VOLARE LIBERO (di Gianluca Pagliuca e Federico Calabrese)

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RITRATTI Collana

Ruby Tuesday, The Rolling Stones

Dal punto di vista professionale e comportamentale è stato un esempio. La sua dedizione a questo sport è stata totale. Non è mai stato una prima donna, si è sempre comportato correttamente con allenatori e compagni. Ha doti tecniche e fisiche notevoli, oltre a una smisurata ambizione: caratteristiche che lo hanno fatto diventare un grande del vostro calcio. È sicuramente tra i primi tre portieri italiani di sempre.

Vujadin Boškov

Catch your dreams before they slip away.
Cattura i tuoi sogni prima che scivolino via.

PAGLIUCA

Volare libero

Prefazione di Roberto Mancini

MINERVA
GIANLUCA
INDICE Prefazione di Roberto Mancini..................................... 9 1. Il campo del prete, le Adidas World Cup n. 47 e Domenica Sprint ........ 13 2. Ogni giorno è un nuovo giorno .............................. 27 3. Quella sera a Villa Mantovani ................................. 33 4. 19 maggio 1991 ..................................................... 49 5. Wembley al tramonto ............................................. 67 6. Punto di rottura ..................................................... 81 7. 1994, il grande salto ............................................... 91 8. Montagne russe .................................................... 111 9. Itaca ..................................................................... 129 10. Alti e bassi .......................................................... 145 11. Acque profonde .................................................. 159 12. 17 settembre 2006 e 18 febbraio 2007 ............... 173 13. Maestri di vita .................................................... 183 14. L’Italia chiamò .................................................... 192 15. Notti mondiali ................................................... 207 16. Vivere alla velocità dei sogni ............................... 231 17. Dai, sali e vai ...................................................... 237 18. Album di famiglia .............................................. 243 19. Volare libero ....................................................... 249 Ringraziamenti ......................................................... 253 Album fotografico ............................................. I-XXXII

PREFAZIONE DI ROBERTO MANCINI

Parlare di Gianluca Pagliuca significa prendere la chia ve, girarla lentamente nella serratura e riaprire il cassetto dei ricordi per riviverli, anche con un po’ di nostalgia. Di ricordi ce ne sono tanti e sono tutti significativi, indelebili. Gianluca è sempre stato un bravo ragazzo, un classico bolognese: aperto, simpatico, divertente. Gli dovevi volere bene per forza, era facile stringere un rapporto d’amicizia con lui e così è stato. Quando è arrivato a Genova ha pre so un po’ il carattere dei genovesi: siamo stati tanti anni lì e inconsciamente siamo stati influenzati. Gianluca, sin dall’esperienza alla Sampdoria, è sempre stato un ragazzo educato e il nostro rapporto è stato forte. Lo conoscevo già da tempo dato che avevamo amici in comune a Bologna, e sin da giovane sapevo che sarebbe diventato il portiere titolare della Sampdoria e uno tra i più forti al mondo: aveva qualità differenti dagli altri, spiccava sin da piccolo. Sempre un passo avanti ai suoi coetanei. Arrivò a Geno va a diciotto anni e la scalata è stata lunga, ma era solo questione di tempo. Ero sempre sicuro con lui, in campo sapevo che in ogni partita ci avrebbe salvato: nonostante la

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giovane età è sempre stato un portiere sicuro, e questo pregio è stato fondamentale per lui. Siamo sempre stati molto uniti, ci sono state delle litigate ma era normale, abbiamo vissuto insieme la quotidianità per diversi anni; tutto rientrava nella maniera più normale come in una vera e pro pria famiglia. Siamo stati grandi amici e lo siamo tuttora, sono passati tanti, forse troppi anni, ma il nostro legame resta unico e forte, sfida lo spazio e il tempo. Il nostro era un gruppo di veri amici, unito nelle gioie e nei dolori. Dividere lo spogliatoio con Gianluca è stato qualcosa di unico e speciale: ci univa un legame forte, c’era un rispetto reciproco impossibile da dimenticare. È stato un grande portiere, è un grande amico e per me ha rappresentato davvero tanto. Non solo per me: per chi ha avuto modo di apprezzarlo, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo.

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Non ho mai avuto un’alternativa, io. E non lo dico per ipocrisia o per qualsiasi altro, futile motivo: lo affermo perché è la pura verità. O il calcio, o il calcio.

Gianluca Pagliuca

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Gianluca Pagliuca con la maglia della Ceretolese, in una delle sue prime esperienze calcistiche.

IL CAMPO DEL PRETE, LE ADIDAS WORLD CUP N. 47 E DOMENICA SPRINT

Non ho mai avuto un’alternativa, io. E non lo dico per ipocrisia o per qualsiasi altro, futile motivo: lo affermo perché è la pura verità. O il calcio, o il calcio. Sarei potuto diventare un operaio, un meccanico, ma la mia strada era un’altra. Spesso la gente si trova a un bivio: destra o sinistra. E prova un senso di smarrimento. Resta ferma lì a pensare, a studiare un futuro mentre il presente sta già sfuggendo via di mano. Prendere decisioni non è mai facile, ne sono consapevole. È per questo che mi reputo molto fortunato. Scegliere può essere o un lusso o un tunnel dove la luce è ancora troppo distante per ragionare in maniera razionale: sono stato catapultato nell’unico mondo che sentivo mio, nell’unica realtà in cui volevo vivere. Nel posto più sicuro al mondo, quello che mi ha sempre protetto, soprattutto nelle situazioni difficili della mia vita. È l’àncora di salvezza, l’unica a cui puoi aggrapparti per realizzare qualcosa di vero. Non ho mai avuto una seconda strada e sono felice così, anche perché ho cullato un sogno e l’ho raggiunto. Fortuna, competenza, doti e tanti altri elementi. Quando ti arriva un’occasione

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così importante non puoi sprecarla: sapevo che quella sarebbe stata l’unica possibilità per cambiare il destino della mia vita. E io, quell’opportunità, l’ho sfruttata al massimo.

Narrare e ripercorrere le tappe della mia carriera significa riavvolgere il nastro, rivivere i ricordi e viaggiare con la mente tra diversi luoghi che mi hanno dato tanto, città che nel bene e nel male mi hanno formato. Qualche volta mi hanno anche preso a schiaffi, ma mi sono sempre rialzato, più forte di prima. Diverse città, diverse squadre e tante, tantissime storie, racconti e vicende che in un modo o in un altro hanno segnato la mia vita, la mia carriera: mi hanno fatto diventare ciò che sono ora. A questa lista bisogna però aggiungere un paesino sconosciuto alla maggior parte delle persone, perché le mie radici sono lì: Ceretolo. Qual che tempo fa Ceretolo era composta soltanto da sei vie: via Boccherini, via del Carso, via Morandi, via Massarenti, via Grandi e via Tizzano. Io e la mia famiglia abitavamo nella mitica via Boccherini 29, e lì ci ho passato tutta l’infanzia, fino a poco dopo la maggiore età. Mia madre, Maria Rosa, era casalinga; mio padre, Pier Luigi, faceva il camionista. Sono figlio unico, anche se ho sempre provato a convincere i miei a fare un altro figlio perché da piccolo desideravo un fratello: le mie suppliche non funzionarono mai. La nostra era una famiglia normale. Mio padre è sempre stato un tipo scontroso e introverso, ma una brava persona: sacrificò la famiglia per il lavoro. Era sempre fuori casa, sempre sul suo camion. È uno strano caso, il suo: oggi non tutti ama no lavorare. Lui sì, era come una passione. Camionista in settimana e fisarmonicista il sabato e la domenica, ci sapeva fare. Quando non aveva impegni, prendeva in mano il suo strumento e andava in giro tra i locali bolognesi con il suo gruppo. Lo invitavano ovunque, a Bologna e dintorni era

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molto popolare. Suonava il liscio, e molto altro. Quando ero piccolo mi portava spesso insieme a lui, a me non piaceva quella musica ma con il tempo ho imparato ad apprezzarla. Infatti, ora so ballare un po’ di tutto, dalla salsa alla mazurka. Sono anche andato a scuola di ballo. Mi muovo bene anche sulle note del rock and roll. Quando andavo con lui, spesso mi accompagnava mia madre, solo che dopo un po’ mi annoiavo, anche perché gli spettacoli erano sempre di sabato sera, e io volevo uscire con i miei amici.

Mio padre è stato molto duro con me. Da bambino gli volevo bene e l’affetto era ricambiato, ma è sempre stato molto severo. Non mi voleva male. Era solo un padre all’antica, non mi ha mai fatto alcun tipo di cattiveria. Poi c’era mia madre. Era una persona unica. È mancata cinque anni fa, ogni settimana la vado a trovare. Resta sempre con me, è in ogni odore e in ogni sensazione. È stata una perdita importante, ho perso il mio punto di riferimento. Era una donna fantastica, in tutte le sue infinite sfumature: ha dato la vita per me. Era la più piccola di quattro sorelle e ha fatto mille lavori per non farmi mancare nulla: la barista, la donna di servizio, l’infermiera. Quando sono arrivati i primi guadagni l’ho fatta smettere di lavorare. Aveva dato tanto ed era giusto che si riposasse. Era una grande cuoca: il tortellino in brodo che preparava era sublime, non ne ho mai assaggiato un altro così buono. Sapeva preparare anche le tigelle e le crescentine, cucinava le tagliatelle, le lasagne e gli gnocchi. Magari da lei non potevi aspettarti uno spaghetto aglio e olio, era la classica bolognese che cucinava piatti della tradizione. A casa stava sempre con il grembiule, non lo toglieva mai: puliva, lavava o cucinava. Era un suo tratto distintivo. Mi vedeva magro e per questo mi faceva mangiare molto, era sempre preoccupata per

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me, e ogni volta che ero a casa mi coccolava. Non mi ha fatto mai mancare nulla. Non passavo molto tempo a casa, ma ci sono alcuni momenti che sono sempre stati speciali per me. La domenica, ad esempio: ascoltavo le partite con la mia radiolina e le cuffiette, guardavo 90 minuto e Domenica Sprint, restavo addirittura in piedi fino a tardi per controllare gli ultimi risultati di basket. Per il resto ero quasi sempre fuori: andavo a scuola la mattina e il pomeriggio ero a giocare o al bar. Quando iniziai a giocare, tra allenamenti e partite, a casa stavo ancora meno.

La prima parte della mia infanzia fu felice, serena come per la maggior parte dei bambini. E come la maggior parte di loro, ogni mattina mi toccava andare a scuola. La odiavo, non l’ho mai amata: sono stato anche bocciato in prima media. I miei presero malissimo il fatto, e l’ho presa male anche io. Ma sono consapevole di averla meritata: non avevo voglia di studiare e non stavo attento. Tutti i professori si ricordavano di me, e non avevano sempre ricordi piacevoli. Alle elementari avevo la professoressa Lenzi Giorgetta, con lei mi sono trovato bene. I problemi sono arrivati alle me die perché ogni professore aveva la propria materia: avevo un buon rapporto con il professore Veronesi, insegnante di disegno, o con Sgarzi e Vivarelli di educazione fisica. Queste erano le materie che preferivo, mentre non sopportavo storia e matematica. Eravamo poli opposti. In classe facevo molto caos e avevo un soprannome per tutti i miei compagni. C’era una ragazza che aveva i baffetti, io ogni tanto le regalavo le lamette. Un altro compagno lo chia mavo Pollo, diminutivo del suo cognome. Non erano mai cattiverie o fatti assurdi, ma non avevo voglia di seguire le lezioni e cercavo di riempire le mie mattinate con scherzi. Una volta andavano di moda le borse: usavo le lamette del

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temperino per segarle tutte, con i libri che cadevano per terra. Oppure mettevo le puntine sulle sedie così da bucare i pantaloni. Non mi divertivo soltanto a scuola. A Ceretolo mi ero specializzato in uno sport che andava di moda tra i bambini: il suono del campanello. Suonavamo il citofono e scappavamo, l’obiettivo era chiaro: non farsi beccare. Nonostante gli scherzi vari, avevo molti amici a scuola: ricordo Davide Finocchi, che purtroppo non c’è più a causa di una malattia. Già da piccolo non stava molto bene, ma era un ragazzo d’oro. Molti lo prendevano in giro, io preferivo prendermela con altra gente. Troppo facile accanirsi con chi ha seri problemi. Lui lo ricordo più di tutti. La mattina era una sagra a scuola, il pomeriggio facevo i compiti in mezzo minuto e poi andavo di corsa a giocare a calcio. Frequentavo il famoso “cantiere”: di fronte casa mia c’era questa costruzione abbandonata e mai completata che trasformammo in un campo da calcio. Ora è diventato un parcheggio, da piccoli usavamo quello spazio per divertirci. Trascorrevo le mie giornate anche ai Giardini di Ceretolo, su per l’Eremo. Questi erano i miei punti di riferimento. La mattina a scuola, controvoglia, poi il cal cio che era il mio centro di gravità permanente. Lì potevi giocare a calcio o comunque divertirti con gli amici in altri cento modi, anche se però ero quasi sempre al campo del prete, dietro la chiesa del paese. Ho ricordi indelebili di quel campetto. Giocavamo quasi sempre lì, mentre in estate partecipavamo ai Tornei delle Vie. Una volta lo vin cemmo e in porta c’era proprio Davide Finocchi. Lo face vamo giocare tra i pali perché, a causa della sua malattia, non riusciva a correre o a muoversi in maniera fluida. Parò il rigore decisivo del torneo e trionfammo 7-6, io all’epoca giocavo in attacco. Dopo la vittoria, con i miei compagni

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di squadra andammo tra le vie del paese in trionfo con la coppa: ci fermammo davanti alla latteria di Ceretolo, dove la lattaia ci premiò riempiendoci la coppa di caramelle e dolciumi vari. Quel torneo lo aspettavamo ogni anno: veniva organizzato tutte le estati da don Luigi, che era an che il mio professore di Religione. Sul campo del prete si poteva giocare massimo cinque contro cinque, anche se a volte ci sfidavamo in undici contro undici. Un delirio. Aveva pochissima erba, quasi solo terriccio e quando pioveva si trasformava in una palude di fantozziana memoria. C’erano le porte regolari, formate soltanto dai pali; a volte però il parroco montava le reti e noi eravamo al settimo cielo. Mi ritiravo sovente a casa sempre ricoperto di fango, per la gioia di mia madre. Trascorrevo intere giornate in quel campetto. La sera, invece, ci spostavamo al bar Augustus con i miei amici a giocare a biliardo. Erano delle sfide all’ultimo sangue, combattute sino all’ultima buca, dopodiché gli sconfitti avrebbero pagato il conto: ogni ora di gioco costava circa quattrocento o cinquecento lire, per noi ragazzini si trattava di una cifra importante e facevamo quindi di tutto per uscire indenni dal tavolo. Ero bravo a biliardo e anche adesso me la cavo. Al fianco del bar c’era una discoteca: ha cambiato diversi nomi, io la frequentavo quando si chiamava Beethoven. Dopo aver giocato, scendevamo a ballare. Marco, Michele, Alessandro, Roberto, erano questi i miei amici d’infanzia. Sono rimasti al mio fianco nel corso degli anni, senza mai abbandonarmi, nemmeno quando sono diventato famoso: quando vinsi lo scudetto, organizzarono una serata alla quale partecipò tutta Ceretolo. Fu bellissimo, emozionante.

Oltre al calcio e a divertimenti vari, da piccolo facevo il chierichetto in chiesa e servivo messa. Una domenica

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avevo l’abito un po’ lungo e ci inciampai dentro: le ampolle caddero tutte per terra, feci un disastro. Sono stato perdonato e ho continuato a farlo, mi piaceva molto. O il sabato sera o la domenica mattina, al fianco di don Luigi. La prima parte della mia infanzia fu serena e non mi sono mai lamentato. La ruota, però, cominciò a girare. In maniera inaspettata, turbolenta. I problemi, infatti, arrivarono quando i miei decisero di separarsi. Fu un trauma, mi cadde il mondo addosso. Tutto d’un tratto vedi crollare le certezze, i muri si abbattono e rialzarsi non è mai facile. I miei presero questa decisione quando avevo sedici anni: mio padre era deciso, ma anche mia madre aveva un carat tere molto forte. Quando due persone dal carattere domi nante si scontrano, gli effetti possono essere devastanti e i miei litigavano spesso, ogni scusa era valida per iniziare a urlare. Quando litigavano cercavo di mettermi in mezzo. All’epoca ero già alto e robusto, mi mettevo tra loro due perché a volte non volavano soltanto parole grosse, ma anche altro: non potevo far finta di nulla di fronte a una si tuazione così degenerata. È stato uno dei periodi più com plicati della mia vita. La separazione l’ho vissuta come una liberazione: litigavano e discutevano quasi ogni sera, era diventata un’abitudine quotidiana brutta da vivere, soprattutto per un adolescente che non può desiderare altro che vedere i genitori felici e insieme. Per me è stato un trauma. Attenzione però, come tutti i problemi gli stessi prendono poi diverse sfumature. Quel loro allontanamento mi è molto dispiaciuto, però ho visto mia madre riacquisire quella tranquillità che prima aveva smarrito. Era tornata serena dopo tanto, forse troppo tempo. Per un figlio non è mai piacevole vedere i genitori affrontarsi testa a testa, per questo il periodo successivo alla separazione l’ho vissuto

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bene da questo punto di vista. C’era però un problema: per un po’ restammo al verde. Per un paio d’anni, infatti, non comprai un paio di scarpe da calcio. Non potevamo permettercelo. Mia madre cominciò a fare diversi mestieri, pur di non farmi mancare nulla. Il giorno del mio com pleanno, mi fece un regalo con i risparmi messi da parte: andò da Franco Sport per comprarmi un paio di Adidas. In quel periodo portavo il 45 ai piedi, mi prese il 47: il regalo però era più significativo di due numeri in più di lunghezza, quindi dovevo solo apprezzare lo sforzo. E così feci. Giocai due campionati con quelle scarpe, ma per la storia che c’era dietro calzavano meglio di un paio con il numero esatto e mettevo tre paia di calze per indossarle meglio. Quelle scarpe sono uno dei ricordi più importan ti della mia infanzia, insieme al completo di Dino Zoff. Per me era un dio, un esempio; mia madre mi regalò quel completo il giorno della mia Prima Comunione. Lo indossai subito, andai a giocare a calcio e, come al solito, mi ritirai pieno di fango. Anche in quel giorno di festa. Per me era festa ogni volta che avevo un pallone, soprattutto in quel periodo di vita familiare così difficile.

La separazione dei miei genitori influì molto sul mio carattere. Da piccolo ero vivace ma anche insicuro, condizionato dal rapporto tra mia madre e mio padre. Per lui è stato un duro colpo, perché non si aspettava che mia madre avesse la forza di fargli recapitare le carte dell’avvocato. Invece è successo. Fui il primo ad acconsentire. Quando mia madre mi disse che non ce la faceva più non potevo fare altrimenti, era un continuo litigare che doveva terminare in qualche modo. Soprattutto per la sua sicurezza e tranquillità. Mi chiese il parere e io gli risposi di sì: l’unica strada era la separazione. Rimasi con lei nello

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stesso appartamento, fu mio padre a trasferirsi. Dopo la separazione, non l’ho visto per tanto, troppo tempo. Cambiò idea dieci anni dopo: mi chiamò un suo caro amico per raccontarmi questo suo desiderio, voleva rivedermi. All’epoca ero il portiere della nazionale. Me la sentii su bito, restava comunque mio padre. Nella vita si sbaglia, tutti commettono errori. Sono il primo a chiedere scusa ogni volta che riconosco di aver sbagliato. Aveva voglia di rivedermi e ho accettato, senza tante esitazioni. Ci incontrammo all’Hotel Amadeus, a Borgo Panigale. Abitava lì vicino, il suo amico era il proprietario dell’hotel. Quando mi vide scoppiò a piangere e vedendolo così mi commossi anch’io. Dopo tanti anni, lo ricordo come un incontro pe sante: a tratti non sembrava reale, anche perché certe cose non si dimenticano. Dieci anni sono tanti, troppi. Cercò di giustificarsi e io gli chiesi di metterci una pietra sopra e andare avanti: la cosa più importante è rendersi conto dei propri errori. Abbiamo sbagliato da entrambe le parti, anche perché in tutto quel tempo – sbagliando – non l’ho mai cercato neppure io.

Dopo la separazione io e mia madre diventammo una cosa sola: mi fece da madre e da padre, visse per me. Non aveva nemmeno quarant’anni quando mio padre andò via di casa, ma sono convinto che dopo di lui non ebbe più nessuno. Pensava solo a me e le stava bene così. Dopo la separazione i miei non si sono più riconciliati. Lei, appena sentiva menzionare mio padre, cambiava espressione sul volto, diventava quasi glaciale: non voleva più vederlo, né sentirlo nominare, le faceva troppo male rivivere certi ricordi. Mio padre si è poi rifatto una vita, si è risposato, senza però fare altri figli. I miei sono stati molto innamorati e a mia madre non pesava il fatto che lui si fosse

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risposato. Poteva rifarsene un’altra anche lei, era giovane: ma decise di occuparsi di altro. Non lo fece mai, diventai il suo centro di tutto. Poi il tempo, la mia determinazione e il destino l’hanno ripagata di tutti quei suoi sacrifici. La seconda moglie di mio padre è morta nel 2020 e lui ne sta ancora soffrendo. Con lei ho avuto un ottimo rapporto, e so che lui ne era davvero innamorato. Quando ci vediamo una volta alla settimana a pranzo si commuove sempre quando parla di lei. È bello vederlo in questa versione inedita e il tempo l’ha sicuramente cambiato e reso migliore. Venne al funerale di mia madre: c’è chi dice che doveva farlo per forza e chi era del parere opposto, io so solo che apprezzai molto quel suo gesto. Mi telefonò addirittura per chiedermi il permesso, e io felice gli dissi naturalmente di sì. Avevano la stessa età. È stata sua moglie e con lei ha avuto un figlio.

Con mio padre ora va tutto bene: io non ho più mia madre, lui non ha più sua moglie. Siamo sereni, sinceramente non mi aspettavo di recuperare con lui i rapporti ma sono felice che sia accaduto. Quella parte di vita del passato ormai non torna più, ci abbiamo messo una pietra sopra. Se uno mi fa del male non dimentico, ma lui resta mio padre. Tutti sbagliano, ma se sbaglia un genitore fai di tutto per recuperare. Cerchiamo di evitare sempre questo argomento, anche perché sa come la penso. Evito certi discorsi e lui fa lo stesso con me, darebbe fastidio a entrambi. Con l’esperienza migliori, cerchi di non sbagliare più. Così come ho fatto io. Da giovane, ad esempio, avrei potuto continuare con la scuola, ma volevo solo giocare a calcio. Sono stato fortunato, se non fossi diventato un calciatore sarebbe stata davvero dura. Sono stato fortunato e, credo, anche bravo. Avevo più qualità di altri e l’ho dimostrato.

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Soprattutto nelle giovanili del Bologna: ci allenavamo con tutti i portieri e notavo di avere qualcosa in più degli altri, sentivo di avere qualcosa in più. Il primo allenatore che mi disse che potevo fare carriera fu Franco Bonini, proprio quando giocavo nelle giovanili rossoblù. Disse che vedeva in me delle doti importanti e io impazzii dalla gioia, come se avessi già esordito in Serie A. Ero al settimo cielo.

La mia storia con il calcio comincia a un anno, avevo sempre la palla in mano. Le nostre vite sono nate insieme, in modo parallelo. Quando ero a casa organizzavo da solo delle partite con le palline da tennis, contro la porta di una stanza. Tutti ricordano – soprattutto i miei vicini di casa –il gran casino che facevo. Quando non potevo giocare con i miei amici, prendevo il pallone e andavo a divertirmi o nel cortile di casa mia o in quello dei vicini. Un pomeriggio andai a giocare nel cortile di un’anziana signora che, dopo un po’, leggermente infastidita, mi invitò a lasciare la sua proprietà. Mi arrabbiai, presi una lacca per capelli e gliela lanciai contro. Si fece male, andò a dirlo ai miei genitori che, com’è giusto che fosse, andarono su tutte le furie. Soprattutto mio padre.

All’inizio della mia carriera non giocavo in porta, ho iniziato a stare tra i pali dai quattordici anni in poi. Spaziavo un po’. Oggi è quasi impossibile o strano cambiare ruolo in corso d’opera, qualche tempo fa era più facile. «Dove vuoi giocare oggi?» «In porta». «Oggi invece?» «In attacco, mister». Sono andato avanti così per un paio d’anni, ma mi divertivo comunque. In attacco ero anche bravo, qualche gol lo segnavo anche grazie alla mia statura imponente. In porta il momento più bello erano i tuffi, poi ho capito che quello sarebbe stato il mio ruolo.

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La mia prima esperienza l’ho vissuta alla Ceretolese, la squadra del mio paese: ci ho passato quattro anni. Quando iniziai a giocare, tra allenamenti e partite, a casa stavo ancora meno. Giocavo al campo Esso, nome ripreso dal benzinaio che lavorava lì vicino, oppure al Tripoli di Casalecchio di Reno: tra questi due campi alternavamo le nostre gare casalinghe. All’inizio giocavo un po’ dappertutto. Nelle prime partite in porta indossando guanti di lana: nelle prime gare giocai con quei guanti, anche perché all’epoca non esistevano i classici guanti da portiere. Poi mi trasferii per un biennio a Casteldebole, dove vincemmo il campionato battendo in volata il Porretta: in quella squadra giocava anche Pierpaolo Bisoli, quando ci incontriamo ricordiamo volentieri quei momenti. L’anno dopo andammo nei Giovanissimi A, feci un anno lì con il Casteldebole che conquistò addirittura la promozione in seconda categoria. Il portiere non era molto abile tra i pali, quindi nelle partite decisive chiamavano me. Ero sotto età, non potevo giocare ma lo feci lo stesso. La prima partita la perdemmo ma giocai comunque bene; poi ci fu la gara decisiva, contro il Cagliari. Parai il rigore decisivo sullo 0-0 e ci salvammo. Gli avversari fecero però reclamo: noi ci salvammo comunque, ma io venni squalificato un mese insieme a Ceselli, un dirigente del Casteldebole. Alla Ceretolese avevo Grondona, Maccanti e Schincaglia come allenatori: Schincaglia purtroppo è morto in un incidente stradale. A Casteldebole incontrai sulla strada Zanni e Bel lotti, che è venuto a mancare lo scorso anno. Quando ero a Casteldebole mi spostai definitivamente in porta, anche se a volte ero costretto a uscire: un giorno sfidavamo l’ultima in classifica, noi eravamo penultimi. Il primo tempo lo giocai tra i pali, il secondo tempo il mister mi chiese di

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andare in attacco. Subii fallo da rigore e segnai, vincemmo 1-0. Ho capito sul serio che sarei diventato portiere quando feci il provino al Bologna. I dirigenti rossoblù quell’anno avevano già stabilito i quadri con tutti i portieri, dissero che mi avrebbero ripreso l’anno successivo. E così fu. Feci il provino con Pietro Battara. Era il 1982. Volevo emer gere e avevo fame, l’ho sempre avuta: sapevo che quella possibilità non potevo buttarla via. Per i miei non è stato facile accettare che il mio futuro sarebbe stato da calciatore. Mio padre aveva per me altri piani, voleva che andassi a lavorare. E io ci sono andato. A diciassette anni facevo il benzinaio alla stazione del paese. La mattina tutti i miei amici andavano a scuola e io andavo a lavorare, mentre il pomeriggio mi allenavo con la squadra. Il mio caro amico Andrea mi faceva lavorare tutte le mattine, mentre il sabato mi lasciava libero, dato che quasi sempre c’era la partita. Per me è stato come un divertimento. «E se diventassi un grande calciatore?» dicevo a mio padre. Mia madre invece mi ha sempre appoggiata. Merito anche dei miei continui assilli, ma mi ha sempre lasciato libero di fare quello che il mio cuore desiderava. Certo, poi si arrabbiava quando andava a scuola per gli incontri con i professori: «Suo figlio non studia, non si impegna». Era la solita filastrocca. Gliene dicevano di ogni colore, non poteva essere soddisfatta. Nonostante questo, non mi ha mai però impedito di realizzare i miei sogni, voleva solo che andassi bene a scuola. E non sempre ci sono riuscito. L’ho detto all’ini zio ma non mi stancherò mai di ripeterlo: non avevo una seconda strada, o il calciatore o l’operaio, oppure qualcosa del genere. Avevo il diploma di meccanico, la strada era segnata ma alla fine ho capito che c’era qualcosa che sapevo fare meglio: il portiere.

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Gianluca
Pagliuca con la maglia degli Allievi Bologna.

OGNI GIORNO È UN NUOVO GIORNO

Il 1982 fu un anno tragico per me, ci fu la retrocessio ne del Bologna e ne soffrii molto: passai un periodo mol to complicato. Mi salvò l’Aston Villa – l’altra mia squadra del cuore – che vinse la Coppa dei Campioni e l’Italia, che trionfò al Mondiale e mi regalò un’estate pazzesca. In quei giorni il vento stava cambiando e arrivò la prima svolta della mia carriera. Una settimana più tardi mi giunse una lettera dal Bologna dove annunciavano il mio ingresso in squadra. Fu una grande gioia, dato che stavo attendendo con ansia quella grande opportunità. È da lì che iniziò la mia storia con Pietro Battara, il mio grande maestro, mi ha svezzato ed è stato il mio punto di riferimento, avevo delle qualità ma lui mi ha fatto diventare un grande portiere, le ha alimentate e mi ha fatto maturare sotto tutti i punti di vista. L’ho avuto per otto anni: mi ha criticato anche molto ma sempre in maniera costruttiva. I suoi carichi di lavoro erano duri ma il suo lavoro è stato importante per me, fisicamente e psi cologicamente. All’inizio ero un po’ sfacciato, volevo scalare la vetta della montagna e lui ha cercato ed è riuscito a farmi riflettere e ragionare. Qualche giorno dopo quella lettera mi

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presentai dunque al centro tecnico rossoblù per le visite di rito e da lì iniziò il mio percorso, ero emozionato.

In quella stagione la società era un po’ allo sbando: il presidente, Tommaso Fabbretti, aveva venduto tutto. Regnava il caos. Quell’anno c’erano le squadre Allievi, Ber retti e Primavera: potevo giocare in tutte e tre le categorie. Facevo la panchina in Primavera, a sedici anni, ero la riserva di Costante Turchi mentre mi dividevo in campo tra Allievi e Berretti, l’equivalente dell’attuale Under 18. Di solito, il sabato andavo in panchina con la squadra della Primavera con l’allenatore che poi mi avrebbe portato alla Sampdoria, Antonio Soncini. La domenica mattina gio cavo con gli Allievi oppure con la Berretti, feci anche dei tornei e vinsi il premio come miglior portiere, uno dei più belli lo giocai a Viterbo: venimmo eliminati dalla Fiorentina, ma giocai comunque bene e ricevetti il premio come miglior portiere. Un’altra importante esperienza la trascorsi in Francia, giocammo contro Lione e Marsiglia: c’erano 10mila persone allo stadio. Il primo anno lo passai così. Ebbi diversi allenatori capaci quell’anno: la Berretti era al lenata da Franco Bonini, mentre Rino Verardi era il mister degli Allievi. La stagione successiva giocai con la Berretti, dato che il Bologna non poteva partecipare al campionato Primavera in quanto retrocesso in Serie C. In quell’annata giocai poco perché davanti a me c’erano Marco Ballotta e Andrea Pazzagli, rispettivamente secondo e terzo della prima squadra e che ogni tanto giocavano con la Berretti, restai quindi negli Allievi. La maggior parte dei miei com pagni in Primavera non li conoscevo, ci siamo incrociati direttamente in campo; quell’anno c’erano Giancarlo Marocchi e Francesco Gazzaneo, furono gli unici insieme a me che poi avrebbero fatto carriera.

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Nei miei anni nel Settore giovanile rossoblù il preparatore dei portieri era Giuseppe Vavassori, che purtroppo è mancato poco dopo: c’erano diversi portieri, almeno sei o sette. Un giorno eravamo a Vignola per un torneo, sfidavamo l’Inter e io avrei dovuto giocare da titolare. Tutti i giorni mi pesavano, Vavassori mi pesò e uscì fuori che ero in sovrappeso di due chili: 82 invece di 80. Si infuriò e non mi fece giocare, in porta ci andò Del Bianco. La presi molto male ma ovviamente non gli dissi nulla perché ero ancora un ragazzino. Da quel giorno iniziai a tenere sotto controllo l’alimentazione: sono sempre stato molto robusto, dovevo stare sempre attento anche perché mi piaceva mangiare. Lì accusai il colpo. Quell’anno fu particolare: giocavo e non giocavo, fu una stagione di transizione, mi trovai meglio l’anno prima perché giocavo con più costanza.

L’anno dopo arrivò sulla panchina rossoblù Renzo Ragonesi, storico collaboratore di Franco Colomba. Un tipo molto strano: non aveva un linguaggio fluido e spesso sbagliava verbi o coniugazioni, ma nonostante ciò era un tipo divertente. Quell’anno accadde un episodio che mi fece scattare. Dovevo giocare in Coppa Italia, contro il Parma; convocarono Ballotta. Finsi un infortunio perché non avevo voglia di stare in panchina, solo che il portiere del Bologna si fece male e Ballotta fu costretto a tornare in prima squadra; andai dal mister e gli dissi che stavo abbastanza bene. «Se vuole posso giocare» gli dissi. «Va bene, va bene» mi rispose. Mi convocò, il mister ci disse la formazione e in porta c’era De Luca. Mi mise in panchina, a fine parti ta venne da me e mi disse: «Non devi prendermi in giro. Non farlo più, altrimenti con me non giochi più». Dalla domenica successiva iniziò il campionato e io venni promosso titolare: alla prima giocammo a Brescia e vincemmo

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di misura, parai un calcio di rigore. Da lì in poi giocai sempre e di partita in partita notavo che le mie prestazioni aumentavano, nonostante ai piedi avevo sempre il numero 47: ogni partita per due anni sempre con quelle scarpe ai piedi.

Quegli anni furono montagne russe e l’anno dopo ar rivò un’esperienza molto dura, venni chiamato per fare il militare: lo feci a Macerata, Poggio Renatico e Viterbo. Un giorno – mentre mi stavo allenando – mi arrivò la loro comunicazione, ma il Bologna non si interessò a me. Alcuni ragazzi nemmeno giocavano, ma avevano comunque inviato la richiesta per essere inseriti nella Compagnia Atleti, io sono stato costretto a partire: un giorno guardia e un altro riposo. Magari avrei potuto parlare con la società, ma loro comunque avrebbero dovuto interessarsi, alcuni calciatori che giocavano in campionati minori vennero aggregati nella Compagnia Atleti mentre io sono stato costretto a partire, fu un errore clamoroso. Il presidente, Gino Corioni, e il direttore sportivo, Nello Governato, non fecero nulla; mia madre si infuriò e andò a parlare con loro per cercare di spostarmi ma era un compito molto difficile, una prassi lunga, ci misero cinque mesi per trasferirmi. Da settembre a gennaio sono stato costretto a stare lì, fu una sofferenza anche perché io non mi allenavo mai. Fortunatamente il Bologna mandava la cartolina in caserma e quindi avevo la licenza dal venerdì alla domenica sera: andavo a giocare senza mai potermi allenare, dicevo che mi allenavo tra Macerata e Viterbo ma invece non era vero, non potevo perdere l’anno. Fu un’esperienza dura. «Chi pensi di essere? Sei un calciatore ma qui non ci importa nulla» mi dissero un giorno. Ricordo il tenente Poluzzi, era abbastanza severo: «Fino a quando sei qui devi fare la guar-

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dia». Io non facevo mai questioni, volevo soltanto giocare. Nonostante non mi allenavo feci sempre bene. Quando ero a Poggio Renatico facevo un giorno guardia e un giorno riposo: spesso lavoravo anche di notte e il mio fisico ne risentì, ma almeno potevo allenarmi un po’.

La svolta arrivò qualche settimana più tardi. Giocava mo a Ferrara, contro la Spal Primavera: ero stremato, non stavo bene ma continuai a giocare e feci bene. Tornai in caserma e intanto mi salì un po’ di febbre. Mi chiamarono qualche giorno dopo e mi dissero: «Guarda che a Vicenza ti verranno a vedere due osservatori della Sampdoria». Era in programma, infatti, Vicenza-Bologna. Ovviamente nessuno mi conosceva. Il problema era che quel giorno avevo 38 di febbre ma poco mi importava, partii lo stesso: giocai la gara con la febbre alta, perdemmo ma feci una grande prestazione. Dopo la partita non riuscivo a stare in piedi e furono costretti a ricoverarmi per una settimana all’Ospedale militare di Ferrara. Una volta non esistevano i cellulari, mia madre era preoccupata perché non sapeva come rintracciarmi. Riuscii a chiamarla con il telefono a gettoni e la tranquillizzai, intanto mi ripresi. Qualche gior no dopo mi telefonò Antonio Soncini: «Uè, rincoglionito. Alla Sampdoria non sono soddisfatto dei miei portieri, ti vorrei in prestito per il Torneo di Viareggio».

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Gianluca
Pagliuca con la maglia
della
Sampdoria.

QUELLA SERA A VILLA MANTOVANI

Dopo la chiamata di Soncini ero al settimo cielo, c’era solo un problema: ero ancora al Comando militare. Mi venne un’idea geniale e folle al tempo stesso: un militare aveva a disposizione un’ordinaria, una licenza di dieci giorni che poteva reclamare per qualsiasi motivo. Feci la richiesta per averla senza pensarci due volte, l’accettarono e mi lasciarono andare. Partii, e il giorno successivo avevamo già la prima partita del torneo, ero molto emozionato: sarebbe stato il mio primo torneo importante. Ai quarti trovammo di fronte il Genoa a Marassi: lo stadio era pie no, più di 25mila persone, strano per un derby Primavera. Le curve erano esaurite. Era il mio battesimo in quella che sarebbe diventata la mia casa: il vecchio stadio era fantastico, emanava quell’odore di storia e capivi di essere in un tempio, in un luogo importante. Nel Genoa c’erano Franco Rotella, Roberto Simonetta, Stefano Eranio: fu una gara combattuta ma alla fine vincemmo di misura. Fu un bel derby. A seguire la sfida in tribuna c’era anche Roberto Mancini e a fine partita venne da me a salutarmi, ci conoscevamo di vista: lui era molto legato al Mago Bicoc-

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03

chi, il custode di Casteldebole che conoscevo anche io in quanto eravamo amici di famiglia. Il debutto al Viareggio mi donò una carica di adrenalina e non vedevo l’ora di andare avanti. Arrivammo poi in semifinale, contro il Milan. Parai tre rigori e vincemmo contro i rossoneri che avevano il lusso di poter schierare gente come Alessandro Costa curta. Dopo la semifinale mi scadde la licenza e dovetti rientrare in caserma, a Poggio Renatico: una volta lì mi arrivò la lettera che notificava il mio spostamento a Bologna. Mi chiamò il tenente: «Sei aggregato alla Compagnia Atleti». Senza nessun avviso. Salutai tutti quasi in maniera liberatoria: escluso un ragazzo, tutti gli altri non erano molto simpatici, non avevo stretto un rapporto con loro. Mi trasferii dunque alla Compagnia Atleti e lì mi diede ro un’altra licenza, questa volta per quattro giorni. Andai quindi a giocare la finale del Viareggio contro l’Inter: purtroppo perdemmo ma, per me, quella manifestazione fu determinante. Fu il mio primo torneo importante, c’era la diretta televisiva e per me era un grande onore, un impor tante privilegio anche perché quella squadra era davvero forte: c’erano Maurizio Ganz, Michele Zanutta, Antonio Paganin. In tribuna a seguire i propri ragazzi c’era sempre Paolo Mantovani, il presidentissimo della Sampdoria: non si perdeva una sfida. Poco dopo la finale contro l’Inter venne da me e mi fece i complimenti: «Sei bravissimo» mi disse. Lo ringraziai visibilmente emozionato. Dopo la finale tornai al Bologna per sei mesi e fino a giugno ho continuato a giocare lì, diventando il terzo portiere del la prima squadra. Intanto stavo pensando al mio futuro, non sapendo cosa mi avrebbe riservato il destino; qualche settimana più tardi mi chiamò il presidente del Bologna, dicendomi che l’anno successivo mi avrebbero mandato in

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prestito all’Ospitaletto. All’epoca giocava in Serie C2 ma per me andava bene così, ero giovane e sapevo di dover accumulare esperienza. Il mio destino però non era quello: un paio di settimane dopo, infatti, ricevetti la telefonata di Domenico Arnuzzo, all’epoca direttore della Sampdoria, che mi disse: «Ti stiamo per acquistare, vorresti trasferirti alla Sampdoria?». Non esitai nemmeno per un secondo, accettai subito. La dirigenza blucerchiata mi chiese di non parlare con nessuno e di rifiutare tutte le eventuali offerte che avrei ricevuto da lì fino a giugno; Arnuzzo chiamò direttamente me, la società rossoblù non ne seppe nulla. Qualche giorno dopo mi contattò il direttore sportivo del Bologna, Nello Governato, che mi ribadì la volontà di mandarmi in prestito; lo bloccai subito e gli dissi che non ero più interessato alla loro proposta.

Passò un po’ di tempo fino alla prima svolta della mia carriera: dopo qualche mese da quella chiamata, la Sampdoria concretizzò l’affare e mi acquistò per 300 milioni di lire, il Bologna fu stupito dalla mia scelta, ma secondo me nemmeno tanto. Voci di corridoio dicevano che il prepa ratore dei portieri del Bologna, Rino Rado, disse alla diri genza di vendermi senza problemi perché in porta avevano un certo Ivan Gamberini, che reputavano più forte di me. Mi cambiava poco: sono stato io a scegliere la Samp, non sono stati loro a mandarmi via. Mia madre era contenta da un lato e triste dall’altro: non avrebbe potuto più vedermi con frequenza, ma sapeva che per me era una grande op portunità. Firmai un contratto molto lungo, cinque anni: avrei guadagnato tre milioni di lire al mese, stavo toccando il cielo con un dito. Andai a ufficializzare l’accordo a Milano Marittima dal direttore sportivo della Sampdoria, Paolo Borea, che aveva la casa lì. Partii da Bologna con il mio

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amico Davide Venturi. «Sarai il portiere del futuro della Sampdoria» mi disse Borea. Pensavo fosse la solita frase di circostanza, una di quelle buttate lì per caricarti o forse per manipolarti. Fortunatamente non fu così.

Iniziò così la mia avventura a Genova in maniera ina spettata. La mia vita stava cambiando di giornata in gior nata senza alcun avviso, e forse era bello proprio per questo: avevo diciannove anni e lasciai casa per raggiungere i miei sogni. La città ligure era ed è diversa da Bologna, Genova è taciturna, silenziosa, il classico genovese è molto chiuso. Anche io sono un po’ così avendo vissuto lì per tanti anni, mi faccio gli affari miei e sono una persona molto tranquilla. Per entrare in un gruppo di amici dovevi conoscere qualcuno, ma nonostante questo mi ambientai subito. Iniziai il mio percorso alla Samp come terzo portiere dietro Guido Bistazzoni e Roberto Bocchino: arrivai a Genova senza scarpe o guanti, pensavo mi avrebbero dato tutto loro. Arrivato al centro sportivo mi si avvicinò uno dei due magazzinieri, Claudio Bosotin: «E la tua roba?» «Non ce l’ho» gli risposi. Mi diedero un paio di scarpe vec chie dell’Adidas, anche perché le famose scarpe numero 47 erano inutilizzabili, bucate dopo due anni in cui avevano patito molto; il magazziniere chiese un paio di guanti per me a Guido, ma lui non me li diede. Riuscii a recuperarne un paio da Bocchino, il suo secondo. Fu un episodio che diventò noto. Un paio d’anni dopo, Bosotin mi disse: «Belin, non ti ha voluto dare i guanti e adesso gli fai le scarpe». Nonostante questo, Guido era un bravo ragazzo, molto chiuso, avevamo un discreto rapporto. Aveva solo un problema: prima di ogni gara andava sempre in bagno. Gli altri compagni non lo stimavano molto proprio per questo motivo, gli imputavano la mancanza di coraggio

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e di personalità, sentiva molto la pressione delle partite. Non credo sia stata colpa della concorrenza tra portieri, anche perché io ero molto più giovane di lui, forse in allenamento notava le mie potenzialità, ma non credo avesse paura di me: sarebbe stato strano avere addosso la pressio ne di un ragazzo che non aveva ancora esordito in Serie A. In quel periodo mi allenavo tutta la settimana con la prima squadra, mentre il sabato mi mandavano a giocare con la Primavera; facemmo un bell’anno con i giovani e arrivammo nelle parti alte della classifica. Io mi sentivo già pronto per la prima squadra e avevo voglia di misurarmi con i grandi, sapevo di essere pronto. Ovviamente la so cietà voleva che io giocassi per non farmi perdere il ritmo.

Terminato il primo anno andai a parlare con Manto vani, dicendogli che avrei voluto già compiere un salto in avanti. Lui, però, aveva dei piani per me. Un giorno ci incontrammo e mi disse: «C’è il Prato che vorrebbe ingaggiarti, in Serie C. Probabilmente ti manderemo in prestito lì con l’obiettivo di riprenderti, perché per il futuro puntiamo su di te». A me andava bene così. Nel frattem po, dopo la prima stagione diventai il secondo portiere, pronto per debuttare in Coppa Italia, dato che di solito i secondi portieri giocavano proprio quel torneo. E così fu: debuttai ufficialmente con la Samp nella gara contro il Torino: era il 6 settembre 1987. In maniera inaspettata. Una volta la Coppa Italia era composta da gironi da sei squadre, dovevi giocare cinque partite per qualificarti. Le prime quattro le giocò Bistazzoni, mentre l’ultima la gio cai io contro la squadra granata. Fu una grande emozione: ricordo l’ingresso in campo, mi sentivo importante e sapevo che sarebbe stata la mia prima grande occasione. Al Comunale vincemmo 2-0 grazie a una doppietta di Vialli.

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Non subii gol e vincemmo, non poteva andare meglio. Fu un giorno decisivo, emozionante, mi caricò molto: da lì in avanti ero sempre più consapevole di poter diventare il numero uno. Giocai poi le due finali anche se i piani di Boškov erano diversi. Qualche giorno prima della trasferta di campionato contro l’Inter, venne da me e mi disse: «Sei pronto? Le ultime tre di campionato le giochi tu, mentre Guido gioca la finale di Coppa Italia». «Va bene» gli risposi. Andammo a giocare a Milano contro i nerazzurri; perdemmo 3-1 e Bistazzoni non giocò bene, subì due gol evitabili. Qualche giorno dopo eravamo in ritiro all’Hotel Astol, era un giovedì mattina. Mi si avvicinò Boškov e mi disse: «Oillallà, sei pronto per giocare?». «Giocare cosa?» gli risposi. «Tu giochi la finale di Coppa Italia». Impazzii, avrei giocato la finale. Non me l’aspettavo ma sapevo di dover dimostrare qualcosa, nonostante avessi saputo senza preavviso, sarei cresciuto anche attraverso questi tranelli. Infatti non sbagliai, giocai molto bene. Vincemmo 2-0 la finale d’andata contro il Torino e a fine partita andai a festeggiare alla Manuelina, dove facevano la focaccia più buona di Genova. Fu una settimana piena di emozioni.

Tre giorni dopo quella vittoria in Coppa arrivò anche il debutto in Serie A, contro il Pisa: 8 maggio 1988. Prima della gara pensai a tante cose. Pensai agli inizi, a quando mia madre fece tanti sforzi per acquistarmi quelle Adidas numero 47. Ero felice. Contro i toscani la partita era diversa rispetto a quella contro il Toro: avevano bisogno di un pareggio per la salvezza, mentre noi eravamo già tran quilli. Ricordo l’ingresso in campo, come un pugile che entrava sul ring, mi sentivo a casa. Mi gustai tutto, dall’erbetta perfetta alla Curva Sud, con i colori blucerchiati che dominavano Marassi e dominavano me. Fu una partita

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scialba: all’ultimo rischiammo anche di perdere, si presentò davanti a me Mario Faccenda ma gli chiusi lo specchio. Non subii gol e per me fu come una vittoria, nonostante il pareggio. Quella partita mi diede molta determinazione: volevo dimostrare – di partita in partita – dove sarei potu to arrivare.

La domenica successiva andammo a giocare al San Paolo contro il Napoli di Maradona, anche se lui in quella partita non giocò perché aveva da poco litigato con Ottavio Bianchi. Boškov mi confermò, non me l’aspettavo. Lì subii il mio primo gol in A: segnò Andrea Carnevale ma vincemmo lo stesso. Quattro giorni più tardi era in programma la finale di ritorno di Coppa Italia contro il Torino, eravamo reduci dal 2-0 dell’andata ma in quell’oc casione la situazione si fece complicata. I granata andarono sul 2-0 e più volte rischiarono di fare il terzo. Riuscimmo a resistere, e ai supplementari segnammo e alzammo la Coppa. Fu il mio primo trionfo. Non me lo sarei mai aspettato: in poco tempo sono passato dai campi di paese al trionfo in Coppa Italia con la maglia della Samp. Già un trofeo in bacheca, forse stavo sognando ma non vole vo svegliarmi. Dopo la vittoria andammo a festeggiare da Carmine, a Quinto; i tifosi ci attendevano fuori e quando uscii dall’autobus sentii l’affetto delle persone. «Grazie, Pagliuca» per me era un sogno. Dopo quel trionfo capii che avrei potuto fare il titolare, sentivo di avere qualcosa in più degli altri e anche i senatori della squadra, Mancini e Vial li, avevano molta fiducia in me. Lo stesso pensava la so cietà. A Bologna non avevo sentito la stessa fiducia, a Genova era diverso. Il giorno dopo il trionfo, i festeggiamenti proseguirono nella villa del presidente: Villa Mantovani, sulle colline di Sant’Ilario. Durante la cena mi guardò sen-

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za dire nulla e mi fece segno di andare nel suo studio, feci un cenno con la testa e lo seguii. Mi sentivo come Dante che seguiva Virgilio, ma non verso l’Inferno: ad attendermi c’era la porta del Paradiso. Credevo mi annunciasse il trasferimento al Prato, in Serie C. Non mi aspettavo nulla, sapevo di essere giovane ed ero consapevole che, in caso mi avesse mandato in prestito, lo avrebbe fatto solo per farmi maturare. Ci sedemmo e mi disse: «Preferisci fare il titolare al Prato o il titolare alla Sampdoria?». Mi bloccai per un po’. «Non rispondere, dalla tua faccia ho già capito tutto.» Da lì iniziò tutto. Quella sera a Sant’Ilario capii che sarei diventato un perno di quella squadra. Lo spogliatoio mi accolse bene. Mi prendevano in giro perché loro arrivava no agli allenamenti con auto di lusso, mentre io avevo il Pandino. Spesso dovevo fermarmi in autostrada perché a volte, superati i cento all’ora, dovevo per forza far respirare l’auto.

Sono stato accolto bene soprattutto dai senatori: Roberto Mancini, Gianluca Vialli, Pietro Vierchowod e Luca Pellegrini, il capitano. A differenza dei primi tre, Pellegrini era molto schivo e chiuso, si faceva gli affari suoi. Durante le partite erano Mancini e Vialli che prendevano in mano le redini dello spogliatoio, Luca interveniva se ne sentiva l’esigenza, altrimenti preferiva non esporsi. Era comunque un grande spogliatoio, quello del primo biennio a Genova. Prima delle gare, Mancini metteva le canzoni della Sampdoria, era appena uscito il disco: sette canzoni, tra cui Lettere da Amsterdam. Che persona, il Mancio. Ha sempre avuto un grande carattere e un forte carisma, lo stimavo molto. Aveva tanti pregi e un difetto ben riconoscibile: era molto permaloso. Come me, d’altronde, forse per questo ci capivamo bene.

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I primi tempi legai molto con Marco Lanna: con lui strinsi subito un ottimo rapporto d’amicizia, in un periodo ci fidanzammo con due sorelle e nello spogliatoio eravamo diventati “i cognatini”. Abbiamo condiviso molto, è stato anche il mio compagno di camera per tanto tempo, eravamo sempre insieme.

Vierchowod era il “bastian contrario” di tutto: in campo generoso, fuori era molto ruvido. Eravamo poli opposti, due caratteri diversi quasi in ogni sfumatura; una volta ci mettemmo anche le mani addosso ma questa è un’altra storia. La cosa bella era che, nonostante i litigi, il giorno successivo eravamo sempre a pranzo insieme, sempre nello stesso ristorante: La Ruota in via Oberdan, a Nervi.

Vialli era il leader dello spogliatoio, aveva una buona parola per tutti: era bravo e capace perché aveva un metodo di approccio diverso per ogni compagno, sapeva come parlare con me e sapeva come comportarsi con gli altri, perché capiva come avremmo reagito in base al nostro carattere. Cercava quindi di evitare scontri. Vialli era soli to fare scherzi, come quello degli stuzzicadenti o quello dell’uovo in testa. Tagliava i calzini e le mutande, una volta urinò nella Gatorade al limone di Salsano, temperatura ambiente: Fausto la prese malissimo.

Poi c’era Enrico Chiesa, salito dal Settore giovanile; Pietro lo chiamava “Pippo”. Faustino Pari era un ragazzo meraviglioso, il nostro ragioniere: guardava i nostri conti e pagava le nostre multe, incassava i soldi. Poi c’era To ninho Cerezo, mi chiamava “il belu di Bulogna”: arrivava al campo con i suoi cani che quasi ogni giorno si liberavano nei punti vicino la porta in cui mi dovevo buttare. Mi arrabbiavo ma lui mi diceva: «Sì, ma da qualche parte devono pur farla». Bocchino lo ebbi sia a Genova sia ad

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Ascoli, lì come preparatore: anche lui un bravo ragazzo, era molto amico di Vialli. Si è sempre accontentato, a lui andava bene fare il secondo. Hans Briegel era fantastico, una forza della natura e gentile d’animo: si trovava bene con i giovani, usciva spesso con noi mentre con gli altri non strinse un ottimo legame. Antonio Paganin lo ebbi al Bologna Primavera e poi all’Inter: era particolare ed estroso, a volte gli partiva la brocca. Ho avuto un ottimo rapporto anche con Marco Branca che però ebbe diversi problemi con Boškov, infatti fu ceduto e poi ripreso, anche perché tecnicamente era davvero forte. Fulvio Bonomi mi ha aiutato molto, di solito andavo a mangiare a casa sua e di sua moglie, Antonella. Era molto amico di Luca Fusi e spesso uscivamo in tre. Prima della partita non mangiava mai. Adesso è fondamentale l’alimentazione, lui all’epoca non toccava niente. I primi tempi era in camera con me: si alzava la mattina, si faceva la barba e andavamo giù a far colazione per poi restare a digiuno, nemmeno un caffè. Nonostante questo, fu proprio lui a gestirmi perché ama va accudire i giovani come me, Ganz, Paganin. Eravamo tutti sotto la sua custodia e lui sapeva come gestirci. Anche il presidente credeva molto in me, per lui la Sampdoria era una passione. Quando iniziai a essere titolare, per lui cominciò il “ciclo Pagliuca”, perché da lì in poi abbiamo iniziato a vincere trofei. Diceva sempre che ero la sua assicurazione per il cuore, Lombardo era l’assicurazione per la sua vita e Mancini era la sua vita: fino a quando lui sarebbe restato alla presidenza dalla Sampdoria noi non saremmo più andati via, e sono convinto che se Mantovani avesse vissuto per altri anni io sarei rimasto a Genova.

Il mio primo anno tra i grandi lo chiudemmo al quarto posto e – grazie alla conquista della Coppa Italia – ci

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qualificammo di diritto per la Coppa delle Coppe. Finalmente esordii anche in Europa. Passare dai campi di paese all’Europa è stato un salto triplo, giocammo subito contro l’Ifk Norrköping per il primo turno della competizione: mi avevano appena convocato per le Olimpiadi di Seoul, fu un periodo fortunato. Feci molto bene nonostante il giorno prima presi un calcio in faccia in allenamento, giocai con un labbro spaccato. Nonostante una prestazione positiva perdemmo 2-1, mentre a Marassi la ribaltammo grazie a Salsano e Vialli e riuscimmo a qualificarci: buona la prima.

Mi ambientai subito alla realtà europea, percepivo una forte adrenalina e provavo emozioni più forti rispetto alle partite di campionato. Mi sentivo al posto giusto. Al se condo turno beccammo il Carl Zeiss Jena, squadra della Germania dell’Est diventata celebre per aver eliminato la Roma in Coppa Uefa con una grande rimonta: 0-3 all’andata, 4-0 al ritorno. Con noi la storia era diversa, giocammo in un campo dove c’erano ancora quelle trombette tedesche, stile anni Ottanta, molto folkloristico. Prima della partita andammo a comprare i cannocchiali di Jena, famosi in tutto il mondo. Dopo qualche ora di svago scendemmo in campo; fu una partita combattuta, cercarono di aggredirci ma ci difendemmo: alla fine pareggiammo 1-1 lì in un freddo glaciale. Al ritorno a Marassi riuscimmo ad avere la meglio: vincemmo 3-1, avanzammo ai quarti di finale e le cose iniziarono a farsi più complicate. Affron tammo la Dinamo Bucarest di Mircea Lucescu, il centra vanti di quella squadra era un certo Rodion Cămătaru, scarpa d’oro, un fisico imponente, non un cliente facile. La cornice allo stadio era impressionante, 20mila persone: non semplici tifosi ma militari, perché la Dinamo era la

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squadra dell’esercito. Eravamo costretti a giocare all’ora di pranzo, perché in Romania c’era il coprifuoco. Pareggiammo 1-1, poi tornammo subito a casa perché non potevamo viaggiare dopo il tramonto. Al ritorno – giocato a Cremona per via di lavori a Marassi – impattammo 0-0 e riuscim mo a passare il turno. Non avevamo un obiettivo minimo in quella manifestazione, ma più andavamo avanti e più eravamo consapevoli di poter fare qualcosa di importante. Arrivammo dunque in semifinale pronti a sfidare il Malines, squadra detentrice del trofeo: erano molto pericolosi e sicuramente più esperti di noi. Lo stadio era piccolissimo ma c’erano 20mila persone e il tifo era stile inglese. Il loro portiere, Michel Preud’homme, fece arrivare ogni rinvio verso la mia porta, aveva un tiro lunghissimo. Alla fine perdemmo 2-1. Nonostante la sconfitta sapevamo di poterla ribaltare: infatti al ritorno li schiantammo 3-0 in una gara senza storia, e riuscimmo a qualificarci per la finale.

L’ultimo atto lo giocammo a Berna, in Svizzera: avremmo affrontato il Barcellona. Arrivammo a quella partita in condizioni fisiche complicate: il Mancio era infortuna to, Gianluca si stirò durante il riscaldamento, Pellegrini non stava bene e inoltre lo stadio era in condizioni orribili. Tutto questo ci condizionò e infatti non giocammo una buona gara, perdemmo 2-0 in una partita senza storia. Fu una bella esperienza ma perdere in finale ha fatto davvero male, eravamo a un passo da un grande traguardo ma non riuscimmo a superare gli spagnoli, che si dimostrarono più forti ed esperti di noi. Fu comunque un importante ban chetto di prova per la mia mentalità e il mio carattere.

Quattro giorni più tardi ci fu la conclusione della stagione con la Supercoppa italiana, contro il Milan: purtroppo perdemmo 3-1 e a nulla servì il gol di Vialli. Erano

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più forti di noi e ci surclassarono. Nonostante la sconfitta, la stagione fu positiva e preparammo l’annata successiva consapevoli di poter fare qualcosa di importante. Ci concentrammo sul campionato e sulla Coppa delle Coppe, anche perché in Europa volevamo rifarci.

Il cammino in Serie A fu altalenante, sapevamo che c’erano squadre più attrezzate di noi per poter competere per lo scudetto; infatti negli scontri diretti non riuscimmo quasi mai a imporci. Sbagliammo molto contro le grandi squadre, e tutto questo portava a litigate interne. Io discussi con Vierchowod; ci beccavamo spesso già in allenamento ma l’apice lo raggiungemmo in partita, contro la Lazio. Cross di Di Canio, Pari la deviò e la palla si impennò, la lasciai rimbalzare e la bloccai. Pietro iniziò a urlarmi con tro: «Che cazzo fai, esci prima». Non ci vidi più, lo presi per il collo e lo alzai da terra, tutto questo sotto la curva della Samp. «L’anno prossimo, o te ne vai tu o me ne vado io» mi disse. «Vai via tu» gli risposi. I tifosi iniziarono a gasarsi, non si aspettavano che un ragazzino potesse avere una reazione così. Vincemmo comunque 2-0. A fine par tita andammo a salutare i tifosi, Vialli venne da me e mi disse di andare ad abbracciare Pietro, ci siamo dati il cinque. Nello spogliatoio arrivarono poi Mantovani e Boškov, Vujadin disse: «Presidente, multa per Pagliuca». Mantovani rispose: «No, niente multa per Pagliuca, è stato il primo ad avere il coraggio di menare Vierchowod». Questa era la cosa bella di quella squadra: litigavamo ma poi non aveva mo bisogno di chiarimenti, rientrava tutto in automatico. Avevamo un grande gruppo e nessun litigio avrebbe potuto rovinare una macchina perfetta.

Intanto sfidammo l’Inter nella Supercoppa italiana. Volevamo vincere, volevamo un altro trofeo da mettere in

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bacheca. Giocammo però una brutta partita, dominarono e alla fine vinsero con merito grazie alle reti di Cucchi e Serena. Non facemmo drammi, anche perché l’obiettivo stagionale era quello di andare avanti più possibile in Coppa delle Coppe. Di nuovo in Europa, più determinati dell’an no prima. Partimmo dai sedicesimi di finale incrociando i norvegesi del Brann; arrivammo in una città stupenda, Bergen, avvolta da cime elevate. Proprio per questo motivo la città veniva chiamata “la città delle sette montagne”. In partita non ci fu storia e li battemmo sia all’andata sia al ritorno. Agli ottavi di finale incontrammo il Borussia Dortmund, una sfida più ostica rispetto alla precedente.

In terra tedesca riuscimmo a resistere e a impattare 1-1, segnò Mancini su un mio rinvio: giocai molto bene. C’e ra anche Azeglio Vicini in tribuna; infatti, da lì in avanti iniziarono a seguirmi in vista del Mondiale in Italia. Al ritorno a Marassi li battemmo 2-0 e riuscimmo a qualificarci per i quarti di finale. Di fronte a noi il Grasshoppers: vincemmo sia in casa sia in Svizzera.

Eravamo a un passo dalla seconda finale consecutiva, l’ultimo ostacolo sarebbe stato il Monaco di Thierry Hen ry, Ramon Diaz e George Weah, allenato da Arsène Wenger. All’andata, in Francia, cercarono di imporre il loro gioco ma riuscimmo a strappare un pareggio fondamentale in vista del ritorno, dove a Genova li superammo 2-0. Qualificati per la finale, ancora una volta; non potevamo sbagliare di nuovo, perdere due finali consecutive ci avreb be ammazzato. A Göteborg, per l’ultimo atto, avremmo affrontato l’Anderlecht. Qualche giorno prima c’era aria di festeggiamenti perché si sposava il Mancio, divertimento ma con la testa alla finale. Dopo quel giorno di festa ci preparammo per la grande sfida. Prima della finale, venne da

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noi in Hotel un certo Paolo Villaggio, ci venne a salutare; prima della gara andammo a messa, quell’anno fu un’abitudine prima di ogni gara giocata in Europa. Eravamo più consapevoli e più maturi rispetto alla stagione precedente: eravamo fiduciosi. Loro erano sicuri di vincere, avevano già portato lo champagne nello spogliatoio. Entrammo in campo molto convinti ma non riuscimmo a sbloccarla subito. I loro attaccanti non mi impensierirono molto. Ci pensò Vialli ai supplementari a regalarci il trofeo grazie a una doppietta. Fu una gioia immensa, avevamo vinto la Coppa delle Coppe. Il mio primo trofeo europeo. Trionfare in Europa ha sempre avuto un sapore speciale, a prescin dere dall’importanza della coppa. Lì, in quella fredda sera di Göteborg, ebbe inizio il ciclo Samp. Non lo sapevamo ancora, ma avevamo compiuto il primo passo per costruire qualcosa di importante.

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