato il primo ad avere il coraggio di menare Vierchowod». Questa era la cosa bella di quella squadra: litigavamo ma poi non avevamo bisogno di chiarimenti, rientrava tutto in automatico. Avevamo un grande gruppo e nessun litigio avrebbe potuto rovinare una macchina perfetta.

Intanto sfidammo l’Inter nella Supercoppa italiana. Volevamo vincere, volevamo un altro trofeo da mettere in

bacheca. Giocammo però una brutta partita, dominarono e alla fine vinsero con merito grazie alle reti di Cucchi e Serena. Non facemmo drammi, anche perché l’obiettivo stagionale era quello di andare avanti più possibile in Coppa delle Coppe. Di nuovo in Europa, più determinati dell’anno prima. Partimmo dai sedicesimi di finale incrociando i norvegesi del Brann; arrivammo in una città stupenda, Bergen, avvolta da cime elevate. Proprio per questo motivo la città veniva chiamata “la città delle sette montagne”. In partita non ci fu storia e li battemmo sia all’andata sia al ritorno. Agli ottavi di finale incontrammo il Borussia Dortmund, una sfida più ostica rispetto alla precedente.

In terra tedesca riuscimmo a resistere e a impattare 1-1, segnò Mancini su un mio rinvio: giocai molto bene. C’era anche Azeglio Vicini in tribuna; infatti, da lì in avanti iniziarono a seguirmi in vista del Mondiale in Italia. Al ritorno a Marassi li battemmo 2-0 e riuscimmo a qualificarci per i quarti di finale. Di fronte a noi il Grasshoppers: vincemmo sia in casa sia in Svizzera.

Eravamo a un passo dalla seconda finale consecutiva, l’ultimo ostacolo sarebbe stato il Monaco di Thierry Henry, Ramon Diaz e George Weah, allenato da Arsène Wenger. All’andata, in Francia, cercarono di imporre il loro gioco ma riuscimmo a strappare un pareggio fondamentale in vista del ritorno, dove a Genova li superammo 2-0. Qualificati per la finale, ancora una volta; non potevamo sbagliare di nuovo, perdere due finali consecutive ci avrebbe ammazzato. A Göteborg, per l’ultimo atto, avremmo affrontato l’Anderlecht. Qualche giorno prima c’era aria di festeggiamenti perché si sposava il Mancio, divertimento ma con la testa alla finale. Dopo quel giorno di festa ci preparammo per la grande sfida. Prima della finale, venne da

noi in Hotel un certo Paolo Villaggio, ci venne a salutare; prima della gara andammo a messa, quell’anno fu un’abitudine prima di ogni gara giocata in Europa. Eravamo più consapevoli e più maturi rispetto alla stagione precedente: eravamo fiduciosi. Loro erano sicuri di vincere, avevano già portato lo champagne nello spogliatoio. Entrammo in campo molto convinti ma non riuscimmo a sbloccarla subito. I loro attaccanti non mi impensierirono molto. Ci pensò Vialli ai supplementari a regalarci il trofeo grazie a una doppietta. Fu una gioia immensa, avevamo vinto la Coppa delle Coppe. Il mio primo trofeo europeo. Trionfare in Europa ha sempre avuto un sapore speciale, a prescindere dall’importanza della coppa. Lì, in quella fredda sera di Göteborg, ebbe inizio il ciclo Samp. Non lo sapevamo ancora, ma avevamo compiuto il primo passo per costruire qualcosa di importante.

This article is from: