Luciano foglietta
Luciano Foglietta
I Matti di Seguno
Luciano Foglietta, 1922 - 2015. Romagnolo di Santa Sofia (FC), giornalista professionista ha scritto numerosi libri. Per Minerva Edizioni ha pubblicato “Sangue romagnolo. I compagni del Duce. Arpinati, Bombacci, Nanni” (2011, vincitore del “Premio Acqui Storia 2012”), scritto con Giancarlo Mazzuca. “Mussolini e Nenni. Amici - nemici” (2015) scritto con Alberto Mazzuca.
Ripropongo questo mio libro, il terzo in ordine cronologico, essendo, secondo me, il dettagliato, intimo saggio di una cultura in fase di drastica trasformazione, di una civiltà che, però, non è andata completamente distrutta e ha fatto da “trait d’union”, da piattaforma a quella attuale in cui scetticismo ed empirismo sono una costante universale.
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I Matti di Seguno
Immagine di copertina: Enzo Bellini
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Minerva
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Minerva
Luciano Foglietta rivisita, in questo libro, storie e personaggi di Seguno, una località situata sull’Appennino tosco-romagnolo in provincia di Forlì, ma li fa rivivere nella sua fantasia. Prende dall’immaginario collettivo la tradizionale fabulazione orale, la colloca in un contesto narrativo appropriato, collega vari elementi ambientali e comportamentali e crea una serie di accadimenti che hanno apparenza di realtà in quanto nati e cresciuti in una determinata cultura (e se anche non fossero avvenuti, è come se lo fossero, perché andrebbero comunque bene per quel luogo e per quel tempo). Ed eccoli i fratelli Castellucci, i matti di Seguno, nella loro sperduta bicocca (il “Vento”) con la loro paradossale ingenuità, balorda, sì, ma talvolta piena di “profondità di coscienza e di sentimento insospettati”. No, non sono matti nel senso patologico del termine, ma bizzarri sempliciotti che vivono in un ambiente inevitabilmente agreste (più o meno collocabile a cavallo fra il XIX e il XX secolo, ma anche, se si vuole, in un tempo precedente in quanto eterno passato), nati nella terra e fatti per lavorarla, ricchi del buonsenso dell’ignoranza, stolidi e creduloni, ma capaci, a volte, d’impensabili acuzie. Il più grande merito dell’autore è quindi di aver ripreso sapientemente, ricostruito e romanzato una storia tradizionale che lascia una scia indulgente e gustosa di una realtà forse diversa, almeno per certi aspetti comunque da non dimenticare anche perché saper sorridere sul passato rende meno amaro il lacrimare sul presente.
i.i .
Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
A Luciano
Luciano Foglietta
I Matti di Seguno
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PREMESSA
A oltre cinquant’anni dalla prima stesura ripropongo le storielle dei sette fratelli Castellucci del “Vento” senza togliere od aggiungere una sola virgola al testo primitivo. Si, per me il libro va bene così com’è. Forse sbaglierò ma credo che, almeno dal lato del gusto italiano, il fantastico legato allo spassoso e al meditativo condito con un po’ di crudeltà piaccia anche alle nuove generazioni. L’edonismo oggi imperante a volte non disdegna di andare di pari passo con lo scetticismo e l’empirismo e sono quindi convinto che, gratta gratta, così come i loro padri gli uomini del XXI secolo abbiano ancora in sé la voglia di vivere gioiosamente e animosamente così come credo che, ripuliti da certe scorie ideologiche ormai obsolete, scetticismo ed empirismo restituiscano all’uomo la piena sovranità di se stesso. Senza indulgere più di tanto alla filosofia, dirò inoltre che questo libro, nel profondo di ogni essere cerca di cogliere il senso umano del vivere. Bisogna tenere comunque ben presente che la vicenda si svolge in una zona appenninica tosco – romagnola a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. “Un uomo vivo, vero, genuino, un mondo pieno di difetti, di sogni, di ingiustizie, di ideali e di soprusi …” quello de “I matti di Seguno” scriveva il critico 7
d’arte Maria Guerri. “Un mondo che – dirà a sua volta Claudio Marabini – Foglietta ha legato con andamento di fiaba lungo un filo fantastico che sta fra cronaca e immaginazione”. Ripropongo quindi questo mio libro, il terzo in ordine cronologico, essendo, secondo me, il dettagliato, intimo saggio di una cultura in fase di drastica trasformazione, di una civiltà che, però, non è andata completamente distrutta e ha fatto da “trait d’union”, da piattaforma a quella attuale in cui scetticismo ed empirismo sono una costante universale. Luciano Foglietta
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PREFAZIONE
QUANDO LA FOLLIA è LA SCINTILLA DELLA SAGGEZZA Basterebbero i nomi dei protagonisti: Tonio, Rencino, Terziglio, Gero, Matteo, Sesto e Zvanela (ci sarebbe anche Virgilio, morto di tifo a quattro anni, ma in grado di far danni anche in sogno). Basterebbero per far intuire in quale mondo di “favole vere” riesce a portarci per mano Luciano Foglietta, egli stesso adulto con l’anima di bimbo: pronto a credere e a riferire, ma col rigoroso disincanto di chi ci tiene a far sapere che i “matti sono loro”. Forse… E’ una storia quasi senza tempo quella dei “Matti di Seguno”: ma non senza luogo. Perché solo in Romagna – la Romagna del primo Appennino, sistematicamente elevata da Foglietta a metafora di ogni sentimento – potevano e forse possono accadere cose del genere. Qualcuno ha scritto che i pazzi osano dove gli angeli temono d’andare. E i sette fratelli Castellucci, inconsapevolmente in bilico fra le novelle del “Decamerone” e le suggestioni contadine de “L’albero degli zoccoli”, fra la potenza del loro folle candore e il disincanto della loro faticosa – eppur così amata – quotidianità, diventano testimoni più o meno inconsapevoli dell’“altra faccia” della saggezza umana. O comunque del coraggio di vivere. Certamente di 9
una purezza infinita che porta il libro al più inatteso e nobile dei finali. Matto, “mat”, in romagnolo non è necessariamente una definizione negativa. A volte sottintende talento, fantasia, quando non anche inconsapevole genialità. Certo, l’ingenuità degli stravaganti abitanti del casolare “Il Vento”, sconfina molto spesso in dabbenaggine. Ma siamo sicuri, restando al contesto letterario, che Calandrino sia meno furbo (oltre che indubbiamente più simpatico) di Buffalmacco? O Bertoldo meno intelligente di Alboino? E “Il nido del cuculo” davvero non ci ha insegnato nulla, in tempi assolutamente successivi? Su quelle colline verosimilmente di inizio novecento si consumano spassose commedie e piccoli drammi al limite del surreale. La miseria non fa sconti; né li fa la prepotenza dei ricchi. Eppure in ogni capitolo c’è un guizzo certamente di pazzia, ma soprattutto d’orgoglio e persino di purissima onestà che spesso tracima nell’ammirazione per chi dovrebbe essere più debole. Foglietta ha raccolto le “storie” che alimentano il libro con una bravura straordinaria: le ha ricostruite, le ha plasmate, le ha rese tutte autosufficienti eppur consequenziali. Certo, Terziglio, Tonio o Zvanela non sapevano, nello stolto inseguire le uova d’asino, nel desiderio di avere una loro luna di proprietà (perché quella in cielo è naturalmente del “padrone” del paese vicino), nel misurarsi con spiriti burloni, nel fuggire da finti carabinieri per 10
colpe mai commesse, di essere i protagonisti di un concept-book nel quale ogni capitolo è un piccolo gioiello e che, alla fine, diventa una collana perfetta di perle impagabili. Tutto vero? Tutto finto? Tutto stupendamente raccontato da un maestro di profondità e di ironia, di fantasia e di rigore storico-giornalistico. Troppo poco, a mio parere, per restare “solo” un libro, per quanto scritto da un (timido) fuoriclasse. I fratelli Taviani, Ermanno Olmi e altri grandi poeti del cinema hanno estratto capolavori da molto, molto meno di questa autentica miniera di pagine belle. L’autore, pur conoscendoli e raccontandoli, non aveva mai incontrato i suoi sette strampalati eroi. E, con loro, Birina, Puzzo, Sbrullino, Scarabocchio, Moschino e Bazagnar. Ora potrà vederli. E abbracciarli. E condividere con loro un motto straordinario: “Nella vita ti viene data solo una scintilla di follia. Non devi assolutamente perderla”. Luciano Foglietta, quella scintilla, l’ha saputa catturare come si fa in estate con le lucciole della sua terra. Ed è nato un capolavoro. Marino Bartoletti
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Capitolo I
DOVE SI FA CONOSCENZA DEI FRATELLI CASTELLUCCI DEL VENTO E DI DON DOMENICO, L’ARCIPRETE DI CIGNO, E DOVE SI RACCONTA L’AVVENTURA DELLA LUNA CADUTA NELLO STAGNO In questo lungo racconto narrerò le avventure dei fratelli Castellucci del “Vento” comunemente chiamati i Matti di Seguno, servendomi delle informazioni che mi furono date da un simpatico vecchietto che fu con loro in grande dimestichezza. Il racconto non ha soltanto lo scopo di far conoscere le avventure dei Matti di Seguno quanto quello di dimostrare come la vita delle persone più semplici e meno avvedute abbia talvolta profondità di coscienza e sentimento insospettati. I Castellucci abitavano in una catapecchia mezzo rovinata dall’ultimo terremoto e mal riparata. Il “Vento”, come abbiam detto che si chiamava la casa, era fatta di sassi grigi ammonticchiati alla meglio e così, senza intonaco, per chi venisse dal sentiero che scendeva giù verso il fosso, oltre il quale essa sorgeva, poteva sembrare null’altro che il greto stesso in quel punto più largo e più sassoso. Gero era il capo di casa ed era il più sveglio dei sette fratelli. Non che fosse il più anziano, aveva ventisette anni e Rencino, invece, ne aveva quarantuno, 13
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Terziglio trentanove e Matteo trenta; ma essendo morto il vecchio Gingio all’età di settantasette anni i fratelli lo avevano, per tacito consenso, eletto quale suo successore. Gero era un capoccia all’antica, giusto ma duro e autoritario coi familiari, ingenuo fino a rasentare la dabbenaggine, ignorava tutto ciò che non fosse strettamente legato alla conduzione di un podere di montagna ed era completamente analfabeta. Pur trovandosi il “Vento” nel territorio della parrocchia di Seguno, la distanza che lo separava dalla chiesa era maggiore che non da quella di Cigno così, come per la maggior parte dell’anno, anche quella domenica i fratelli Castellucci erano andati nella chiesa di quest’ultima località ad assistere alla Messa delle undici. Pronunciato dal celebrante l’“Ite Missa est”, Gero ed i suoi fratelli erano usciti dalla chiesa e s’eran fermati, tutti in gruppo, sul sagrato. Per caso, in un crocchio vicino, c’erano i due fratelli Bordoni, piccoli proprietari terrieri che abitavano in un palazzotto distante circa un chilometro dalla chiesa di Cigno, i quali stavano ragionando di prezzi, di raccolti e di stagioni. A questo punto Pelo, il minore dei Bordoni, disse: “Questo, la mia gente, sarebbe il momento più adatto per il trapianto, perché adesso la luna è buona.” Sentendo ciò e tanto per non starsene lì impalato e muto a contemplare le solite facce dei fratelli, Gero disse: “Si, si, è proprio vero. Pelo dice giusto, perché anche la nostra luna, las14
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sù al “Vento”, adesso è buona.” A questa scappata tutta la gente del crocchio si voltò a guardarlo e alcuni non poterono tenersi dal ridere, e risero tanto sgangheratamente che Gero, seccato disse: “Cos’ho mai detto che vi fa tanto ridere? Forse non credete che la nostra luna sia buona quanto la vostra?” Il tono della voce, in cui dominava la collera, e il movimento compatto dei sette fratelli Castellucci che s’avvicinavano con le mani gigantesche strette a pugno, fece ammutolire coloro che ridevano. Pelo, temendo il peggio,e sperando di calmarli, aggiunse: “E che? Forse che voi, del “Vento”, non sapete che la luna appartiene a Cigno? La luna, fino a prova contraria, è nostra, ed è quindi più che naturale che la gente rida sentendoti dire certi spropositi.” Vedendo la sicurezza di Pelo e l’atteggiamento consenziente alle sue parole di tutti gli astanti, Gero non seppe cosa rispondere. Voltò loro le spalle e, seguito dai fratelli, s’avviò immediatamente verso casa. Egli era rimasto molto scosso nell’apprendere che la luna, la tonda piada lucente che a volte sembrava sorridergli non gli apparteneva affatto ma che anzi, era di esclusiva proprietà di quei tangheri di Cigno. “Io non la voglio neanche più guardare”, aveva detto stizzito, Tonio, il minore dei fratelli. Poi, nei giorni che seguirono, non ne avevan più parlato. Ma si vedeva come nell’intimo soffrissero, e che non ne parlavano per non riaprire la piaga. Si ritenevano defraudati di qualcosa ch’essi avevan sempre ritenuto fosse anche la loro. Pur non avendone mai 15
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apprezzata l’utilità prima, ora sentivano fortemente la mancanza di quel qualcosa. Passò del tempo e, un mattino, prestissimo, mentre era in un campo a zappare, Sesto, il sesto in ordine d’età dei fratelli Castellucci, vide sul vicino sentiero il mugnaio delle “Trove” che, da dietro una “bricca” carica di una soma di farina, veniva verso di lui. Sesto smise di lavorare, appoggiò le braccia nude sul manico della zappa e urlò: “Ehi! Mugnaio! Dove andate?” “Vado a Cigno, a portar questa soma di farina ai Bordoni.” rispose il mugnaio, che s’era fermato sul sentiero, mentre la bricca, passo, passo, s’allontanava dondolandosi con le orecchie abbassate. “Com’è quest’affare della luna, mugnaio? – disse Sesto – voi, che la vostra casa è un porto di mare e ne sapete più di me, sapreste dirmi perché la luna è di proprietà di quelli di Cigno? Il nostro vecchio non ce ne aveva mai parlato e c’è venuta proprio nuova.” “Eh, io lo avevo sempre saputo, questo – rispose il mugnaio – come e quando ne sian diventati padroni non lo so, ma ora che vado a Cigno me ne informo e quando stasera ripasso di qui, ve lo saprò dire di certo.” E s’affrettò per raggiungere la bestia, alzando il bastone a mo’ di saluto. “Ehi! Quelli del “Vento”, allegri che ho una bella novità per voiiiii!” Gridava il mugnaio che, a cavalcioni della bricca attraversava in quel mentre a guado il torrente, di faccia alla casa, e agitava il grigio cappellaccio. Tutti i Castellucci uscirono fuori dalla 16
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bassa cucina muovendo compatti incontro all’uomo che gridava e Gero, col piatto della polenta serale ancora in mano e la bocca piena chiese: “Ditemi su, Macinagatti, che novità ci portate?” Il mugnaio, che alla parola Macinagatti era diventato paonazzo dalla rabbia e aveva stretto le ginocchia di modo che la povera bricca quasi ne veniva soffocata, per darsi un contegno smontò e, toltosi il sacco che portava sulle spalle, disse: “V’ho portato una luna, guardate!” E tirò fuori dal sacco una tonda piada di granoturco, grossa tre dita e cotta a puntino sulla lastra di sasso rovente. I fratelli, sgranando tanto d’occhi, lo fissavano in silenzio. “A voi sembrerà una comune piada di formentone – spiegava il mugnaio col fare di un provetto imbonitore – ma se la legate sul ramo più alto di quell’olmo torto che è all’incrocio del sentiero che mena a Giaggiolo, vicino alla Maestà e ve la lasciate per qualche tempo, vedrete che, poco alla volta, salirà in alto, si fisserà nel cielo e vi resterà inchiodata per sempre. Così avrete una luna tutta per voi, sopra la vostra proprietà, che calerà o crescerà al suo giusto tempo, e farete morire d’invidia i Bordoni di Cigno e tutti i pari loro.” “Ma dite sul serio, mugnaio?” chiese Zvanèla, il quinto dei fratelli, quello che non parlava se non quando subiva una forte emozione. “Per chi m’avete preso, dunque? Io non racconto frottole – questi rispose – a Cigno tutti lo sanno che si fa così per avere una luna, anche don Paletta (accidenti m’è scappata), anche don Domenico, l’arciprete, lo sa, potete 17
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domandarglielo.” “Se è così, date qua! – disse Gero – Ed ora venite dentro che per un amico come voi un bicchiere di quello buono non manca mai.” Il pomeriggio del giorno seguente, sul tardi, arrivò al “Vento” l’arciprete di Cigno. Era un pezzo d’uomo sui quarant’anni, grande, grosso, massiccio, pronto sempre a menar le mani quando le parole del Vangelo o i ragionamenti più o meno seri non bastavano. Viveva con una giovane serva che si chiamava Caterina, ma che il popolo preferiva chiamare la Fischia. Il perché di questo strano soprannome forse nessuno avrebbe saputo chiaramente spiegarlo, mentre tutti sapevano benissimo il motivo per cui l’arciprete che al fonte battesimale era stato chiamato Domenico si era meritato il nomignolo di don Paletta così poco cristiano; lo sapevano tutti, ma nessuno avrebbe mai osato pronunciarlo in presenza dell’arciprete per timore di quelle mani che nello spirito e nella forma erano in piena armonia col soprannome. La colpa era tutta di Bistone, di quel vecchio matto ch’era venuto dal paese per certi lavori di riparazione da farsi in sacrestia. La Fischia, una bella mattina volendo sgomberare il focolare dalla cenere aveva cercato la paletta e non l’aveva trovata. Cerca e cerca, aveva chiesto a Bistone se per caso non l’avesse presa lui per certi suoi lavori. “No la mia bella Caterina, io proprio non l’ho veduta, ma guardate nel vostro letto che forse è voluta venire, la sporcacciona, a dormire con voi”, aveva sussurrato il muratore a bassa voce e con un certo sor18
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risetto sulle labbra. Passò così una settimana e la paletta non ci fu verso di poterla rintracciare. Bistone aveva finito il suo lavoro, era già stato nello studio dell’arciprete a riscuotere la paga, e s’apprestava a partire. “Dite su Caterina – disse il vecchio birbone con fare misterioso avvicinandosile, – le malelingue vogliono insinuare che voi, spesse volte, per non dir sempre, andate a dormire con l’arciprete.” “Ah! Vecchio barbagianni, impertinente, linguaccia che non siete altro – gridò la serva – Io dormo nel mio letto, e se lo volete sapere la mia camera è dall’altra parte della canonica, la più lontana da quella del mio padrone. Gesù, Maria cosa mi tocca sentire!” “Su, su, non date peso a quel che dico io, – disse Bistone – burlo, mi piace di burlare, son fatto così. Ma dov’è di preciso la vostra camera?.” “Venite con me, ora ve la mostro e così potrete dire a quelli che vogliono malignare come sono lontana dall’arciprete.” Rispose Caterina. Quando, entrato nella cameretta, vicino al letto rifatto, Bistone con un gesto brusco aveva rovesciato le lenzuola e ne era rimasta scoperta la paletta, la Caterina si era abbandonata su di una sedia emettendo un oh! strozzato, mentre quella birba di un vecchio aveva infilato la porta e se l’era data a gambe. Don Domenico, dunque, era arrivato al “Vento”, solo soletto, e Gero l’aveva fatto entrare in casa, l’aveva fatto accomodare sull’unica sedia impagliata che possedeva e tutti i Castellucci gli si eran fatti intorno, in silenzio, aspettando ch’egli specificasse il motivo di quell’insolita visita. 19
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Il prete si schiarì la voce e disse: “Figlioli miei, voi sapete come abbia a cuore i problemi che assillano i miei parrocchiani e anche quelli di Seguno, voi sapete bene come mi sia dato da fare affinché si uniscano a mezzo di una strada, le nostre due frazioni con Spinello. Sono andato fino a Roma per vedere, inoltre, d’ottenere che Spinello venga staccato dal Comune di Mortano per assurgere, a sua volta, a capoluogo di Comune affinché tutti voi risparmiate d’andare tanto lontano quando dovete pagare le tasse.” “Ci siete andato coi nostri soldi a Roma.” disse Tonio. “Si; e coi soldi vostri e di tutti gli altri parrocchiani, riuscirò nell’intento – rispose l’arciprete –. Ma non ero venuto per questo, ora. Vorrei sapere come va la luna che vi siete procurata. S’innalza, eh. S’innalza?” “Non me ne parlate.” Sospirò Gero. “Perché? C’è qualcosa che non va?” disse don Domenico. “C’è che è sparita – rispose Gero. – non l’abbiamo più. Forse non era buona. Ma noi pensiamo piuttosto che ce l’abbiano rubata i Bordoni di Cigno. Sono tanto invidiosi quelli!” “È peccato pensar male del prossimo – disse l’arciprete – ditemi le cose come stanno.” Tutti i fratelli cominciarono a urlare contemporaneamente, facendo un baccano d’inferno. “Non così, non così, perbacco, non capisco niente. Parli uno solo. Parla tu, Gero, che sei il capo di casa.” disse don Domenico. “Da principio tutto andava bene – rispose Gero – quando venne il suo tempo la nostra luna incominciò a calare, proprio come quella di Cigno, e calò fino a 20
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scomparire. Ieri sera però, la luna di Cigno è riapparsa nel cielo, sottile come uno spicchio d’aglio, ma della nostra, nulla, neppure l’ombra. Allora abbiam pensato che ce l’avessero rubata.” “Subito voi pensate al peggio – disse l’arciprete –. Ma non avete guardato intorno? Forse può essere caduta. Se gli ingredienti con cui è stata fatta non sono ben dosati può risultare troppo pesante e nello spiccare il salto può benissimo essere caduta a terra.” “No, non abbiam guardato, ma stasera lo faremo.” disse Gero. “Bene, bene, amici miei, chi cerca trova e voialtri certamente la ritroverete.” Detto questo don Domenico s’alzò, augurò la buona notte e prese la strada della canonica. Il sentiero, dopo cinquecento metri, s’infilava dentro un folto querceto e qui il prete si fermò. Emise un leggero fischio e subito due uomini uscirono da dietro un grosso tronco. Erano i fratelli Bordoni. “Il trucco della piada ha funzionato – disse l’arciprete – È stata una buona idea il tagliarne un pezzo ogni qualvolta la luna calava, L’hanno proprio bevuta! Adesso vanno all’olmo a cercare se, per caso, fosse caduta. Ora, noi ci nasconderemo nel mio capanno di caccia che è sopra lo stagno, e di lì ci godremo lo spettacolo. Ma zitti, eh, che se ci scoprono ce la fanno pagar cara.” Intanto, circospetti e silenziosi i fratelli Castellucci arrivarono sotto l’olmo e guardarono in alto, tra i rami illuminati dalla tenue luce della vera luna, che si stagliava nitida nel cielo. La serata era limpida, ma piuttosto fredda. Gero, che reggeva sulla spalla 21
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sinistra una scala, l’appoggiò al tronco dell’olmo e salì su, fin sul ramo più alto, da dove poteva scorgere un buon tratto di terreno all’intorno. “È una cosa che riluce, – borbottava – e se è caduta qui nei dintorni si dovrà ben vedere.” Ad un tratto gridò: “Là, là, la vedo. È caduta nello stagno.” E senza neppure servirsi della scala s’attaccò ad un ramo con le mani e si lasciò cadere a terra. S’alzò, e zoppicando raggiunse gli altri che già erano allo stagno. E la luna era là, in fondo a quell’acqua nera, appoggiata dolcemente nella melma del fondo. “Fermi tutti, zoticoni – urlò – Vado io solo a riprenderla. Voi sareste capaci di sciuparla!” Sedette per terra, si tolse le grosse scarpe chiodate, s’arrotolò i calzoni fin sopra il ginocchio e s’inoltrò piano, piano, nell’acqua fredda. Arrivato ad un passo dalla luna, di scatto si chinò tuffando le due mani con mossa rapida, nello stesso modo con cui usava raccogliere i pulcini che troppo s’allontanavano dalla chioccia, perdendosi. Ma le sue mani non portarono alla superficie che una manciata di mota, e l’acqua così mossa e intorbidita fece scomparire l’immagine che vi era riflessa. “Svelti, venite ad aiutarmi. Su fate presto, marmotte!” Tutti si precipitarono, bagnandosi. E chi, scivolando sul fondo viscido, cadeva come un gatto di piombo nell’acqua fredda dello stagno, mandava un grido rauco e snocciolava una serie di moccoli che facevano inorridire i Bordoni e costringevano don Paletta rannicchiato dentro il capanno, a farsi il segno della croce. 22