Ombretta Galeffi
Carlo Nigrisoli
Iris Azzali
Achille Melchionda
“La signora Ombretta Galeffi, informata della visita del prof. Zanello, vedendo che il marito non seguiva le prescrizioni, si recò a sua volta dal neurologo a chiedere consiglio. Il prof. Zanello le raccomandò di allontanarsi subito dal marito. Questo avveniva nel pomeriggio del 14. La sera stessa, Ombretta era morta.”
il delitto nigrisoli
Achille Melchionda, avvocato penalista, già docente universitario di Diritto processuale penale e di Psichiatria forense e collaborazione de “Il Resto del Carlino”, insegna Deontologia forense nella Scuola di Specializzazione dell’Università e Nozioni di procedura penale e Deontologia forense nella Fondazione dell’Avvocatura dell’Ordine di Bologna. È autore di numerosi scritti giuridici e dei volumi Contributi allo studio del nuovo processo penale (1988), Le radici del Lionismo (2006), Francesca Alinovi. 47 coltellate (2007), Paura a Bologna. Storia di cinque rapimenti (2008), Solo Dio può giudicarla (2009), Piombo contro la Giustizia (2010). Con Minerva Edizioni ha pubblicato Un tunnel chiamato Giustizia (2011), Nozioni di Procedura Penale per l’esame da giornalista (2011), “J’accuse”. Gli anni della P2 e altre impudenze del Grande Oriente d’Italia (2014).
Achille Melchionda
il delitto nigrisoli Il caso che negli anni ’60 sconvolse Bologna e l’Italia intera
Bologna, 14 marzo 1963. Ombretta rientra in casa nel primo pomeriggio; è tormentata, la decisione che deve prendere è più grande di lei. Ha appena incontrato il prof. Zanello e le notizie che ha appreso sulle condizioni psichiche di Carlo non sono per niente rassicuranti. Il neurologo è stato chiaro: allontanarsi per qualche tempo dal marito con effetto immediato. Ma come può lasciarlo solo in un momento così delicato? E i figli? No, il solo pensiero di sfaldare la famiglia in questo modo la distrugge. Quel che Ombretta ancora non sa è che la scelta che prenderà in quelle ore cambierà il suo destino. Per sempre. Qualche ora più tardi si riunirà con i suoceri e con il medico di fiducia, i quali la convinceranno a seguire il consiglio dello psichiatra. Si arrenderà così, a malincuore, alla temporanea separazione, ma rimanderà tutto al mattino seguente. Un procrastinare che risulterà fatale. Un’unica notte a separare quel periodo buio dalla speranza di poter risanare, con il tempo, il rapporto coniugale. Un’unica notte e tutto avrebbe ricominciato, piano piano, ad andare per il meglio. Mai avrebbe immaginato che quella notte sarebbe stata, per lei, l’ultima. Questo volume raccoglie anche tutta la sentenza emessa dalla Corte di Assise di appello che si legge come un romanzo per i dettagli e la scorrevolezza ricostruttiva della tragedia che negli anni ’60 lasciò con il fiato sospeso Bologna. Una vicenda che coinvolse la scienza, la stampa italiana e un vasto pubblico che accorse in aula per assistere al processo. Un libro avvincente nella sua “cruda realtà dei fatti” che narra l’enigma del curaro che condannò Carlo Nigrisoli per uxoricidio e che ancora oggi affascina e commuove.
Minerva Edizioni
Achille Melchionda
il delitto nigrisoli Il caso che negli anni ’60 sconvolse Bologna e l’Italia intera
Minerva Edizioni
clessidra Collana di saggistica storica
Il delitto nigrisoli Achille Melchionda
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Stefania Bigatti Impaginazione: Francesco Zanarini Immagini © Archivio Walter Breveglieri © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Prima edizione maggio 2014 Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. ISBN 978-88-7381-556-3
Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
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In ricordo dell’Avv. Roberto Landi difensore e patrono dell’imputato Carlo Nigrisoli
Ho conosciuto Roberto all’Università (iscritto al Corso precedente il mio). Oltre che diventarne subito amico, grazie anche alla nostra stessa età, alla sua personalità estroversa, cordiale, espansiva, ho condiviso la sua predilezione per lo studio del diritto penale e quindi le sue immancabili presenze alle lezioni del Docente Prof. Ranieri, che fino alle rispettive lauree ci videro fedelmente presenti e tanto interessati, attenti, attratti dalla materia, che ad entrambi, subito dopo la rispettiva laurea, il Prof. Ranieri rivolse l’invito di assumere incarico e funzione di “assistenti volontari”, rispettivamente Roberto per il diritto penale sostanziale, io per quello processuale. I nostri rapporti si sono fatti così ancor più frequenti ed affettuosi (quasi ogni settimana, per almeno un paio di anni, al termine delle “esercitazioni” pomeridiane con gli studenti, abbiamo cenato insieme). Diventati Procuratori Legali, poi Avvocati, dapprima Roberto ha svolto anche l’incarico di Vice Pretore Onorario Penale, mentre io sono stato eletto Consigliere dell’Ordine Forense ed ho proseguito l’assistentato universitario, cosicché non si sono mai interrotte le occasioni di nostre frequentazioni. Quando all’Università la Cattedra di Diritto Penale è passata al Prof. Franco Bricola, si è venuto ad instaurare un trio professionale (Bricola, Roberto, io) affiatatissimo, per reciproca stima e spontanea simpatia: ciascuno di noi indirizzava agli altri due i clienti che non poteva assistere per personali incompatibilità, ovvero ci associavamo per situazioni di particolare delicatezza o difficoltà. Questa cordiale, operosa, gratificante collaborazione professionale si è prolungata per anni, fino a quando è venuto prematuramente a mancare Franco Bricola. Roberto ed io, tuttavia, abbiamo proseguito il nostro consolidato fraterno sodalizio forzatamente interrotto per la grave, fatale patologia per la quale Roberto è deceduto.
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Mi piace ricordare ancora le due eccezionali, invidiabili, peculiarità della sua personalità: una memoria, anche di episodi o accadimenti del tutto occasionali, senza confini cronologici né di minimi dettagli, ed il buon umore, il sorriso sempre sincero, il sarcasmo tipico dei toscani intelligenti, la battuta caustica, ma mai volgare, mai offensiva. Nel processo riguardante il Dr. Carlo Nigrisoli Roberto è stato il primo difensore nominato dalla sua famiglia, poi da lui confermato personalmente, ed è stato quello che si è assunto l’impegno di tenere costantemente informato il suo cliente, detenuto, sull’andamento delle udienze dibattimentali. Quasi tutti i giorni si recava in carcere per aggiornarlo, confortarlo, incoraggiarlo. Credo non sia errato affermare che ne era divenuto un sincero e gradito amico, consapevole che sull’avvocato penalista gravano anche oneri umanitari, caritatevoli, in una gamma di stati d’animo che vanno dalla comprensione al sostegno psicologico, lungi comunque dal giudicarne colpe ed errori. Roberto era assolutamente e sinceramente sicuro che il suo assistito fosse innocente e ne aveva convinto anche i colleghi del collegio difensivo (Stampa Sera, 20/21 ottobre 1964: “I difensori sono decisi a sostenere che il dott. Nigrisoli è innocente”). Forse – come non di rado accade ai penalisti che investono ogni propria capacità a favore del proprio assistito – la fiducia verso la persona e l’importanza del mandato hanno fatto velo al suo senso critico, affievolendone la necessaria neutralità. Diversamente non si potrebbe spiegare quella sua sicurezza, che poi, alla fine della irreversibile condanna, gli è costata tanta amarezza. Roberto, se, dove ora sei, puoi sentirmi, od anche soltanto intuirmi, non meravigliarti se chiudo questa dedica col ricordo di quelle due vacanze estive a Cesenatico, quando non passava giorno (anche durante le gite in barca) o sera, che tu non aggiungessi uno o due particolari alla tua divertente, acuta, sarcastica parodia dei personaggi di “Reginella e del suo cardellino”. Ma sì, quando ci rivedremo Lassù, la canteremo ancora insieme. Ed ancora, insieme, sorrideremo.
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PREMESSA
L’ambiente cittadino Vediamo intanto in quale ambiente storico-culturale, della Bologna degli anni ’60, si è verificato il dramma Nigrisoli: 1957 – Si inaugura la prima farmacia comunale in piazza Maggiore. 1958 – La popolazione raggiunge il numero di 400.000 abitanti (seconda dopo Torino); Entrano in servizio i filobus. 1959 – Giuseppe Dossetti rinuncia alla carica di Consigliere Comunale e viene ordinato Sacerdote; Giovanni Spadolini assume la direzione de Il Resto del Carlino. 1960 – Vengono varati e definiti i Quartieri cittadini. 1961 – Il Prof. Daniele Petrucci mantiene in vita per 59 giorni feti umani in contenitori di vetro. È l’inizio della fecondazione in vitro. 1962 – Si costituisce la Spa Aeroporto di Bologna ed ha inizio la costruzione della pista. 1963 – Cessa il trasporto pubblico dei tram. 1964 – Il 18 giugno muore Giorgio Morandi. 1965 – Il Sindaco Dozza accoglie alla stazione il Cardinale Lercaro reduce dal Concilio Vaticano II. 1966 – Il nuovo sindaco Fanti annuncia l’imminente conferimento della cittadinanza onoraria al Cardinale; debutta al Festival di Sanremo il cantante Lucio Dalla. 1967 – Inaugurazione della Stazione di Autolinee (una delle più grandi d’Europa).
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1968 – Prima forma di pedonalizzazione delle piazze Maggiore, Nettuno, D’Azeglio. 1969 – Prolungata e dibattuta occupazione dell’Università da parte degli studenti; a settembre muore Don Marella. 1970 – Renato Zangheri nuovo Sindaco di Bologna. Dunque una città vivace, attiva, forte di un glorioso passato storico, ma fermamente proiettata verso un futuro dinamico, operativo, laborioso, moderno, serenamente vivibile. Sede della prima Università europea, che le ha consentito di definirsi “Bologna la Dotta”.
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Le persone e i fatti La tragedia che ha travolto la famiglia Nigrisoli, una delle più note, stimate e benvolute, dell’alta borghesia bolognese, è accaduta nel 1963. Si è verificata all’interno della omonima Casa di cura di via Malgrado, tuttora in piena ed apprezzata attività, nell’ala dell’appartamento occupato dalla famiglia fin dalla sua fondazione, opera dell’insigne e famoso chirurgo Bartolo Nigrisoli. Nel primo ‘900 egli aveva trasferito a Bologna la famiglia, di origine ferrarese ma trapiantata a Ravenna, avendo vinto il concorso per il posto di primario chirurgo dell’Ospedale Maggiore ed ottenuto poi l’incarico di insegnamento di chirurgia clinica nell’Università felsinea, ove si era laureato nel 1883. La sua storica fama era ancora accresciuta quando nel 1931, unitamente a soli altri undici colleghi universitari (Francesco Ruffini, Mario Carrara, Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis, Piero Martinetti, Fabio Luzzatto, Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera, Vito Volterra, Giorgio Levi Della Vida ed Edoardo Ruffini), si era rifiutato di giurare fedeltà al regime fascista, al contrario di 1.200 professori. Si dedicò, da allora, alla libera attività professionale, tra le mura della “sua” Casa di
Premessa
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cura. Venuto lui a mancare, il 6 novembre 1948, la clinica privata era passata al figlio Pietro, il cui figlio Carlo è il protagonista del dramma oggetto del conseguente processo penale, conclusosi con la sua condanna per avere ucciso la moglie Ombretta Galeffi la notte del 14 marzo 1963. Opinione pubblica e stampa dell’epoca hanno istintivamente ed immediatamente ricordato e citato il non meno clamoroso “Caso Murri”, da molti ritenuto addirittura “il più famoso processo del novecento”. In breve. Il 2 settembre 1902 a Bologna muore, colpito da numerose coltellate, il conte Francesco Bonmartini, marito di Teodolinda (detta Linda) Murri, figlia dell’illustre e celebre Prof. Augusto Murri, medico chirurgo e professore di Clinica Medica all’Università di Bologna. Lui stesso, dopo nove giorni, denuncia come colpevole suo figlio Tullio, subito fuggito all’estero. Anche la sorella Linda l’aveva accusato, sostenendone altresì la premeditazione. Si sparge la voce che Tullio avrebbe ucciso il cognato Bonmartini per gelosia ed istigato dalla sorella Linda che, oltre ad avere un amante, avrebbe avuto rapporti incestuosi col fratello. Indagini, processo (svoltosi a Torino per legittima suspicione, addirittura con cariche di cavalleria per disperdere le folle che si accalcavano per assistere alle udienze), sospetti su terzi, presto ritenuti estranei all’omicidio, non sono mai più venuti a capo della responsabilità. Invano lo stesso Tullio si dichiarerà colpevole, per tenere comunque indenne la sorella da pericolosi sospetti. Quando si saprà che l’assassino è stato un facchino, tale Labella, comprato ed istigato dalla Linda e dall’amante, ogni possibilità di processarlo è vanificata dalla prescrizione.1 Come si vedrà, dalle pagine che seguono, il processo Nigrisoli non può, peraltro, considerarsi un “duplicato” del processo Murri ancorché ne abbia questi aspetti in comune: Può ora consultarsi il libro, interessante, franco, dettagliato, di Gianna Murri, figlia di Linda.
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1 – la città di Bologna; 2 – un celebre padre, medico, che denuncia come colpevole il proprio figlio; 3 – il particolare che entrambi i protagonisti, Murri e Nigrisoli, abbiano ricoperto anche la cattedra di medicina nell’Università bolognese; 4 – la singolarità che il Prof. Murri muore, per tumore nel 1932, mentre è ricoverato nella Casa di Cura Nigrisoli; 5 – l’amante di Linda Murri, dottor Carlo Secchi, molto interessato a studi sul… curaro! Prevalenti, però, le opposte circostanze: nel caso Nigrisoli l’accusato si proclama assolutamente innocente, ma viene condannato; nel caso Murri un membro della famiglia, benché innocente, si dichiara colpevole ma non è creduto.
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Lui, lei… e l’altra Carlo Nigrisoli è nato a Torino il 25 marzo 1925 da Pietro e Virginia Rasi. Studente all’Università di Bologna, Facoltà di Medicina, aveva conosciuto Jacopo Galeffi, un collega di San Piero in Bagno, con il quale aveva stretto una sincera amicizia, presto condivisa anche dalla sorella, Ombretta. Le frequentazioni amicali avevano fatto sì che tra Carlo ed Ombretta la simpatia si fosse fatta attrazione (ovviamente anche influenzata, da parte di lei, da una combinazione di rispettosa ammirazione e soggezione) sia per la mite e provinciale personalità di lei, rispetto all’altolocata Famiglia Nigrisoli, e sia per sincero affetto, divenuto infine vero e proprio vicendevole innamoramento, tanto da indurli al matrimonio. Ombretta quindi si trasferì a Bologna, nell’appartamento incluso nella casa di cura, accolta con affetto dai genitori di Carlo, subito e definitivamente considerata come una figlia.
Premessa
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Iniziò una vita riservata e semplice, come era lei stessa di carattere, conservando la sua naturale schiettezza e riservatezza, rifuggendo le esigenze di vistosi rapporti sociali, paga di qualche semplice ma sincera amicizia femminile, ma soprattutto, in prosieguo di tempo, interamente assorbita da affetto e premure per i figli Guido, Raffaella, Anna. Persona semplice, Ombretta, quasi ancora e per sempre fanciullesca, romantica, ingenua, dolce. Come è delle persone – soprattutto donne – introverse e timide, Ombretta si esprime, si confida nelle segrete pagine del suo diario, che ne consentono un giudizio infallibile. Una chiara, perfetta auto-analisi psicologica può leggersi in questi sogni (da Il Giorno, 18 ottobre 1964): Vorrei rimanere sempre così – scriveva in una pagina di quel quadernetto prima di sposarsi – in mezzo ai fiori, agli uccelli che cantano, gli ultimi raggi del sole, col cuore lieto… Una Cenerentola nelle grinfie del Lupo. Un destino oramai segnato, senza concessioni, senza scappatoie. Carlo, dalla personalità difficile, complicata, professionista di modeste capacità (nella clinica di famiglia preferiva occuparsi di contabilità ed amministrazione), privo di ambizioni sociali, poco stimato dai suoi stessi genitori, era assorbito da personali impegni, e dalle sue passioni (ad esempio, le gare automobilistiche). La loro vita si andò sviluppando dalla più ordinaria normalità alla insipida quotidianità, intrisa di noncuranza e indifferenza, sotto certi aspetti addirittura noiosa, lungi, prima del dramma, anche da intimi rapporti. Comprensibili, dunque, quei momenti di sconforto tanto amaro da pensare anche di farla finita con un suicidio. Carlo, invece, non tardò a dedicarsi a brevi, anche retribuite, avventure, senza che la moglie se ne dolesse, approfittando di una massima autonoma indipendenza, per nulla incrinata da quei passatempi del marito che, anzi, le risparmiavano richieste personali non sempre gradite. Quel singolare equilibrio coniugale si è però radicalmente modificato quando Carlo ha conosciuto Iris Azzali. Iris, operaia in un mobilificio, si era trasferita da Lizzano in Belvedere a
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Casalecchio ed era stata indirizzata, per malesseri non gravi, al medico Carlo Nigrisoli. Personalità vivace, attraente, libera, disinteressata economicamente, di certo pure lei non insensibile alla posizione sociale di Carlo, si era rivelata subito la compagna ideale, l’amante perfetta. Insomma, dotata di tutte le più soddisfacenti qualità, cosicché ben presto Carlo ne rimase talmente rapito da non potersene né volersene più privare, deciso anzi a programmare una imminente definitiva unione legale con lei. A qualsiasi costo? Sì, a qualsiasi costo! Annullamento del matrimonio? Separazione? Per carità, l’orgoglio Nigrisoli non avrebbe potuto scendere così in basso, i genitori non glielo avrebbero mai perdonato! Allora?… L’omicidio… Ombretta si era trasformata così in un impaccio, un ostacolo, per il nuovo futuro che Carlo intravedeva per sé ed Iris. Facile cominciare a fare progetti, programmare una vita di coppia a tutti gli effetti, lei stessa ben disponibile all’idea di diventare l’unica, amata, compagna di Carlo. A tal punto Carlo aveva perso la testa ed il senso della realtà che cominciò a progettare e preannunciare suicidi, a dichiarare alla moglie che uno dei due doveva uccidersi (ovviamente, lei) e quando Iris manifestò stanchezza ed insofferenza per quelle difficoltà non esitò a darle ad intendere che Ombretta era prossima a morte sicura, causa un imperdonabile tumore (“roba di pochi mesi”). Sentita come testimone al processo di primo grado, Iris Azzali dichiarerà, fra altro: «Se la morte della signora Nigrisoli si fosse verificata entro i due mesi previsti, io, una volta che il dottore rimaneva libero, avevo promesso che l’avrei sposato. Se nel termine suddetto la signora Nigrisoli fosse guarita, invece, la nostra relazione sarebbe finita. Su ciò era d’accordo lo stesso dottore, così, almeno apparentemente, lui diceva» (Sentenza 15/2/1965, p.150). Carlo, al processo, nega tutto. L’Iris è, sì, una delle tante, ma niente amore, niente programmi di matrimoni. È accadu-
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to per pura involontaria ed imprevedibile combinazione che, morta Ombretta, la prima persona alla quale abbia dato telefonicamente la notizia sia stata… Iris Azzali. Dunque, nessun motivo di uxoricidio? Nigrisoli arriva a tale alterazione mentale quando Iris, stanca di promesse andate a vuoto, propendeva per la rottura di ogni rapporto con lui, da imporre ad Ombretta, che per suo quieto vivere non poté rifiutarsi, di telefonare alla Iris per pregarla di non abbandonarlo, ché altrimenti lui si sarebbe ucciso. Ma minacce di suicidio, anche direttamente ad Iris, Carlo non risparmiò, mostrandole la pistola con la quale, se lei non gli fosse rimasta al fianco fino all’“imminente” morte della moglie, si sarebbe sparato all’istante, presente lei. Insomma, il classico incompatibile binomio “amore-morte”. E morte fu!
Il curaro Impossibile sapere se e quale completa gamma di possibili mezzi esiziali abbia interessato l’attenzione di Carlo Nigrisoli, costretto comunque a sopprimere quella ostinata moglie che non ne voleva sapere di togliersi di mezzo con un semplice definitivo suicidio, ed aprire così la porta di casa Nigrisoli alla più gradita nuova fiamma, signora Iris. Certo è che la scelta è caduta sul curaro, o meglio sulla sincurarina, mezzo a sua facile portata di mano perché all’ordine del giorno negli interventi chirurgici della clinica ed i cui effetti sui pazienti gli erano perfettamente noti in quanto usato come anestetico o sedativo. Non pago, o non sicuro, del possibile uso quanto, invece, a successive indagini post factum, ha avuto l’accortezza di informarsene “in casa”, ossia in casa di cura. Con ammirevole e scaltra disinvoltura ha fatto la sua apparentemente innocua indagine, probabilmente allo scopo di sapere come regolarsi, quanto a tempi e modi ese-
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cutivi, volendolo usare per scopi esattamente contrari alle consuete finalità: se e quali tracce sarebbero rimaste, in quale dose, di sicuro effetto e difficile reperimento a posteriori, andava inoculato. Indagine che ha anche sorpreso i colleghi interpellati, lungi però dall’immaginare il vero scopo di quelle informazioni. Così Nigrisoli si mette attivamente all’opera. Ombretta comincia anche a sospettare e temere per la propria incolumità. Il marito si rende conto che deve aggirare l’ostacolo di reticenze o resistenze di Ombretta. Escogita allora un infallibile sistema: induce la moglie a farsi visitare da un medico di fiducia, assumendo che appare stanca e depressa; ottiene così il suggerimento di sottoporla a quotidiane punture di utili ricostituenti. Ma ciò che le immette è soltanto la sincurarina, sia pure in dosi modeste. Ombretta avverte disagi e debolezze, si confida con le amiche, cerca di sottrarsi, ma se le si suggerisce solo di allontanarsi dal marito o sfuggire alle “cure e punture” che le sta ostinatamente e programmaticamente somministrando risponde, impotente: «Dite bene tutti, ma io sono sola, di notte, con lui». E lui ha dalla sua l’affidabile parere espresso dal cardiologo. Ciò che lei teme, purtroppo, sono proprio quelle punture, anche perché nota, all’improvviso, uno strano movimento di siringhe, comprese quelle dei reparti di curaro. Ma proprio curaro sarà. Sulla povera Ombretta, oramai ridotta a manichino sperimentale, dai e ridai (il senno e le indagini del “poi” hanno svelato tutti i primi maldestri tentativi), il curaro stava fatalmente incombendo, come spada di Damocle pronta al colpo fatale. Singolare anche questa circostanza, che la sentenza riporta esplicitamente: Quando gli fu contestato il risultato dell’indagine tossicologica, vale a dire che nelle urine e in una siringa in sequestro era stata costatata la presenza di un prodotto a base di curaro, egli rispose: «Può darsi che mia moglie si sia praticata un’iniezione intramuscolare di sincurarina» (Sentenza d’appello 12/04/1967, p. 283).
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********* Ma che diavolo è il curaro? Perché Nigrisoli lo ha preferito come mezzo infallibile per liberarsi di Ombretta? La storia del curaro risale ad epoche quanto mai lontane. È un veleno che gli indigeni delle foreste dell’Amazzonia hanno chiamato Curari o Woorali ed hanno eletto, dal tempo dei tempi, a mezzo ideale per la caccia, perché uccide animali e uomini in pochi minuti dopo una ferita anche soltanto superficiale. Pur primitivi e rozzi, quegli indigeni hanno osservato alcuni comportamenti degli animali che ne agevolavano facili e rapidi abbattimenti: assumendo le cortecce di alcuni alberi o di liane delle immense foreste, diventavano prede sicure, si abbattevano o si immobilizzavano per brevi tempi, per poi riscuotersi e riprendersi senza difficoltà. I cacciatori impararono così a spargere sulle frecce o sui dardi delle cerbottane i succhi tratti dalle cortecce appositamente pestate e macerate. Quali le cause di quei singolari comportamenti? Il mondo civile ne ha scoperto e studiato il meccanismo soltanto nell’800: Nel 1820 – narra la storia del curaro – Charles Waterton comprende il meccanismo d’azione del curaro; sperimenta infatti il veleno su una mula che “muore” ma viene rianimata grazie alla ventilazione forzata. La pianta agisce quindi sulla respirazione, bloccandola e provocando la morte per asfissia. Nel 1844 il grande fisiologo francese Claude Bernard conferma che il curaro agisce bloccando la trasmissione nervosa alla muscolatura. Negli anni ‘20 del ‘900 uno studioso americano, Richard Gill studia attentamente la preparazione del curaro; nel 1938 ritorna negli USA e cerca di interessarne l’uso alle case farmaceutiche. Infine nel 1942 Griffith e Johnson capiscono che all’utilizzo della molecola deve essere sempre associata la ventilazione forzata e quindi compiono molte operazioni su esseri umani dato che la “tubocurarina” (così chiamata perché fin dal principio conservata in appositi tubi) rilassa completamente (paralizza) la muscolatura, e se ne possono utilizzare dosi molto più ridotte di anestetico.
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Questo veleno, il cui effetto paralizzante dei centri respiratori è infallibile, ha anche l’atroce, orrendo effetto, di rendere la vittima pienamente cosciente della sua paralisi muscolare-respiratoria e dell’approssimarsi dell’attimo dell’ultimo respiro, nonché della impossibilità di urlare la sua paralisi. Dunque nell’orrenda notte, l’ultima per quella semplice, innocente, dolce creatura, la vittima del bruto marito avverte l’irrigidirsi del suo corpo, percepisce l’orrore ed il dolore di quanto le sta accadendo, sicuramente tenta di invocare aiuto ma si rende altresì conto che nessuna invocazione, nessuna supplica, nessuna preghiera sta uscendo da quella bocca inutilmente spalancata. E lui, al suo fianco nello stesso letto, imperterrito, tranquillo, chissà? fors’anche soddisfatto ed esultante, semplicemente assiste al fenomeno esiziale, nell’impassibile attesa dell’ultimo, fatale, inutile (ma per lui “liberatorio e vincente”) respiro e nella preparazione dell’imminente sua commedia di un ridicolo finto soccorso, da esibire a parenti, colleghi, suore infermiere, che (se Dio vuole, deve aver pensato lui) non servirà a nulla. Vincerà il curaro! Si legge, nella sentenza d’appello: Rantolo, afasia, ptosi palpebrale, la caratteristica caduta del capo, sono sintomi della morte curarica; una morte che scende dall’alto: prima paralizza i muscoli del capo, fa abbassare le palpebre, blocca la parola, poi paralizza i muscoli del collo, fa cadere il capo, rende inerti le braccia, il tronco e infine blocca il respiro. Segno tipico è l’abbattimento del capo per la paralisi dei muscoli del collo (Ombretta fu veduta dal marito a metà fuori dal letto con il capo penzoloni nel vuoto) – Sentenza d’appello 12/04/1967, p. 431. Lui invece, l’assassino, può dormire tranquillo e sicuro anche quella (non per lui) “ultima notte”. E chi mai, si chiede e si tranquillizza Carlo, su di Ombretta, complessivamente di sana costituzione, improvvisamente deceduta, avrebbe poi sospettato l’assassinio invisibile? Chi non avrebbe, in piena coscienza, diagnosticato il fatidico, imprevedibile, infallibile infarto?
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L’omicidio La notte fra il 13 ed il 14 marzo1963 il dott. Carlo Nigrisoli sveglia tutto l’appartamento della clinica riservato ad abitazione della famiglia, e suo in particolare, chiedendo di essere aiutato ad occuparsi dello stato di salute di sua moglie Ombretta, che lui stesso sta portando sulle braccia verso l’infermeria, riferendo a tutti i soccorritori, medici, suore, che entrando nella camera da letto coniugale ha visto la moglie immobile, col capo penzoloni fuori del materasso, visibilmente e tangibilmente già priva di vita. I suoi colleghi, subito accorsi, confermano che Ombretta è morta e, non presentando ferite né sintomo alcuno come, almeno apparente, causa del decesso, ritengono indispensabile e doveroso procedere immediatamente ad una autopsia per accertare la o le cause dell’inspiegabile improvviso decesso di una persona notoriamente in ottime condizioni di salute. Alla parola “autopsia” Carlo Nigrisoli dà in escandescenze, urla che non permette a nessuno di effettuarla e, tra lo stupore e l’incomprensione dei presenti, mostra la pistola della quale si è impossessato, minacciando di usarla contro chiunque avesse disatteso il suo divieto.
L’accusa Accorre, intanto, anche il padre prof. Pietro che, alla vista del corpo inanimato della nuora, si scaglia contro il figlio urlando “disgraziato, cosa hai fatto, l’hai ammazzata”, percuotendolo energicamente. In breve tutta la famiglia è riunita, ma nessuno osa accostarsi al cadavere per procedere all’autopsia, vista l’arma che Carlo brandisce minacciosamente. Viene svegliato e chiamato con premura anche l’avvocato della famiglia Nigrisoli, Riccardo Artelli che, dopo sollecita ed un po’ frenetica consultazione, considerata l’estrema delicatezza dell’ac-
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caduto, consiglia di investirne subito l’autorità giudiziaria. Lo stesso prof. Pietro condivide il suggerimento. Ed è poi per questo che si spargerà la notizia e si affermerà il detto comune che sia stato il padre a denunciare il figlio. Accade, invece, che alle prime ore di apertura degli uffici, l’avv. Artelli si premuri di recarsi alla Procura della Repubblica, ove viene ricevuto dal Sostituto di turno, Dr. Pier Luigi Leoni che, appreso l’accaduto e colpito dal particolare del minaccioso comportamento di Carlo Nigrisoli, pistola in pugno, ne dispone immediatamente il “fermo”. Quindi, accompagnato dall’avvocato, si reca in Procura il fratello, dott. Paolo, che formalizza la denuncia dell’omicidio di Ombretta. Dunque, curaro è stato, dapprima con un singolare apparire e sparire di siringhe (notate anche dalla povera Ombretta) tanto che questo, di Carlo Nigrisoli, è spesso chiamato, più direttamente, IL PROCESSO DEL CURARO la cui ricerca in sede processuale ha occupato giudici, periti, testimoni più di ogni altro aspetto della tragedia.
********* IL PROCESSO PENALE a carico di NIGRISOLI CARLO di Pietro e Rasi Virginia, nato a Torino il 25 marzo 1925, residente a Bologna, via Malgrado 11 IMPUTATO del delitto di cui agli artt. 575, 577, n.ri 2, 3 ed ult. parte, Cod. Pen.2 Una raccolta degli articoli dei vari Codici citati nel corso della sentenza è contenuta in questo libro. Per consultarla, visitare la sezione Appendice situata in fondo al testo.
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per avere, con premeditazione, cagionato la morte della moglie Ombretta Galeffi, iniettandole una dose di “SINCURARINA”. In Bologna, il 14 marzo 1963 Ecco, intanto, una breve, essenziale, sintesi del processo: Corriere d’Informazione, 31 ottobre/1 novembre 1964: Si prepara la battaglia sul curaro Il Resto del Carlino, 4 novembre 1964: I contrasti sulla presenza del curaro Corriere Lombardo, 5/6 novembre 1964: Non è stato il curaro ad uccidere Ombretta Il Resto del Carlino, 12 novembre 1964: Vertice di scienziati sul curaro Il Resto del Carlino, 3 gennaio 1965: Tutti i mezzi della scienza per cercare il curaro Il Resto del Carlino, 18 gennaio 1965: La lunga battaglia scientifica ha avuto un vincitore: Nigrisoli Ma, infine: Stampa Sera, 16/17 febbraio 1965: Nigrisoli piange disperato all’annuncio dell’ergastolo Ergastolo. La carcerazione a vita. Pena da attenuare, a tutti i costi. dunque, indispensabile:
L’appello Doveroso, per la difesa, irrinunciabile, un appello. La condanna al massimo della pena, in un sistema processual-penale come il nostro che, per disposto Costituzionale, non ammette la pena di morte, si prospetta con l’automatica previsione
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che, male che vada, sarà confermata la pena dell’ergastolo; ma qualche spiraglio migliorativo in effetti è ragionevolmente auspicabile, basterebbe una “attenuante” per sfuggire alla condanna a vita: risarcimento dei danni, perdono della famiglia di Ombretta, buona condotta in carcere dell’imputato detenuto, ecc. ecc. La difesa Nigrisoli, quindi, ricorre in appello. L’iniziativa si articola su due principali direttive: ancora (come in primo grado) la contestazione dell’inosservanza formale-giuridica-processuale, consistita nella violazione di tutti i più importanti e fondamentali diritti di difesa dell’imputato, a partire già dai primissimi atti dell’istruttoria (se venissero abbattute le colonne portanti della fase iniziale del procedimento, franerebbe tutto l’impianto accusatorio, anche a norma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo); altrimenti l’attacco alle prove poste a sostegno della condanna, tutte le prove, dalle tecnico-peritali alle testimoniali. Nulla, dunque, avendo da perdere la difesa, anche alzando la mira ai livelli massimi e radicali, l’attacco principale prende le mosse proprio dalla “verità dei fatti” e quindi dal nodo dell’accusa fondamentale: omicidio? No: suicidio! Seguiamo, ancora, la pista mediatica. Il Giorno, 16 febbraio 1967: Processo nuovo fra 11 giorni – Pallido e smagrito il dottorino dietro il gabbione L’Avvenire d’Italia, 16 febbraio 1967: Rinviato il processo Nigrisoli (Anche breve intervista dell’imputato, in aula, che dichiara fra altro: «Sono proprio alla fine di ogni risorsa fisica e morale» – «Mi sento sereno perché ho la coscienza tranquilla»). Subentra, intanto, un radicale mutamento nel comportamento della famiglia:
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Il Resto del Carlino, 19 febbraio 1967: «È stato un terribile errore – dichiara il fratello di Nigrisoli – Sono convintissimo dell’innocenza di Carlo». L’Europeo, 23 febbraio 1967: Nostro figlio non è un mostro Intervista ai genitori di Carlo; il padre, prof. Pietro Nigrisoli: «Fu un errore il mio comportamento nella notte della tragedia – Fu colpa di consigli sbagliati e dell’atmosfera allucinante di quella notte». Stampa Sera, 27-28 febbraio 1967: Aperto stamane il processo in appello a Bologna Il Messaggero, 1 marzo 1967: Carlo Nigrisoli può ancora contare su un certo numero di innocentisti Stampa Sera, 1-2 marzo 1967: Le lettere di Nigrisoli a Iris sono un pesante atto di accusa Incredibile, stupefacente, in una lettera alla madre di Iris Carlo scriveva, fra altro: Lei sa che io amo tanto tanto l’Iris… Ora le chiedo un gran piacere e le chiedo di aiutarmi. Io ho una situazione familiare mia disastrosa e questa è stata la causa che mi ha fatto attaccare tanto alla sua figliola… avevo bisogno di tanto affetto ed essa me l’ha dato. Ora me lo vuole togliere di colpo… per piacere mi aiuti, ho bisogno del suo aiuto, faccia in modo che Iris torni a me e io l’aiuterò a mettere tutto a posto come prima… Una separazione così improvvisa vuol dire per me la fine… Nella vita non ho altro affetto che per la Iris. La Notte, 2 marzo 1967: Carta sbagliata al processo d’appello – I milioni non «pagano» la morte dell’infelice Ombretta La famiglia Nigrisoli offre ai Galeffi 30milioni come risarcimento dei danni morali, non può alzare la cifra perché dissanguata dai costi del processo, che sarebbero già oltre 200milioni
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soprattutto per i difensori; se gli eredi Galeffi avessero accettato avrebbero consentito la concessione di una attenuante della pena, quindi l’esclusione dell’ergastolo. Il Resto del Carlino, 3 marzo 1967: Nigrisoli: martedì il primo attacco della difesa, che si impernierà sulla violazione dei diritti dell’imputato in istruttoria Gazzetta del Popolo, 7 marzo 1967: Sarà annullato il processo Nigrisoli? Il Resto del Carlino, 8 marzo 1967: La difesa cerca di invalidare totalmente il processo – «Violati tre volte i diritti di Nigrisoli» – Il prof. Delitala attacca la conduzione istruttoria Stampa Sera, 9-10 marzo 1967: La parola tocca alla parte civile, oggi contrattacca il prof. De Marsico Il Resto del Carlino, 11 marzo 1967: Nessun motivo di nullità sostiene il Procuratore Generale L’Avvenire d’Italia, 11 marzo 1967: Il P.M. chiede la reiezione delle istanze dei difensori IL Messaggero, 12 marzo 1967: Respinte dalla Corte tutte le eccezioni processuali della difesa Nigrisoli – «Ha pianto per la prima volta su un’altra speranza sfumata» Corriere della Sera, 12 marzo 1967: Respinte le eccezioni della difesa – il processo contro Nigrisoli si farà La Stampa, 12 marzo 1967: Cadute le speranze di Nigrisoli – La Corte ha deciso: il processo si farà Il Resto del Carlino, 12 marzo 1967: Il pianto di Nigrisoli dopo il “no” della Corte La Notte, 14 marzo 1967: Udienza drammatica alla assise d’appello – Rievocata la tragica notte in cui morì Ombretta Galeffi Carlino Sera, 14 marzo 1967: Nigrisoli continua a negare di avere ucciso sua moglie Corriere d’Informazione, 14-15 marzo 1967: Processo di Bologna - il momento più drammatico – La parola a Nigrisoli - disperata autodifesa L’Avvenire d’Italia, 15 marzo 1967: Esortato alla verità dal Presidente, Nigrisoli sostiene la sua innocenza
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Il Gazzettino, 15 marzo 1967: Nigrisoli: «Ho sempre detto la verità e voglio ripeterla anche questa volta!» In breve: tutta la stampa nazionale del 15 marzo 1967 riporta l’interrogatorio di Nigrisoli; la sua insistenza a proclamarsi assolutamente estraneo alla morte di Ombretta e a dichiarare di avere fatto, anzi, tutto il possibile per rianimarla quando la vide priva dei sensi – merita menzione l’appassionata insistenza con la quale in questi giorni del dibattito in appello, i figli di Nigrisoli gli sono affettuosamente vicini, desiderosi di essere interrogati come testimoni a suo favore, rilasciando anche spontanee interviste alla stampa. Il Resto del Carlino, 5 aprile 1967: Il Procuratore Generale ha concluso la sua requisitoria – Chiesta la conferma dell’ergastolo Tutti i difensori di Nigrisoli prendono poi la parola per illustrare la varie richieste, principali e subordinate, esposte nell’atto d’appello. Il prof. Delitala, come già in primo grado, ribadisce che difende l’imputato anche a nome e per pressante richiesta dei figli di Nigrisoli, ed al termine di questa arringa, come già in primo grado, conclude commosso fino alle lacrime. Il Resto del Carlino, 13 aprile 1967: L’abbraccio del padre e il pianto di Nigrisoli prima che svanisse l’incubo dell’ergastolo Non diverso, però, salva la minore pena di 24 anni di reclusione, l’esito dell’appello: Il Resto del Carlino, 11 aprile 1967: Concesse in appello le attenuanti generiche – Ventiquattro anni a Nigrisoli – Il medico sfugge all’ergastolo
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Il Resto del Carlino, 13 aprile 1967: La sentenza dopo sette ore di camera di consiglio – Per la prima volta il prof. Pietro è entrato in aula – Nell’ultimo intervento, prima che la Corte si ritirasse, l’avv. Perroux ha detto: «È stato il primo a condannare suo figlio, lasciatemi sperare che sia il primo che lo assolve» – Una grande folla aveva invaso il Palazzo di Giustizia Quanto mai toccante, patetica, commovente, l’intervista rilasciata, alla vigilia della definitiva sentenza di conferma della responsabilità di Carlo Nigrisoli, dal figlio Guido di 16 anni: Il Resto del Carlino, 11 aprile 1967: Guido Nigrisoli ricorda «Sono assolutamente convinto che mio padre non ha fatto nulla – Quella sera mia madre era andata a letto poco prima di me e non stava bene – Il babbo stava facendo il giro della clinica – Poi mi sono addormentato ed ho dormito fino alla mattina dopo – Se avesse fatto qualcosa alla mamma non si sarebbe fatto neppure vedere da me» La lettura integrale della Sentenza 12 aprile 1967, pronunciata dalla Corte d’Assise d’appello di Bologna, poco più avanti riportata, consentirà di comprendere ed apprezzare le prove, le ragioni, le motivazioni, che indussero a respingere l’atto di appello (sia della pubblica accusa che dei difensori dell’imputato) e quindi confermare integralmente il giudizio di responsabilità di Nigrisoli, con la sola differenza della diminuzione della pena. La Corte di Cassazione, infine, alla quale erano ricorse tanto l’accusa del P.M. (ribadendo la richiesta di ergastolo) quanto i difensori dell’imputato, sollecitandone anche la piena assoluzione, confermerà poi, definitivamente, la condanna di Carlo Nigrisoli alla pena di anni 24 di reclusione. Avendo dedicato queste pagine al ricordo di Roberto Landi, primo e sempre fermamente convinto difensore di Carlo
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Nigrisoli, desidero ricordare la sua ultima intervista rilasciata per questo processo: La Nazione, 14 aprile 1967: Nigrisoli in Cassazione Del “povero ragazzo” ci parla l’avvocato Roberto Landi, il penalista che per primo si interessò delle sorti del medico e che da quattro anni fa parte del suo collegio di difesa. Landi dice: «Ho sempre creduto nell’innocenza di Nigrisoli» e nessuno può dubitare della sincerità di queste parole; l’angoscia che abbiamo letto sul volto dell’avvocato appena il Presidente De Mattia ha cominciato a leggere la sentenza (e gli articoli di legge che non si trattava di assoluzione) era di una eloquenza sbalorditiva, perfino commovente (la sottolineatura è nostra). Così come è commovente quando egli parla con affetto del condannato e rivela la pena che prova nel vederlo soffrire. «Non è soddisfatto, no di certo. Sperava troppo, come noi del resto, nell’assoluzione, per potersi contentare della concessione delle attenuanti. È in prigione per un delitto che non ha commesso: ergastolo o ventiquattro anni, hanno lo stesso valore per lui».
********* È tempo, dunque, di lasciare la parola a chi ha dovuto occuparsi dell’omicidio della povera Ombretta per conoscerne e giudicarne ogni minimo dettaglio: la Magistratura penale bolognese. Come è noto, Carlo Nigrisoli è stato arrestato, processato, condannato. Il processo a suo carico si è svolto avanti la Corte d’Assise di Bologna, in primo grado, ed alla Corte d’Assise d’appello, in secondo grado. Entrambe le sentenze hanno scrupolosamente, minuziosamente, ricostruito tutta la storia della tragedia Nigrisoli-Ga-
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leffi ed ampiamente motivato le opzioni assunte, col conforto di tutte le possibili prove, testimoniali, peritali, storiografiche, pervenendo dapprima alla condanna all’ergastolo, poi, e definitivamente, a 24 anni di reclusione. Tanto accurate, chiare, comprensibili, sono le 181 pagine della prima sentenza ed ancor più le 500 (!) della seconda, che (ovviamente prediligendola perché definitiva) sarebbe imperdonabile non consentirne una integrale, rispettosa, pubblicazione.3 Per quanto ne sappiamo è la prima volta che la “pubblicità” di una sentenza penale si traduce in “pubblicazione divulgativa integrale”. Ma tutto quel processo si è svolto all’insegna dell’eccezionalità, tale che – per riprendere il breve confronto col “Caso Murri” – può sicuramente affermarsi che il Nigrisoli è quello che merita la palma del “più famoso processo del novecento”. Ed eccone i motivi: Scontato il grande interesse pubblico per la vicenda dei coniugi Carlo Nigrisoli-Ombretta Galeffi, quindi i servizi giornalistici con testate cubitali. Scontato il gradimento, quasi l’onore, per il pubblico ammesso ad assistere, di trovarsi nella storica aula magna del suntuoso Palazzo Napoleonico Baciocchi (laute mance agli uscieri, specie dalle signore del tempo libero, per riservarsi poltroncine comode e di prime linee). Subito ricordato (per tutti, La Notte, 21-22 ottobre 1964): Nella stessa aula grande in cui questa mattina si è aperto il processo contro il medico bolognese accusato di avere ucciso la moglie Ombretta con una iniezione di sincurarina, dentro la stessa gabbia, con le sbarre di ferro battuto, proprio di fronte alla tribuna dei giornalisti, il 15 dicembre del 1951 Ettore Grandi fece un salto di gioia. Dopo un lungo ed estenuante Un sincero ringraziamento ai colleghi Avv. Alberto Brazzi e Gianmarco Caletti, del Foro di Bologna, per la disponibilità, la cortesia, l’accortezza, con le quali sono riusciti a reperire quei due documenti, di quasi cinquant’anni fa, e per averli pazientemente fotocopiati, pagina per pagina.
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dibattimento i giudici lo avevano assolto dall’accusa di avere ucciso a colpi di pistola la moglie Vincenzina Virando, a Bangkok il 23 novembre 1938.4 Quel giorno, in quest’aula piena di statue e decorazioni, c’era anche Giacomo Delitala, magnifico difensore di Ettore Grandi, e che oggi tornerà in quest’aula… Eccezionale, invece, lo schieramento degli avvocati, della difesa e delle accuse di parti civili: in difesa di Carlo Nigrisoli, oltre il già ricordato Avv. Roberto Landi, è nominato uno dei più rinomati avvocati emiliani: il modenese Carlo Alberto Perroux; viene infine aggiunto un “pezzo da 90”, il Prof. Giacomo Delitala, un Maestro di tante generazioni di avvocati, formatisi alle sue eccellenti lezioni di diritto penale nell’Università di Milano. Tre difensori? Il codice processuale non ne consente più di due; ma con signorile fair play né la pubblica né le private accuse hanno sollevato obiezioni, anche perché il loro fronte non era da meno: Pubblico Ministero in primo grado il Dott. Piero Luigi Leoni, lo stesso che aveva promosso e seguito l’intera fase istruttoria già dalla notizia del reato; in appello il Dott. Ernesto Dardani, Avvocato Generale (questa qualifica di origine napoleonica è tuttora in vigore). Per le parti civili famigliari di Ombretta, il padre Guido Alberti Galeffi, la madre Maria Bianca ed il fratello Jacopo, Prof. Alfredo De Marsico (qualche cronista lo ha ricordato come “il vecchio leone partenopeo”) e Avv.ti Stelio Zaganelli ed Ario Costa. Alle udienze di primario interesse ed a tutte quelle di discussioni finali conclusive, nella platea dell’aula dibattimenIl processo a carico di Ettore Grande – ambasciatore italiano a Bangkok – sospettato assassino della moglie Vincenzina Virando, uccisa da quattro pallottole di rivoltella il 23 novembre 1938, nella camera da letto dei coniugi, è uno dei 27 processi descritti da Sabina Marchesi (“I processi del secolo”, Editoriale Olimpia, Sesto Fiorentino, 2008). Poiché la sede dell’ambasciata era equiparata a territorio nazionale, competente a procedere è stata la Magistratura italiana. Il Tribunale di Bologna è stato indicato dalla Corte di Cassazione.
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tale, sono intervenuti ad ascoltare quelle sofisticate e dialetticamente magistrali arringhe, autentiche lezioni di diritto penale, studenti universitari di giurisprudenza ed avvocati anche in avanzata età. Ma soprattutto eccezionale, in questo processo, il finale dell’arringa conclusiva del difensore Prof. Giacomo Delitala. L’Avvenire d’Italia, 9 aprile 1967: Dopo un intervento così raziocinatamente serrato, freddamente ragionato, portato diritto e senza perplessità o contingenze sul filo di un argomentare che nulla concede all’enfasi o alla retorica, gli occhi di Giacomo Delitala si fanno rossi e si riempiono improvvisamente di pianto. Lo aveva commosso il pensiero corso ai figli di Nigrisoli che gli avevano scritto: Caro avvocato, speriamo che la sua parola riesca a dimostrare l’innocenza di nostro padre.
Achille Melchionda