IL MIO NOME È AIDA di Gabriele Biancardi

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GABRIELE BIANCARDI “Eravamo in guerra, avremo perso amici, parenti, perfino la dignità, ma in quel momento, quella cucina, intensamente vissuta, era densa di spensierata follia.”

il mio nome è Aida

Gabriele Biancardi, nato nel 1965, trasmette in radio dall’età di 14 anni a Radio Dolomiti. Ha scritto lo spettacolo Avete mai provato ad essere donne, rappresentato da numerose compagnie italiane. Ha quattro figli “pelosi”: Bruno, Kia, Grigio e Nano. Batterista swing e speaker di volley. Già autore con Sandra Bosisio di un libro particolare: Anime vive. Da sempre in lotta con la bilancia, ma un giorno vincerà!

GABRIELE BIANCARDI

il mio nome è

Aida

Il mio nome è Aida. Aida diventata madre a diciannove anni viene abbandonata dal padre del bambino. Nel 1929 è uno scandalo, per la gente che la conosce non è una situazione accettabile e i diktat sociali dell’epoca portano a una pubblica condanna. Fortunatamente lei vive in una famiglia “sgangherata” ma potente negli affetti, dove sua madre, donna forte e asciutta, “comanda” e le dà pieno sostegno insieme ai suoi fratelli e sorelle. Nemmeno il padre, nonostante il carattere estremamente mite, viene meno ai doveri di genitore e interviene nel momento topico della sua vita. Aida è una donna che non si accontenta e vuole essere felice. Arrivano le tragedie della Seconda guerra mondiale. Aida non si tira indietro dalle sue responsabilità, sovvertendo ancora una volta l’ordine sociale. Come quando deve subire la perdita del grande amore, impiegato nell’esercito italiano, scomparso in Russia, ma che le lascia un suo indelebile ricordo con la nascita della seconda figlia. Questo romanzo è la storia di una ragazza madre, alla quale la vita e la società riservano tante avversità. Ma Aida, con incredibile tenacia, le affronta diventando una donna che non si piega alle imposizioni sociali per poter essere finalmente felice.

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Cover by: Illustrificio Morskipas (www.morskipas.it)

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara


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Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Grafica: Ufficio grafico Minerva Edizioni © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di giugno 2014 Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e usati in chiave fittizia. Qualsiasi somiglianza a fatti reali o a persone realmente esistenti è puramente casuale. Per le immagini contenute in questo volume, l’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non è stato possibile rintracciare. ISBN: 978-88-7381-832-8

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Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com


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Aida

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a mia nonna Albertina ai miei nipoti Lorenzo e Monica Noel che ora sono assieme a lei e con lei rideranno per sempre.



il mio nome è albertina

Mi chiamo Aida, ho 18 anni e ho scoperto di essere incinta, il “padre” ha preferito darsi alla fuga... è il luglio del 1930. Sono nata a Suzzara, rotonda provincia del mantovano, nel novembre del 1911, la prima di ben sette figli: Natalia, Matteo, Antonio, Paolo e Arianna e Laura. Quando i miei genitori, Terenzio e Ida, si sono sposati nel 1910, sapevano come funzionava il matrimonio. Si lavorava e si facevano figli. La mia casa è sempre stata condotta a trazione matriarcale, mio padre portava con facilità il bicchiere alle labbra, fortunatamente non aveva reazioni violente, piuttosto direi che addolciva, addomesticava e smussava ogni angolo del suo carattere comunque già di per sé mite. Lorenzo, era un uomo di due secoli fa, nato quando nessuno parlava di guidare un’automobile e men che meno si sarebbe sognato di volare. Nella sua gioventù dare del “voi” ai genitori era automatico, incontrare una ragazza, accompagnarla a prendere un gelato, equivaleva ad una dichiarazione di matrimonio, cosa peraltro avvenuta con mia madre Ida. Se dovessi vedere una foto di mia madre, con occhi estranei, direi che non era certo una bellezza, anzi, lo sguardo era sempre piuttosto torvo, assomigliava molto ad una cornacchia arrabbiata. La cura della persona era ovviamente relegata nel raccogliere i capelli sulla nuca e portare due 9


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orecchini con sommessa civetteria. Mio padre invece era sicuramente un gran bell’uomo. Alto, il fisico possente che cozzava con il carattere dolce. Aveva fatto la quinta elementare, per cui sapeva leggere e scrivere, qualità che nel 1908, quando si sposò, erano molto apprezzate e rare. Avrebbe potuto scegliere chi voleva. C’era la Sandra che non si sposò mai nella speranza che prima o poi lui sarebbe diventato vedovo. Pure la Gina aveva un debole per lui, ma commise proprio lei l’errore di presentargli la sua amica Ida. Ma mio padre era innamorato da far paura di questa donna forte e rude, non esisteva discussione in cui l’avesse vinta, solo una volta, per mia fortuna, mia madre cedette di fronte al muro che suo marito aveva eretto. Vivevamo in una fattoria, la mia famiglia è sempre vissuta di commercio. A quei tempi non esistevano negozi alimentari e in ogni paese si snodava settimanalmente il “mercato”. Era fatto di bancarelle costruite con legno trovato nelle soffitte, qualcuno aveva addirittura smontato l’armadio di famiglia per poter creare un banco di appoggio. Il mercato dava lavoro a tante persone, ma era una guerra, non come quella che stava arrivando ovviamente, ma si doveva comunque combattere per poter incantare il compratore. Bisognava vendere usando tutto quello che era il campionario di offerte, ammiccamenti, descrizioni fantasiose della merce, racconti improbabili sulla provenienza del prodotto. Noi commerciavamo carne. Maiali, polli, mucche. Ma siamo sempre stati corretti, non come i Santini che vendevano carne di gatti randagi come prelibato coniglio. Li ho visti io ucciderne un paio e tagliare i pezzi cercando di camuffare la tipologia di animale. Stronzi. Io ho cominciato presto a seguire mia madre al mercato. Mia madre quando poteva venire ovviamente. Era incinta un anno si e uno no. Le “tate” non 10


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erano proprio di moda allora, capitava quindi che i miei fratelli, e io stessa, seguissimo mia madre, per poi passare la mattinata sotto il bancone. Uscivamo solo per le poppate che venivano svolte nella dubbia riservatezza di qualche cespuglio generoso. A 15 anni decise che potevo benissimo fare da sola, oramai avevo una certa esperienza ed ero forte fisicamente, almeno mi sarei risparmiata i piagnistei del resto della corte infantile. Preferivo di gran lunga guidare il carro con “birillo”, il nostro cavallo. L’avevamo pagato di meno perché era completamente cieco. Una mattina verso le cinque, mia madre si addormentò, aveva me al fianco che non mi ero praticamente nemmeno svegliata. Birillo, lasciato da solo, si fece guidare solo dal suo olfatto che lo portò direttamente dove c’era l’acqua. Solo che era il Po. Mia madre si svegliò proprio quando mancava qualche metro al disastro. Facevamo il giro dei paesi confinanti. Guastalla, Luzzara, Novellara, Correggio, Poviglio e Rubiera. Sei paesi, sei giorni della settimana, la domenica non esisteva mercato, la “Chiesa” avrebbe fatto incenerire divinamente coloro che avrebbero offeso il giorno del Signore. E poi la domenica c’era uno dei due momenti mondani della settimana: la messa. Al mattino in casa Cartani ci si alzava piuttosto presto, alle quattro se c’era da fare mercato e alle sei quando arrivava la domenica. Teoricamente era il giorno di riposo, ma quella è una parola che ho masticato poco nella mia vita, a quel tempo ancora meno, i miei fratelli e sorelle occupavano tutto lo spazio e il tempo possibile. Bisognava lavarli, vestirli, calmarli, rifocillarli e a chi toccava tutto questo? Ovvio no? Ma non era un gran disturbo, ho sempre amato quella piccola tribù di selvaggi, chi più chi meno, ovviamente. Ancora non sapevo che da alcuni di loro avrei assaggiato fiele e cattiveria. 11


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A messa ci si andava solo a partire dagli otto anni in su, non esistevano problemi di bambinaia, mai e poi mai mio padre avrebbe messo piede in chiesa. Aveva sempre detestato quella pomposità clericale. «Ahi i pret! A tel dis me cos che i vol». Era convinto che il Signore non avrebbe preteso i soldi della questua, lui, di nascosto da tutti, meno che alla Palmira a cui non sfuggiva nulla, metteva spesso mano al borsello quando sapeva di una famiglia in difficoltà. La Palmira faceva finta di arrabbiarsi con lui, ma poi si premuniva di accompagnare l’obolo monetario con qualche pezzo di carne per i piccoli. In ogni caso alle 8.50 in punto la nostra famiglia faceva il suo variegato e colorato ingresso nella chiesa di Suzzara. Il prete, don Ottavio, era parte integrante del tessuto del paese, non c’era volto che non conoscesse né casa che non avesse visitato. In ognuna, ovviamente, veniva offerto un bicchiere di rosso. Quello fatto con amore e rabbia che sapeva di uva forte e traditrice. Dopo tre case il suo percorso in bicicletta era perlomeno confusionario. Se devo essere onesta non sono mai stata una gran bellezza, avevo preso molto da mia madre, anche il carattere. Da mio padre avevo ereditato il mare di capelli ribelli che dovevo domare con spazzolate feroci. Da lui avevo anche ereditato l’importanza della dignità, un bene. diceva, che non aveva valore, nel senso che nessuna somma al mondo avrebbe potuto comprarla. Non c’era molto tempo per pianificare qualcosa. Era normale arrivare in età da “marito”. Diciamo che se entro in 23 anni non eri sposata, appariva lo spettro della “zittellaggine”, una delle peggiori condizioni possibili. O eri talmente brutta che nessuno ti voleva e allora il tuo destino sarebbe stato quello di vivere a casa di qualche sorella maritata. 12


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Saresti stata la governante-cuoca-bambinaia-domestica per tutta la vita. Oppure eri come zia Fulgida che si mormorasse amasse le donne, ma non come sorelle o amiche, ma in un modo che non si poteva nemmeno pensare! Io, fino ai 17 anni, guardavo i ragazzi con lo stesso sguardo del fattore con i propri maiali. Non sentivo particolarmente il sacro fuoco dell’amore aprirmi il petto. Non provavo i brividi tanto evocati da D’Annunzio nelle sue splendide poesie pre-fascismo. No, ancora, mi dicevo, non era tempo, sei fratelli e poi il mercato... Quelli erano i miei impegni e nulla avrebbe dovuto o potuto distogliermi. Anche perché mamma Palmira aveva argomenti piuttosto convincenti per non farmi distrarre. Si era costruita un piccolo scudiscio con un ramo del ciliegio del cortile. L’aveva curato con attenzione. Gli aveva tolto ogni piccolo rametto e foglia, era di un legno particolarmente elastico e duro. Era posto in cucina, sopra la stufa mille usi. Alle volte non occorreva nemmeno prenderlo in mano. Il suo sguardo correva al frustino casalingo e tu che eri oggetto della punizione te la facevi addosso. No no, sarebbe passato ancora tanto tempo prima di scegliere con cura l’uomo della mia vita. Colui che mi avrebbe dato figli e che si sarebbe occupato della famiglia. Il ritorno dalla messa, a quei tempi durava almeno due ore e mezza, era caratterizzato dal profumo. Quello che si faceva largo tra gli odori soliti di una fattoria. Mucche, letame, grano, tra questi se stavi attento, potevi cogliere quello dei “turtlen”. In casa mia esisteva una certa scala di valori e compiti. Io che già portavo il carretto e avevo uno spiccato senso della vendita, ero praticamente bandita dalla cucina. Mia sorella Arianna aveva vinto il destino di imparare i segreti della cucina emiliana. Ecco allora che la domenica era attesa anche per questo. In tavola 13


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arrivava un catino profumato. Eravamo solitamente in una decina, oltre a noi si univano sempre qualche coppia di zii. Anche qui c’era una gerarchia ben precisa, il primo piatto era per mio padre, a seguire, Paolo, Matteo e Antonio. Poi le donne e a quel punto non c’era più un ordine preciso. La più piccola, Laura, era spesso malata, ecco perché per lei c’era sempre qualcosa in più nel piatto. Nulla di eclatante s’intende, magari un pezzo di lardo o dell’introvabile prosciutto crudo. Quando si hanno i maiali in casa, ti puoi permettere qualche lusso che per altri era davvero sconosciuto. A quei tempi noi avevamo pure un piatto “segreto”, gli sfrizzoli, una meravigliosa pastella fritta su cui potevi appoggiare sia qualcosa di dolce oppure di salato. Una ricetta che purtroppo si è persa con la scomparsa di mia sorella Arianna. Il pomeriggio era tutto un preparativo, a rotazione in qualche paese attorno, qualcuno avrebbe messo mano alla fisarmonica. C’erano dei musicisti girovaghi che per un piatto di polenta e salame, avrebbero suonato fino a farsi sanguinare le dita. Non erano proprio dei virtuosi, ma a noi bastava sentire qualche nota per poter ballare. Il ballo era il nostro secondo avvenimento mondano. Dopo pranzo, lavato i piatti, aver sistemato la cucina, andavo in camera per raccattare il vestito meno liso che avessi. Un giorno misi pure una traccia di rossetto avuto in prestito dalla Marisa. Mia madre mi fece sapere che cosa pensava di questo rifilandomi un man rovescio che mi ha lasciato le impronte per diverse ore. Il trucco era lascivo! Avrebbe provocato reazioni maligne! Poi la bicicletta; si pedalava fino a venti chilometri di distanza pur di incontrare ragazzi della mia età. Poter finalmente spettegolare su tutto e tutti e dimenticarsi del fatto che il mattino dopo alle quattro avrei dovuto 14


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essere in piedi, preparare la colazione, lavarmi il viso in cortile con l’acqua ghiaccia del pozzo e partire. Eugenio era un ragazzetto direi molto piacente, con qualche anno più di me, ad oggi non so nemmeno quanti per l’esattezza. A messa era sempre nel bancone davanti al mio. Lo conoscevo da sempre. La sua famiglia aveva campi coltivati a grano, lui però non lo vedevi mai con la schiena piegata. Era figlio unico perché si diceva che la madre avesse bestemmiato e Dio l’aveva punita togliendole la fertilità. Per questo unico, di conseguenza, figlio facevano di tutto per non farlo faticare o correre pericoli. Non si sapeva quindi che lavoro facesse, di sicuro era bello. I capelli erano sempre perfetti e addirittura in chiesa la domenica portava le ghette! Un particolare che lo elevava dai contadini che avevano due paia di scarpe, quelle per la domenica e le altre. Le mie poche amiche, nella clandestinità di quei momenti che passavamo assieme, sospiravano a pieni polmoni per l’Eugenio, anzi, Clara e Miriam non si sono parlate più per un pezzo. Non erano niente per lui ma loro si vedevano già con la fede al dito. A quel tempo sposarsi era uno degli avvenimenti più importanti della vita. Molte si maritavano dopo che i genitori avevano intessuto accordi, contratti e fatto calcoli finanziari. Non erano molte coloro che avrebbero avuto per marito l’uomo che avrebbe loro rapito il cuore. Molte erano destinate a merce di scambio. Una vita scialba e opaca in cambio di poderi e poteri. Fortunatamente su questo mio padre non voleva sentire ragioni. Il suo era stato un matrimonio d’amore e non concepiva altro motivo per stare con qualcuno per tutta la vita. Eugenio non si perdeva un ballo, solo che lui arrivava con la Gilera del padre. Una moto che sembrava andasse a petrolio. Lasciava dietro di sé un fumo nero da incendio e un odore di olio bruciato che ti dava il mal 15


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di testa. In compenso lo sentivi arrivare da circa quattro chilometri tanto rumore faceva. In quella primavera del 1930 avevo diciassette anni, ne avrei compiuti diciotto di lì a pochi mesi. La festa domenicale si teneva a Novellara. Erano arrivati due musici di Bologna, noi pensavamo che dato il fatto che provenissero da una città, volesse dire che erano dei professori di musica. La realtà si capì piuttosto in fretta, erano due cugini piuttosto malmessi e ci accorgemmo che, fatte una decina di canzoni, poi cominciavano a ripetersi. Ma non importava, il tempo era bellissimo, dalla piazza del paese avevamo scelto di spostarci vicino al fiume dove c’era una radura, perfetta per un gruppo di giovani ragazzi e ragazze. Ballammo per ore, il sudore segnava i nostri abitini di cotone. Alla fine avevo ballato proprio con tutti, anche con le ragazze. Allora si usava cosi. Mi presi una sosta per bere un bicchiere di acqua e tamarindo. Non avevo il fiatone, ero allenata dalle fatiche giornaliere. Ballare era quasi rilassante. A un certo punto nel sole si stagliò la figura di Eugenio. Alto era alto, il ciuffo gli era sceso sulla fronte, la brillantina era evaporata sotto il caldo di maggio. Aveva un completo marrone, ma si era tolto la giacca e fatto su le maniche. Le scarpe erano coperte dalle famose ghette. Mi guardò fintamente arrabbiato: «magari adesso che hai ballato con tutti a parte il Grigio, potresti pure fare un giro di mazurca con me!» Il Grigio era il cane della Santina, un vecchio bastardino spelacchiato che in effetti era l’unico con cui non avevo ancora danzato. «Ma certo!», risposi, forse con un tono troppo entusiasta. «Lasciami finire solo la bibita che qui se la lasci incustodita non ne trovi due!» 16


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Lui rise, o meglio gorgogliò quella che doveva essere una risata. Mi sembrava un pochino trattenuta, come se ridere di gusto fosse volgare. Bevvi tutto d’un fiato, mi alzai proprio quando i cugini Lamberti intonarono un tango malinconico. Se io sembravo in difficoltà, Eugenio non avrebbe potuto trovarsi più a suo agio. Sua madre era stata un’ottima donna da balera, qualcuno lo diceva con un filino di disprezzo, e gli aveva insegnato ogni tipo di ballo. Valzer, mazurca e tango non avevano segreti. Mi cinse la vita e allungò il braccio destro, io posai la mia mano callosa nella sua. Nei primi due minuti penso di avergli reso infelice il suo invito perché il tango proprio non lo sapevo ballare e i suoi piedi furono spesso punto di atterraggio per le mie scarpe della domenica. Se gli feci male lui non lo fece capire. «Scusa», dissi come se fossi stata sorpresa a rubare. «Figurati, il tango non é cosi facile», rispose. Subito dopo partì una mazurca ad alta velocità; quella non si ballava mica vicini ma lui replicò il primo invito. Non me lo feci dire due volte, partii a razzo seguito da lui che faceva un filino fatica a starmi dietro. Voltandomi vidi chiaramente i volti contratti e spigolosi della Clara e della Miriam. Mi odiavano. Dopo il secondo ballo con l’Eugenio, salutai. Non era molto elegante fare addirittura tre balli con lo stesso uomo. Me l’ero cercata, salutai con un sorriso il mio cavaliere che venne prontamente sostituito dall’Amilcare. Un garzone di stalla che non distingueva che giorno fosse. Mercoledì o domenica, lui arrivava con lo stesso vestito da lavoro. Stargli vicino, o meglio, cercando di stargli lontano non serviva. Il fetore del letame ti arrivava subito alle narici. Il sole stava tramontando, nonostante fossimo sicuramente non poveri poveri, non sapevamo cosa fosse una 17


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vacanza, io non avevo mai visto il mare, anzi, non avevo mai visto o visitato nulla. Eravamo felici, felici come può essere un cane che ha una casa e mangia tutti i giorni, felici perché a diciassette anni i sogni sono le fondamenta della vita. Felici perché non avevamo nulla e non avevamo bisogno di nulla. Lentamente inforcammo tutti le biciclette e ci avviammo verso le rispettive case, io sola perché Clara e Miriam mi avevano giurato vendetta per via dei balli con Eugenio. Lui, l’Eugenio, aspettò che tutti fossimo avanti per poter fare un pochino il gradasso con la Gilera. Ci superò a tutta velocità regalandoci la polvere come saluto e tornò nella sua casa ovattata. Sorrisi. Eugenio era bello e piuttosto gentile nei modi. Io non avevo i capelli biondi della Claretta e nemmeno il florido seno della Gina. Avevo solo mille progetti, ma non l’avevo mai confessato a nessuno. Volevo studiare, si, volevo essere la prima Cartani a diventare medico. Un sogno? Certo e pure difficilissimo da realizzare. A quei tempi soltanto i ricchi e soprattutto gli uomini avevano speranze di poter laurearsi in qualcosa. Io ero la prima figlia di una famiglia di contadini e allevatori e dunque sarei stata la prima a dover andare in moglie, anche perché la dote per me poteva anche esserci, ma per tutte la altre ci sarebbe stato da discutere e mercanteggiare. Dopo la prima guerra mondiale, il sistema scolastico era stato completamente ricostruito. Erano partite le scuole serali e a quelle puntavo. A Mantova ne erano sorte un paio e io volevo andarci. La città non era dietro l’angolo, in bicicletta di sera era improponibile, avrei dovuto prendere la patente! Ma 18


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pure questo sembrava lontano chilometri e chilometri. Gli stessi che mi separavano da Mantova. La realtà era molto diversa. La realtà si faceva sentire alle quattro in punto del giorno dopo, aveva l’odore della Susi e della Marta, le nostre mucche che si svegliavano affamate. E allora partiva una routine che avrebbe piegato molti sogni. Anche i miei. Le settimane si rincorrevano piuttosto veloci, ma avevo preso una decisione irrevocabile. Avrei detto ai miei genitori che volevo studiare, avrei preso tutto il coraggio del mondo per fare questo. Se non avete vissuto in quegli anni non potete capire la portata di una simile affermazione. Anzi di un simile affronto! C’erano tre maschi tra i miei fratelli. Solo uno di loro, ma molto forse, avrebbe potuto pensare di diventare qualcuno. Il destino delle donne era come una palla da flipper. Potevi scegliere fra il matrimonio, restare zitella o andare in convento. Aspettai cautamente un sabato sera, avevo messo a nanna tutti i piccoli, Matteo aveva mal di denti, allora con un pochino di cotone imbevuto nella grappa, avevo massaggiato il punto dolente. Si era addormentato in pochi minuti, non so se era per la scomparsa del dolore oppure per i fumi della grappa casalinga. Scesi in cucina, che era il centro della casa e quindi del mondo. In una cucina degli anni Trenta c’era incredibilmente sempre qualcosa da fare. Dovevi cucinare, finito il pasto dovevi pulire, poi appena pulito ti mettevi all’opera per fare sughi o marmellate, mondare la verdura che avevi raccolto nell’orto e poi, ovviamente, pulire di nuovo. Mia madre stava curando i piselli, li sgranava con velocità, le dita callose si trasformavano in oggetti animati, quasi senza guardare toglieva ogni singolo pisello dai baccelli. Finivano tutti in una grande pentola con acqua. Mio 19


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padre invece si stava costruendo una pipa. La singolarità della cosa era legata al fatto che delle quaranta pipe che trovavano sede nella credenza del soggiorno, nessuna era mai stata usata. Mai. Nemmeno una volta.Spesso mi ero chiesta dove stava il premio per tutto quel lavoro. Mio padre sceglieva il tipo di legno da usare. Iniziava un lungo periodo teorico. Sceglieva quale forma dare al cannello e al fornello. Poi la misura e infine attaccava a lavorarci con passione. Ogni pipa richiedeva circa una ventina di giorni, poi seguiva i solito rituale. Pulita, messa in un piccolo panno ricavato dagli stracci usati in cucina e riposto nella credenza. Quando mio padre morì trovammo qualcosa come duecentocinquanta pipe, tutte nuove, mai usate come i suoi sogni. Dato che i giornali non facevano tappa in casa nostra, capii molto più tardi che era il modo dei miei genitori di stare da soli, lasciando andare ogni tanto qualche suono che nelle loro intenzioni equivaleva a vivere un momento di tranquillità. Non mi sono mai nemmeno immaginata, intendo per tutta la vita, come potesse essere la vita sessuale di una coppia di quei tempi. Sapevo che le mogli avevano il dovere di chiedere al marito se avevano “bisogno” di loro prima di dormire. Secondo le voglie dell’uomo avveniva l’atto. Ovviamente nessuno in casa aveva mai visto nemmeno baciarsi i nostri genitori. Forse non l’avevano nemmeno mai fatto. Presi una sedia, mia madre registrò il gesto a modo suo e mi mise davanti una manata di baccelli umidi, pronti per essere aperti. Mossi automaticamente le mani, forse se gli avessi detto tutto facendomi vedere indaffarata e utile, forse avrei avuto qualche possibilità! Forse avrei avuto una speranza! Mmm, troppi forse. 20


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«Avete visto madre che finalmente siamo riusciti a pagare tutte le merci?» Nemmeno un muscolo prese vita nel suo volto. «Tanto lavoro ma ne valeva la pena, ora potremmo anche pensare di comprare qualche coperta per il prossimo inverno!» «E da quando ti sei eletta responsabile di ciò che dovrebbe essere comprato?» Ahi! Primo errore, dovevo rimediare! «Perché vedo che Laura anche ora che fa caldo vuole sempre la copertina che voi le avete fatto, allora pensavo che per lei potremmo comprare qualcosa di lana». Il tasto era giusto, per mia madre un figlio malato equivaleva quasi ad un fallimento personale. Laura aveva quattro anni ed era sempre malaticcia. Non quelle cose tipiche degli infanti, ma proprio il colore della pelle non era mai sano. A pensarci oggi abbiamo avuto più paura del dovuto. A vent’anni Laura era di gran lunga non solo la più bella di tutte noi, ma in paese nessuna poteva nemmeno avvicinarcisi come fascino. «Sì, ci avevo già pensato; ma brava che hai avuto questo pensiero per tua sorella». Un punto per me! «Sapete madre, che la figlia del dottor Crespi l’anno prossimo andrà alle superiori? Mi ha detto che poi vorrebbe diventare architetto». Magari potrebbe sembrare strano che mi rivolgessi solo a mia madre, ma in casa nostra la figura maschile era stranamente relegata. Era come se la gerarchia non prevedesse il parere degli uomini. Mio padre si occupava della campagna e degli animali, faceva il vino e svolgeva i lavori pesanti. Mia madre faceva tutto il resto. «Architetto!? bella roba, cosi studierà fino a venticinque anni e poi chi se la sposerà? Povero dottor Crespi, ha solo tre figli e questa lo farà morire di crepacuore!» 21


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La discussione stava prendendo un taglio non proprio favorevole. Il dottor Crespi poteva benissimo permettersi di mandare tutti e tre i figli e pure i nipoti, se voleva, all’università. Inoltre Sabrina Crespi avrebbe avuto delle serie difficoltà a trovare il principe azzurro. Non perché fosse brutta, ma noi tutti sapevamo che i maschi non le interessavano minimamente. Sabrina a 40 anni, laureata e con uno studio avviatissimo, trovò il coraggio di dire al padre che amava una donna. L’ho sempre ammirata per questo gesto rivoluzionario. «Ma madre, io trovo che non sia una brutta idea, a Mantova hanno aperto le scuole serali, si possono fare senza mancare anche un solo giorno al lavoro». A quel punto mio padre improvvisamente entrò nella discussione. «Sì, l’ho saputo anch’io. Marcello il barbiere ci vuole mandare quel “crapon” del figlio Luca. A far cosa non riesco ad immaginarmelo, fa fatica a contarsi tutte le dita». Presi queste parole a mio favore, non ero una bellezza ma vivaddio il Signore mi aveva fornito di un buon cervello. Facevo di conto molto più velocemente di mia madre e avevo insegnato alla tribù a leggere e scrivere prima del loro tempo scolastico. «Quello che fa quell’ubriacone del Marcello mi interessa no, ma perché mi stai dicendo questo?» Questa affermazione era una trappola. Sapeva benissimo dove volevo andare a parare. Se fossi stata accorta avrei dovuto scivolare via dalla discussione e rimandarla in un altro momento. Invece ci cascai dai piedi ai capelli. «Madre, volevo chiedere se potevo andare a scuola in ottobre a Mantova, magari mi poteva accompagnare il papà in moto, se studio molto e bene, potrei anche iscrivermi all’università di medicina!» 22


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Ecco, l’avevo detto, in totale apnea. Mi congratulai mentalmente con me stessa per il coraggio e sentire le mie parole dare forma al mio sogno, non mi sembravano nemmeno tanto strane. Ci furono circa dieci secondi di silenzio. Nella mia ingenuità pensai che mia madre cercava nella sua splendida ignoranza le parole migliori, vuoi di sorpresa ma anche di orgoglio per il progetto ambizioso della sua primogenita. Il ceffone dato a piena forza mi fece capire che non c’era nessuna parola da cercare. Si alzò in piedi, non era molto alta, ma in quel momento mi sembrava un gigante. Il viso era paonazzo, anche il mio ma per un motivo diverso. «Voglio sapere chi ti ha messo in testa un’idea cosi sciocca, stupida e inutile?» Dicendo questo si voltò verso mio padre con aria minacciosa. Ero stata stupida ed avventata, ma non avrei mai permesso che mio padre fosse umiliato dalla mia imprudenza. «Nessuno madre!», urlai, «sono mesi che ci penso, anzi anni; siamo usciti dalla guerra, sono cambiate le cose, ora si può anche pensare che non esiste solo casa e marito». Quelle parole peggiorarono se potevano la situazione, da ciglio del burrone mi trovai a rotolare giù senza nulla a cui aggrapparmi. «Cosa vorresti dire? Che io sono una fallita!? Perché non ho studiato e sono madre e moglie!?» Stavo prendendo velocità prima dello schianto. «No madre! Cosa mai pensate! Ma io vorrei provare, non mi ci vedo per tutta la vita a guidare un carretto». Un silenzio irreale prese il sopravvento. Io ansimavo, dalla foga delle mie ragioni e dalla paura delle botte. Sapevo che solo mia madre si permetteva di allungare le mani su di noi. 23


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