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Criminali
All’essenza della mia vita, col suo bellissimo sorriso, i suoi meravigliosi occhi profondi e la sua voce dolcissima, soprattutto quando pronuncia il mio nome: “Papà”. Alla mia splendida bambina, Maria.
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Criminali
Collana diretta da Giacomo Battara
l’ombra dell’abisso Simone Cocchi
Direttore editoriale: Roberto Mugavero Direttore di collana: Giacomo Battara Editor: Francesco Altan Illustrazione di copertina: morskipas.it © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-496-2 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
SiMone CoCChi
l’ombra
dell’abisso
Minerva edizioni
Profili Criminali / L’ombra dell’abisso
1 Mario Rossi Ero lì, solo, appoggiato al bancone del bar. Nel locale c’era un sacco di gente. Un fastidio al quale non potevo sottrarmi del tutto. Vicino a me c’era una donna sotto la mezza età, intenta a bere la sua disgustosa bevanda da circa un quarto d’ora. Non esiste spettacolo più repellente di una persona che beve una “sbloscia” calda a digiuno. Non ho mai capito perché il corpo umano al risveglio riesce a essere tanto sgradevole. Oltre all’orribile aspetto e alla voce da orco, ci sono i cattivi odori, i grugniti, il rumoroso deglutire e molto altro. Con la sua stazza di un metro e settantacinque per cento chili quella cosa, annoverata nella categoria degli esseri umani di sesso femminile, occupava quasi tutto il fronte dello stretto piano d’appoggio di quel locale. Come se non bastasse, un uomo sulla cinquantina, probabilmente il compagno, le stazionava accanto, senza la minima intenzione di consumare alcunché. Aveva un fare accondiscendente, al limite del patetico. Certe donne riescono a esercitare un enorme potere su alcuni loro simili di sesso opposto, tanto da far invidia ai più abili guru del controllo mentale. Osservare un uomo oppresso da tale fenomeno è uno degli spettacoli più svilenti a cui si possa assistere, un concentrato di ingloriosità per il genere maschile. Da un punto di vista d’integrazione sociale la vittima non presenta alcuna anormalità, tranne che per un considerevole aumento di tensione nervosa e per lo sguardo perso. In realtà, sotto la superficie, di anomalie ce ne sono molte, è più corretto dire che il soggetto esistente prima della manipolazione scompare per lasciare il posto a una sorta di alter ego, uno zombie che raggiunge il suo apice di appagamento e instabilità in presenza della propria “controllante”. A un occhio attento certe sfumature non sfuggono; e così stava capitando a me con la coppia che malauguratamente mi stava accanto, rovinandomi la colazione. La loro presenza si faceva a ogni attimo più insopportabile, occupavano due terzi dello spazio libero, come se fossero gli unici clienti di un locale deserto. La cosa più irritante era 7
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la lentezza di quella specie di lottatore greco-romano che la natura aveva beffardamente dotato di attributi femminili. Il consorte aveva i tipici connotati dello sfigato per diritto dinastico e ne emanava la stessa energia. Uno che tutti prima o poi hanno incontrato, alla sospensione della patente di guida per aver superato di due chilometri orari il limite di velocità, o durante un pignoramento in casa per trecento euro di debito con l’esattoria. Dava proprio l’idea dello stereotipo del parassita sociale, la specie più diffusa su questo pianeta, un essere che sfrutta l’ambiente in cui vive senza apportare niente di buono, che critica e condanna tutto ciò che non vuole conoscere e non riesce a comprendere, senza considerare che tutte quelle effimere certezze, cui si aggrappa con tanta energia, sono proprio il frutto del lavoro di coloro che hanno avuto il coraggio di agire all’opposto del suo sciocco credo. A tale proposito mi viene in mente un celebre aforisma di Albert Einstein, in cui cento volte al giorno ricordava a se stesso che la sua vita era basata sulle fatiche di altri uomini e che doveva fare il massimo sforzo per dare nella stessa maniera in cui aveva ricevuto. La donna di tanto in tanto mi urtava il braccio. Aveva le tipiche movenze di coloro che hanno una scarsa e deviata percezione del proprio corpo nello spazio che li circonda. Succedeva ogni volta che, girandosi, emetteva una specie di sibilante grugnito in risposta al compagno, il quale, con fare da ebete, le rivolgeva frasi incomprensibili. Per un attimo chiusi gli occhi, poi la rabbia prese il sopravvento: afferrai la donna per i capelli della nuca e con tutta la forza che avevo le sbattei il viso sulla tazza del cappuccino appoggiata sul bancone. Mi dispiacque quando alcuni schizzi di caffellatte raggiunsero la barista, ma ebbi una grossa soddisfazione nel sentire le ossa del suo viso che si rompevano sotto la mia mano che teneva stretto il suo crine da bisonte. Con la coda dell’occhio guardai il compagno rimasto impietrito, ancora non riusciva a capacitarsi dell’accaduto. “Adesso mi occupo anche di te” pensai. Con uno strattone scaraventai la donna dall’altra parte del bar, si udì un frastuono di sedie che si rompevano, mentre soddisfatto osservavo la ciocca di capelli che mi era rimasta 8
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in mano. Prima che l’uomo potesse intervenire per difendersi o vendicare la compagna, mi avvicinai fulmineo mollandogli un ceffone violentissimo sul viso. Si udì un tonfo incredibile che rimbombò tra quelle quattro mura. Approfittando del fatto che aveva ancora il viso girato, continuai a colpirlo per udire ancora quei rumori sordi che giungevano alle mie orecchie, soavi come una sinfonia di Beethoven. Si parava come un bambino, senza accennare il minimo segno di reazione. Era proprio ciò che volevo, non m’interessava ferirlo, il mio intento era solo quello di ridicolizzarlo. Nello smanacciare riuscii a dargli un manrovescio più violento degli altri che lo mise letteralmente ko. Stranamente, né i percossi né gli altri occupanti del locale dissero una parola, avevano tutti un’aria spaventa; probabilmente si erano resi conto di quanto il mio corpo potesse trasformarsi in un’arma letale. Presi dalla tasca una moneta da due euro e la lasciai sul bancone per pagare la mia colazione. Riaprii gli occhi e vidi quel bisonte incolume accanto a me. Quanto avrei voluto mettere in pratica la scena che avevo immaginato. Purtroppo non potevo sprecare così la mia opportunità, sarebbe stata senz’altro un’esperienza da urlo, ma avevo in mente cose ben più importanti e non avevo molto tempo. Così, senza fiatare, uscii dal locale. 2 Mario Rossi Le quattro di pomeriggio. In condizioni normali a quell’ora avrei dovuto essere al lavoro, invece me ne stavo sdraiato sul letto a osservare il soffitto. Erano già passate tre settimane e non riuscivo ancora a togliermi dalla testa le parole di quel dottore che con molta diplomazia mi aveva condannato a morte. «Signor Rossi», aveva detto, «sarò schietto con lei, la situazione è piuttosto grave, abbiamo individuato una massa tumorale al suo polmone destro». Fece una lunga pausa, pensai che fosse per valutare 9
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la mia reazione che fino a quel momento fu di quasi totale impassibilità. «Oggi la medicina ha fatto passi da gigante, ci sono buone probabilità di sopravvivere». S’interruppe di nuovo, probabilmente gli altri pazienti che erano passati prima di me per quella fase avevano avuto reazioni diverse dalla mia e, a giudicare da come il dottore mi guardava incuriosito, dovevano essere state ben più plateali. Continuai a rimanere impassibile su quella sedia di pelle lisa che nello studio di un medico, si sa, dà quel senso di vissuto che conferisce al luminare un alone di saggia esperienza sul campo. In realtà, il mio comportamento era solo un modo per assimilare informazioni sufficienti a costruire una sorta di rudimentale strategia difensiva. «Per prima cosa dobbiamo asportare il carcinoma», proseguì lui, «dopodiché dovrà sottoporsi a un ciclo di chemioterapia, in modo da essere sicuri di aver debellato tutte le cellule maligne». «Vuol dire che mi volete asportare un pezzo di polmone?» Finalmente lo sguardo del dottore cambiò. «Onestamente non vedo altra soluzione», mi disse. «Da cosa è dipeso secondo lei?» domandai. «Il cancro è una malattia genetica, quello che si sta manifestando adesso a livello cellulare era già scritto nel suo DNA.» «Ma avrà pure influito in qualche maniera la vita un po’ sregolata, lo stress…» azzardai. Mi guardò come se avessi appena insultato sua madre. Pensai che forse era più contento quando me ne stavo zitto. «Signor Rossi, il suo caso va ben oltre questi dettagli, che mi lasci dire, sono marginali.» «E se non volessi sottopormi alle vostre cure?» Assunse un tono di sufficienza, tipico di quei medici che preferirebbero avere tutti i pazienti muti, visto che secondo la medicina moderna il malato ha un ruolo quasi inutile per la diagnosi della malattia; non ha quasi nessuna responsabilità nel causarla e non è di alcuna utilità nel processo di guarigione. Mi rivolse un sorrisetto ironico. «Purtroppo credo che non ci siano molte altre possibilità.» 10
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«Quanta probabilità ho di farcela seguendo le cure che propone?» «Io le propongo soltanto le uniche cure scientificamente attendibili.» «Mi creda dottore, non ho mai pensato che non fosse così.» Il suo atteggiamento si fece meno arrogante, evidentemente non afferrò l’ironia della mia affermazione. «Direi che è quasi impossibile fare una stima percentuale… Ogni caso è a sé stante, ma in linea di massima, su pazienti come lei, le statistiche indicano che il trenta per cento non ha più presentato sintomi nei tre anni successivi l’intervento.» «Secondo lei quanto potrei andare avanti facendo finta di niente?» «Intende dire senza sottoporsi alle cure?» «Sì.» «Ma non ci pensi neanche! Lei è ancora giovane, deve almeno tentare, il fattore psicologico è importante.» Quell’uomo di scienza, così ottusamente erudito, non aveva valutato nemmeno per un secondo l’ipotesi che era proprio perché ritenevo il fattore psicologico molto più importante di quanto la sua materialistica visione del mondo riuscisse a concepire, che gli avevo posto quella domanda. «La mia, dottore, è solo curiosità.» Preferii non intraprendere un’inutile discussione con un altro di quelli che si rifiutano di ammettere l’esistenza di tutto ciò che non conoscono. «È quasi impossibile fare una stima in tal senso!», fece una pausa. «Un paio d’anni!» concluse. «Sì, direi non più d’un paio d’anni…» «Che, se seguissi i suoi consigli e andasse male, trascorrerei mezzo smembrato, glabro e in un mare di sofferenza». Mi pentii subito di tale affermazione, non avevo più voglia di stare in quel posto, né di proseguire con quelle inutili chiacchiere. «Non sarebbe certo una passeggiata comunque!» mi rispose il medico. Il dibattito andò avanti ancora un po’, finché mi convinsi a fissare una data per il potenziale intervento. Avrei avuto il tempo di rifletterci e magari di ripensarci. 11
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3 Mario Rossi Dopo un mese dall’incontro con l’oncologo che mi aveva diagnosticato un tumore al polmone, stavo trascorrendo un altro dei miei oziosi pomeriggi a pencolare tra letto e divano, immerso nelle complesse riflessioni in merito alla piega che avrebbe preso la mia sorte. Ero ancora al punto di partenza riguardo alle decisioni su come affrontare la malattia; la scelta più ovvia sarebbe stata tentare la strada della medicina tradizionale. Se mi fosse andata bene, il tristo mietitore avrebbe dovuto rimandare di un bel pezzo la falciatura del collegamento fra la mia anima e il mio corpo. Il prezzo da pagare per quest’ipotetico privilegio sarebbe stato un supplizio di un paio d’anni, con un pesante intervento chirurgico e varie terapie invasive. Se mi fosse andata male di lì a poco sarei stato spedito all’altro mondo. Più esattamente, la mia eclissi sarebbe coincisa con l’inizio delle cure, poiché non consideravo vita un periodo di tortura. Una volta entrato nella sala operatoria, la mia esistenza sarebbe finita all’istante e non avrei mai più rivisto la luce, quantomeno quella che vedono le persone felici sulla Terra. Anni prima avevo letto un libro che narrava esperienze di persone il cui cuore aveva cessato di battere per brevi lassi di tempo, tutte avevano testimoniato che a seguito del trapasso si erano trovate dinnanzi a una luce intensa e meravigliosa. Negli ultimi giorni avevo ripensato molto a quella lettura che un tempo mi appariva così lontana, con buone probabilità non sarebbe trascorso molto tempo prima che anch’io potessi avere un incontro ravvicinato con quello strano fenomeno; l’unica differenza era che nel mio caso difficilmente avrei potuto raccontarlo a qualcuno. Sapevo che il giorno della mia morte poteva non essere così lontano. Il dilemma che mi attanagliava era valutare se fosse giusto impiegare il periodo che mi divideva da esso trasformandomi in una specie di cavia da laboratorio, o se valesse la pena inseguire disperatamente la speranza di sopravvivere qualche anno in più, prendermi quel poco di tempo che mi restava e godermelo fino all’ultimo respiro. Il 12
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mio istinto mi guidava verso quest’ultima ipotesi, a discapito di ciò che si definirebbe un giudizio assennato! Probabilmente dentro di me si era già innescato un processo di radicale cambiamento, senza che la mia coscienza se ne fosse accorta fino in fondo. Sentivo di provare un disgusto sempre maggiore verso il “ben pensare” indottrinato dal sistema, il quale aveva ponderato bene di trovarsi un degno sostituto alla religione per manipolare le masse: la cosiddetta “scienza”. Essa, però, a differenza della sua mistica collega, agisce in maniera molto più sottile e, se pur subdola, alquanto affascinante. Non si può che osservare con ammirazione il modo in cui milioni di persone vengono tenute al guinzaglio, nell’illusione che la strada scelta da altri sia quella che hanno preso da soli. Quando rifletto sul rapporto dell’uomo moderno con la scienza, trovo difficile accettare come la gente vada a cercare nella più materialistica delle discipline la stessa cosa che prima cercava in quella più mistica, ovvero, qualcosa in cui credere. Se la religione nasce dalla propensione dell’uomo ad avvicinarsi al divino, la scienza deriva dall’esigenza di evolvere, per questo non dovrebbero esserci né inquisizioni né salassi. Ossia brutali aberrazioni. Per come la vedo io, di quegli enormi errori fa parte anche la chemioterapia. Immagino già come, tra un certo numero di anni, altezzosi posteri degli odierni fautori di questa cura ne parleranno con disprezzo. Trovo assurdo che nella medicina occidentale si tenda a considerare nemiche le difese naturali del nostro corpo, come per esempio l’infiammazione o la febbre: «Questo raffreddore non mi vuole passare, mi sa che ci vogliono gli antibiotici». Non viene mai da pensare che se non passa è perché serve al nostro organismo, magari un po’ indebolito dalla patologia, come difesa preventiva mentre sta recuperando le forze. Quando penso a queste cose ho sempre una visione: una città feudale che ha subito un assedio non riuscito. I nemici sono ancora accampati nelle vicinanze delle mura, stanchi e decimati, ma le guardie devono mantenere lo stato di allerta e la vita non può ancora riprendere il suo corso. È questione di tempo! Dentro le mura ci si sta 13
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organizzando per tornare alla normalità e gli assedianti non avranno altra scelta che abbandonare l’impresa. Ecco che dal nulla appare una luce accecante, un boato, un calore insopportabile e tutto viene raso al suolo. Il fuoco cancella ogni forma di vita, mentre le radiazioni fanno sì che il nulla permanga per anni. Appena il deserto comincia a rifiorire, arrivano altri espugnatori e stavolta s’insediano indisturbati, perché non trovano nessuno che contrasti l’invasione. La distruzione è servita soltanto a creare una condizione migliore per coloro che ingenuamente si pensava di annientare. Eppure va bene così! E poco importa se si tratta di un enorme inganno mascherato dal concetto di libero arbitrio. La tecnica del divieto è superata da un pezzo! Lo sanno tutti che la nostra natura umana è irrimediabilmente attratta dal fascino del proibito. L’hanno capito per primi gli olandesi che intelligentemente ricavano una buona fetta del PIL dagli introiti di attività che in altre nazioni sono bandite per sciocco bigottismo, finendo per foraggiare le casse della malavita organizzata. A dispetto dei falsi predicatori da talkshow, gli “Orange” oltre ad arricchirsi alla faccia dell’ottusità altrui, vantano una popolazione che rispetto ad altre è molto meno attratta da vizi antichi quasi quanto la nostra civiltà. L’era del grande proibizionismo è passata; ovviamente non mi riferisco alla legge in vigore negli Stati Uniti ai tempi di Al Capone, ma a tutti quei tabù creati dalla nostra società nel corso della storia. Oggi stiamo vivendo l’era della grande apertura. Certe volte ho come l’impressione di assistere al gioco delle tre carte proiettato su scala planetaria. Tutto è accessibile, lo abbiamo davanti agli occhi. Eppure ci stanno imbrogliando. Non sto parlando di teorie del complotto o cose del genere; certo non metto in dubbio che al mondo vi siano gruppi o personaggi con poteri inimmaginabili, però non credo sia tutta loro la responsabilità dei mali di questo mondo. Credo invece che l’umanità sia vittima del suo più grande morbo: la stupidità. Per via di tutta questa utopica libertà, l’individuo è portato a pescare la cosa più buona per se stesso, nel mare più inquinato che ci sia: quello dell’informazione. Il risultato ce l’abbiamo davanti agli occhi. 14
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Dopo svariate riflessioni, giunsi a pormi una domanda: perché mai avrei dovuto barattare gli ultimi due anni della mia vita, ossia qualcosa di concreto di cui ancora potevo disporre, in cambio di un disperato tentativo di correggere un’anomalia del mio corpo attraverso un metodo imperfetto, come l’umanità che l’aveva concepito? E che razza di lavaggio del cervello avevo subito in tutti quegli anni per farmi apparire l’idea di essere squartato in una sala operatoria la scelta più ovvia? Con queste domande che riecheggiavano in testa mi appisolai per svegliarmi a notte inoltrata. 4 Mario Rossi Era trascorso qualche altro giorno di profonde riflessioni. Pensieri sparsi, come parole urlate al vento. Guardai l’orologio, le lancette segnavano le otto di sera. Feci un bel respiro, dilatando il diaframma fino a sentire l’aria invadere ogni centimetro dei miei polmoni. Negli ultimi tempi mi sforzavo di adottare una buona e corretta respirazione. Non che in essa vedessi la mia salvezza, ma secondo molte culture il respiro eseguito nel modo giusto costituiva la base di una buona salute e senza dubbio ne avevo bisogno. Quella sera mi sentivo stranamente euforico; mi trovavo a casa, seduto sul divano, in attesa di una persona con la quale sarei uscito a cena. Non avevo ancora detto a nessuno della mia condizione, anche perché non avevo nessuno con cui parlarne. I parenti più prossimi che mi erano rimasti erano un paio di zii e tre cugini che non vedevo mai. Avevo una relazione con una ragazza da quasi un anno, Laura, ma per quanto mi riguardava si trattava poco più che di soddisfare i miei istinti. Nonostante ciò, stavo pensando che in caso di morte parte dei miei averi sarebbero passati a lei (legalmente ciò è possibile solo in presenza di una volontà testamentaria). Non possedevo una gran fortuna, tutto il mio patrimonio era costituito da due immobili e un conto in banca che probabilmente non mi avrebbe fatto essere il più 15
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ricco del cimitero. Ero il classico esempio di individuo appartenente al ceto medio, ed era così che esteriormente mi sentivo: un mediocre. Osservandomi da fuori la mia posizione sociale non si smentiva, se ci fosse stata una sorta di lancetta con una scala di valori collegata a uno strumento capace di una simile misurazione, il risultato sarebbe stato ovvio. Intimamente avevo sempre creduto di poter diventare qualcosa di più. O forse mi sentivo davvero così. Ancora oggi non posso dire di essere giunto ad avere una visione chiara in merito. L’unica certezza è che la parte sommersa del mio Io non collimava affatto con quella in superficie. Ho investito gran parte della mia vita a cercare di apprendere nuove nozioni, fare un sacco di esperienze, praticare corsi e diverse discipline. Sono curioso e ogni volta che mi è capitato tra le mani un testo che trattava di un tema del quale ero ancora all’oscuro, finivo per aggiungerlo alla mia libreria. Difficilmente parlavo con qualcuno di un argomento senza averne almeno un’infarinatura generale. Tutto questo mi gratificava, era la parte di me che preferivo, quella che mi rendeva fiero agli occhi del mondo. Anche se lui se ne frega di chi e di come diavolo sei. Quelli che crediamo essere i suoi occhi non sono altro che i nostri. Se accettassimo tutte le verità delle quali siamo consapevoli, la vita su questo pianeta ci apparirebbe come un misto fra l’inferno dantesco e la novella di Don Chisciotte; perciò anch’io, come gran parte di tutti coloro che non sono chiusi in qualche manicomio, m’illudevo consapevolmente. Circa duecentoventi mattine all’anno! E ogni illusione, sogno, aspirazione, o sete di emancipazione sbatteva violentemente contro il muro della realtà, disintegrandosi in mille pezzi. E ogni volta che mi guardavo allo specchio leggevo sempre la stessa amara realtà: ero un rappresentante. Ho sempre avuto una pessima opinione riguardo al ruolo degli intermediari, poiché anche se esistono dei veri professionisti del settore, è uno dei migliori rifugi per gli incapaci. Infatti, tale attività non richiede particolari competenze, una vera pacchia per chi possiede l’inutile dote di non saper far nulla! 16
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Finalmente udii il suono del campanello che annunciava l’arrivo di Laura. Le dissi di salire e quasi me ne pentii. Considerato il ritardo, avrei dovuto raggiungerla fuori. Da diversi giorni ero in astinenza sessuale e trovarmi in casa da solo con lei significava rischiare una sosta prolungata e non programmata sulla prima superficie agibile dell’appartamento. Dopo che Laura ebbe varcato la soglia, capii che oppormi agli istinti primordiali non sarebbe servito a nulla. Se Laura non avesse manifestato qualche cenno di diniego, si sarebbero aperte le porte di un intenso piacere carnale. E così fu. Laura non era quel tipo di donna che ti fa rischiare un incidente se la guardi ancheggiare sul marciapiedi mentre guidi. Era piuttosto una di quelle bellezze che scopri a poco a poco e che riesci ad apprezzare fino in fondo solo dopo un po’ di tempo. La conoscevo da diversi anni, ma non ricordo la prima volta che la vidi. Devo ammettere che per molto tempo il suo sex appeal mi ha lasciato indifferente. Ovviamente questo non vuol dire che avrei esitato a portarmela a letto, se mai se ne fosse presentata l’occasione! Era raro che mi negassi a una donna che mostrasse interesse nei miei confronti; tuttavia Laura non prese parte ai miei immaginari spettacoli erotici per diverso tempo. Ma negli ultimi due anni in lei qualcosa cambiò, o forse era in me che ci fu un cambiamento. Fatto sta che all’improvviso si unì alle protagoniste delle mie fantasie più nascoste. Era di media statura, con forme prosperose e sexy, ma agli occhi di un’altra donna sarebbe apparsa grassa. Aveva i capelli castano chiaro, la bocca carnosa e gli occhi di colore marrone che proiettavano uno sguardo intenso e vivace. Le sue mani erano belle e quando mi accarezzava erano delicate quanto un petalo di rosa. Molto probabilmente il fatto che prima di me avesse una storia sentimentale in corso le donava una sorta di fascino del proibito. Una sera, mentre stavamo bevendo un aperitivo a casa di amici, con una gamba sfiorai per sbaglio il suo piede nudo. Invece di ritrarci rimanemmo in quella posizione di apparente indifferenza. D’un tratto, non so se a causa dei fumi dell’alcol o della pulsione che sentivo 17
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invadermi, le presi in mano il piede con la scusa di praticarle un massaggio e lo carezzai in modo sensuale. Adoro i piedi femminili e i suoi erano bellissimi! Sapevo che il suo compagno di allora non avrebbe approvato, ma non mi interessava. Quando più tardi ci alzammo feci in modo d’incontrarla nell’angolo più appartato della casa e, senza perdere tempo, la baciai appassionatamente. La volevo e me la presi. Restammo insieme i successivi due giorni estraniandoci da tutto e da tutti. I nostri corpi giacquero assieme su sabbia e lenzuola e per la prima volta provai l’emozione di togliere i veli che ricoprivano un desiderio bramato da tempo. Uscimmo di casa che erano le dieci passate. Sapevo che a quell’ora le cucine del ristorante dove avevamo pensato di cenare erano prossime alla chiusura. Così salimmo in auto e optammo per una pizza. 5 Mario Rossi Osservavo Laura mentre se ne stava seduta dall’altra parte del tavolo della pizzeria narrandomi le vicende di una sua amica che aveva problemi con il fidanzato. Il locale era una specie di piccolo capannone, i muri, gli arredi e le tovaglie erano dello stesso colore avorio. Non c’era neppure una luce elettrica, ma l’ambiente era illuminato a sufficienza da decine di candele sparse qua e là. Dal soffitto pendeva un’eccentrica istallazione formata da migliaia di scatolette di tonno vuote, incollate insieme in una sorta di scultura simboleggiante un enorme pinne gialle. A qualche metro di distanza osservai un toro gigantesco, realizzato con innumerevoli confezioni di carne in scatola e cercai di scacciare dalle mie orecchie il brusio delle chiacchiere futili di Laura. Di tanto in tanto la guardavo, fingendo di ascoltarla. L’inutilità di quella situazione mi fece tornare in mente i problemi di salute. Avvertii una stretta allo stomaco che rinverdiva la naturale paura della morte. Subito dopo piombai nella malinconia e poi nel panico. Tornando a casa il malessere si attenuò e quando giunse il 18
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momento di coricarmi ero più sollevato. Ero a un passo dalla decisione che avrebbe significato una specie di soluzione ai miei problemi. La mattina seguente mi svegliai presto, rimasi nel letto e con gli occhi giocai con i fasci di luce che s’infiltravano dai buchi della persiana. Laura stava ancora dormendo. Non vivevamo insieme, ma spesso, dopo il sesso, si fermava a dormire da me. Di colpo ebbi chiara la mia decisione: non mi sarei fatto smembrare da quei macellai, né mi sarei fatto inquinare i fluidi corporei con i loro veleni. Se due anni erano quanto mi restava da vivere, li avrei trascorsi alla grande! Avrei fatto tutto quello che avevo sempre desiderato! Basta rinunce. D’un tratto tutto mi apparve di un colore diverso. Quella che fino ad allora era per me la peggiore delle disgrazie, di colpo aveva quasi il sapore di un’opportunità. Sono infinite le cose da poter fare in una condizione del genere ed è impossibile descrivere come la vita possa mutare, stravolgendo uno solo dei fattori che la dominano: la paura della morte! Da un lato ero terrorizzato dalla certezza del suo imminente arrivo e dall’altro non temevo più di poterla incontrare. Mi veniva da sorridere pensando alle implicazioni e ripercussioni di eventuali gesti estremi che fino al giorno prima non avrei neppure pensato di poter fare. Ero così eccitato e impaziente di cominciare la mia nuova vita che per smorzare un po’ i toni fui costretto a svegliare Laura. E prima che si rendesse conto della situazione stava già subendo il mio impeto. Dopo un’abbondante dose di buon sesso, Laura se ne andò al lavoro. Faceva la maestra in una scuola materna; questo era più o meno tutto ciò che sapevo riguardo alla sua vita professionale. Ogni tanto aveva tentato di intrattenermi con alcuni aneddoti sulle sue giornate, ma il mio interesse era stato così misero che dopo un po’ ci aveva quasi rinunciato. L’unica domanda che le posi a riguardo fu il giorno che la portai a letto per la prima volta: «Che cosa fai nella vita?». Glielo chiesi non perché m’importasse davvero saperlo, ma giusto per darle una collocazione sociale e mostrare un minimo di educato interesse. A dire il vero avevo compreso da tempo che Laura non sarebbe stata l’amore della mia vita; era senza dubbio una brava persona con grandi qualità. Era dolce e paziente come le casalinghe d’altri tempi, 19
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mentre a letto sapeva trasformarsi in un’amazzone priva del senso del peccato. E il suo corpo formoso diventava uno strumento di piacere che mi si arroventava fra le mani. Oltre a queste lodevoli virtù non c’era altro in lei che mi piacesse. I pranzi e le cene insieme erano patetici monologhi di Laura, o scene di cinema muto. Eravamo due mentalità agli antipodi. Lei s’interessava seriamente a quel che succedeva nel mondo “reale”, mentre io lo facevo soltanto per un immotivato senso del dovere. Era attratta da tutta la parte superficiale di questa esistenza terrena, della quale, a quel punto me ne rendevo conto, non facevo più parte. Per anni mi ero stupidamente sforzato di vivere in quel mondo per allinearmi alla banalità dei suoi abitanti che un tempo consideravo persino affascinanti. In passato avevo riflettuto più volte che forse sarebbe stato il caso di interrompere la relazione con Laura, ma fino a quel momento ero stato troppo abulico per affrontare la sua reazione. Era tempo di cambiare. Avrei dovuto parlarle della mia malattia e usarla come pretesto per allontanarla dalla mia nuova vita, nella quale non ci sarebbe stato più spazio per la sua statica presenza. 6 Mario Rossi Ormai ero deciso a troncare la storia con Laura, ma non l’avrei rivista prima di qualche giorno. Mi armai di carta e penna e annotai tutte quelle cose che volevo estromettere dalla mia nuova vita. Prima di macchiare d’inchiostro la cellulosa e dar forma ai miei pensieri, andai in camera da letto, dove avevo un cassettone d’epoca sul quale tenevo i miei effetti personali, afferrai il cellulare e tornai in soggiorno. Feci un bel respiro colmo di gioia, come in quelle mattine in cui ci si sveglia riposati e aprendo la finestra affacciata su un campo di lavanda viene spontaneo pensare: che bella giornata! Guardai ancora una volta quell’antipatico oggetto e con tutta la forza che avevo lo scaraventai contro la parete. Andò in mille pezzi. 20
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Raccolsi i resti dal pavimento, misi da parte la SIM card, nel malaugurato caso che avessi avuto bisogno di recuperare il numero di qualcuno e andai in garage. In un angolo conservavo l’incudine appartenuta a mio nonno che in vita era stato un fabbro. Con la gioia di un bimbo alle prese con un nuovo gioco, vi appoggiai sopra i resti del telefono, presi un mazzuolo dal banco degli attrezzi e con immenso piacere disintegrai quel che rimaneva del collegamento al mio odiato e vecchio lavoro. Tornato in casa, trascrissi su carta ciò che avevo appena sancito con quel gesto di violenza: lavoro. Era la prima voce della mia lista di cose da eliminare. L’obiettivo era di cessare subito l’attività di cui ero titolare e unico dipendente. Questo avrebbe comportato un periodo sabbatico lungo quanto il poco tempo che mi rimaneva da vivere. Dovevo monetizzare in fretta tutto ciò che potevo. Per prima cosa, dovevo alienare il fax, la fotocopiatrice, le altre attrezzature dell’ufficio e il cespite principale, un immobile commerciale di circa ottanta metri quadrati. Scrissi l’annuncio nei siti di vendita online e offrii sottocosto lo stabile a qualche agenzia di Real Estate, in modo da liberarmene il più in fretta possibile. Andai a capo tracciando una lineetta per evidenziare il punto successivo: Laura era senza dubbio la seconda cosa da eliminare. Dopo alcune riflessioni, decisi che non le avrei parlato delle mie condizioni di salute. Se l’avessi fatto non sarei più riuscito a scrollarmela di dosso. Oltretutto, nella fase terminale della malattia si sarebbe senz’altro offerta di accudirmi e io non lo volevo! Non dopo il modo in cui avevo vissuto il rapporto. Non sarebbe stato giusto nei suoi confronti permetterle di sacrificarsi. Non accettavo l’idea che un giorno avrei finito per farle pena. Realizzai che la cosa giusta da fare era sparire dalla sua vita. Non me la sentivo di affrontare un dialogo straziante, la cui unica utilità sarebbe stata di rendere ancora più patetica la dura e irremovibile realtà. Non avendo più il cellulare, le scrissi tre righe in un biglietto, comunicandole la fine della nostra relazione. Per dare un taglio ancora più netto a questa e alle altre cose che riguardavano i miei vecchi canoni di esistenza, decisi che avrei dovuto 21
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trasferirmi. Cambiare aria. Fu così che scrissi la terza parola sul mio foglio: residenza. Questo prevedeva anche la vendita della casa in cui vivevo, nella stessa modalità dell’ufficio. Rimasi a riflettere per un po’ senza aggiungere altro alla mia lista, poi piegai il foglio e lo riposi in una borsa assieme alla biancheria, qualche vestito e altri oggetti personali. Avevo deciso di uscire e volevo essere preparato all’eventualità di non fare ritorno per la notte. Indossati un paio di stivali e un giubbotto di pelle, scesi nuovamente in garage, inforcai la mia moto, una MV Augusta, e partii in direzione nord ovest. La mia casa di allora si trovava a Prato, nel centro-nord della Toscana, luogo che aveva fatto da scenario ai miei primi quarant’anni di vita. Quando percorrendo l’autostrada A11 mi trovai a costeggiare la riviera della Versilia, il tachimetro sfiorava i trecento chilometri orari; se avessi proseguito per quella rotta mi sarei presto trovato a varcare il confine con la Liguria. Non avevo idea di dove stessi andando, né di dove volessi andare. Appena avvistai la prima uscita, l’impianto frenante fu messo a dura prova da un’impressionante decelerazione, mentre i pneumatici mordevano voracemente l’asfalto del raccordo di uscita. Un paio di minuti più tardi varcai le porte della città di Massa alla ricerca di un ufficio postale, dove poter imbucare la busta contenente il messaggio per Laura. Quando riconobbi una cassetta rossa appesa al muro, mi fermai e introdussi il plico nell’apposita fessura. Non ho mai saputo se Laura avesse letto le mie parole, poiché da allora non ho mai più avuto sue notizie. Ripresi a percorrere la mia rotta ignota. Imboccata nuovamente l’autostrada percorsi un chilometro con la moto impennata sulla corsia d’emergenza alla velocità di duecento chilometri orari, tra le auto e lo stupore degli altri conducenti. Dopo circa cento chilometri decisi di cambiare scenario e cercare una strada di montagna dove, oltre a dilettarmi nel piegare la moto in curva fino a sfiorare le ginocchia, avrei potuto scovare un posto gradevole per trascorrere la notte. 22