Una porta che la storia ha chiuso per sempre, privata della sua funzione e ormai fuori del tempo. Chi potrebbe aprirla se si bussasse? A quale mondo ci aprirebbe?
laXIII Porta Rolando Dondarini
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara Impaginazione: Paolo Tassoni Grafica di copertina: Alessandro Battara Fotografie Andrea Santucci L’editore rimane a disposizione per gli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Prima edizione: Novembre 2011 Seconda edizione: Febbraio 2013 Finito di stampare Febbraio 2013 presso la Grafica Veneta - Trebaseleghe (Pd) ISBN 978-88-7381-401-6 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
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XIII Porta Da u n enig ma all’altro In terrogativi e scoperte per u n romanzo già scritto dalla storia
Minerva Edizioni
Da un enigma all’altro Interrogativi e scoperte per un romanzo già scritto dalla storia Ciò che qui si narra è in gran parte frutto di ricerche su cause e origini di due enigmi che mi si sono presentati in successione, il secondo generato dal chiarimento del primo e divenuto la premessa e il motivo per raccontare in forma di romanzo una storia nota, avvincente e realmente accaduta. Il primo enigma Un sibilo improvviso si insinuò nella mia mente assopita e riaprii gli occhi sullo scompartimento vuoto. Ero di nuovo sveglio, ma mi sentivo ancora avvolto dal dolce torpore che mi procurava la stanchezza di una giornata intensa e particolare. Il treno correva nel buio mentre nella parte inferiore del finestrino uno strato di batuffoli bianchi mi impediva di guardar fuori. Mi alzai e scorsi la neve, già abbondante, dapprima su quei barlumi di paesaggio che si potevano intravedere lontano, e poi sotto le luci dei gruppi di case che ogni tanto scorrevano più vicino. Nell’oscurità a tratti rischiarata da quei profili bianchi e ovattati, le tiepide e luminose ore romane sembravano
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stranamente lontane e sentivo con maggior distacco le forti sensazioni che mi avevano assalito fino a poco tempo prima. Ma potevo riassaporare la certezza di riportare alla mia città un pezzo della sua storia. Si avviava così alla conclusione quel giorno di vent’anni fa, quando ebbi la buona sorte di coronare una lunga indagine col risultato migliore al quale un ricercatore possa aspirare: giungere alla soluzione del mistero affrontato ritrovando l’oggetto che lo svela. Mi riferisco ad un manoscritto scritto a Bologna oltre sei secoli prima e custodito all’Archivio Segreto Vaticano, ma rimasto ignorato e inutilizzato per tutto quel tempo per una lunga e singolare catena di smarrimenti, di oblii e di equivoci. Fino a quel rinvenimento se ne conosceva un apocrifo contemporaneo conservato nello stesso Archivio, ma che riportava tanti e così evidenti errori da essere considerato del tutto inaffidabile. A chiunque se ne occupava, i motivi della scomparsa del suo presunto originale rimanevano ignoti e avvolti da un alone di mistero, tanto che si pensava che una delle più importanti testimonianze sulla città e sul territorio di Bologna in epoca medievale fosse stata compromessa per sempre. Già dalle circostanze e dalla vicenda umana da cui scaturì la sua stesura si possono scorgere le premesse di quel lungo oblio. Risaliamo agli ultimi anni del papato avignonese e precisamente all’autunno del 1371, quando proprio in
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quella città il cardinale Anglic Grimoard de Grisac, fratello del papa Urbano V, si accingeva a lasciare spontaneamente la carica di vicario e legato apostolico della Marca, della Romagna, dell’Umbria e della Toscana. Secondo le cronache del tempo, all’Anglico – come fu chiamato e ricordato dai bolognesi – quel delicato e prestigioso ruolo era stato conferito quasi quattro anni prima, non solo per l’appoggio del fratello pontefice, ma anche per l’abilità diplomatica dimostrata negli intricati rapporti internazionali del momento. Per un certo tempo aveva anche saputo guadagnarsi la stima dei suoi sudditi, concedendo esenzioni e agevolazioni che avevano alleviato le loro miserevoli condizioni. Tanto che nel marzo del 1369, in occasione della sua partenza per raggiungere il fratello impegnato a Roma in un vano tentativo di riportarvi la sede apostolica, gli furono espresse pubblicamente l’apprensione e l’attesa per un suo sollecito rientro e ricevette manifestazioni di affetto dai cittadini accorsi a salutare il suo corteo; manifestazioni che poi si rinnovarono in occasione del suo ritorno. Ma nei giorni che precedettero il Natale del 1370, alla notizia della morte di Urbano V, furono in molti a intuire che le cose sarebbero cambiate. Scossa e allarmata, la città volle dimostrare il suo cordoglio per la scomparsa di un papa che le aveva concesso tanta benevolenza anche attraverso l’incarico del fratello, rivelatosi sanctus homo et amator populi. Sic transit gloria mundi... e, guarda caso, di lì a poco la fama e la fortuna politica dell’Anglico cominciarono
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a declinare, anche se il nuovo pontefice Gregorio XI gli aveva confermato il prestigioso incarico. Rimasto privo della protezione fraterna, dovette ben presto rimangiarsi gran parte delle concessioni elargite. Poi, sentendo crescere l’ostilità interna e percependo la diffidenza della corte pontificia, propose egli stesso la sua sostituzione, annunciata nel corso del 1371 e attuata nel gennaio del 1372. Così la sua stella era rapidamente tramontata anche presso i suoi sudditi bolognesi. Le stesse cronache locali, che avevano registrato l’unanime approvazione riscossa dal suo governo nel primo biennio dell’incarico, riferiscono di una brusca inversione nel suo contegno e proprio a partire dalla scomparsa del fratello pontefice. Da allora egli non avrebbe combinato più alcunché di buono, se non a suo tornaconto, accumulando ricchezze, rispondendo in malo modo ai cittadini, amministrando male la giustizia, non garantendo l’ordine pubblico, concedendo amnistie contro la volontà generale e non controllando l’operato dei suoi funzionari e ufficiali per i loro abusi e le loro prepotenze. Un così radicale mutamento di giudizio può lasciare alquanto perplessi e indurre ad altre considerazioni sulla precarietà del consenso e dei suoi nessi col potere. Si consideri che l’Anglico stesso nei praecepta, cioè nei consigli che scrisse allora per il successore designato, lo mise in guardia proprio da tutti gli atteggiamenti e i comportamenti riprovevoli che gli attribuirono le cronache ed espresse valutazioni molto severe e a volte sarcastiche sul carattere e sulla condotta dei bolognesi, non trascu-
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rando di esibire i propri meriti. Ne traspaiono l’amarezza e il rancore di un uomo che stava vivendo il dramma personale della perdita quasi improvvisa di prestigio e credibilità e della forzata rassegnazione ad un declino che appariva ormai inarrestabile, mentre solo qualche mese prima aveva toccato le vette del potere e del gradimento, cullando chissà quali sogni di grandezza. Fu in questi frangenti e in questo clima che nell’autunno del 1371, in vista dell’imminente avvicendamento, fece raccogliere le notizie e i dati che potevano rivelarsi utili al legato pontificio che sarebbe giunto da Avignone per sostituirlo. Erano in pratica le informazioni che ritenne necessario fornirgli per il miglior espletamento delle sue funzioni. Di suo pugno scrisse i citati praecepta, cioè una serie di consigli personali e di ragguagli sulla situazione dei territori soggetti, sulla conduzione del governo e sui rapporti da intrattenere a livello locale. Inoltre per ogni area amministrata fece redigere dai funzionari locali dei rapporti dettagliati sulle rispettive condizioni: le cosiddette descriptiones. Le circostanze del momento avevano dunque generato dei resoconti puntuali sulla situazione dei centri e dei territori soggetti che, se allora furono indirizzati e strettamente riservati alle massime autorità governative dello Stato della Chiesa, avrebbero fornito ai posteri relazioni statistico-descrittive di straordinaria precisione e affidabilità per un’epoca notoriamente avara di testimonianze ampie e dettagliate.
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La più nota tra gli storici è senz’altro quella che riguardò la Romagna che offre tuttora il quadro più articolato e completo della situazione dei relativi centri e territori in epoca medievale. Conosciuta come Descriptio Romandiole, è stata edita ed utilizzata a più riprese come base per numerosi studi e confronti. Ma quel resoconto costituisce solo una porzione dell’intero apparato informativo che il cardinale francese promosse. Tra gli altri furono presi in esame anche la città e il contado di Bologna nella cosiddetta Descriptio civitatis Bononie eiusque comitatus, cioè la descrizione della città di Bologna e del suo contado, grossomodo corrispondente all’attuale provincia. Ovvio che quel documento avrebbe dovuto essere considerato una delle fonti più interessanti e consultate sulle condizioni della città e del suo territorio in età medievale. E invece, come già detto, per oltre sei secoli era stato sottratto alla conoscenza generale dalla totale inattendibilità dell’esemplare che si era sempre consultato all’Archivio Segreto Vaticano, il cui testo rivela, anche nella sua edizione ottocentesca, tante e così evidenti inesattezze da screditarne l’intero contenuto, scoraggiando chiunque voglia utilizzarlo. Eppure la precisione e l’affidabilità dovevano essere stati criteri basilari per la stesura del documento originario. Nonostante i suoi errori, anche il manoscritto già noto rivela senza possibilità di equivoci, fin dal breve protocollo che lo introduce, la natura e le finalità per cui era stato redatto: era una... memoria de condictionibus et statu civitatis Bononie (“... una memoria sulle condizioni e lo stato
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della città di Bologna...”), nonché dei castelli delle terre e delle ville del suo territorio, nella quale si registrarono le entrate e le spese complessive della gestione pubblica quantificabili al momento. Dopo la breve introduzione, il lungo resoconto offre un dettagliato esame sullo stato delle mura della città. Soffermandosi su ogni porta, ne rileva l’efficienza difensiva, la presenza di strutture rilevanti, quali casseri e ponti levatoi e la consistenza dei contingenti di custodia. Si descrissero poi le fortificazioni e le torri principali esistenti in città, con informazioni stringate che a tratti non mancano di una certa efficacia figurativa. Al termine della prima parte dedicata esclusivamente alla città, si riportarono gli elenchi degli ufficiali pubblici e dei dottori dello Studio raggruppati secondo le diverse materie d’insegnamento – diritto canonico, diritto civile, medicina e arti – e infine un calcolo approssimativo del numero delle famiglie presenti entro le mura e nel suburbio, valutate in circa ottomila, dal quale si può dedurre una stima complessiva di una popolazione cittadina intorno ai trentacinque/quarantamila abitanti. Si prese poi in considerazione il contado, con puntuali rapporti sullo stato dei maggiori manufatti difensivi e dei contingenti che vi erano dislocati in permanenza. In un lungo elenco se ne trascrissero tutti i centri abitati, raggruppati per i vari vicariati in cui si divideva il territorio e col numero delle famiglie che vi abitavano: erano 298 comunità in cui vivevano 10.983 famiglie per una popolazione complessiva che poteva aggirarsi intorno alle quaranta/cinquan-
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tamila unità. Nell’ultima parte del dettagliato memorandum si registrarono le voci di spesa per stipendi e salari e, di estremo interesse, la consistenza dei vari contingenti armati che militavano in città al soldo della Chiesa. In definitiva, ancor prima del recente riconoscimento del manoscritto originale e della conseguente riabilitazione del suo contenuto, la Memoria... bolognese appariva una fonte ad ampio spettro informativo. Quando cominciai ad occuparmene rimanevano ancora del tutto misteriosi i motivi delle tante distorsioni e inesattezze che l’avevano screditata agli occhi degli studiosi e resa quasi sconosciuta a tutti altri. Mosso dall’aspirazione di risolvere l’enigma, ma con ben poche speranze di ribaltare l’esito di secoli di studi, mi inoltrai nelle indagini, continuando a procedere anche dopo le prime cocenti delusioni. Innanzitutto andava chiarito se quell’unico documento noto fosse l’originale o una copia. Certo scoprirlo sarebbe stato una magra consolazione, ma intanto avrebbe escluso o reso certo che per un certo tempo e in qualche luogo l’esemplare autentico e privo di errori era davvero esistito. In effetti nel manoscritto disponibile rilevai subito molti indizi di copiatura da un prototipo; fui attratto in particolare dalla presenza di un’annotazione sbiadita e poco leggibile nella sommità della prima carta che, una volta decifrata, si è rivelata la prima e fondamentale chiave del successivo rinvenimento. Datata 4 maggio 1773, era stata scritta da un noto archivista vaticano che avvertiva che della relazione
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dell’Anglico aveva appena trovato un esemplare che gli era sembrato un po’ più vecchio e che per questo l’aveva fatto collocare laddove venivano raccolti e custoditi gli atti più preziosi, antichi e originali dello Stato Pontificio, cioè nell’Archivio Segretissimo di Castel Sant’Angelo. Per un po’ temetti che quella lodevole precauzione avesse occultato per sempre il presunto originale; ma poi esaminando le lettere che lo stesso archivista scrisse per dar notizia del suo eccezionale ritrovamento giunsi a rintracciare e a riconoscere il documento autentico. Si trovava e si trova nello stesso Archivio Segreto Vaticano e si è rivelato totalmente privo degli errori contenuti nella sua copia. Tuttavia a causa del suo tardivo rinvenimento gli era stata data una collocazione diversa e lontana dall’apocrifo; quanto bastò perché ancora per più di due secoli fosse questo ad essere consultato, protraendo così anche tutto il suo discredito. Rintracciato finalmente l’originale, se ne possono ricostruire, almeno per sommi capi, le origini e l’itinerario. Fatto spedire da Bologna dal cardinale Anglico, era giunto al palazzo papale di Avignone, dove per la sua natura di documento amministrativo riservato, prima di essere consegnato al cardinale destinatario, fu registrato nella cancelleria pontificia. Fu qui che un archivista poco scrupoloso ne trascrisse malamente la copia che ne avrebbe preso il posto per seicentodiciannove anni. Al rientro della sede apostolica a Roma, anche l’archivio avignonese vi fu trasferito, ma nella presumibile con-
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fusione del riordinamento il manoscritto autentico rimase nascosto per quattro secoli nella massa dei documenti non catalogati, fino a quando fu casualmente ritrovato e riconosciuto nella primavera del 1773. Ciò non valse a renderlo noto agli studiosi che continuarono a consultarne la copia, credendo che fosse l’unico esemplare disponibile. Dunque, attraverso aspetti avvincenti e quasi romanzeschi, la soluzione dell’enigma ha riportato alla luce dopo tanto tempo la Descriptio bolognese, una delle fonti più ricche, interessanti ed articolate dell’intero medioevo di Bologna, i cui contenuti hanno riacquisito piena credibilità e possono essere presentati senza ombra di dubbio. Il secondo enigma e il romanzo nel romanzo Chiarito questo mistero, se ne presentò ben presto un altro suscitato proprio dal testo del manoscritto riscoperto. Nell’elencare e descrivere le porte della terza cinta muraria – che nel 1371 a oltre centocinquant’anni dalla sua progettazione era ancora in costruzione – la Descriptio ne rilevava nove; quelle che evidentemente al momento erano terminate e funzionanti. Ancora non si menzionavano dunque tutte le dodici porte che in gran parte rimasero in piedi anche dopo la demolizione delle mura dell’inizio del XX secolo. Ma, cosa ancora più sorprendente, tra quelle nove se ne descriveva una che non fa parte di queste dodici. Si tratta della porta del Pratello i cui resti sono ancora presenti e visibili sul lato occidentale di ciò che rimane della cinta muraria.
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In molti studi recenti viene citata come un varco minore, una “posterla”, che, come altre che si aprirono in seguito in altri tratti delle mura, avrebbe avuto fin dalle origini un ruolo secondario. Eppure il testo della Descriptio non lascia dubbi sul fatto che fosse una delle porte principali dell’intero circuito murario che si stava ultimando allora, perché la presentava come: «Porta Peradelli, per quam itur ad partes montanas versus Pistorium...» («La porta del Peradello, attraverso la quale si va nelle zone montane verso Pistoia e verso il Frignano del territorio modenese; è fornita di una buona torre, cassero e di ponti levatoi dalla parte interna ed esterna; alla custodia della qual porta è destinato un capitano con otto soldati»). Non mi ero ancora occupato in dettaglio delle vicende costruttive delle mura di Bologna, tuttavia quella discrepanza, tra ciò che si rilevava nella Descriptio ritrovata e quanto si era scritto da più parti su quell’apertura non più funzionante, attrasse la mia attenzione. Che fosse stata fin dalle origini una porta di grande importanza lo confermano i tracciati delle vie interne ed esterne a quella cinta; infatti le foto aeree e le mappe antiche e moderne di quella zona rivelano che era stata costruita per intercettare uno dei tre assi viari che si diramarono verso occidente dall’antica Porta Stiera della città romana. Quanto bastava per riprendere e riproporre l’avvincente storia che portò alla chiusura definitiva di quella che può essere chiamata la tredicesima porta. Una vicenda che invece è abbastanza nota, anche perché fu
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raccontata più di cinquecento anni fa da uno dei suoi testimoni e protagonisti diretti, Galeazzo Marescotti, che ebbe un ruolo decisivo nell’avventurosa liberazione di Annibale Bentivoglio e nei tragici fatti che portarono alla sua uccisione. Perché dunque un varco così importante fu chiuso definitivamente nel 1445? Perché molto più tardi, nel 1568, per non continuare a privare quell’area di un’apertura vitale, se ne aprì un altro a cui si diede il nome di Porta Pia, quella che ebbe poi il nome di Porta Sant’Isaia? Il fascino di ciò che resta della tredicesima porta è accresciuto dal suo aspetto attuale: sul lato esterno, seminascosta da due cipressi, rivela ancora la sua sommità con un bell’arco a sesto acuto, ma al suo interno non dà più sulla via sulla quale un tempo si apriva, ma sul retro di una chiesa: quella di San Rocco, costruita certo per motivi devozionali, ma forse anche per suggellare molto tempo dopo quella definitiva chiusura. Per narrare le vicende reali che portarono ad un provvedimento così drastico, ho immaginato che fossero due forestieri a scoprirle, divenendo testimoni e partecipi di anni decisivi per la storia della città.
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Prologo
Il contesto e i protagonisti In quel tempo l’Europa viveva un periodo cruciale della sua storia. Alcuni lo intuivano, altri ne erano pienamente consapevoli; ma alla gran parte della gente il continuo misurarsi con i bisogni quotidiani impediva di sentirsi al cospetto di grandi cambiamenti che ancora non incidevano che in minima parte sulla loro esistenza. Certo, c’era chi sapeva che mentre i portoghesi raggiungevano l’Oceano Indiano circumnavigando l’Africa, navi spagnole avevano sfidato l’incognito ed erano approdate alle Indie andando a occidente. Che quasi contemporaneamente si era giunti alla conclusione della Reconquista cristiana della Spagna, anticipata dall’espulsione delle comunità ebraiche. Che da quasi cinquant’anni Costantinopoli era caduta in mano ai Turchi. Che in tutta Europa, ma in particolare tra le Fiandre e l’Italia, l’arte, la scienza e la letteratura erano nel pieno di quella “Rinascenza” che stava producendo le innumerevoli opere che rimasero come patrimonio culturale comune. I protagonisti di questa ricostruzione, che benché immaginaria evoca eventi reali, sono Diego, un giovane aristocratico spagnolo, e Ramón, il suo vecchio servitore, diretti e quasi giunti a Bologna nell’estate del 1498.
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Ramón, ormai settantenne, era già stato in quella città quando, a quasi quindici anni, nell’autunno del 1442 aveva accompagnato Andrés, il nonno del giovane, che, intenzionato a frequentare lo Studium bolognese, si era lasciato coinvolgere dalle burrascose vicende che avevano portato al trionfo e alla tragica fine di Annibale Bentivoglio. Al momento della partenza da Jaén, il gentiluomo andaluso aveva poco meno di vent’anni ed era ignaro che la moglie era in attesa del loro primogenito. Il giovanissimo servitore era rimasto con lui a Bologna fino al culmine dei disordini scatenati dall’uccisione del Bentivoglio, allorché il padrone l’aveva rimandato in patria, col pretesto di sottrarlo ai pericoli delle faide tra le fazioni rivali. Per qualche mese Andrés aveva mandato lettere sempre più rade, promettendo regolarmente alla moglie e ai famigliari un rientro imminente. Poi, dalla primavera del 1446, più nulla. Ne erano nate ipotesi e leggende che si erano aggiunte allo scalpore già suscitato dalla prematura partenza del fresco sposo e che avevano finito col condizionare i comportamenti di tutti i componenti della famiglia: quelli della moglie Marta, vedova di fatto, quelli di Carlos, il figlio rimasto orfano e divenuto poi padre di Diego, e infine proprio quelli di quest’ultimo; soprattutto da quando gli fu rivelato quel poco che si sapeva sul conto del viaggio senza ritorno del nonno. Diego era dunque il nipote affascinato dalla sua figura e dall’enigma della sua scomparsa, ma che, fino alla
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maggiore età, era stato accuratamente tenuto all’oscuro del fatto che il vecchio servitore aveva avuto il privilegio e la colpa di essere stato partecipe e testimone della prima parte di quella misteriosa vicenda, considerata da tutti scabrosa e disdicevole per l’onore della famiglia. Fin dal suo ritorno, a Ramón si era rimproverato anche di non avere fatto abbastanza per far tornare il padrone. Appena avuta quella parziale rivelazione, Diego aveva preteso di anticipare la partenza per Bologna, già prevista per settembre, allo scopo iscriversi all’Università e naturalmente aveva voluto che ad accompagnarlo fosse proprio Ramón, che avrebbe dovuto aiutarlo non solo nel viaggio, ma anche nel tentativo di rinvenire qualche traccia delle sorti del nonno.
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L'arrivo
Nella penombra della locanda deserta, i due viandanti avevano finalmente trovato un po’ di tregua all’afa e alla calura di quella giornata assolata. Un leggero alito fresco spirava tra la scala della cantina e la piccola finestra sotto la quale si erano messi a tavola; una tavola ormai ingombra solo dei pochi avanzi di un pasto tanto improvvisato quanto gradito: rimasugli di pane, croste di formaggio, noccioli di pesche e di albicocche, scorze di anguria e di melone. Per godersi la frescura trovata tra quelle povere mura, il giovane si era quasi sdraiato su una vecchia panca e ingurgitava a tratti lunghe sorsate dall’ultima brocca portata dalla giovane locandiera, mentre l’acqua che non riusciva a bere gli bagnava il viso e il collo, aumentando la sua sensazione di sollievo. «Ehi, señorito... non ti pare di esagerare? Non solo non fa bene, ma la buona creanza di un gentiluomo spagnolo...? Guarda che a queste cose i bolognesi ci tengono.» A parte il rimprovero bonario, anche l’anziano servitore apprezzava quel dolce rilassamento e già pregustava il riposo ampiamente meritato dopo quella cavalcata incosciente sotto il sole di un pomeriggio di luglio. Ma mentre si stava lasciando sopraffare dal piacevole torpore che gli appesantiva le palpebre, fu scosso
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dal suo impertinente compagno di viaggio: «Andiamo, su Ramón! Non abbiamo tempo da perdere. Riposerai quando ci saremo sistemati a Bologna.» Dopo quindici giorni di tappe forzate, la sua sopportazione era proprio agli sgoccioli. Intraprendere un viaggio così lungo in piena estate era stato il primo colpo di testa del suo giovane signore. Ora l’immagine delle vele che si gonfiavano mentre Granada si allontanava sembrava lontana; ma a pensarci non erano passate che due settimane. A occupare e dilatare la sua memoria erano state le traversie incontrate in quei pochi giorni. Non ne era passato uno senza imprevisti e nuovi ostacoli, in gran parte provocati dai capricci del padroncino, che già tante volte con la sua impazienza aveva messo a rischio non solo il viaggio, ma qualche volta anche la loro stessa incolumità. Una certa responsabilità la attribuiva anche a se stesso. In fondo era proprio per il suo senso di colpa, che aveva accettato di imbarcarsi a quell’età in un’impresa da sconsigliarsi anche ad un giovincello. Del resto non avrebbe mai creduto che le sue recenti rivelazioni potessero scatenare tanta frenesia in quel ragazzo. Di media statura, al corpo asciutto dell’anziano servitore non si sarebbero dati gli anni che aveva, anche perché le irregolarità e le rughe del volto erano attenuate dagli effetti dell’esposizione al sole di quei giorni. Ora, senza il berretto, il colorito bruno intenso del viso contrastava col chiarore che dalla fronte si estendeva verso la nuca tra i residui capelli bianchi sui lati del capo.
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A volte, nei momenti più difficili di quella dissennata avventura, quando il respiro si era fatto affannoso e gli era parso che le forze cominciassero a mancare, aveva pensato che, se proprio era destino, non gli sarebbe dispiaciuto riposare per sempre nella città tante volte evocata non solo nei ricordi, ma anche nei sogni. Scosso dalla nuova ingiunzione, rispose irritato: «Ma non avevamo detto di fermarci qui per riposare e per cambiarci? Non eri tu che volevi entrare in città in condizioni decenti? Tanto valeva proseguire senza fare un’inutile sosta in pieno pomeriggio!» Squadrò il ragazzo con aria severa, pensando che in quelle condizioni non si sarebbe nemmeno riconosciuta la sua appartenenza aristocratica. Che peccato per un giovane dall’aspetto invidiabile! Alto più della media, presentava sulle larghe spalle e su un collo snello, lineamenti appropriati alla sua età e ben proporzionati. Scuri come i folti capelli, i suoi occhi erano sormontati da lunghe sopracciglia nere che ne aumentavano il rilievo. Pur cercando di trattenersi, Ramón aggiunse: «Scusa se mi permetto di dirtelo, ma sei precipitoso e sconsiderato come tuo nonno... mi auguro che, una volta a Bologna, ti calmi... altrimenti potrebbero essere guai. Hai visto che si può scomparire se non si sta attenti.» «Non vedo l’ora» replicò il giovane. «Adesso che ci sono, voglio scoprire che fine ha fatto il nonno. Non dici sempre anche tu che forse è ancora vivo e che potremmo trovarlo? Allora ti ripeto che non c’è tempo da
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perdere proprio adesso che siamo finalmente arrivati.» Poi, per nulla scosso dal rimbrotto, gli si avvicinò e, con un’espressione d’intesa, gli sussurrò: «Hai visto che bella locandiera? Sono tutte così belle le donne bolognesi?» «Tutte no, ma ce ne sono abbastanza per dare piacere agli occhi.» «E non solo a quelli, no?» «Sembri proprio tuo nonno. E poi..., è poco più che una ragazzina!» In effetti, nelle tante soste di quel viaggio, non si erano mai imbattuti in inservienti così giovani e dalle maniere così gentili. Aveva sì e no una quindicina d’anni e una figura esile ben diversa da quelle abbondanti e disadorne delle donne che avevano quasi sempre incontrato fin lì in locande e osterie. Sotto la cornice di una chioma castana, spiccavano nella carnagione chiara del suo viso affusolato grandi occhi scuri, seducenti ed espressivi. «Attento» continuò l’anziano servitore, «perché ho visto tanti uomini potenti e spavaldi abbassare la cresta e perdersi dietro le gonne.» «Ma io delle gonne faccio volentieri a meno» replicò Diego a voce ancor più bassa, mentre la ragazza si chinava sul tavolo per appoggiare un altro cesto di frutta e una brocca di vino. «No, no... niente vino!» le disse Ramón, «fa troppo caldo... Acqua... acqua fresca di pozzo, mi raccomando! Ci mancherebbe anche che tu fossi ancora più allegro, proprio adesso che dobbiamo affrontare i momenti più difficili di tutto il viaggio.»
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«Intendi l’ingresso in città? Ma dai! Basteranno due monete..., come sempre fin qui.» «Lo spero, ma non credo.» «Cosa ne sai tu che hai passato la vita tra la cucina e la stalla?» A quelle parole, il vecchio servitore sentì una gran voglia di rifarsi di tutte le angherie subite fin lì e, imponendosi di mantenere la calma, raccolse gli argomenti che finalmente glielo consentivano: «Ah sì? E se ti lasciassi qui? Chi potrebbe impedirmelo? Tanto, mi rimane ben poco da vivere. Io qui ci sono stato per più di tre anni, ricordatelo. Senza di me cosa faresti?» Poi, per ribattere al disprezzo che ancora una volta gli manifestava quel giovane arrogante, volle dar sfoggio della sua competenza: «Sappi che, prima di partire, ho chiesto notizie ad una persona ben informata: è un frate del convento di Santo Domingo che da giovane ha studiato qui e che scambia ancora lettere coi domenicani di qua.» A quel punto sciorinò le conoscenze acquisite come se fosse una persona di ben altra estrazione: «È da lui che ho saputo molte cose che ci possono interessare. Mi ha detto che qualche anno fa da queste parti è arrivato un re francese che col suo esercito ha portato un gran scompiglio e che, anche se alla fine l’hanno costretto ad andarsene e poi è morto, qui rimane la paura che il nuovo re di Francia faccia la stessa cosa. Insomma c’è una situazione difficile e ci scommetterei che la sorveglianza è aumentata anche per chi arriva a Bologna. Tanto più che, secondo lui, non corre buon sangue nemmeno tra i Bentivoglio e papa Alessandro Borgia.»
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«Chi sono i Bentivoglio?» «Mi pareva d’avertelo già detto diverse volte: sono i signori di Bologna.» «Ah, sì, forse... Ma dai! Anche per una città che ospita tanti studenti forestieri?» «D’accordo, ammetto che bisognerebbe avere notizie più fresche. Forse è meglio chieder lumi all’oste.» «Perché non alla locandiera?» Ramón si trattenne di nuovo e misurando le parole: «È una cosa seria, credimi! Prova a contenere le tue pulsioni. Se poi non ci riesci, troveremo un rimedio tra qualche ora.» «Quale rimedio? Cosa vuoi dire?» «Se ci sono ancora, i bordelli bolognesi sono di prima qualità. Posso confidarti che qualche esperienza l’ho avuta anch’io a suo tempo.» «Così giovane?» «Non ero più un bambino, e poi sappi che i servi, come le serve, sono costretti a crescere in fretta.» «A volte mi chiedo se io sia il padrone o il servo.» L’anziano replicò a quell’infelice battuta con un piglio ancora più deciso: «Mi devi sopportare, ricordatelo! Hai voluto tu che ti accompagnassi in questo folle viaggio, un viaggio che per te è il primo, mentre per me forse sarà l’ultimo. Anzi ringrazio Iddio per avermi fatto arrivare fin qua. Ho deciso di farlo e non mi pento, anche se continui a disprezzarmi come tuo padre, ma devi metterti in testa che, finché avrò forza, intendo guidarti e proteggerti, come mi ha raccomandato tua madre e anche Consuelo, come puoi immaginare.»
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«A proposito: non dirle mai nulla di queste cose.» «Tranquillo, anche se sicuramente se le immagina. Cosa credi, dietro quel viso di bambina c’è già tutta la malizia e la saggezza di una donna... lo sai e ti piace anche per questo. E poi chissà cos’avrete mai fatto in quelle lunghe cavalcate fino a Baeza. Una volta ci andai per portare una lettera a tuo zio e quando chiesi della vostra visita del giorno prima mi dissero che non vi avevano nemmeno visto. Cosa credi? Siamo poveri e ignoranti, ma mica stupidi. Comunque non mi sembra il momento di parlarne. Chiamo l’oste e poi ci muoviamo, visto che non stai più nella pelle.» «Sì, ma un giorno mi dirai cosa pensi delle donne. Il mio precettore mi ripeteva che la loro bellezza è un inganno per tentarci, che è un incantesimo che svanisce appena ci danno dei figli, perché il compito che gli ha dato Iddio è solo quello di essere delle buone madri.» «Quel tuo precettore non mi è mai piaciuto, con quella sua aria saccente di prete mancato. E poi sapessi com’è arrogante con noi della servitù. Eh, certo, ho visto come guarda le bambine, quelle non sono certo sfiorite, vero? Non farmi dire altro... Cosa penso delle donne? Ma sei sicuro che ti interessa quel che penso io? Finora non mi è sembrato. Te ne parlerò, ma ti assicuro che non è così. Guarda la regina Isabella: ti pare che sia stata solo una buona madre?» Al cenno di richiamo la ragazza rispose prontamente; anche perché dal bancone aveva insistentemente rivolto lo sguardo verso i due ospiti e in particolare verso l’aitante giovane.
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«Mio padre è andato nell’orto vicino al macero, ma, se non dorme, dovrebbe esserci il nonno. Vado a chiamarlo!» rispose. Mentre si allontanava, Ramón afferrò per un braccio Diego tirandolo un po’ più vicino: «Attento a quel che dici, mi raccomando!» Durante il viaggio l’aveva più volte ammonito a non fidarsi di osti e locandiere, dato che ovunque i punti di ritrovo erano quelli più frequentati e abituali. Anche se non erano le sedi ufficiali della vita pubblica, era lì che convenivano regolarmente gli uomini del posto ed i forestieri e che si poteva esercitare un controllo sui loro comportamenti. Perciò si doveva sempre ricordare che i loro gestori erano fatalmente compromessi coi detentori del potere locale – che fossero signori o ufficiali pubblici – e pronti a farsi informatori e delatori pur di poter continuare a svolgere la loro attività. Dopo qualche minuto comparve sullo sfondo luminoso della porta d’ingresso la sagoma del vecchio oste. Claudicante e chino su un bastone, fu sostenuto dalla ragazza fino allo sgabello rimasto vuoto vicino al tavolo. «Hola, señor, buenas tarde! Cómo estás?» iniziò l’ospite anziano. «Ah, due ispanici... i nuovi signori del mondo. Cosa posso fare per voi?» Mentre si accingeva a rispondere, a Ramón parve di scorgere tra le rughe del vecchio oste un volto noto. Una sensazione vaga, ma tenace, che lo spingeva a chiedersi quando lo avesse già visto; del resto anche lui lo fissava
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con insistenza. Ma subito si concentrò sulle domande da fargli, proponendosi di scandire le parole in modo che anche Diego le capisse bene. «Il mio giovane padrone ed io vorremmo sapere qual è la situazione di Bologna e se avremo problemi per il nostro ingresso e per la nostra sistemazione.» «I forestieri sono sempre bene accetti, soprattutto se studenti e ancor di più se ispanici. Il collegio di Spagna ci ricorda ancora quel che tanto tempo fa fece per la nostra città il cardinale Albornoz.» S’interruppe e con un accenno di sorriso fissò di nuovo gli occhi dell’interlocutore: «Alla nostra bell’età abbiamo visto tempi migliori... vero caro Ramón?» L’anziano servitore trasalì e si sentì arrossire come non gli succedeva da molto tempo. L’oste se ne accorse, ma continuò il suo discorso per superare quell’evidente imbarazzo. «Vecchiaia a parte, qui non si vive un periodo malvagio. Per qualche anno abbiamo temuto che il nostro signore fosse in pericolo e con lui la libertà conquistata più di cinquant’anni fa. Bei tempi quelli... ricordi?» A sentirsi chiamare per nome, Ramón aveva di colpo ritrovato le tracce che stava cercando nella memoria e subito, puntando il dito al volto del vecchio amico riconosciuto, lo investì coi richiami che gli stavano riaffiorando: «Guglielmo, sei Guglielmo..., la battaglia di San Giorgio..., Caterina..., la balla dei cinni..., eravamo cinni sì, ma a quei milanesi le abbiamo date anche noi... e la tua gamba?»
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L’uno dopo l’altro, i vaghi ricordi che lo legavano a quel compagno di gioventù gli si chiarivano e intanto si era alzato per abbracciarlo. Appena si risedette, cominciò a ripetere a voce alta: «Se-ga... Se-ga... Se-ga...» battendo con lo stesso ritmo il pugno sul tavolo. Era evidente il suo intento di incitare l’anziano oste a fare lo stesso; e infatti fu subito imitato. Diego intuì che doveva trattarsi del motto che un tempo li aveva uniti in una stessa causa, ma, benché incuriosito, non s’intromise. Sorpreso e divertito, rimase in silenzio, pensando che non poteva esserci premessa migliore per l’impresa che si accingevano a compiere. Intanto cominciava a capire che nel viaggio di tanti anni prima Ramón non si era limitato ad essere un accompagnatore passivo del leggendario nonno. Mentre assisteva agli imprevisti convenevoli, guardava con occhi nuovi l’anziano servitore, sentendo crescere un’insospettabile ammirazione che cercava ancora di reprimere. Comunque aveva una gran voglia di sapere. Dopo che i vecchi amici ebbero dato sfogo alla loro euforia, l’oste riprese le sue considerazioni col piacere evidente di chi sa di essere ascoltato da persone interessate e attente: «Come vi dicevo, per noi i momenti peggiori sembrano passati... dieci anni fa si scoprì che qualcuno stava tramando senza motivo contro Giovanni e la sua famiglia, ma ebbe quel che si meritava. Vennero poi le minacce di Carlo di Valois che pretendeva di passare per le nostre terre con quel popò di esercito e di artiglieria.
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Ci stavamo preparando a respingerlo, ma ci è andata bene a giudicare dalle batoste che hanno preso quelli che non volevano dargli il passo. E meno male che proprio tre anni fa insieme agli alleati lo abbiamo costretto a scappare verso la Francia. Insomma da qualche anno sembrano tornate la pace e la serenità... facciamo gli scongiuri. I soliti uccelli del malaugurio prevedono altri tempi bui, ma è meglio non farci caso. Poi sai, dietro il nostro grande signore c’è la saggezza di Ginevra, una garanzia per tutti.» Alla pronuncia di quel nome, Ramón scosse Diego per un braccio: «Vedi... a proposito delle donne e delle madri?» Guglielmo non comprese e proseguì: «Vedrete che cose mirabili hanno fatto insieme... un palazzo che tutto il mondo ci invidia, strade e portici nuovi, un canale che ci permette di avere un porto dentro le mura della città e di andare per barca fino a Venezia. E, pensa Ramón, a queste cose in fondo abbiamo dato una mano anche noi, anche tu che sei rimasto lontano per tanto tempo. Dobbiamo festeggiare! Agnese, portaci quella fiasca di vino che è appesa dentro il pozzo!» «Subito, nonno» disse la ragazza avvicinandosi e cercando con un sorriso lo sguardo del giovane. Prima di voltarsi fece un elegante inchino, davvero inconsueto per una locandiera; tanto che, mentre si allontanava, il vecchio oste lo commentò sommesso: «Dovete scusarla, non fateci caso, non è abituata a vedere forestieri né così eleganti né così giovani...»; e, volgendo lo sguardo a Diego: «Suo padre l’ha mandata a servizio come
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sguattera e, siccome i suoi padroni sono in villeggiatura ai Bagni della Porretta, ora è qui a darci una mano. Solo di giorno, s’intende...: non permetterei mai che venisse a servire gli ubriaconi e i lesti di mano che ci fanno visita di sera.» Poi, guardandola e apprezzando la sua grazia, concluse: «Ah le femmine! Non so ancora se sono un dono o una maledizione, è il vecchio dilemma: sante o streghe? Maria o Eva? È che per me sono insieme l’una e l’altra.» «E ti lamenti?» s’intromise Ramón, «È anche per questo che ci incantano e che non potremmo mai farne a meno.» «Eh, la fai facile tu, ma quando si scopre quel che son capaci di fare... A proposito di incanti e di incantesimi, siete arrivati proprio in tempo per veder la fine di un’incantatrice; una che tutti consideravano una santa donna. Tra qualche giorno sarà bruciata in piazza! Pace all’anima sua... se ce l’ha. Ma parliamo d’altro... Agnese sta tornando e non voglio che si parli con lei di queste cose» tagliò corto Guglielmo facendosi tre rapidi segni di croce. La ragazza appoggiò sul tavolo la fiasca ancora grondante e tornò rapidamente a prendere tre dei boccali di ceramica buona nei quali, con un certo impaccio, versò il bianco vino fresco. «Questo è vino buono, che non ha paura del caldo. Ti ricordi il nostro inno: Ave color vini clari?» «Sì, sì eccome, anche se io sono ancora stonato come una campana.» Alzarono insieme i boccali e bevvero mentre esternavano il piacere di quel lungo sorso.
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«Ahh!» esclamò soddisfatto l’oste asciugandosi la bocca con un braccio, «ne valeva la pena, eh...?» Ramón assentì per dovere di cortesia, ma intanto pensava di averne gustati di migliori nella cucina della casa padronale, quando si riempivano le caraffe per i pasti dei suoi signori. «... Se non ricordo male, tu ci insegnasti a rendere il vino buono, ancor più buono e gradevole, soprattutto col caldo. Lo gradite?» Senza attendere la risposta, richiamò la nipote: «Porta delle pesche, Agnese, una brocca vuota e, se ce n’è ancora, un po’ di cannella.» Mentre Guglielmo sbucciava e tagliava le pesche, gettandole a tocchi dentro la nuova brocca appena riempita, Ramón pensò che, con tutto quel vino, avrebbero ripreso a sudare. Poi si azzardò a far la domanda che reprimeva fin dal momento in cui si erano riconosciuti: «Dimmi Guglielmo, sai qualcosa del mio vecchio padrone, Andrés... ricordi? Non ne abbiamo più notizie fin da quando tornai in Spagna.» La reazione fu peggiore di quel che temeva, dato che l’espressione dell’anziano oste cambiò improvvisamente. Si fermò e, serio e visibilmente contrariato, rimase in silenzio per qualche istante. Poi, sbattendo violentemente il suo boccale sul tavolo, in tono grave e dimesso disse: «Non ne so niente, ma per quanto mi riguarda è morto da un pezzo e spero che la punizione divina...» Tacque di nuovo, lasciando sconcertati sia i suoi interlocutori sia la ragazza che seguiva la conversazione dal
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bancone. Il silenzio continuò pesante, aumentando il disagio e l’impaccio dei due ospiti spagnoli che, a testa china, più volte si rivolsero lo sguardo evitando quello dell’oste. Fu costui a rompere quell’imbarazzo, allorché, mantenendo lo stesso tono e come per liberarsene, li invitò ad affrettarsi per entrare in città, fornendo loro indicazioni utili a sbrigare i passi necessari: «Se volete sistemarvi entro sera, dovete muovervi. Visto che siete qui, vi consiglio di attraversare il Reno alla barca, è qui vicina... conosco bene il barcaiolo e, se fate il mio nome, vi farà un prezzo di favore anche per il trasporto dei cavalli. Di là prendete la strada che piega a sinistra e seguitela fino alla porta San Felice. Per entrare, rivolgetevi al capitano della porta. Se avete dei lasciapassare ve li posso vistare in modo che non faccia troppe storie... E in città andate alla locanda del Leone, sempre a mio nome. Penserete poi nei prossimi giorni a trovare una sistemazione stabile.» Anche per mascherare il disagio, Ramón colse da quei consigli lo spunto per un’altra domanda: «Scusa Guglielmo, ma se passiamo il fiume alla barca non sarebbe meglio entrare dalla porta del Pratello?» «Sì, al Pratello... provateci se siete capaci!» Poi rivolto alla nipote: «Agnese vienimi ad accompagnare, gli amici spagnoli ci lasciano... poi controlla che i cavalli siano stati abbeverati... doveva pensarci tuo padre.» E di nuovo a Ramón: «Ah, s’intenda, tutto quello che avete consumato ve lo offro io. Ci tengo!»
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Se ne andò al braccio della ragazza così com’era venuto, ma prima di varcare la porta si rivolse per l’ultima volta ai due ospiti: «Hasta luego, Ramón... hasta luego señor y buena suerte.» Rimasti soli e in silenzio, di nuovo i due si scambiarono con lo sguardo lo stesso sconcerto, poi si alzarono e si diressero alla stalla. Mentre Ramón rimetteva i finimenti e le selle ai cavalli, il giovane ne approfittò per sussurrargli deciso: «Ora mi racconti tutto!» «Delle donne? Va bene che sei un giovane stallone, ma mi sembra che sia diventata una fissazione» rispose sorridendo. «No, no! Non far finta di niente. Sai benissimo a cosa mi riferisco. Tu con mio nonno hai fatto qualcosa che mi tieni nascosto. Ho capito bene? Una battaglia? E poi cosa significa quel “Sega, sega...”?» «Va bene, ti dirò tutto; ma adesso raggiungiamo il fiume, lo attraversiamo ed entriamo in città.» «E i salvacondotti? Il suo visto?» «Possiamo farne a meno... non vorrei che fosse il peggior modo di presentarci.» Agnese era uscita per vederli partire e Diego spronando il cavallo le lanciò qualcosa che lei raccolse e si strinse sul petto prima di salutarlo con un ampio gesto del braccio. Non fecero che poche decine di pertiche per raggiungere l’imbarco della zattera che li trasportò oltre il fiume. Di là Ramón decise di non prendere la strada che piegava a sinistra, ma scelse quella che ricordava meglio,
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senz’altro la più breve per raggiungere la città da quel punto; quella che passava vicino alla Certosa e portava al ponticello che superava il canale a San Paolo del Ravone, per poi giungere alla grande porta del Pratello. Finché non furono a ridosso delle mura, la vista della loro straordinaria ampiezza e quella delle torri e dei campanili che svettavano oltre il loro profilo accrebbe un’emozione e un’impazienza che più volte si confidarono con occhiate di compiacimento. Finalmente avevano davanti la meta di tante fatiche che si presentava magnifica come nemmeno avevano immaginato. Ma rimasero interdetti quando giunsero al fossato che cingeva la città. Il ponte levatoio che si trovarono di fronte era semialzato e al di là la porta che avrebbe dovuto dar loro accesso era murata. Il complesso era imponente, come Ramón lo ricordava, con quella torre e quel cassero che incutevano rispetto; ma le larghe fenditure nelle tavole del ponte e le erbacce che vi erano cresciute rivelavano un lungo disuso. «Ecco il motivo della battuta dell’oste» disse Diego, quasi a voler sottolineare una pecca nella presunzione del suo conduttore; il quale, intanto, sembrava ipnotizzato da quell’immagine sinistra. A quel punto fu il giovane ad assumere decisamente la guida, prendendo a manca e procedendo al trotto lungo il ciglio del fossato. In breve si trovarono di nuovo di fronte il canale superato da poco e dovettero risalirlo per qualche decina di
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passi per imboccare il ponticello che consentì di valicarlo. Da lì intravidero il varco che sotto le mura lasciava entrare le sue acque in città e, sospesa sopra, la grande grata di ferro posta a sua protezione. Non molto oltre giunsero al ponte levatoio abbassato di un’altra grande porta, presidiato da un picchetto di soldati, dai quali ottennero quasi senza intoppi il permesso d’ingresso. Secondo quella prima prospettiva, la città si presentò diversa da come il giovane se l’era immaginata: le torri intraviste in lontananza sembravano scomparse, mentre ciò che lo colpì fu la lunga sequenza di portici su entrambi i lati della lunga strada rettilinea che si apriva davanti a loro; mai ne aveva visti tanti tutti insieme ed era sotto le loro volte che si intravvedeva la gran parte delle persone che animavano la via. Nel percorrerla incrociarono e superarono alla sua metà il canale già incontrato fuori dalle mura. Solo in fondo cominciarono a scorgere, ancora lontana, la torre più alta. Poi ne videro altre che sbucavano a sorpresa negli scorci che si susseguivano al loro procedere. Fu allora che piegarono a destra ed entrarono in una grande piazza. Vi si affacciavano palazzi di diversa foggia ed epoca, ma che con la loro possente eleganza lasciavano presumere d’essere sedi autorevoli. Sullo sfondo si ergeva la sagoma di una chiesa imponente che si rivelava incompleta nel contrasto della sua facciata: tanto chiara ed adorna nei bei marmi della base e fino all’altezza dei suoi tre portali, quanto scura e spoglia di lì alla sommità.
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