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2. Ogni giorno è un nuovo giorno

02 OGNI GIORNO È UN NUOVO GIORNO

Il 1982 fu un anno tragico per me, ci fu la retrocessione del Bologna e ne soffrii molto: passai un periodo molto complicato. Mi salvò l’Aston Villa – l’altra mia squadra del cuore – che vinse la Coppa dei Campioni e l’Italia, che trionfò al Mondiale e mi regalò un’estate pazzesca. In quei giorni il vento stava cambiando e arrivò la prima svolta della mia carriera. Una settimana più tardi mi giunse una lettera dal Bologna dove annunciavano il mio ingresso in squadra. Fu una grande gioia, dato che stavo attendendo con ansia quella grande opportunità. È da lì che iniziò la mia storia con Pietro Battara, il mio grande maestro, mi ha svezzato ed è stato il mio punto di riferimento, avevo delle qualità ma lui mi ha fatto diventare un grande portiere, le ha alimentate e mi ha fatto maturare sotto tutti i punti di vista. L’ho avuto per otto anni: mi ha criticato anche molto ma sempre in maniera costruttiva. I suoi carichi di lavoro erano duri ma il suo lavoro è stato importante per me, fisicamente e psicologicamente. All’inizio ero un po’ sfacciato, volevo scalare la vetta della montagna e lui ha cercato ed è riuscito a farmi riflettere e ragionare. Qualche giorno dopo quella lettera mi

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presentai dunque al centro tecnico rossoblù per le visite di rito e da lì iniziò il mio percorso, ero emozionato.

In quella stagione la società era un po’ allo sbando: il presidente, Tommaso Fabbretti, aveva venduto tutto. Regnava il caos. Quell’anno c’erano le squadre Allievi, Berretti e Primavera: potevo giocare in tutte e tre le categorie. Facevo la panchina in Primavera, a sedici anni, ero la riserva di Costante Turchi mentre mi dividevo in campo tra Allievi e Berretti, l’equivalente dell’attuale Under 18. Di solito, il sabato andavo in panchina con la squadra della Primavera con l’allenatore che poi mi avrebbe portato alla Sampdoria, Antonio Soncini. La domenica mattina giocavo con gli Allievi oppure con la Berretti, feci anche dei tornei e vinsi il premio come miglior portiere, uno dei più belli lo giocai a Viterbo: venimmo eliminati dalla Fiorentina, ma giocai comunque bene e ricevetti il premio come miglior portiere. Un’altra importante esperienza la trascorsi in Francia, giocammo contro Lione e Marsiglia: c’erano 10mila persone allo stadio. Il primo anno lo passai così. Ebbi diversi allenatori capaci quell’anno: la Berretti era allenata da Franco Bonini, mentre Rino Verardi era il mister degli Allievi. La stagione successiva giocai con la Berretti, dato che il Bologna non poteva partecipare al campionato Primavera in quanto retrocesso in Serie C. In quell’annata giocai poco perché davanti a me c’erano Marco Ballotta e Andrea Pazzagli, rispettivamente secondo e terzo della prima squadra e che ogni tanto giocavano con la Berretti, restai quindi negli Allievi. La maggior parte dei miei compagni in Primavera non li conoscevo, ci siamo incrociati direttamente in campo; quell’anno c’erano Giancarlo Marocchi e Francesco Gazzaneo, furono gli unici insieme a me che poi avrebbero fatto carriera.

Nei miei anni nel Settore giovanile rossoblù il preparatore dei portieri era Giuseppe Vavassori, che purtroppo è mancato poco dopo: c’erano diversi portieri, almeno sei o sette. Un giorno eravamo a Vignola per un torneo, sfidavamo l’Inter e io avrei dovuto giocare da titolare. Tutti i giorni mi pesavano, Vavassori mi pesò e uscì fuori che ero in sovrappeso di due chili: 82 invece di 80. Si infuriò e non mi fece giocare, in porta ci andò Del Bianco. La presi molto male ma ovviamente non gli dissi nulla perché ero ancora un ragazzino. Da quel giorno iniziai a tenere sotto controllo l’alimentazione: sono sempre stato molto robusto, dovevo stare sempre attento anche perché mi piaceva mangiare. Lì accusai il colpo. Quell’anno fu particolare: giocavo e non giocavo, fu una stagione di transizione, mi trovai meglio l’anno prima perché giocavo con più costanza.

L’anno dopo arrivò sulla panchina rossoblù Renzo Ragonesi, storico collaboratore di Franco Colomba. Un tipo molto strano: non aveva un linguaggio fluido e spesso sbagliava verbi o coniugazioni, ma nonostante ciò era un tipo divertente. Quell’anno accadde un episodio che mi fece scattare. Dovevo giocare in Coppa Italia, contro il Parma; convocarono Ballotta. Finsi un infortunio perché non avevo voglia di stare in panchina, solo che il portiere del Bologna si fece male e Ballotta fu costretto a tornare in prima squadra; andai dal mister e gli dissi che stavo abbastanza bene. «Se vuole posso giocare» gli dissi. «Va bene, va bene» mi rispose. Mi convocò, il mister ci disse la formazione e in porta c’era De Luca. Mi mise in panchina, a fine partita venne da me e mi disse: «Non devi prendermi in giro. Non farlo più, altrimenti con me non giochi più». Dalla domenica successiva iniziò il campionato e io venni promosso titolare: alla prima giocammo a Brescia e vincemmo

di misura, parai un calcio di rigore. Da lì in poi giocai sempre e di partita in partita notavo che le mie prestazioni aumentavano, nonostante ai piedi avevo sempre il numero 47: ogni partita per due anni sempre con quelle scarpe ai piedi.

Quegli anni furono montagne russe e l’anno dopo arrivò un’esperienza molto dura, venni chiamato per fare il militare: lo feci a Macerata, Poggio Renatico e Viterbo. Un giorno – mentre mi stavo allenando – mi arrivò la loro comunicazione, ma il Bologna non si interessò a me. Alcuni ragazzi nemmeno giocavano, ma avevano comunque inviato la richiesta per essere inseriti nella Compagnia Atleti, io sono stato costretto a partire: un giorno guardia e un altro riposo. Magari avrei potuto parlare con la società, ma loro comunque avrebbero dovuto interessarsi, alcuni calciatori che giocavano in campionati minori vennero aggregati nella Compagnia Atleti mentre io sono stato costretto a partire, fu un errore clamoroso. Il presidente, Gino Corioni, e il direttore sportivo, Nello Governato, non fecero nulla; mia madre si infuriò e andò a parlare con loro per cercare di spostarmi ma era un compito molto difficile, una prassi lunga, ci misero cinque mesi per trasferirmi. Da settembre a gennaio sono stato costretto a stare lì, fu una sofferenza anche perché io non mi allenavo mai. Fortunatamente il Bologna mandava la cartolina in caserma e quindi avevo la licenza dal venerdì alla domenica sera: andavo a giocare senza mai potermi allenare, dicevo che mi allenavo tra Macerata e Viterbo ma invece non era vero, non potevo perdere l’anno. Fu un’esperienza dura. «Chi pensi di essere? Sei un calciatore ma qui non ci importa nulla» mi dissero un giorno. Ricordo il tenente Poluzzi, era abbastanza severo: «Fino a quando sei qui devi fare la guar-

dia». Io non facevo mai questioni, volevo soltanto giocare. Nonostante non mi allenavo feci sempre bene. Quando ero a Poggio Renatico facevo un giorno guardia e un giorno riposo: spesso lavoravo anche di notte e il mio fisico ne risentì, ma almeno potevo allenarmi un po’.

La svolta arrivò qualche settimana più tardi. Giocavamo a Ferrara, contro la Spal Primavera: ero stremato, non stavo bene ma continuai a giocare e feci bene. Tornai in caserma e intanto mi salì un po’ di febbre. Mi chiamarono qualche giorno dopo e mi dissero: «Guarda che a Vicenza ti verranno a vedere due osservatori della Sampdoria». Era in programma, infatti, Vicenza-Bologna. Ovviamente nessuno mi conosceva. Il problema era che quel giorno avevo 38 di febbre ma poco mi importava, partii lo stesso: giocai la gara con la febbre alta, perdemmo ma feci una grande prestazione. Dopo la partita non riuscivo a stare in piedi e furono costretti a ricoverarmi per una settimana all’Ospedale militare di Ferrara. Una volta non esistevano i cellulari, mia madre era preoccupata perché non sapeva come rintracciarmi. Riuscii a chiamarla con il telefono a gettoni e la tranquillizzai, intanto mi ripresi. Qualche giorno dopo mi telefonò Antonio Soncini: «Uè, rincoglionito. Alla Sampdoria non sono soddisfatto dei miei portieri, ti vorrei in prestito per il Torneo di Viareggio».

Gianluca Pagliuca con la maglia della Sampdoria.

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