Il mistero delle ossa di Dante - Roberto Balzani

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Collana diretta da Giacomo Battara



ROBERTO BALZANI

Il mistero delle ossa di Dante romanzo

MINERVA


PARTE PRIMA La scoperta



L’archivista

Faceva caldo. Dalla finestra aperta, neppure un refolo di vento. Era rientrato da poco in Prefettura, dopo aver attraversato piazza del Popolo, deserta e assolata. La solitudine gli si confaceva. La città del silenzio nutriva le sue fantasie di archivista, che sembravano non trovar limite nelle conversazioni e nelle distrazioni dell’abituale lavoro d’ufficio. Nel vuoto il pensiero cresceva, alimentava se stesso, e le carte, raccolte e ordinate all’inizio senza uno schema ipotetico di lettura, ora segnalavano una traccia costellata qua e là da interruzioni, equivoci, supposizioni. Quando aveva terminato le cose importanti, si divertiva così: tentando di ricostruire a posteriori verità documentali a partire dalle tracce disponibili. Non lo faceva per rispondere a una domanda: la ricerca era oziosa, incidentale. Se fosse partito da una domanda precisa avrebbe orientato le tessere del suo mosaico, o tentato di orientarle. Egli, invece, si abbandonava piacevolmente alla superfluità dell’esercizio enigmistico, per il gusto di scoprire dettagli impensati. Trovava tutto ciò in singolare contrasto con la deontologia della sua professione di archivista: in teoria, i 7


titolari servivano proprio per incasellare e ricostruire eventi, fatti, dati secondo una razionalità impeccabile, in base a funzioni prestabilite. La casualità non era contemplata. La casualità, il deragliamento, l’imprevedibilità costituivano, invece, per lui, il sale di una vita altrimenti piuttosto monotona. Poiché, però, egli non aveva il coraggio di affrontarli a viso aperto, e se ne stava ben chiuso nel guscio umbratile delle sue certezze senza possibilità di variazione, provava un intenso piacere nel cercarne le tracce altrove, assumendo la comoda posizione dell’osservatore privo di rischi. Michele, l’archivista, si accarezzò la barba: ecco un rebus d’agosto, cominciato per non annoiarsi e un po’ anche per lasciare un segno ai posteri, forse, nel migliore dei casi. Prese carta e penna e scrisse al Sindaco. Il sesto centenario della nascita di Dante e la scoperta delle sue ossa, nell’ormai lontano 1865, erano due fatti che non potevano «rimanere estinti nella memoria degli uomini» a venire. Gli atti giacevano «tutti sciolti ed in condizione di facile asportazione e smarrimento». Proponeva quindi che i documenti di quella «patria gloria dei quali era stato anima e moto l’Eccellenza Vostra fossero tolti dalla massa delle carte comunali girovaganti per essere legati in volume con indice, e posti ad onore e sicurezza nell’archivio antico». Rassicurava: «La spesa sarà minima, ed inferiore certo all’utilità dell’operazione». Meglio mettere le mani avanti, caso mai qualcuno in giunta avesse sollevato la solita obiezione dei costi. Il sindaco, in quell’estate del 1873, era il conte Gioacchino Rasponi, lo stesso di allora. Facile im8


maginare che avrebbe acconsentito. E così fu. Il materiale era disperso in una miriade di fascicoli, dalla ragioneria all’ufficio tecnico. Michele ne aveva già segnalato la presenza in un libriccino che portava con sé, attendendo il momento propizio per compiere quell’estrazione inusuale e del tutto eccezionale, che trovava giustificazione, da un punto di vista logico e tecnico, solo nell’irripetibilità dell’evento. La memoria sarebbe sopravvissuta e lui, insieme col primo cittadino, l’avrebbe consegnata, come aveva scritto con una certa enfasi, agli “uomini a venire”. Per la prima volta nella sua esistenza, avrebbe messo a disposizione della collettività la sua abilità di ricercatore errabondo; ma l’obiettivo era sensato e le tracce scovate promettenti. Si sarebbe divertito, ne era convinto; ed era pure persuaso della probabile presenza, almeno da ciò che aveva potuto sommariamente osservare, di sufficienti dubbi, vuoti di senso, interruzioni in apparenza incomprensibili ai quali consacrare il suo sguardo ironico e indulgente. Questo però non lo aveva scritto al Sindaco; bastavano l’enfasi e la retorica di rito per solleticare l’interesse di un notabile. Ogni altra considerazione si sarebbe inevitabilmente ritorta contro il richiedente, alimentando il sospetto di secondi fini, magari di trappole politiche. Tutto doveva apparire chiaro, lineare, trasparente. La conoscenza degli uomini e del contesto da parte di Michele si rivelò impeccabilmente esatta. Nessuna nuvola gravida di capziose domande attraversò la mente del suo interlocutore, destinatario di un’appropriata, ossequiosa, formale letterina. E fu quindi 9


con spirito altamente compiaciuto che sua eccellenza il conte commendatore Gioacchino Rasponi, sindaco di Ravenna, presentò alla giunta comunale la proposta, accolta con rescritto n. 7752 del 1873. Si procedesse alla collazione degli atti e alla loro rilegatura in volumi monografici, in modo da poterli conservare opportunamente a futura memoria. A qualcuno, prima o poi, sarebbero interessati. Qualcuno li avrebbe letti. Qualcuno, forse, avrebbe perfino capito come sua eccellenza il conte commendatore avesse immaginato, nel 1865, di celebrare Dante, Ravenna e se stesso.

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Il Sindaco

Il Sindaco, d’altronde, in quell’estate del 1873, aveva altro cui pensare. Trascorsi gli anni pieni di speranze, all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, la città aveva conosciuto una stagione cupa, segnata non solo dalla stagnazione economica, ma da scontri sociali e di potere violenti, sanguinosi, misteriosi. Omicidi eccellenti senza apparente movente, maturati in ambienti popolari, forse su istigazione di occulti mandanti, sembravano restituire il clima fosco della restaurazione pontificia, privo però del fascino romantico e nobilitante della cospirazione. Molti suoi amici erano morti o erano stati gravemente feriti: e non in campagna, nella terra di nessuno dei braccianti e dei bracconieri, ma nelle vie della città, quasi sotto gli occhi di tutti. Il Governo era stato addirittura costretto a inviare generali dotati di poteri straordinari per bonificare quell’angolo semipaludoso di Romagna. Ancora non si capiva, però, se la cura del ferro, gli arresti, la repressione fossero serviti a qualcosa. Trascorsi alcuni anni di guerra civile strisciante, egli aveva la sensazione che l’intera città fosse stanca, stremata; lui lo era senz’altro. 11


Gioacchino era cambiato dai tempi in cui aveva incarnato il perfetto notabile progressista, ottimista e modernizzatore: la politica si era fatta più dura, con l’opposizione repubblicana non più disponibile a seguire docilmente i liberali illuminati del territorio, benché laici, benché massoni. Anche i lineamenti si erano fatti più marcati, sotto i baffi curati e i favoriti che gl’incorniciavano il viso. Aveva quarantaquattro anni e se li sentiva tutti addosso. In fondo, era sindaco di Ravenna, d’accordo, ma suo nonno era Gioacchino Murat, nientemeno, e sua nonna Carolina, sorella del grande Bonaparte. Aveva sposato Costanza, figlia di un magnate e ospodaro di Valacchia, in omaggio alla strategia matrimoniale di un altro imperatore suo parente, Napoleone III, nel 1858. La luce che irradiava da Parigi illuminava perfino il canale Candiano. Era deputato, d’accordo: ma a palazzo Vecchio sedeva in rappresentanza della sua gente, i 260 amici o giù di lì che l’avevano votato. Come tanti, come quasi tutti. Non sarebbe mai stato espressione di una comunità importante, di una città che contava. O così sembrava pensare sempre più spesso. Il confronto con gli esponenti più celebri della famiglia lo schiacciava. In Romagna non c’era gloria da raccogliere: al massimo si potevano catturare gli accoltellatori, assicurarli alla giustizia. “Ma, siamo sinceri – si trovò a rimuginare il Sindaco, passandosi due dita sulla barba – in quanti, fra cent’anni lo ricorderanno?”. Guardò dalla finestra e fece come per allontanare con la mano, con un gesto di fastidio, la risposta che già conosceva: “Nessuno!”. 12


In compenso, quei pezzenti che non votavano, là fuori, si era organizzati in sodalizi, animavano la vita dei quartieri, avevano manipolato persino le prime società di mutuo soccorso, trasformandole in falangi ben ordinate, pronte a riversare il proprio contenuto umano schiumante di rabbia nelle vie del centro, al solo cenno di un caporione. Qualcuno, che sapeva leggere e scrivere niente male, lo sfotteva sui giornali, mettendolo alla berlina e dipingendolo come una specie di “imperatore della Cina” in formato mignon, Jo-ah-kin, prigioniero delle sue manie di grandezza, in preda a un’ansia da prestazione senza speranza: «D’ogni chiassuolo ei formerà un giardino, / E d’ogni stalla una pinacoteca». La città era troppo piccola. E la Romagna era una sentina piena di ribellismo da sgottare, verboso, pericoloso, appiccicato come uno sciame di mosche impudenti sulla faccia dei mezzadri, dei braccianti, degli artigiani. Eppure, lui ci aveva provato a imprimere una svolta, a cambiare il destino della Bisanzio sull’Adriatico. Era stato prima, quando, con l’anniversario dantesco, molte porte erano sembrate aprirsi per incanto e una luce meridiana aveva spazzato la bruma che saliva dalle valli, restituendo per un po’ l’antico capoluogo esarcale al rango che gli spettava: quello di capitale. Ora, un archivista di Prefettura gli chiedeva qualche soldo per sistemare antichi documenti, a gloria imperitura sua e della sua famiglia. Perché dirgli di no? Delle ossa miracolosamente ritrovate si poteva continuare a parlare con l’enfasi appropriata; alla partita politica che, intorno a quell’anniversario straordinario, egli 13


aveva giocato e perso, ormai non pensava quasi più. Era nota a pochi, del resto, e quei pochi avevano tutto l’interesse a dimenticare. A conti fatti, non gli restava che andarsene: del Comune si sarebbero occupati i suoi amici, gente pratica, gente spiccia, che sapeva parlare in dialetto per farsi capire bene e trattava senza complessi sia con i signori della terra, sia con i capi tribù dei quartieri popolari. Loro sarebbero stati i mediatori ideali, i negoziatori della transizione verso la “monarchia democratica”, annacquata e rivitalizzata dal contatto con le masse. In fondo, ci aveva creduto anche lui, in un tempo non lontano. Ora quelle generose e fantasiose illusioni erano svanite. Il nipote di Gioacchino Murat avrebbe trovato qualcos’altro da fare, in un altro posto. Il tempo stringeva. Non immaginava che gliene restasse davvero poco e che la sua vita si sarebbe conclusa quattro anni più tardi. In quel momento, la sua fretta era scandita dall’orologio del successo, il cui ritmo pareva accelerato, angosciante, inesorabile. Uscì dal portone del municipio e si affrettò pensieroso verso casa. Per Costanza il parto era ormai questione di poche settimane; la trovò a palazzo, affaticata, in un bagno di sudore. Le passò la mano leggera sui capelli e non disse una parola.

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