La vera storia di Dorian Gray

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Vincenzo Lagioia

La vera storia di

Dorian Gray una biografia di epoca vittoriana

Introduzione Cesarina Casanova Prefazione Timothy Radcliffe

Minerva Edizioni


Ritratti Collana

La vera storia di Dorian Gray una biografia di epoca vittoriana

Vincenzo Lagioia

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Grafica di copertina: Luca Decembrotto L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli. Lo stesso resta a disposizione per gli eventuali aventi diritto. Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright.

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“Molte persone entreranno ed usciranno dalla tua vita, ma soltanto i veri amici lasceranno un’impronta sul tuo cuore!” E. Roosevelt

a Cesarina Casanova Maestra e Amica



Gratia perficit naturam*: la grazia perfeziona la natura!

Credo fosse durante l’anno giubilare del duemila e ricordo che da studente domenicano, iscritto al corso di laurea in Lettere, dovevo preparare l’esame di Lingua e letteratura inglese con un programma monografico sul movimento estetico e preraffaellita. Mi dedicai completamente allo studio della letteratura vittoriana passando in rassegna tutti gli scrittori dell’epoca: le Brontë, Robert Browning, Elizabeth Barrett Browning, Edward BulwerLytton, Lewis Carroll, Wilkie Collins, Joseph Conrad, Charles Dickens, Benjamin Disraeli, George Eliot, Elizabeth Gaskell, George Gissing, Thomas Hardy, Alfred Edward Housman, Rudyard Kipling, Edgar Allan Poe, George Bernard Shaw, Robert Louis Stevenson, Alfred Tennyson, William Makepeace Thackeray, Anthony Trollope, Herbert George Wells, Oscar Wilde, Arthur Conan Doyle. Proprio sfogliando una biografia dell’autore de Il ritratto di Dorian Gray, rimasi colpito dalle bellissime foto e immagini curate da un nipote del poeta irlandese. Ecco, una in particolare mi colpì, era quella di John Gray. Mi colpì * «Gratia non tollit naturam, sed perficit», Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, I, 8 ad 2.

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perché sotto la fotografia c’era scritto: «per gentile concessione del reverendo Brocard Sewell, e del Reverendo Bede Bayley o.p., St Dominic’s Priory». Cosa c’entrava mai John Gray con padre Sewell e con il Priore di San Domenico padre Bayley? Pieno di curiosità telefonai subito a un caro amico quale era ed è Timothy Radcliffe per chiedere spiegazioni. Timothy mi disse che Gray, dopo il periodo della decadenza e soprattutto dopo il processo di Wilde, era andato via dall’Inghilterra, era stato ordinato prete della Chiesa Cattolica, era ritornato questa volta in Scozia, era diventato parroco in Edimburgo, aveva vissuto santamente, insieme al suo amico e poeta André Raffalovich, si era fatto terziario domenicano, aveva lavorato affinché i domenicani fossero presenti a Edimburgo e morendo aveva lasciato tutto (molti soldi, data la ricchezza di Raffalovich) alla Provincia Domenicana d’Inghilterra. La storia mi appassionò e presi contatti con l’archivista della Provincia Domenicana Inglese; dopo qualche mese ero in possesso di numerose fotocopie di lettere di Gray prese dall’archivio di Provincia e oggi possedute dalla Biblioteca Nazionale Scozzese. Sono passati più di dieci anni e finalmente ho deciso, dietro la spinta di numerosi amici, di scrivere e far conoscere la storia di chi un tempo fu Dorian Gray. Più che la natura può la grazia! Nella vita del poeta John Gray, la Grazia divina riempì di senso una storia “decadente”. La ricerca di affermazione sociale, l’iniziazione nei circoli letterari, la pubblicazione delle sue poesie, 6


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l’amicizia con il vate irlandese Oscar Wilde: sono questi momenti dell’esistere di un uomo in ricerca che, consacrandosi a Dio, sente la pienezza e la serenità che da sempre aveva cercato. Questo ho voluto raccontare, questo presento: la storia dell’uomo che fu Dorian Gray. Una biografia di epoca vittoriana.

V. L.

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Prefazione di Timothy Radcliffe

Questo libro del mio amico e fratello Vincenzo Lagioia presenta ai lettori italiani un personaggio poco conosciuto per loro ma, al contrario, noto nell’ambiente letterario inglese soprattutto per le vicende che lo legarono alla figura del molto più celebre Oscar Wilde e delle sue vicissitudini processuali. Per quale motivo una mia prefazione? Credo ce ne sia più di uno. Il primo è che me lo ha chiesto Vincenzo al quale mi è impossibile dire di no; il secondo è che consiglio la lettura perché raffinata, profonda e ricca di informazioni storiche. L’ultimo è perché John Gray era terziario domenicano, amico e collaboratore dei blackfriars di Edinburgh, in particolare molto legato al primo priore p. Essex e, inoltre, un grande benefattore del nostro Ordine. Amico dello scrittore André Raffalovich, anche lui terziario domenicano, di origine ebrea e molto ricco, che fu vicino al canonico John Gray impegnandosi nella costruzione di una chiesa, St. Peter, dove Gray fu parroco fino alla morte lasciando ai domenicani inglesi tutta la sua eredità. È una bellissima storia che si muove tra spiritualità e letteratura, tra grazia e natura. Una natura sicuramente ferita alla quale la grazia ha portato soccorso e aiuto, facendo di Gray un sacerdote vicino alla sofferenza e al popolo affidatogli. Un’affettività rigenerata e una castità provata 9


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nei periodi in cui la ricerca di senso dominava la sua vita. La prima cosa alla quale noi siamo chiamati è credere che il voto di castità può veramente essere una maniera di amare; quando avremo passato anche dei momenti di frustrazione e di desolazione, avremo fatto un cammino che può farci essere ricchi di affetto e pienamente umani. Si incontrano spesso sulla nostra strada delle persone che sono fortemente provate nell’affettività e nella maniera di amare. Possono essere questi dei segni evidenti che nulla è impossibile a Dio. Entrare in un amore libero e non possessivo è faticoso e ha bisogno di tempo. Nel nostro cammino potremmo incontrare degli ostacoli e scoraggiarci. Noi sappiamo – e la storia di Gray lo insegna – che proprio i momenti di allontanamento e di infedeltà possono fare luce sulla strada che dobbiamo intraprendere perché «noi sappiamo che in tutte le cose Dio opera per il bene di coloro che lo amano» (Rm 8,28). È fondamentale credere nella bontà dei fratelli soprattutto quando loro stessi cessano di crederci! Nulla è più velenoso che il disprezzo di se stessi! Come scriveva Damian Byrne in una lettera sulla vita comune: «mentre il santuario più profondo del nostro cuore è legato a Dio, abbiamo bisogno degli altri. Una parte importante della nostra vita è accessibile agli altri, e richiesta da loro. Ognuno di noi ha bisogno di sperimentare la reale attenzione degli altri membri della comunità, il loro affetto, la stima e l’amicizia. (...) Vivere insieme, questo significa spezzare il pane della nostra mente e dei 10


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nostri cuori con l’altro. Se i fratelli non trovano questo in noi lo cercheranno altrove!». È una scuola di verità, di trasparenza nei rapporti e nelle relazioni, unica strada da percorrere, insieme, e se Dio ce ne fa dono, nell’amicizia, forma altissima di amore! A volte il percorso verso una vera libertà e integrità del cuore ci chiederà di passare attraverso la valle della morte che si manifesterà sotto forma di sterilità e frustrazione. Questo passaggio è possibile senza la preghiera? Se da un lato c’è la preghiera comunitaria, dall’altro c’è quella silenziosa e privata, che ci mette faccia a faccia con Dio, attraverso degli istanti di verità inevitabile e di un perdono straripante. È in questi momenti che possiamo imparare la speranza. San Domenico stesso, quando camminava, invitava a volte i suoi frati ad andare avanti a lui in modo da poter restare solo a pregare, e in una versione antica delle Costituzioni, Domenico diceva che il maestro dei novizi doveva insegnare ai novizi a pregare in silenzio1. Contrariamente alla percezione dominante di una parte importante della società occidentale, noi non siamo degli esseri autosufficienti e indipendenti. La solitudine rivela che da solo io non posso vivere, io non posso essere. Io non esisto che grazie alle relazioni con gli altri. Solo, io muoio! Questa solitudine rivela un vuoto, una vacuità al cuore della mia vita. Noi possiamo essere tentati di riempirla attraverso una serie di cose, il cibo, l’alcool, il sesso, il potere o il lavoro. Ma il vuoto rimane. L’alcool (o altro) non è che una sete di Dio camuffata. Io suppongo che 11


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non potremmo riempire ugualmente questo vuoto attraverso la presenza degli altri. Un luogo pieno di gente sola non cambia nulla. «L’orrore di questa solitudine si mostra giustamente nel fatto che tutti la condividono, nessuno la può togliere!»2. Quando Merton si innamorò, scoprì che ciò che lui cercava non era la sua amata, ma una soluzione a ciò che stava al centro del suo cuore. Questa persona era «quella che sceglievo di utilizzare, il nome di una formula magica per rompere la presa della terribile solitudine del mio cuore!»3. Alla fine dei conti, suppongo che questa solitudine non debba essere semplicemente sopportata. Essa deve essere vissuta come un ingresso nella solitudine del Cristo e della sua morte, che porta e trasforma tutta la solitudine umana. «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Se lo facciamo, il velo del tempio sarà strappato a metà e scopriremo il Dio che è al cuore del nostro essere, dandoci in tutti i momenti l’esistenza: «Tu autem eras interior intimo meo!». «Tu sei vicino a me più di me stesso»4. Se noi prendiamo su noi stessi la croce della solitudine a camminiamo con lei, ci sarà rivelato che la percezione moderna di noi stessi non è esatta. La più profonda verità su di noi è che non siamo mai soli. Nel fondo del mio essere, Dio mi dona abbondanza di vita. Santa Caterina si descriveva nel Dialogo come: «all’interno della cella della conoscenza di sé, per conoscere meglio la bontà di Dio». 12


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La profonda conoscenza di se stessi non rivela l’io solitario dell’era moderna ma qualcosa la cui esistenza è inseparabile da Dio che ci accorda la vita in ogni istante. Se noi possiamo entrare in questo deserto e qui incontrare Dio, noi diventeremo liberi di amare senza possessività, liberamente, senza dominare e manipolare. Noi potremo guardare gli altri non come delle soluzioni ai nostri bisogni o delle risposte alla nostra solitudine, ma semplicemente per essere felici! «State dunque saldi e non vacillate di fronte al vuoto». È ai piedi della croce, là dove Gesù dona l’uno all’altro, sua madre e il discepolo che egli amava, che nasce la comunità della Chiesa. Quando ho messo in contatto Vincenzo con il nostro archivista di Provincia fr. Beda, ha scritto una relazione su mons. John Gray che non era un’apologia ma l’immagine di un uomo che si era fatto voler bene dai suoi parrocchiani, che aveva lavorato per il Regno, che non amava molto parlare del suo passato perché come qualcuno ci dice: «Ecco faccio nuove tutte le cose!». La solitudine di cui ho parlato è stata più volte sperimentata dal canonico di St. Peter’ Church, e la via al sacerdozio, lungi dall’essere una fuga, è stata una scelta consapevole e vissuta in pienezza. Non tutti sono chiamati a questo, ma tutti sono chiamati ad amare e a imparare a farlo e io sono convinto che l’unica maniera per farlo è imparare da Cristo. Questo è ciò che racconta Vincenzo Lagioia attraverso le belle pagine di questo libro. La storia di un uomo come 13


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tanti, che ha percorso tante strade, qui raccontate, e che è arrivato a una serenità che è quello che ogni uomo in fondo vuole. E inoltre è la storia di un’amicizia tra lui e il poeta e scrittore ebreo André Raffalovich che lo tolse da Wilde e lo aiutò, camminando con lui, a vivere la sua vocazione. Amore, amicizia, pienezza di vita sono le parole chiave del libro, che vuole, in maniera documentata, raccontare una storia, vera, profonda, di fine Ottocento in epoca vittoriana.

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Introduzione di Cesarina Casanova

Francesco Gnerre, nell’introduzione a un’antologia di racconti di omosessualità maschile, cita una bellissima frase di Marguerite Yourcenar: «Appare evidente come, di generazione in generazione, le tendenze e gli atti differiscano ben poco; ciò che invece cambia è l’estensione della zona di silenzio che li circonda e lo spessore degli strati di menzogna che li comprimono»4. Questo silenzio sembra squarciarsi nel secondo Ottocento; è vero che anche nei secoli precedenti l’amore omosessuale era stato presente nella narrativa, ma quasi sempre dissimulato: quelli che la Yourcenar definisce «zone di silenzio» e «strati di menzogna» hanno prodotto delle incrostazioni tenaci sulle quali sono cresciuti nel tempo pregiudizi e fraintendimenti o vere e proprie persecuzioni dei “diversi”, a loro volta tormentati da sensi di colpa, incapacità di accettare la propria identità e di vivere liberamente la propria sessualità. Questo malgrado il fatto che, dalla metà del XIX secolo, si fosse fatto strada prepotentemente, nelle coscienze di molti, il disagio di interpretare ruoli e comportamenti di facciata che si adeguavano a cliché culturali resi coattivi da una politica ottusamente repressiva, la quale imponeva senza alternative scelte affettive ed erotiche solo tra soggetti di sesso opposto. 15


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Artisti e intellettuali di ambo i sessi iniziarono a fare i conti con la loro difficoltà a riconoscersi nell’obbligatorietà di scelte “per natura”, determinate solo dai propri attributi anatomici anche se coinvolgevano la persona nella sua totalità. Si verificò per molti la presa di coscienza della propria identità, “diversa” per la morale dei benpensanti e, in Inghilterra, per il bigottismo dell’età vittoriana, raramente da esibire (come avrebbe osato fare in Francia Roger Peyrefitte), ma da coltivare in cenacoli esclusivi di artisti e letterati e da sublimare in un rinnovato culto della bellezza e dell’ethos classico; inoltre, salvo rare eccezioni, le opere di molti autori tradivano un tormento interiore che impediva loro di affermarsi alla luce del sole, e che li costringeva anzi ad accettare spesso il compromesso di un matrimonio di facciata. Spesso questo passaggio fu doloroso per molti che furono costretti a lasciare, come Walter Pater, che per tutta la vita l’amore rimanesse sempre «tragicamente inespresso» e vissuto come un dramma personale il quale non poteva che essere sublimato nell’immaginario artistico. Solo conforto, per Pater, la sua religiosità, che Mario Praz ha definito «apostolato estetico». Pater frequentò assiduamente il priorato anglo-cattolico di Saint Austin, fondato da padre Nugée e certo fu attirato così vicino al cattolicesimo dalla ritualità sentimentale e dalla bellezza degli apparati della liturgia, che trovavano maggiori consonanze con la sua sensibilità rispetto alle sobrie pratiche devozionali della Chiesa anglicana “bassa”. «Comunque, che egli amasse frequentare le cappelle come quella di Brasenose College, ove 16


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assisteva al servizio divino con grande raccoglimento, e le chiese dove il rito era particolarmente solenne, è un fatto certo». Tuttavia Pater a Oxford non si indirizzò al sacerdozio, ma «a quell’apostolato laico che è l’insegnamento»6. Dopo di lui John Gray avrebbe decisamente scelto la Chiesa di Roma, e avrebbe finito per diventarne un ministro, apparentemente risolvendo il conflitto fra fede e natura meglio di Pater, il quale lo ha stemperato in fantasie estetiche morbose, ritraendo immagini di languore e di morte, descrivendo la bellezza di giovani corpi morti ancora intatti e di adolescenti androgini di entrambi i sessi. Tutti i suoi personaggi appartengono a epoche remote o a luoghi immaginari, a periodi di transizione, tentano di rappresentare la sua tensione alla conciliazione fra la filosofia classica e la religione cristiana: «Platone gli insegnava che il bello era il buono, ma una tenace tradizione puritana gli additava il bello come l’insidia del Maligno»7. Proust ha descritto la maledizione di chi appartiene «alla razza di quegli esseri [...] il cui ideale è virile appunto perché hanno un temperamento femminile, e che nella vita sono soltanto in apparenza simili agli altri uomini. [...] Razza su cui grava una maledizione, e costretta a vivere nella menzogna e nello spergiuro, poiché sa come sia reputato colpevole, inconfessabile e vergognoso il suo desiderio [...] costretta a rinnegare il proprio Dio perché, anche se cristiani, quando alla sbarra del tribunale essi compaiono come accusati, devono, dinanzi al Cristo e nel suo nome, difendersi come da una calunnia da ciò che è la loro vita stessa»8. 17


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Un contrasto e un tormentoso senso di colpa destinato a durare a lungo, non solo in Inghilterra e in Francia, ma soprattutto nella cattolica Italia. Francesco Gnerre ha affermato che, fino a tutta la prima metà del Novecento e oltre, «anche quando l’amore omosessuale diventa nell’immaginario un amore possibile [...] al processo di liberazione che è avvenuto a livello di creazione artistica non è corrisposto spesso il coraggio di rendere pubblica questa “liberazione”; anzi ci troviamo di fronte ad una sorta di rimozione della liberazione, come testimoniano le lettere di Settembrini alla moglie a proposito del suo I Neoplatonici pubblicato 150 anni circa dopo la sua stesura, quelle di Saba alla figlia a proposito di Ernesto e l’abbandono in un cassetto di Amado mio di Pasolini pubblicato sette anni dopo la morte dello scrittore»9. Lo stesso Pasolini confessava in una lettera del 1950 di aver «sofferto il soffribile. Non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro»10. Ma da dove si deve partire per trovare un filo conduttore che serva a delineare il contesto della vicenda di Gray e a comprendere la portata, per uomini e donne omosessuali, della svolta ottocentesca, partendo da fonti storiche e 18


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non da una periodizzazione metastorica che attribuisca a una tradizione senza tempo e a un dato di natura la condanna dell’omosessualità? È un luogo comune far risalire alla cultura e all’etica giudaico-cristiana la condanna dell’omosessualità come peccato11, ma la ricerca storica e antropologica ha dimostrato che anche le prescrizioni sessuali sono costruzioni sociali e culturali che nel tempo sono cambiate e non hanno seguito un andamento progressivo e lineare; quindi debbono essere contestualizzate e studiate in relazione al loro manifestarsi, come qualsiasi altro fenomeno prodotto dalle aggregazioni umane12. In una minuziosa ricerca storica e filologica, pur con qualche forzatura, Irene Zavattero ha messo efficacemente in discussione tutti i passi delle Scritture sui quali si è fondata la cultura omofobica del popolo ebraico, che li distanziava certamente da altre culture le quali – come ad esempio quella egizia – non discriminavano allo stesso modo i comportamenti sessuali, attitudine che il cristianesimo avrebbe poi accolta, individuando in vari passi del Vangelo e degli Atti degli apostoli la condanna di ogni deviazione dalla “norma” della coppia eterosessuale13. Tuttavia, anche quello che sembra scagliarsi più inequivocabilmente contro ogni forma di pratiche sodomitiche, cioè Genesi 19, è sembrato passibile di interpretazioni diverse. «Dal 1955, gli studiosi moderni [...] hanno sempre più insistito sul fatto che i riferimenti sessuali nella storia sono secondari, se presenti, e che l’originale significato 19


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del passo riguardava l’ospitalità. Questa città [Sodoma] era diventata un simbolo del male in dozzine di passi, ma in nessun punto questi peccati vengono esplicitamente identificati con il comportamento omosessuale. […] I libri deuteronomici identificano normalmente il peccato come superbia e inospitalità (ad es. Sapienza 19,13-14). L’Ecclesiaste 16,8 dice che Dio odiava i Sodomiti per il loro orgoglio e Ezechiele 16,48-49 ne elenca i peccati: “Ecco questa fu l’iniquità di tua sorella Sodoma: essa e le sue figlie avevano superbia, ingordigia, ozio dolente, ma non stesero la mano al povero e all’indigente; insuperbirono e commisero ciò che è abominevole dinanzi a me: io le vidi e le eliminai”. Unicamente nel Nuovo Testamento (Pietro 2; Giuda) viene sostenuto che il peccato di Sodoma è connesso in tutti i sensi con le pratiche omosessuali. Ma queste parti più recenti del Nuovo Testamento sembrano indicare il peccato come una “trasgressione di ordini” tra esseri umani e angelici»14. Anche se si accetta questa interpretazione, è comunque difficile non riconoscere l’esplicita e decisa condanna della sessualità omoerotica nel Levitico (18, 22 e 20, 13) che in entrambi i passi vi fa riferimento come a un «abominio», benché la Zavattero citi saggi nei quali si sostiene che tale invettiva avrebbe come «scopo manifesto di fondare un sistema di “purezza” rituale per mezzo del quale gli ebrei si sarebbero distinti dai popoli vicini» perché fra di loro i rapporti omosessuali non sarebbero stati frequenti. La stessa studiosa ammette peraltro che questo «non attenua 20


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i toni che il testo biblico usa nella condanna delle pratiche omosessuali». Dunque il Levitico avrebbe indicato agli Ebrei che fra gli obblighi che conseguivano dalla loro condizione di popolo eletto doveva esserci anche quello di osservare una morale sessuale diversa da quella degli idolatri. Nel Nuovo Testamento (Matteo, 10, 15), Cristo dice agli apostoli che se ci fosse stata una città nella quale non avessero trovato nessuno pronto a convertirsi, nel giorno del giudizio il paese di Sodoma e Gomorra sarebbe stato trattato «meno severamente di quella città»15, tenendo viva una speranza di salvezza. Un’aperta condanna della sodomia è espressa dall’apostolo Paolo, le cui parole sembrano inequivocabili, sia quando si scaglia contro uomini e donne che si sono abbandonati a «passioni infami» e a «rapporti contro natura» e che debbono sottostare alla «punizione che s’addiceva al loro traviamento» [Romani I, 26-27], sia quando esclude «effeminati» e «sodomiti» dalla salvezza eterna [1, Corinzi 6, -10] sia quando, nella prima lettera a Timoteo, parla di «pervertiti» da sottoporre ai rigori della legge [1, 9-10]. Soprattutto la citazione dell’epistola ai Romani costituisce «la maggiore argomentazione del Nuovo Testamento contro l’omosessualità in quanto intrinsecamente immorale»16. È stato tuttavia sostenuto che considerare i riferimenti di S. Paolo «agli eccessi dell’incontinenza sessuale implicanti comportamento omosessuale» come espressione «di una posizione generale contraria all’erotismo omosessuale è tanto infondato quanto il ritenere che la sua condanna 21


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dell’ubriachezza implichi il divieto di bere vino. Al massimo, l’effetto delle Scritture cristiane sull’atteggiamento verso l’omosessualità potrebbe essere definito dubbio»17 ma francamente l’argomentazione mi sembra debole. Si è osservato inoltre, con maggiore fondamento, che non fu solo la cultura giudaico-cristiana a stigmatizzare comportamenti sessuali omoerotici, ma che l’idea del fondamento biologico prescrittivo delle pratiche eterosessuali sarebbe stata formulata anche dagli stoici. Secondo McNeill, un altro fattore che svolse un ruolo importante nella tradizione cristiana occidentale fu l’influenza dello stoicismo e, in particolare, la sua interpretazione della legge di natura per quanto riguarda l’etica sessuale. L’assioma fondamentale degli stoici era di “vivere secondo natura”, cioè sottomessi all’ordine del mondo predisposto da Dio, il quale era inteso come ragione e logos diffusi attraverso il cosmo. La ragione, come “anima del mondo”, aveva una precisa interpretazione biologica e la legge di natura era identificata con le leggi biologiche che formano l’universo fisico. Quindi, siccome il mondo doveva essere governato dalla ragione, quelle cose che non avevano un motivo razionale che le giustificasse erano da ritenersi erronee. Fra queste c’era anche l’omosessualità, poiché l’unico motivo “razionale” per avere un rapporto sessuale era la procreazione. Considerazioni morali non molto lontane da quelle di S. Agostino, riconoscibili sia in locuzioni quali «uso na22


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turale» o «contro natura» che, in seguito, portarono alla identificazione della eterosessualità con l’unica sessualità lecita perché “naturale” 18. Ma il vero punto di svolta è la qualificazione della sessualità “diversa” non come peccato – limitato quindi al foro interno, alla coscienza – e quindi sanzionato dalle autorità religiose con atti di penitenza e di purificazione, ma come reato punibile dall’autorità laica come nefas crimen in forme sempre più rigorose, fino all’atroce supplizio del rogo riservato a eretici, streghe e sodomiti e a coloro che si fossero macchiati dell’altro crimine sessuale nefando, e cioè l’incesto. Fu una progressione inizialmente lenta rispetto alle condanne neotestamentarie: si dovette arrivare al 533 perché l’imperatore Giustiniano collocasse tutte le relazioni omosessuali nella stessa categoria dell’adulterio (punibile con la pena di morte) e le sottoponesse per la prima volta a sanzioni. Non solo: in realtà tra il 538 e 544 gli interventi dell’imperatore mirarono soprattutto a spingere coloro che avessero praticato una sessualità “diversa” a cercare il perdono della Chiesa con la penitenza. L’azione di Carlo Magno fu ancora più tollerante e si limitò a emettere un editto che esortava preti e vescovi «a cercare con ogni mezzo di impedire e sradicare questo male», ma non prescriveva nessuna pena ed era solo una ammonizione ecclesiastica. I successivi decreti dei Franchi contro le pratiche omosessuali si basarono quasi uniformemente sui miti provvedimenti di questo editto che non citava alcuna autorità biblica o ecclesiastica tranne un canone del concilio di Ancira [314]19. 23


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Secondo lo studio di Irene Zavattero, che segue una letteratura sul tema ben consolidata, il vero punto di svolta sarebbe stato rappresentato nel 1049 dal Liber Gomorrhianus di san Pier Damiani che, pur essendo rivolto soprattutto contro le pratiche sessuali degli ecclesiastici, costituisce anche per i laici il documento di più esplicita condanna contro l’omosessualità. Lo stesso fondatore del diritto canonico, tuttavia, il monaco e giurista Graziano (vissuto tra l’ultimo quarto dell’XI secolo e la prima metà del XII) aveva qualche dubbio sulle modalità con la quale il peccato di sodomia doveva essere punito. Graziano osservò infatti che, quando il crimine è noto ad altri, o al giudice in quanto uomo, ma non al giudice nell’esercizio delle sue funzioni e in veste ufficiale, è obbligato ad accertare la verità interrogando il sospettato, perché non deve esprimere una sentenza su un crimine che non è stato dimostrato con solidi elementi d’accusa nel corso della procedura processuale. Graziano ammoniva i giudici, citando l’esempio di un “errore giudiziario” di cui era stato testimone, a non essere precipitosi nell’emettere una sentenza e a non condannare nessuno senza prove20. La sodomia, come tutti gli atti sessuali, è però un reato difficile da provare, perché appartiene alla sfera dell’intimità di chi lo compie, che – salvo rare circostanze, dovute a delazione o all’irrefrenabile desiderio di manifestare i propri sentimenti che a volte rende imprudenti gli innamorati – resta lontano dalla curiosità importuna di chi potrebbe testimoniare. Per questo, sebbene stigmatizzato come “immane delitto”, “atroce vitio” e “crimine nefan24


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do” e nonostante fosse considerato da S. Tommaso più grave anche dell’incesto con la propria madre «in quanto va contro il più sacro degli ordini divini: la procreazione» e quindi sovverte l’ordine naturale, la severità delle pene ordinarie – cioè quelle che potevano essere applicate quando non venivano riconosciute attenuanti – spesso rimaneva di fatto inapplicata21. «La cultura giuridica, il crimine di lesa maestà e l’eresia rappresentano una triade che la cultura giuridica e teologica tardo-medievale qualificano con l’attributo nefandum, atti abominevoli e indicibili. [...] Una lunga tradizione dottrinaria – che parte proprio da Pier Damiani e passa per Tommaso D’Aquino – adopera per la sodomia il linguaggio e le metafore utilizzate per l’eresia e l’idolatria. C’è sempre il sospetto che dietro di esse, come dietro la sodomia, si celi l’occulto, il maleficio, la stregoneria, il diavolo. Per questi delitti che minano simultaneamente l’integrità della cristianità e dello Stato (oltre che quella del proprio corpo e di quello degli altri) si impone a partire dal XVI secolo una procedura straordinaria, inquisitoriale, che, anche in assenza di indizi di peso, può estorcere un racconto dettagliato attraverso la confessione anche se estorta sotto tortura»22. Queste affermazioni trovarono una conferma proprio nel Cinquecento, quando la procedura inquisitoriale si trasmise decisamente dai tribunali del S. Ufficio, che operò un drastico giro di vite in concomitanza con la lotta all’eresia, a quelli laici, che adottarono stabilmente per tre secoli l’ordo inquisitorio delle procedure. Di conseguenza 25


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si rafforzò la discrezionalità (arbitrium) dei giudici monocratici che conducevano l’istruttoria, vagliavano le prove e incriminavano gli inquisiti, ma fu poi proprio l’arbitrium a mitigare, anche per gli accusati della “nefanda” sodomia, gli esiti processuali già alla metà del Seicento, quando si ripropose su basi giuridiche rigorose il problema dell’accertamento del corpo del reato in genere e la verifica degli elementi probatori del reato in specie, con la conseguenza che sempre più raramente le terribili pene ordinarie vennero inflitte. Per quanto concerne la sodomia l’Inquisizione romana, a differenza di quella spagnola, non aveva la competenza su tale crimine, perciò all’interno della penisola italiana – a esclusione naturalmente dei luoghi soggetti al Sant’Uffizio spagnolo – il reato di sodomia fu giudicato, con sfumature diverse secondo il luogo, dai tribunali vescovili e da quelli laicali23. Ugo Zuccarello ha studiato un caso di condanna al rogo previa impiccagione, poi commutata per entrambi in decapitazione, del patrizio Ottavio Bargellini e del mercante ebreo Allegro Todeschi, che per molti anni avevano avuto rapporti carnali «nefandissimi». La sentenza non era stata pronunciata dal S. Ufficio ma dal tribunale criminale laico del Torrone, a Bologna. Da questo e altri casi emerge come la sodomia non fosse evento del tutto isolato e occasionale nella vita degli uomini e delle società moderni [cioè dal XVI al XVIII secolo], ma al contrario era una realtà diffusa benché sotterranea e condannata alla clandestinità dalla persecuzione giudiziaria24. 26


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L’autore si sofferma sui numerosi casi di chierici coinvolti in queste pratiche e sul fatto che il tribunale criminale del Torrone che, in quanto soggetto all’autorità pontificia, poteva giudicare anche gli ecclesiastici seguendo una prassi formale che in pratica annullava il privilegio del foro ecclesiastico25, non condannò mai «i chierici inquisiti per sodomia, anche quando contro di loro sono state raccolti indizi gravi e numerosi»26 – ma da una collazione degli elenchi dei condannati a morte risulta l’impiccagione, l’11 dicembre dello stesso 1593, del frate servita Agostino Pilla27. In realtà il numero dei processati e condannati, anche fra i laici, diminuì vistosamente nel corso del tempo. Dal 1540 al 1620 a Bologna vennero pronunciate venti sentenze di morte per sodomia. Tra le vittime, nel 1540 un Mattia N. – il cognome del quale fu omesso – e nel 1541 Pietro Fiorentino furono bruciati vivi; nel 1547 Battista Pizzini fu squartato vivo mentre nello stesso anno il filatogliere Pellegrino28 fu prima impiccato e poi il suo cadavere fu arso. L’apparente tendenza a evitare le feroci pene aggiuntive all’impiccagione è smentita dalla morte sul rogo riservata per pratiche sodomitiche allo sbirro Cornelio Mantovano e ad Anna Todesca, giustiziati nello stesso giorno, il 9 agosto 1567, ma l’anno dopo Antonio di Bernardo della Sambuca fu impiccato. Il 27 maggio 1570 Giacomo N. fu bruciato vivo, ma nella fonte è annotato «per sodomia, e altri dicono per luterano», mentre tutti gli altri furono impiccati. Nel 1610 furono eseguite due sentenze di impiccagione con rogo successivo del cadavere. È l’anno in cui fu pubblicato il famigerato bando 27


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generale del cardinale Benedetto Giustiniani che al cap. XX, Della sodomia recitava: «Perché il vitio nefando della sodomia offende la Divina Maestà, & la Natura insieme, però S.S. Ill.ma vuole, ordina, & commanda, che qualunque maggiore di anni diciotto in qualsivoglia modo ardirà di commettere così enorme delitto, tanto l’agente, come il patiente incorra nella pena della forca & del fuoco [...] Et perché l’indiciare, et provare in tal delitto, è molto difficile, dichiara che il detto dell’agente, o patiente di qualsivoglia sesso, & età ratificato in tortura, si haverà per indicio sufficiente alla tortura ad arbitrio del giudice»29. In realtà questa condanna non fu mai inflitta: solo Paolo Zani detto il Gobbo del Pallone, nel 1613, e il facchino Giacomo Biavati, nel 1614, subirono la pena tremenda ordinaria: per molto tempo, del resto, nessuno fu giustiziato per sodomia e si deve arrivare al 1686 per trovare la sentenza contro il ciabattino Giuseppe Biagi, che fu impiccato con una pena aggiuntiva diversa (il corpo fu dato ai medici per la dissezione). In seguito, malgrado il bando Giustiniani fosse restato in vigore fino al 1756, fino alla fine del XVIII secolo fu eseguita solo l’impiccagione del pescivendolo Pellegrino Torri, nel 172730. La condanna di Biagi, dalla lettura del processo, sembra essere stata dovuta alla trasgressione aperta del ciabattino, che non si era attenuto alla regola che ormai si era imposta, di condurre una vita di facciata “normale”, per ottenere una impunità quasi sempre certa. Biagi era stato denunciato da Francesco Maria De Sanctis, padre di Girolamo, di 17 anni, apprendista musico e pittore. 28


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Arrestato e interrogato disse che voleva al ragazzo un “bene buono”; un testimone disse di aver spesso assistito alle loro effusioni. Il ciabattino «abbracciava e stringeva a sé detto Girolamo [...] con dirgli quanto è bello il mio Girolimino e quanto gli voglio bene». Tale famigliarità aveva suscitato critiche non tanto per queste esibizioni di affetto quanto per la differenza di condizione sociale fra i due «atteso detto Gioseppe sia un ciavattino e persona vile e detto Girolamo era ragazzo civile. [...] Lo dissi con Francesco padre di detto Girolamo perché gli ne gridasse perché non era decente alla nostra professione». Dunque all’origine del processo non c’era prevalentemente una reazione scandalizzata all’amore omosessuale31. La severità con la quale venne punito Biagi, quindi, non preludeva a un inasprimento generalizzato, che non si verificò affatto. Lo stesso anno, pochi mesi prima, la denuncia del facchino Giovan Battista Querzola per la sodomizzazione del figlio di otto anni, Giuseppe, che lavorava al filatoio di seta e che la sera prima si era lamentato per lesioni al retto prodottegli da un giovane vestito di nero che gli aveva promesso del denaro, non aveva neppure determinato l’apertura di un fascicolo processuale32. Casi simili, soprattutto ai danni di bambini, erano frequenti e tacitamente tollerati o comunque non puniti con eccessivo rigore anche quando provati con un ridotto margine di dubbio: l’esilio era la sentenza di compromesso più ricorrente. Nel caso di Biagi il giudice non poté passare sopra all’esibizione di un rapporto inconfessabile, che doveva rimanere nei limiti di un vizio nascosto, 29


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nefando, di cui non si doveva parlare, e per questo applicò la pena più rigorosa. Questa tendenza del foro criminale bolognese fu confermata nel bando generale Serbelloni, pubblicato nel 1756, nel quale si legge che «la cristiana modestia non ben volentieri soffrirebbe il sentire largamente discorrere di questi delitti [...] soprassediamo anche per non istruire chi per grazie di Dio ne vive ignorante»33. Nel 1830, nel trattato di Carlo Contoli, avvocato fiscale del tribunale di appello di Bologna all’articolo V del capitolo dedicato ai «delitti contro la polizia pubblica e la pubblica continenza, e l’ordine delle famiglie», a proposito della Venere mostruosa scrisse che è «un delitto, che degrada la degnità dell’Uomo; né trovansi termini per esprimerlo senza violare il pudore. Ma poiché la teoria dei delitti è obbligata di portar l’analisi in queste sozzure [...] debbo perciò parlarne». Tali atti dovevano essere puniti severamente, ma «non dovendo la debole e sospetta testimonianza di un fanciullo, la sempre eccepibile accusa di un correo essere il solo fondamento per punire un accusato di tal delitto»34. Il radicamento nell’opinione pubblica della necessità di una condanna non solo morale ma anche penale si verificò poco più tardi, a metà dell’Ottocento – facendo passare definitivamente la sodomia dalla categoria dei peccati a quello dei reati – pressoché in concomitanza con l’emergere, anche se prevalentemente in circoli elitari di intellettuali, di una realtà a lungo occultata, che non si poteva continuare a ignorare. Questo coming out fu intercettato dalla scienza positivista e definitivamente 30


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etichettato, appunto, con l’argomento dell’inversione dalla norma naturale e biologica, come patologia mentale e fisica aberrante. Rispetto ai ciabattini e agli aristocratici di ancien régime per i quali il modello culturale controriformistico non sembra essere stato sempre così costrittivo – anche e direi soprattutto nello Stato pontificio35 – i comportamenti degli uomini e delle donne dell’Ottocento furono socialmente e penalmente stigmatizzati come (forse) mai prima, anche se la prigionia di Wilde, per quanto dolorosa, non può essere paragonata ai roghi cinquecenteschi. È certo però che il biasimo sociale contro gli omosessuali mise profonde radici proprio allora e i termini irridenti checche, finocchi, invertiti e tutto il repertorio di insulti ancora oggi in uso si avvalsero delle deduzioni di psichiatri e giuristi. In una ricerca dal titolo particolarmente felice – che ha scelto l’ossimoro “emancipazione repressiva” per sintetizzare i suoi risultati36 –, si legge fra l’altro che in Italia nel codice penale Zanardelli del 1889 l’omosessualità di per sé non costituiva una fattispecie di reato, il che però non impedì ai giuristi di sviluppare una specifica riflessione sull’omosessualità e sugli atti omosessuali, né, d’altro canto, ebbe come conseguenza che gli atti omosessuali non fossero presenti in modo indiretto alla mente del legislatore. Considerato retrospettivamente e comparativamente il codice Zanardelli rappresentò di fatto un’autentica benedizione per gli omosessuali. Parecchi codici di altri paesi e di poco anteriori al codice Zanardelli o ancora vigenti 31


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all’epoca della sua promulgazione prevedevano pene, talvolta anche molto pesanti, contro la sodomia, anche se non commessa con violenza. Il codice tedesco del 1870 attraverso il §175 puniva con il carcere gli atti d’impudicizia contro natura fra persone di sesso maschile o con animali, decretando inoltre, in taluni casi, la privazione dei diritti civili onorifici. Una norma simile era presente nel codice ungherese del 1878 nell’articolo 241. La legge inglese del 4 agosto 1885 puniva l’oltraggio al pudore, pubblico o privato, commesso tra uomini, con la prigionia fino a due anni, pena subita nel 1895 da Oscar Wilde37. Tuttavia, mentre da un lato Zanardelli enunciava un principio antidiscriminatorio in riferimento alla legge penale, giacché non intravedeva alcun motivo per introdurre una norma repressiva concepita specificamente per una determinata categoria di atti (sodomia) o di persone (omosessuali) e che derogasse a una regola di carattere più generale, dall’altro lato la stessa “cultura” liberale italiana che aveva ispirato l’elaborazione del codice avrebbe mostrato a lungo una propensione pedagogica volta a imporre una morale alla società. Trasfusa nella mentalità dei magistrati e dei funzionari di questura, tale cultura avrebbe assecondato nella pratica la repressione delle condotte ritenute scandalose, come quelle degli omosessuali, e che, benché non costituissero reato, sarebbero state comunque colpite a causa della loro intrinseca immoralità mediante un’interpretazione estensiva delle norme sugli atti osceni in luogo pubblico38.

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Ne derivò una separazione tra sfera etica e sfera dei diritti dalla quale Zanardelli fece derivare l’indifferenza della legge per l’omosessualità vissuta nel privato. Tuttavia, come altrove, in Italia celebri psichiatri come Niceforo, Sighele, Sergi si dedicarono appunto alla ricerca sull’omosessualità e contribuirono collettivamente, senza tuttavia un disegno preordinato, alla strutturazione intellettuale di quel “mondo di ingiurie” in cui sono vissuti (e tuttora vivono) milioni di omosessuali, vale a dire di quell’insieme di pregiudizi culturali volti alla degradazione di coloro che si trovano ai margini o al di fuori della “normalità” sessuale. Tale bagaglio di idee, beneficiarie del crisma del discorso scientifico, nel volgere di poco tempo si è depositato anche nel senso comune. Una volta diffuso fuori dall’ambito d’origine, lo stereotipo negativo dell’individuo omosessuale forgiato dalla scienza è divenuto tanto più pervasivo quanto più è riuscito a negare le qualità reali dei comportamenti e delle relazioni omosessuali, affiancando o talvolta sostituendo alcuni dei modelli peggiorativi tradizionali39. L’autore conclude affermando che «laddove si auspicava con più coerenza la separazione tra morale e diritto, si compiva pure una più sostanziale depenalizzazione dell’omosessualità, mentre quando si proponeva che il diritto, unito al corroborante della scienza presso i positivisti, diventasse uno strumento di moralizzazione sociale e, attraverso il sistema penale, di disciplinamento dei comportamenti pubblici e privati, affiorava più energicamente l’esigenza di controllo e, al limite, di repressione 33


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delle condotte anomale e devianti, tra le quali rientravano appunto quelle degli omosessuali»40. Forse, suo malgrado, la scienza contribuì a spegnere per molto tempo e per molti la possibilità di manifestare apertamente la passione che nel 1927 Vita Sackville-West esprimeva all’amica Virginia Woolf. «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia [...] mi manchi e basta, in un modo molto semplice disperato e umano [...] mi manchi ancor di più di quanto credessi; ed ero pronta a sentire la tua mancanza, e molto. [...] È incredibile quanto sei diventata essenziale per me. [...] Ti amo troppo. [...] Tu hai abbattuto le mie difese»41. Oscar Wilde, mentre subiva la vergogna del carcere e il risentimento offuscava il ricordo di una grande passione, scriveva che non avrebbe voluto essere amato sotto mentite spoglie e che, a un vecchio amico che gli aveva espresso la sua solidarietà, dicendogli di non credere a nessuna delle accuse che gli erano state rivolte, dopo essere scoppiato in lacrime, aveva detto che «mentre molte delle accuse [...] erano false e mi erano state mosse per ignobile malvagità, pure la mia vita era stata piena di piaceri perversi e di passioni anormali, e che finché egli non avesse accettato questo come parte di me, valutandone appieno la portata, io non avrei potuto esser suo amico, o accettarne la compagnia. Fu un colpo tremendo per lui, ma ora siamo amici, e non ho ottenuto la sua amicizia sotto mentite spoglie. Ti ho detto che dire la verità è una 34


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cosa penosa. Ma essere costretti a mentire, è qualcosa di peggio»42. La forza della sua posizione era ispirata dall’insegnamento evangelico. A proposito del filisteismo, contro cui Cristo combatté «la sua battaglia più acerrima» Wilde dice che, per il suo grossolano materialismo, la sua «tediosa ortodossia», la sua «opaca rispettabilità» rappresentava «l’esatta contropartita del filisteo britannico del nostro tempo». Tutto questo era stato spazzato via da Cristo «predicando l’enorme importanza di vivere momento per momento [...] Cristo c’insegna che ogni nostro momento deve essere bello: che l’anima deve esser sempre pronta per la venuta dello sposo, sempre in attesa della voce dell’amato; e che il filisteismo è solo un lato della natura umana non illuminato dalla luce dell’immaginazione. Per lui, ogni buona influenza della vita è una forma di luce. [...] Il mondo è fatto di questo, ma non lo sa, e non lo sa perché l’immaginazione è pura manifestazione d’Amore, e ciò che distingue un essere umano dall’altro è l’amore e la capacità d’amare»43. Ancora un modo di vivere la propria sessualità che non allontana, ma avvicina alla fede. Come John (Dorian) Gray visse quegli anni, venendo accolto negli esclusivi circoli londinesi che gli fecero scoprire la complessità del suo essere, lo racconta questo libro di Vincenzo Lagioia.

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Capitolo Primo La fatica del vivere

Lo colpì il fatto che la vera caratteristica della vita moderna non consisteva nella sua crudeltà o nella sua insicurezza, ma solo nella nudità, nel suo squallore, in quella sua incapacità di ascoltare e di apprendere. G. Orwell

John Gray nasce il 10 marzo del 1866, sua madre aveva 21 anni e suo padre ne aveva 23. Sarà lui stesso a definire i suoi cari «deboli in astronomia e principianti nel loro carattere»44, avendo registrato la nascita del loro primo figlio un giorno dopo dell’evento. A lui seguiranno Ada (poi Mrs. Pullen, 1868-1945), Frederick William (1870-1961), William Thomas (1872 – 1920), Emily (poi Mrs. Burbridge, 1875-1950), Sarah (poi Mrs. Tinklar, 1877-1950), Norval (1880-1911), Alexander (1882-1919), Beatrice Hannah (poi Sr. Mary Raphael O.S.B. 1887-1950)45. Gray vantava genealogie scozzesi, di fatto mai accertate, in linea paterna. La Scozia, con la sua storia, con la sua magia, rappresentava l’estraneità, una terra straniera all’Inghilterra, a un impero in decadenza, e ciò soprattutto per John era la resistenza alle imposizioni. In anni successivi, nel momento in cui scopriva la Francia, in una 37


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lettera al poeta Pierre Louÿs parlerà dell’Inghilterra come «il suo paese adottivo»46. Sua madre Hannh Mary nata Williamson era londinese e, nonostante i vagabondaggi negli spazi cittadini, tra camere in affitto e nuovi ambienti, la famiglia rimane in città. Il nostro John nasce nello storico quartiere di Islington, situato nella zona al centro-nord di Londra, conosciuto per essere uno dei luoghi più caratteristici della città, con i suoi antichi pub, i circoli culturali, il Collins’ Music Hall e il noto King’s Head Theatre (della taverna omonima fondata nel 1543). Ma Islington era vicina alla zona di Finsbury, ricca di riserve idriche e di verde, con il suo parco e con una presenza forte di nomadi. Qualcuno ha parlato di sangue zingaro («gypsy blood»)47 per la madre della madre o forse il padre; fatto sta che il continuo spostarsi, l’agitazione e la fatica del vivere, caratterizzano la famiglia Gray. Per mamma Mary, suo figlio non sbagliava mai, e spesso alzando la voce contro suo marito, apostrofandolo gli ricordava: «John non farebbe mai qualcosa di balordo!». Era il suo preferito, e pur adorandoli tutti, lui era il più viziato. In lui vedeva realizzate le sue ambizioni, i suoi desideri, le sue aspirazioni. Pur conservando e paventando una certa indipendenza, fragilmente perdendosi nei suoi occhi, rivelava una terribile e fatale dipendenza. Mary gli cantava spesso, a detta di Sarah48, una canzoncina popolare, Peter Gray, che parlava di un amore lontano, in terra americana, in Pennsylvania, tra i pellerossa, e John, incantato, ascoltava quei suoni e con la mente si 38


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perdeva lontano, in quelle terre sterminate dove le regole non c’erano e dove il segreto della vita era tutto nel cuore. Suo nonno era stato un soldato, e suo figlio, John Gray (senior) era riuscito a inserirsi in una posizione basso borghese come impiegato mercantile. I suoi tratti erano raffinati, i suoi capelli lunghi e ondulati coprivano le orecchie, in una foto porta una cravatta a farfalla troppo grande e nella mano sinistra tiene un magro bastone di malacca. La sua finezza, i suoi modi non facevano verità, e suo padre difficilmente manifestava il suo affetto. Era freddo, concentrato su un lavoro sempre precario, corrispondente al vagabondaggio delle case in affitto che la famiglia Gray di volta in volta si trovava a cambiare. Lavorava come carpentiere al cantiere navale di Woolwich, fabbricando ruote, ed era un artigiano a cui non corrispondeva la romantica immagine che sarebbe comparsa anni dopo nelle poesie del figlio. Il piccolo John non avrebbe mai dimenticato in tutta la sua vita quelle passeggiate attraverso la sporcizia e il fumo delle vie vicine al cantiere del Tamigi, la solitudine e l’impotenza di fronte alle difficoltà che sua madre Mary viveva nel condurre la vita domestica e il mantenimento dei nove figli. A volte John assisteva disarmato ai litigi tra i suoi genitori, quando il papà tornava ubriaco dal cantiere dopo aver sperperato la paga, così preziosa e così grama, ma così detestata dal piccolo e raffinato poeta. Beatrice ricorderà: «la nostra attenzione si rivolgeva alla sua voce volgare, quella di un prepotente. Il suo era un passo pesante, i suoi baffi disordinati, il suo atteggiamen39


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to da delinquente. I suoi modi gli toglievano autorevolezza, e il nostro amore per lui diminuiva. Crescendo si comportava con noi sempre peggio, e i suoi innaturali atteggiamenti lo rendevano odioso fino alla nausea!»49. Più tardi sarebbe diventato controllore dei depositi presso l’arsenale di Woolich, ma i suoi modi non sarebbero cambiati. Anni dopo il nostro Gray a proposito di quest’uomo avrebbe detto: «era un lavoratore senza capacità, senza educazione o religione», e sul matrimonio con sua madre, «era una degradazione quotidiana dei due corpi. La prospettiva di una famiglia è inizialmente tenuta fuori dalla mente, e poi odiata. La moglie è odiata, e quest’uomo non accusa se stesso della sua disgrazia. È incapace di provare sentimenti, e l’unico affetto o gentilezza che manifesta è con alcuni uomini che incontra per strada, in cantiere, ma con sua moglie nulla! Un terzo del suo salario è speso per il bere e con la stessa modalità vive la sua vita sessuale»50. John Gray manifesterà il desiderio di continuare gli studi e naturalmente questo non sarà per nulla condiviso da suo padre, del resto questo figlio troppo sensibile e delicato è il figlio di Mary, e la mamma, figlia di un tipografo, ha nel sangue i libri e gli ha trasmesso questa passione. Ma Gray senior sa anche che la scelta del figlio è un rifiuto di lui, della sua classe sociale, delle sue maniere, delle sue ambizioni che gli sembrano così misere. John sa molto bene che la scuola è la sola porta da aprire per poter fuggire da quella cella che sono le sue condi40


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zioni umili, un riscatto, una modalità dell’essere, quella modalità che non è accolta dagli occhi algidi di suo padre che il riscatto lo colmava nel suo maledetto bere. John vincerà una borsa di studi per la Roan School in Eastney Street, in Greenwich; la scuola era un luogo di formazione completa e fu voluta da John Roan (1600-1644), Sergeant of Scullery al servizio di Giacomo I. Diventata agli inizi del XIX secolo una fondazione, importante per la classe medio-borghese, avrebbe visto la sua espansione in diverse filiali nei primi del Novecento. Durante il percorso di studio, il giovane Gray riceverà dalla Royal Humane Society un prestigioso premio in seguito alla pubblicazione di un saggio sulla crudeltà verso gli animali, e alla fine del primo anno la valutazione sulla condotta e sul profitto risulterà essere excellent. In un poema giovanile scriveva: Mio padre comanda che devo imparare ad usare le mani pensando che ciò sia tutto. Poi, ancora giovane con mio dispiacere sono andato tra coloro la cui arte è di fabbricare qualcosa di utile. Là, nei lunghi anni, imparavo come fabbricare qualcosa per guadagnarsi da vivere, dove gli uomini fondano le macchine per la loro distruzione!51

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Gray era più grande dei suoi compagni di corso, e suo padre gli aveva trovato un posto presso l’arsenale; era evidente che il tempo dei libri finiva! Gray inizia a prender confidenza con il suo luogo di lavoro, una fucina, prigione del suo spirito, piccolo laboratorio confezionato per il suo cuore inquieto, eppure era riuscito a convincere il direttore a dargli un posto fuori della fucina, in quella che diventava la sala del disegno, lontano dal ghetto. C’è una poesia, The Forge (La Fucina), che dipinge magnificamente quel luogo: Un’officina lunga e stretta, nero magenta screziato di rosa; dieci fuochi lungo una parete. Il giorno lento passa attraverso il lucernaio, un fumo sudicio all’arancia che invade tutti. Si chiude per la colazione, si spengono i fuochi. Il ronzio del motore vicino si acquieta, i compagni parlano del molo di ormeggio; Il silenzio è completo. I rari rumori, riverberano mentre, stranamente, sotto terra le tombe ripetono i proverbi dei morti. Ricomincia il rumore, un ronzio, si riapre; ombre alle pareti e sul tetto, vanno avanti a morire. Il tintinnio di tenaglie, schizzi, fumo; orribile notte Grande inferno cinese, improvviso, dove strani dei ammucchiano i fuochi e spuntano la rastrelliera. 42


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Mezze forme di luce saltano più alte che uomini e cedono dall’oscurità a poco a poco. Carne infuocata, cotone inondato e avvolto di sudore, in un’azione violenta, seguendo la guida e il gesto del fabbro che ordina dove percuotere. L’acciaio percosso si lamenta, ferito e flagellato, dal tonfo al grido del metallo attraverso la prova del fuoco per svegliarlo dal suo sogno sotterraneo leccato dalla fiamma, bagnato e torturato. Questa è l’arena in cui la materia ostinata si scontra con l’uomo, dove gli elementi disputano, dove il fiato e il fuoco incendiano. Dove l’acqua scontrosa aiuta a domare la bestia, formando la terra, rendendola docile. E questi sono i giorni!52 Certo il suo talento per il disegno non era notevole e in tutti i modi cercava una via di uscita da un posto che lo limitava. Sua madre lo aveva informato che i posti nella Pubblica amministrazione erano assegnati attraverso concorsi e quindi un eventuale spostamento sarebbe stato possibile attraverso un esame da sostenere. Studiava nelle lunghe ore dell’officina, carte aride, che però erano l’unica possibilità che gli avrebbe permesso di uscire da un inferno. 43


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Il 29 settembre del 1882 all’età di 16 anni sostiene l’esame per la certificazione di amministratore statale, qualificandosi per un posto da giovane impiegato nella cassa di risparmio dell’ufficio postale. In un frammento autobiografico ricorderà di aver lasciato l’officina per diventare specialista di monete e penne53. Eppure John non sapeva quanto quel misero posto di impiegato in un ufficio postale gli sarebbe servito a cambiare, a cambiarsi, a incontrare in quella Londra alla quale si sentiva estraneo, un libro fatale, un uomo fatale, un Dio fatale! A sedici anni scrive la sua prima poesia, una fantasticheria drogata nello stile di Keats, il romantico Keats, l’immaginativo, il malinconico, il criticato, sepolto in terra straniera, in una Roma che fatalmente avrebbe legato i due poeti. Dopo un anno si trasferisce alla Confidential Enquiry Branch, lavoro più delicato riguardante contenziosi tra i privati e l’ufficio postale54. È di questo periodo l’amicizia con un uomo molto più grande di lui, Arthur Edmonds, che, secondo i documenti, era entrato nel gennaio 1880, diventato un impiegato nella Lower Division Clerk nella Saving Bank il 17 agosto 1880, e trasferitosi nella stessa sezione amministrativa di Gray dove si incontrano e cominciano a condividere interessi , scambiandosi regali e impressioni letterarie. In una lettera del 28 ottobre del 1891, non a caso chiamata Parent, Edmonds lo ringrazia del testo ricevuto di Zola e lo chiama «my dear Boy»55. Muore nel 1894. 44


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Gray non si ferma, decide di perfezionare la sua preparazione e di tentare una piccola scalata all’interno del suo orizzonte lavorativo. Nel dicembre del 1984 vince un’altra gara, qualificandosi per un impiego sia pur inserito in una divisione amministrativa non molto alta. L’esame fatto non era assolutamente trascurabile: scrittura e ortografia in relazione alle competenze specifiche delle materie obbligatorie; composizione d’inglese, scrittura, francese, tedesco, geografia e storia d’Europa (1789-1871). Prove di intelligenza e conoscenza generale56. Lo studio fa per lui. Gray guarda con interesse all’università di Londra, non più solo abilitante all’insegnamento ed esigente nella richiesta dei prerequisiti d’accesso. La sua immatricolazione sarebbe stata possibile! Supera gli esami di latino e greco, le lingue moderne francese e tedesco, l’arabo e il sanscrito; la storia, la matematica e la meccanica. Sono due anni di intenso e duro lavoro, nascosti in un angolo di casa e dietro lunghe ore alla scrivania. Supera l’esame nel giugno del 1887 a 21 anni57. Si trasferisce così nella sezione dei rapporti con l’estero dell’ufficio postale. Ormai per John è arrivato il tempo di guardare in faccia la sua vita, le sue aspirazioni più profonde, i suoi più intimi desideri che a questa età chiedono di essere ascoltati. In questi sei anni di intenso lavoro, Gray aveva realizzato nel suo settore, attraverso questa importante scalata, ciò che nemmeno in una generazione si riesce a fare. Aveva combattuto un primo grande pregiudizio tutto vittoriano, la distinzione categorica tra il lavoro manuale e il lavoro 45


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intellettuale. Gray era riuscito a dimostrare che ci si può alzare e che siamo noi stessi i padroni della nostra vita. Adesso bisognava comprare nuovi vestiti e lasciare subito quella casa paterna che sentiva terribilmente stretta. In quelle strade, in cui la fuliggine rendeva scure le pareti dei quartieri in espansione, Gray non passava inosservato, o meglio, non potevano la sua gentilezza dei tratti, il suo sguardo piacevolmente profondo, le sue mani affusolate, i suoi capelli ondulati e potenti, passare inosservati. Era stata una ragazza, una dolcissima ragazza londinese a dirgli: John sei terribilmente bello, vorrei un ritratto! Lo spavento, la fuga, il desiderio di sparire lo avevano assalito! Non c’era nulla di bello, non c’era nulla che meritasse un ritratto. E poi quella donna, dell’ufficio postale, non era sua madre, lei sola era autorizzata a cantare l’amore e la bellezza, il resto era nulla! C’è un episodio che inciderà particolarmente nella vita dell’impiegato Gray, ed è un viaggio in Bretagna, organizzato dall’ufficio per i rapporti con l’estero di cui il nostro giovane ragazzo era diventato parte importante. Avrebbe dovuto accompagnare in nave e poi in treno la signora Marmaduke Langdale in un piccolo villaggio di pescatori, St. Quay-Portrieux, dove vivevano i familiari di Marmy; era l’estate del 1889. Ad aspettarli c’era Fanny, una delle sorelle di Marmy, austera, ostinata e con una fede da spostare le montagne58. Anni dopo, in alcuni scritti di Fanny, a proposito di Gray dirà: «nessuna traccia di frivolezza (potrei dire di femminilità) nella sua natura!»59. 46


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Non era un bel momento per il nostro ragazzo. Era turbato intimamente. Aveva la necessità di scegliere, ma cosa? I simbolisti, i preraffaelliti londinesi del circolo Wilde lo avevano lusingato, lo avevano fatto sentire particolarmente bello, e il suo Narciso, fugace e nascosto, si contemplava nello specchio d’acqua, ma ahimè non si ritrovava. Più tardi scriverà a Fanny: «Ero molto solitario, e non particolarmente felice quando ho avuto la fortuna di passare quel tempo con te a St. Quay!»60. Marmaduke Langdale era un nome altisonante che richiamava una storia importante di realisti e poi di convertiti al cattolicesimo. Langdale era un titolo baronale creato nel Peerage del Regno Unito il 4 febbraio 1658 da Carlo II d’Inghilterra, assegnato a un eminente realista comandante nella guerra civile inglese, Sir Marmaduke Langdale. Langdale aveva combattuto a fianco al principe Rupert, marchese di Newcastle nella battaglia di Marston nel 1644; prima della guerra era alto sceriffo del Yorkshire. Il figlio di Marmaduke, il secondo barone di Langdale di Holme, era regolatore del Kingston-su-Guscio; il titolo è rimasto, estinguendosi quando Marmaduke Langdale, il quinto barone Langdale morì senza eredi (il suo unico figlio era morto infante) nel 1777. Il titolo fu successivamente ricreato il 23 gennaio 1836 per Henry Bickersteth, che è diventato Padrone del Rolls quell’anno, benché il baronato si estinguerà nel 1851 dopo la sua morte61. Marmy, in questa fase della sua vita, viveva in una situazione di forte conflitto interiore; gli antichi lustri ormai 47


La vera storia di Dorian Gray

erano diventati opachi e le sue visite in Bretagna dove vivevano sua sorella e alcuni familiari servivano a darle un minimo di serenità, che nella Londra dei Lords non poteva più ricevere. Era la stessa serenità che cercava Gray, stupito da questo antico borgo di mare, con la sua storia affascinante, leggendaria, e con le sua chiesa abbaziale, imponente. Saint-Quay derivava da “Ke San” (soprannome di san Coledoc). La leggenda vuole che Saint Quay fosse sbarcato a La Greve des Fontaines (veniva da Finistère, dove aveva fondato un monastero). Saint Quay era originario dell’Irlanda: aveva attraversato la Manica con una vasca in pietra. Era uno dei cinquanta bambini che il re Laoghaire, conquistatore dell’isola, aveva preso come ostaggi. Fu allievo di San Kieran (religioso a Tours e vescovo di Duleck). Fu incaricato, nel 512, di far riconciliare Mordrec con suo padre, re Artus. Amico di San Kerrien, morì nel 550. Saint-Quay-Portrieux è uno smembramento dell’antica parrocchia di Plourhan. La menzione “ecclesia Sancti cimiterio Coledoci e Dominio cum” nella diocesi di Dol, compare in un documento di Saint-Magloire Léhon (Leon), datato 1181 (Anc. ev. VI, 136). La chiesa di SaintQuay (-Portrieux) è un ex-priorato dell’abbazia di SaintMagloire Léhon. Era stata data all’abbazia dall’Arcivescovo di Dol tra il 1039 e il 1076 e che allora si chiamava Scophili Scofili (nome di un abate le cui reliquie furono trasportate a Parigi nel 920 dai monaci di Léhon). Saint Scofili fu sostituito da San Ké (soprannominato Cole48


una biografia di epoca vittoriana

doc) dal 1163. “Sanctus Kequoledocus” è il titolo della parrocchia dal 1278 (Anc. ev. IV, 378). Questo luogo così antico inciderà nell’animo del nostro giovane poeta. Le edicole sparse per le strade, dove le donne del villaggio si fermavano a recitare l’Angelus, il suono costante delle campane, che invitava i pescatori a rientrare e sollecitava i fedeli a partecipare ai vespri e alla messa. Gray li vive in prima persona. Il mare riposa il suo sguardo inquieto, l’orizzonte si apre e per un attimo sente un fuoco interiore che dilata la sua anima, per un attimo pensa a Verlaine e con lui ripete: «Oh mio Dio, mi hai ferito con amore. La ferita è lì ed è ancora palpitante. Oh mio Dio mi hai ferito con amore!»62. Un pianto esplode sul suo viso, le lacrime inondano i suoi occhi e coprono il suo dolore. È senza forze, eppure sa che Londra lo aspetta e con lei un circolo esclusivo!

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