Finché scandalo non ci seprai - Ada Fichera

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L’intellettuale ha il dovere di andare oltre l’avvenimento e di percorrere tutte le strade a lui possibili per portare a compimento il suo obiettivo e il comune destino del suo tempo. Piérre Drieu La Rochelle, Idee per una rivoluzione degli europei



MINERVA



INDICE

INTRODUZIONE Quale memoria, quale scandalo, quale oblio

p. 7

IDEOLOGIA

p. 27

FEDE

p. 95

PASSIONI E TABÙ

p. 123

DESTINO

p. 149

NOTA DELL’AUTRICE

p. 181

BIBLIOGRAFIA

p. 183



INTRODUZIONE Quale memoria, quale scandalo, quale oblio?

«Scandalo!». Affermazione forte, dirompente, travolgente... Quante volte l’abbiamo sentita! Nell’epoca del “politicamente corretto”, ancor di più, il concetto di scandaloso si diffonde come un mantra, come un limite invalicabile tra il giusto e l’ingiusto, tra il morale e l’immorale. Ma chi, o cosa, stabilisce ciò che è esemplare, morale o corretto? La storia narra di innumerevoli casi di autori, libri, scritti censurati direttamente o indirettamente. Le opere letterarie sono espressione delle coscienze, per tale ragione controllare o distruggere ciò che rappresentano, e ciò che narrano, significa occultare una parte di identità, di storia dell’uomo. Il libro è un patrimonio potente in grado di cambiare le sorti e il destino di colui che lo stringerà tra le mani. È capace di permeare, correggere, arricchire la società. È quell’oggetto in grado di dare risposte e accendere i sogni, di animare rivoluzioni e costruire ponti. La letteratura è un universo a cui rivolgersi senza pregiudizi, a cui affidare il proprio pensiero con la scommessa che sempre ne uscirà cambiato. Ma i pregiudizi e le

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abiure sono stati purtroppo protagonisti indiscussi di un destino non sempre roseo, spesso triste, di una parte di cultura che è finita, appunto, in oblio. Leggere, del resto, è sentirsi parte di una comunità. Certo, se guardiamo al secolo precedente al nostro, possiamo affermare che, proprio perché in esso è decaduto il concetto di comunità, la sua storia potrebbe apparire, sul piano culturale, come un insieme di mancate utopie o di nostalgiche teorie che si sono rivelate più un surrogato di ribellioni rispetto a un “codice condiviso” che solide fondamenta per un domani radioso. Così l’avanzare del pensiero unico e il declino di una società, che guarda più al mercato che alla riflessione e ai valori, hanno portato alla perdita, spesso maliziosamente e consapevolmente orientata, di un mondo di autori e di opere che invece, oggi, meritano di essere riscoperti per ciò che sono stati e per quanto ci hanno lasciato. Questo libro si pone dunque un obiettivo specifico: ritrattare, riscoprire autori dimenticati e, talvolta, far scoprire a chi legge autori “sconosciuti” che non hanno avuto la gloria del successo. Quest’ultimo può, a sua volta, esser motivo di scandalo, e viceversa. Tuttavia, a tanti degli autori che analizzeremo qui, è accaduto il contrario. Lo scandalo li ha relegati al buio, al silenzio, facendoli dimenticare o costringendoli al “ruolo” di minori. Per quali motivi, vi starete chiedendo?

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Le due ragioni principali di questo “processo” sono l’ideologia e i tabù passionali. A queste, si uniscono motivazioni di fede religiosa e di destino. Se le prime due, dunque, sono legate alla politica e alla più o meno apparente “moralità”, le altre due sono invece frutto di censura dovuta a un credo o alla negazione di esso e, in ultimo, al destino di esser nati, seppur grandi scrittori, artisti, filosofi, in un periodo in cui un altro esponente, maggiormente grande e geniale, li ha “offuscati” in modo inesorabile. Il fenomeno non è avvenuto solo in letteratura ma, come qui si citava, è accaduto anche in arte, filosofia, politica eccetera. Se, infatti, una grande parte degli autori di cui parleremo in questo saggio, sono scrittori, non mancheranno comunque artisti e filosofi che sono stati vittime della stessa sorte. Per ragioni di spazio, si è fatta la scelta di affrontare i secoli XIX e XX, poiché sarebbe stato eccessivamente dispersivo, sia per chi scrive sia per chi legge, prendere in considerazione ancora altri secoli precedenti. L’operazione di indagine non ha, ovviamente, pretesa di esaustività. Si è consci che al lettore balzeranno magari in mente altri autori insieme alla domanda “perché tale autore è nominato e quest’altro no?” oppure “manca questo artista o tale filosofo!”. La selezione è semplicemente stata dettata dalla sensibilità di chi scrive e dalla consapevolezza di affrontare autori, dimenticati o sconosciuti dalla maggior parte dei lettori.

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L’intento, inoltre, non è fornire schede o paragrafi che narrino in modo canonico e cronologicamente esaustivo tali personaggi, ma è quello di portarli all’attenzione di chi legge segnalando i motivi per cui sono caduti in oblio e per cui invece vanno riscoperti o studiati. Per questa ragione, anche all’interno delle singole parti, gli autori trattati non seguono l’ordine cronologico ma un filo tematico del discorso. Questo non è dunque un manuale biografico e storico, ma un saggio che vuole accendere la curiosità e svelare ciò che è rimasto coperto dal disinteresse o dalla volontà di alcuni. Il lettore, con il suo acume e la voglia di esplorare avrà poi modo, se vorrà, di analizzare in altra sede il personaggio o gli autori che ritiene più interessanti per il proprio cammino culturale. In un’epoca in cui la battaglia quotidiana più importante è, per chi fa cultura, resistere all’omologazione del pensiero e, di conseguenza, del mercato editoriale, diviene altrettanto rilevante “ripescare” opere e personaggi caduti in semi-oblio, scivolati a margine del canone. L’unica vera alterità, in un presente uniforme, è quella di recuperare un “diverso” passato1. La responsabilità attuale è allora quella di leggerlo in ogni suo aspetto, liberandolo dal pregiudizio e dalle censure, dandogli il senso nuovo che possiede e merita. Il considerare un testo “scandaloso” e, quindi, da occultare è un fenomeno molto antico, che ha prodotto innumerevoli casi di censura. F. La Porta, Per i lettori l’amore è un classico, in “Robinson”, 15 febbraio 2020, p. 7.

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Pensate che il primo caso in territorio italiano è riportato nel quarto libro degli Annali di Tacito, in cui si narra del “delitto nuovo e inaudito” di cui è accusato Cremuzio Cordo nel 25 d.C., che coincide con la sua nostalgia troppo apertamente repubblicana. Vissuto sotto Tiberio, il senatore cade vittima di Seiano tanto che i suoi scritti, in cui esalta Marco Bruto e definisce Cassio “l’ultimo dei Romani”, vengono fatti bruciare per ordine dello stesso Senato. Si salva, fortunatamente, qualche copia, anche se per breve tempo2. Parecchi secoli dopo, in coincidenza con l’avvento della stampa di Gutenberg, a metà del Quattrocento, il libro stampato è guardato, sin dal primo momento, con sospetto da coloro che detengono il potere, sia politico sia religioso. Se infatti è vero che la Riforma è “figlia” della stampa, è altrettanto certo che l’attività di stampa favorisce più rapidamente la diffusione delle idee di Lutero. Tra il 1522 e il 1546 si contano, infatti, più di 430 edizioni diverse di Bibbie curate da quest’ultimo. L’epoca della Controriforma, a metà del Cinquecento, vede l’istituzione dell’Inquisizione romana con una bolla dal titolo Licet ab inizio (1542) di Paolo III, l’emanazione dell’Edictum contra bibliopola seu librorum atque dohanorum officiales e ancora l’apertura del Concilio di Trento che, in seguito, vede la pubblicazione del primo Index librorum prohibitorum (1558-59). 2

C. Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. II, Principato, Milano 1979.

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È questo Indice che condanna: il Canzoniere di Petrarca per quattro sonetti definiti anti-avignonesi, nei quali gli strali del poeta si dirigono contro la curia papale paragonata a una nuova Babilonia; l’Aeropagitica di John Milton per l’affermazione secondo la quale «uccidere un buon libro è quasi lo stesso che uccidere un uomo»; le rivoluzionarie idee, scientifiche e filosofiche, di Galileo Galilei nel Seicento3. La libertà d’espressione, dunque, non corrisponde sempre a una priorità di cui hanno potuto godere gli intellettuali nel corso delle epoche. Considerevoli passi avanti si fanno alla fine del Settecento, con la Rivoluzione francese. Già, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), a livello europeo, la Francia si avvia verso altra dimensione socioculturale. In Italia, nel 1948, l’articolo 21 della Costituzione della Repubblica Italiana sancisce che: «ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi nei casi determinati di legge». Tornando alla Francia, Parigi, nel Settecento, già prima della Rivoluzione, è una gigantesca rete di comunicazioni: pettegolezzi, lettere, stampe, manifesti, libri, pamphlets e gazzette. Nella capitale francese, così come a Ginevra, in quel periodo ci sono molte stamperie, che permettono la circolazione di migliaia di titoli “illegali”, poiché irridono la religione e pettegolano sulla vita sesR. Cicala (a cura di), Inchiostro proibito. Libri censurati nell’Italia contemporanea, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2012, pp. 12-13.

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suale del re. Non sono pochi, per tale ragione, i libretti arsi da un “boia” nel cortile del Palais de Justice di Parigi. In molti leggono Voltaire, del quale ben sessantotto testi sono reputati proibiti, sia i suoi poemi e tragedie sia i racconti. Non si distingue il lecito dall’illecito, anche perché il secondo è molto più amato del primo. Si va dalla pornografia alla filosofia, dai racconti “audaci” ai pamphlets politici, il lettore parigino esibisce lo scandalo con un certo entusiasmo nei café, almeno fino al controllo dei poliziotti, come narra lo stesso Diderot4! In Italia, la Chiesa ha sempre avuto, come vedremo in questo saggio, un peso censorio e inibitorio notevole. Occorre attendere l’Ottocento e il regno sabaudo, dove si registrano le prime tensioni liberali nello Statuto Albertino. È da quel momento che una serie di riforme traghettano il nuovo Stato unitario in uno scenario europeo. Nel Novecento, nella nostra realtà nazionale, tra i primi autori censurati ricordiamo, ad esempio, Curzio Malaparte. Vittima di censura politica, nel 1921, la sua opera Viva Caporetto! viene sequestrata, poi ripubblicata con il nuovo titolo La rivolta dei santi maledetti, e risequestrata. Esce postuma nel 1980 grazie allo storico Mario Isnenghi. La tesi di Malaparte è che la catastrofe di Caporetto nasce dall’insipienza dei generali e dall’irresponsabilità della classe politica, e salva della nazione solo i “santi maledetti” (cioè gli umili soldati di fanteria) e quei giovani P. Citati, I libri che sedussero la Francia, in “La Repubblica”, 24 giugno 2020, p. 30.

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rappresentanti dei ceti medi che coi soldati hanno condiviso gli orrori e le sofferenze della guerra di trincea (gli ufficiali subalterni). Nella rotta di Caporetto, Malaparte vede non la vigliaccheria dei soldati, ma l’incompetenza degli ufficiali superiori, definiti dall’autore «vere e proprie canaglie»5. Sul piano ideologico, sono tanti gli autori italiani (e non solo) che sono stati fatti cadere in oblio o che, comunque, non vengono studiati nelle università o nelle scuole in quanto appartenenti a un mondo che, essendo passato alla storia come “perdente”, è destinato all’oblio. Ma come scrive nel 2010 il compianto Piero Buscaroli (1930-2016), giornalista, musicologo, grande testimone di un tempo e di un universo politico e culturale, di cui parleremo in questo volume, «l’aver vinto non significa necessariamente essere stati i migliori»6. Eppure, la storia la scrivono i vincitori... e quindi il patrimonio dei vinti spesso va dissolto o “almeno” si prova a ignorare. E invece andrebbe riscoperto il concetto che può esistere un’anima dei popoli e una psicologia delle masse, soprattutto latine, sempre alla ricerca di un Cesare che le governi7. Ma per comprendere questo si deve aver studiato Gustave Le Bon (1841-1931), che difficilmente il mondo accademico valorizza, in quanto egli, con il suo 5

R. Cicala, op. cit., p. 15.

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P. Buscaroli, La vista, l’udito, la memoria, Bietti, Milano 2019, p. 485.

M. Veneziani, I popoli hanno un’anima e guai quando la perdono, in “Il Giornale”, 27 ottobre 2014.

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testo del 1894 L’evoluzione dei popoli, influenzò col suo pensiero Hitler e Mussolini, ispirando un filone di pensiero politico che prova che la vita di un popolo e di una civiltà sono il riflesso della sua anima. Avere un’anima collettiva definisce il fiorire di una civiltà, mentre la perdita di un’anima nazionale porta alla disgregazione dei popoli stessi. Di fronte a una società individualista e cosmopolita, riscoprire Le Bon è ritrovare l’anima del proprio popolo, è ricongiungersi con se stessi. Nel suo pensiero, si è voluto successivamente identificare un oscuro razzismo, mentre invece esso è custode di un’essenza che tutti dovremmo ritrovare. Se un uomo non è nulla senza anima, allora un popolo, che non conosce e non considera patrimonio la sua essenza nazionale, è una massa e non più un popolo. Questo è però scandaloso in un’epoca in cui la tecnica e il mercato divorano tutto, in cui si “predica” il globalismo e i confini indistintamente aperti a favore di una perdita del valore biologico e culturale della propria etnia. E in questo patrimonio storico e culturale, troviamo vari personaggi non elevati agli altari della memoria: alcuni, come Le Bon, seppur conosciuti, ormai poco tramandati; altri, invece, completamente dimenticati o sconosciuti. Dei primi, citiamo in questa introduzione alcuni casi; dei secondi, ci occuperemo fra gli altri nel corso del presente volume nelle varie sezioni successive.

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Fra gli autori del primo “gruppo” qui evidenziato, non può che venirci in mente Günter Grass (1927-2015). È premio Nobel per la Letteratura nel 1999, autore di opere note come Il tamburo di latta (1959) o Il mio secolo (1999) o Sbucciando la cipolla (2016), scrittore, poeta e uomo di teatro, eppure quanti oggi, almeno in Italia, studiano o si ricordano di Günter Grass? Schierato politicamente a sinistra, a favore del Partito Socialdemocratico tedesco e in difesa dei diritti umani, a Grass, che da giovane fa parte delle SS, non si è mai perdonato quello spirito critico e polemico nell’ambito del dibattito storico e politico tedesco, a cominciare dal processo di riunificazione delle due Germanie, scambiando altre volte la sua rabbia e indignazione, il suo acume da attivista per un’esemplificazione del suo giudizio sulla storia del dopoguerra. I latini si interrogavano già sul nesso fra “liber” (libro) e “libertà”. Per tale ragione, la conoscenza dovrebbe sempre corrispondere alla libertà di pensiero, di espressione, di studio... Come si può trattare delle arti se non all’interno di un paradigma di libertà? L’oblio, in parte voluto in parte accaduto per destino, di un patrimonio culturale porta il fruitore in un sistema orientato, dove si studia ciò che secondo un diverso paradigma (non di libertà, in tal caso) è “giusto”. Dunque, intellettuali come Piérre Drieu La Rochelle, Louis Ferdinand Celine, Julius Evola, in questo sistema di pensiero divengono “scandalosi”.

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Scandalosi perché inquietano, perché scrivono l’opposto di ciò che un certo pensiero unico vorrebbe, perché destabilizzano quel sistema già radicato e solidamente strutturato. Di conseguenza, è meglio offuscarli che parlare di loro, meglio far in modo che le nuove generazioni ne perdano memoria. Piérre Drieu La Rochelle (1893-1945), scrittore francese, reazionario di destra, accusato di collaborazionismo, suicida per i suoi ideali, è un grandissimo autore, fondamentale per la memoria europea e non solo; conscio della decadenza contro la quale si scontra egli stesso, come dichiara nella sua postfazione al suo romanzo, Gilles. Evasione, cambiamento, rifiuto, osservazione sistematica, un pensiero che ha le sue radici nel racconto La valigia vuota, dove letteratura e costumi degli anni Venti sono il fulcro, e che culmina in Fuoco fatuo, dove il pathos delle proprie convinzioni sociali e politiche sfocia nel suicidio. È criticato per il rigore di quest’ultima opera e, per il motivo contrario, per Gilles. La decadenza in lui, unita all’introspezione, prende un significato morale. Egli, scardinando una sovrastruttura di pensiero condiviso, compone un’invettiva verso la miseria morale e culturale della sua epoca. Autore politico in tutte le sue sfaccettature, negli scritti e nella vita, ritiene che alla politica “tutto sia legato”8. Di questa sua “ragione spirituale”, dà prova in uno dei suoi scritti più belli, dal titolo Idee per una rivoluzione 8

P.D. La Rochelle, Gilles, Ed. Giometti&Antonello, Macerata 2016, pp. 567-569.

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degli europei. In esso, focalizza il centro propulsore principale del processo di mondializzazione e globalizzazione economica e culturale nell’Occidente mercantilistico e plutocratico. Denuncia come in molti vi hanno aderito con fideismo biblico ed entusiasmo crescente, conducendo l’Europa a “ripiegare su se stessa” e su un capitalismo globalizzato da sempre nemico dell’identità degli europei e della loro dimensione sociale9. A condividere molti degli ideali di La Rochelle è Louis Ferdinand Celine (1894-1961), altro autore scandaloso del secolo scorso. Il suo Viaggio al termine della notte (1932), nel suo nichilismo, è una denuncia, una testimonianza, un grido di rivolta contro un sistema ipocrita e violento. La polemica sociale diviene un tutt’uno con la polemica letteraria. Medico, scrittore, ma mai prototipo del francese accademico, Celine denuncia il degrado anche in modo sovversivo, da uomo tormentato dalla morte e, allo stesso tempo, affascinato da essa. La combatte in ogni momento («Sono del Partito della vita!», dice) ma ne parla con sprezzante atteggiamento e con oscuro lessico, per il quale talvolta è stato criticato. Una società come la contemporanea, troppo edonista troppo vuota di ideali, non tende a valorizzare un intellettuale di tal peso. A questa motivazione, si aggiungono le voci della critica a lui postuma, che lo definisce rivoltoso, refrattario. I comunisti gli rimproverano una desolazione senza sbocco P.D. La Rochelle, Idee per una rivoluzione degli europei, Edizioni Ritter, Milano 2012, pp. 7-9.

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nella sua letteratura, quasi una filosofia dell’abdicazione, il non saper vedere nel proletariato la forza nuova pronta a riscattare dalle mani della borghesia la fiaccola della civiltà. Ancora si crede che «la rivolta di Celine possa arrivare dappertutto e da nessuna parte». È avversa anche buona parte della destra, che gli imputa “un eccesso di affabulazione” nelle sue opere. “Le Figaro”, nel 1933, afferma che «Celine è nato per dar scandalo!», quello scandalo non solo di aver svelato il volto della miseria, ma quello peggiore di averlo fatto con un ideale “reazionario”10. A tutto ciò si associa il suo antisemitismo, metafora impropria della sua dichiarata convinzione antiborghese che, oltre a condannarlo a una fredda accoglienza per il suo libro Morte a credito (1936), costituisce un altro aspetto che lo accomuna ad altri autori di cui parleremo in questo saggio11. Scandaloso per i temi a lui cari, quali la libertà e l’esigenza di allontanarsi dai vincoli puritani, fino all’accettazione dell’omosessualità, Celine, tra le sue opere più note, annovera L’immoralista (1902), un inno all’evasione e alla liberazione da ogni pregiudizio. Nonostante il premio Nobel per la Letteratura, vinto nel 1947, è stato oggetto di ogni tipo di critica, da quella di egocentrismo a quella di fascista, fino all’abiura dell’accademia, che rappresenta ai suoi occhi una “trappola”. E. Ferrero, Celine, ovvero lo scandalo di un secolo, in L.F. Celine, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Varese 2016, pp. 556-570. 10

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L.F. Celine, Polemiche, Guanda, Milano 1995, pp. 9-10.

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Il suo percorso di purificazione dell’uomo ha tutto il sapore nietzschiano, mentre quando mette in discussione il concetto di volontà emerge la sua passione per il pensiero di Schopenhauer. Scandaloso, dunque, ma affascinante come può esserlo solo un corpus che si attesta, nel panorama letterario dell’epoca, come manifesto delle libertà. Altro nome, poco studiato oggi, ma fondamentale nell’evoluzione della filosofia tedesca degli anni Sessanta del Novecento, è Theodor L.W. Adorno (1903-1969). Filosofo, sociologo, musicologo, è esponente della Scuola di Francoforte, critico in modo radicale del capitalismo. Amico di Max Horkheimer, scrive Il gergo dell’autenticità, un saggio dove dichiaratamente attacca il pensiero di Heidegger e di Karl Jaspers. In proposito, è interessante quanto scrive il giornalista e filosofo Marcello Veneziani, sul suo Imperdonabili: L’aspetto odioso e carognesco di questo brillante saggio di Adorno era il nesso che stabiliva tra il gergo dell’autenticità e il distintivo all’occhiello del partito nazista, come dire che il linguaggio heideggeriano era il versante esoterico e il nazismo ne era la versione politica di massa. [...] Adorno stronca in Heidegger la versione sacrificale della storia e dell’umanità, le connessioni magiche e irrealiste, il feticismo dell’originario.

E in effetti Adorno condanna le matrici dell’idealismo tedesco e l’ideologia della morte che si annide-

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rebbe nell’autenticità di Heidegger come nei campi di sterminio12. Nemico del Sessantotto, Adorno lascia l’università. Rimane ancora oggi la modernità del suo pensiero, che focalizza l’asservimento della scienza al profitto, il riconoscimento dell’alienazione individuale nella nostra società, la denuncia della cultura ridotta a “industria culturale”, fulcro della sua critica al neopositivismo. Critica e, nella stessa misura attuale, è la precedente visione di Vilfredo Pareto (1848-1923). In un’Italia che non forma più classi dirigenti, sarebbe fondante riscoprire il pensiero di questo grande intellettuale, che ha affermato la necessità delle élite. Economista, sociologo, scrive il Trattato di Sociologia generale (1916), la sua opera più nota. Egli sostiene che l’individuo sociale agisce solo raramente secondo una razionalità strumentale di mezzi adeguati al fine. Pareto teorizza, riguardo alle élite, che in ogni ramo dell’attività sociale vi sono individui che, sulla base di determinate abilità e non per censo, emergono sugli altri, motivo per cui entrano a far parte dell’élite corrispondente. La sua profonda convinzione sull’élite politica non è solo una teoria del rapporto tra governanti e governati, ma più generalmente una teoria della stratificazione sociale su base naturale. Alla base di tutto, c’è la lotta per la conquista del potere. L’uguaglianza serve per rovesciare le classi superiori, M. Veneziani, Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti, Marsilio, Venezia 2017, pp. 133-136. 12

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affiancarle e, quindi, sottometterle alle classi in ascesa, istituendo così nuove disuguaglianze13. La storia è segnata dunque da un perpetuo conflitto tra élite che comandano e altre che vogliono prendere il potere detenuto dalle prime. Anche in democrazia la dinamica non cambia. Per tale ragione, secondo Pareto (e qui sta l’utilità di rianalizzare il suo pensiero), è necessario ripensare le aristocrazie come priorità, dunque anche nel nostro tempo si dovrebbe riconoscere il bisogno di élite che guidino il popolo. Quest’ultimo crede di poterne fare a meno, di deriderle, di sviluppare odio, invece è essenziale rifondarne il ruolo e la relativa cultura per guidare il Paese. Dell’incontro dello Stato con la filosofia, è grande teorico Giovanni Gentile (1875-1944). Scandaloso perché considerato uno dei maggiori inventori dell’ideologia fascista, Gentile è filosofo, pedagogista, artefice nel 1923 della Riforma della pubblica istruzione che prende il suo nome. Profondamente convinto della natura etica dello Stato, egli ne vede la concretizzazione «nell’educazione del popolo»14. Tutto ciò è, per il filosofo, il senso della sua missione. Come un testamento spirituale, la sua opera dal titolo Genesi e struttura della società (1943), è la summa di ciò che più gli sta a cuore: «dopo un conflitto, che scatena gli opposti, sorgerà un bisogno più forte e più vasto di 13

Ivi, pp. 265-266.

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G. Gentile, Genesi e struttura della società, Vallecchi, Firenze 2020.

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fraternità e solidarietà umana». Dunque, all’umanesimo della cultura, egli si augura che subentri l’umanesimo del lavoro. Come scrive il giornalista e studioso Andrea Colombo, nel suo saggio I Maledetti: «in un’Italia sprofondata nel bagno di sangue provocato da Mussolini, egli sogna ancora un mondo solidale fra lavoratori accomunati dal vincolo patriottico». Forse è un “impunito idealista”, ma Gentile paga in termini di memoria quanto ha scritto e quanto qui molto brevemente ricordiamo. Attivista capace di unire prassi e pensiero, sigilla la sua ideologia ne La dottrina del fascismo (1932), dove la sua concezione politica si veste della visione hegeliano dello Stato etico, per cui Libero non è l’individuo atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo Stato nel suo processo storico15. L’individuo può maturare la sua libertà individuale solo all’interno dello Stato (“libertà nella legge”), cioè in un contesto istituzionale organizzato.

Fascista, Gentile è anche fautore di un liberalismo che riporti la società ai primigeni del Risorgimento, antimaterialista, antilluminista, che ha il suo fulcro nell’atto di “fede” di Giuseppe Mazzini e che invece poi viene tradito, in termini di valori, dallo stato giolittiano. Gentile viene assassinato il 15 aprile del 1944, a Fi15 V. De Luca, Giovanni Gentile e il liberalismo, in “Libertates online”, 26 giugno 2014.

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renze, da Bruno Fanciullacci, partigiano comunista dei Gruppi di Azione Patriottica (Gap), un sanguinoso e fortemente simbolico evento che divide anche il fronte antifascista. È stato una delle migliori menti filosofiche e politiche d’Italia, colpevole di esser stato “dalla parte sbagliata della storia”. E dalla “stessa parte” è anche Julius Evola (18981974), noto per essere l’intellettuale che invita a «stare in piedi in un mondo di rovine»16. Su di lui, scandaloso autore legato alla scuola di Mistica fascista e divisivo per il suo concetto di “razza ariana superiore per la sua origine metafisica”, si è scritto molto. Tanto scandaloso quanto fondamentale per la cultura della destra (e non solo), egli auspica la costruzione di una civiltà che rifugga la modernità e sia basata sulla spiritualità. Echi misticheggianti e fantasie di potenza sono sempre stati a lui affini, così come lo sono il nazionalismo e la dottrina del tradizionalismo. Evola non è la figura canonica di fascista della prima ora, il suo approdo a posizioni di destra è stato graduale e segnato da diverse esperienze. Nietzsche, il futurismo, al quale è introdotto dall’amico Giovanni Papini, e il dadaismo, sono alla base del suo pensiero.

16

J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Hoepli, Milano 1943.

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Il nucleo originario del pensiero di Evola è il disprezzo per la morale borghese e per l’ordine dominante, in particolare per l’impalcatura ideologica del Cristianesimo. Sia il Dadaismo che il Futurismo, nonché l’influsso di pensatori orientali legati al Buddhismo, gli permettono di speculare sulle tendenze individualiste e antiborghesi che egli aveva desunto dal canone nichilista. In Evola si riscontra il disgusto – venato da un sentimento aristocratico – per tutto ciò che è massificato e legato al materialismo della società industriale17.

E infatti identifica, nel movimento fascista, il mezzo per rompere le convenzioni della società moderna e recuperare il rapporto originario fra uomo e mondo. Quel rapporto che, già nel suo Cammino del cinabro (1962), ha il suo impulso ideale nella trascendenza. Alieno nel secolo breve, come egli più volte si sente, Evola sostiene che bisogna lasciare «libero corso alle forze e ai processi dell’epoca, mantenendosi però saldi e pronti a intervenire quando la tigre, che non può avventarsi contro chi la cavalca, sarà stanca di correre»18. In questa condizione, tutto è permesso, anche l’uso superiore delle droghe, se possono essere una via iniziatica al sacro, o la liberazione attraverso l’erotismo, come sostiene in Metafisica del sesso (1958). G. Bitetto, Julius Evola, l’ideologo dell’internazionale sovranista, in “The Vision online”, 20 settembre 2018. 17

18

J. Evola, Cavalcare la tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 2009.

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Fautore di un anarchismo di destra che possa «respingere il mondo borghese, egli aspira a una superiore libertà unita, tuttavia ad una disciplina rigorosa»19. Insofferente a ogni restrizione, minaccia di denunciare, per sequestro di persona, le suore e le infermiere dell’ospedale in cui viene ricoverato in fin di vita. Morto nel 1974, fino alla fine ha cercato di «salvare la Tradizione, in un mondo che l’aveva già abbandonata da tempo»20. E salvare il pensiero e le opere di tantissimi intellettuali dovrebbe essere missione di qualsiasi uomo di cultura oggi. È quello che qui proviamo, in qualche modo, senza presunzione, a fare. Almeno, “finché scandalo ci separi...!”.

19

J. Evola, L’arco e la clava, Edizioni Mediterranee, Roma 2009.

20

A. Colombo, I Maledetti, Lindau, Torino 2017, pp. 220.

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