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L’AUTO È UN POSTO TRANQUILLO

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PREMESSA

PREMESSA

L’AUTO È

UN POSTO TRANQUILLO

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Karhusuo, periferia di Espoo, 1981. È notte. Il ragazzo si agita, non riesce a prendere sonno. La madre lo stringe nuovamente tra le braccia, a lui è sempre piaciuto farsi tenere in grembo. È molto diverso dal fratello di due anni più grande, che dorme profondamente nella stessa stanza incurante del fatto che quel fratellino dalle sensibili antenne sempre tese rivive ogni notte le emozioni della giornata.

Il mattino seguente la madre, esausta, nel recarsi al lavoro medita su quel che da tempo turba sia lei sia il marito: il piccolo non parla, non sa dire nemmeno una parola. E sta per compiere i tre anni.

Lo portano a un controllo. Niente di anomalo, il bambino reagisce a tutti i test con prontezza, a dire il vero più veloce-

mente di quanto ci si aspetterebbe alla sua età. Ma non parla. Magari più avanti.

Alla fine le parole arrivano, e il piccolo, detto addio alle coccole, ha una partenza bruciante. I fatti battono le chiacchiere dieci a zero. Le gambine si muovono più veloci della bocca. Il ragazzino dai capelli d’oro ha preso il largo.

Trentasei anni dopo il suo primo nome di battesimo ha cancellato il secondo, ormai è soltanto Kimi. Kimi-Matias si è perso nella polvere delle piste, il suo nome ufficiale non lo ricorda più nessuno. È improbabile, poi, che qualcuno ne abbia mai saputo niente, magari solo uno o due delle decine di fan nella hall dell’hotel Sama-Sama di Kuala Lumpur, alle 9:10 di venerdì. Ma sanno che presto spunterà dall’ascensore. E non dirà nemmeno una parola.

I fan vengono dalla Malesia, dal Giappone e dalla Cina. Comunicano tra loro in un formula-english dal lessico misero ma rumoroso. Strilli e bisbigli non hanno barriere linguistiche. Svolazzano dalla porta di un ascensore all’altra, e le loro simultanee, sonore esternazioni, fanno pensare a esotici volatili calati tutti insieme a beccare uno stesso boccone: un pilota taciturno.

I fan fissano speranzosi una figura familiare, il manager di Kimi, Sami Visa, che scende nella hall con l’ascensore numero due. Ha sulle spalle uno zainetto Ferrari con su stampato 007. I fan non si lasciano ingannare dall’allusione a James Bond. 7 è il numero di gara di Kimi. Sanno cosa significa l’apparizione di Visa nella hall: presto scenderà Kimi, e noi saremo i primi a vederlo.

Si aprono le porte dell’ascensore numero quattro. L’uomo in rosso è arrivato.

Kimi indossa una maglietta col colletto coperto dai loghi degli sponsor, pantaloncini, cappellino con visiera e occhiali scuri. Esce con lui dall’ascensore anche Mark Arnall, il suo personal trainer, anche lui in rosso. È stato accanto a Kimi per sedici anni, preoccupandosi che non gli mancasse niente. Pace e privacy sono le uniche cose che Arnall non può garantire.

Kimi vede i fan e si arresta. Sa quel che deve fare per arrivare fino alla Maserati che lo aspetta fuori e sprofondarci dentro. Due-tre minuti, quaranta metri, poi è tutto finito.

Sami Visa cerca di tenere a bada la massa vociferante dei fan. Un cappellino e una maglietta alla volta, non devono entrare in contatto con lui. Kimi scrive KR, o qualcosa che gli assomiglia. Poi il prossimo. Ancora? Ancora uno. Scarabocchia le sue iniziali in gran fretta. La sua faccia resta immobile, a parte un tic fugace, una crepa che gli incrina le labbra: un sorriso, un dono muto a quei fedeli sostenitori venuti da lontano.

Si levano strilli di gioia: alla fine hanno avuto qualcosa. Meglio che niente. La porta si spalanca, Kimi procede deciso verso la Maserati e si sistema sul sedile del guidatore, abbassato al massimo e con lo schienale reclinato per quanto possibile. È la sua maniera di sistemarsi in ogni tipo di automobile, una conseguenza del suo lavoro: un pilota di Formula 1 guida praticamente sdraiato nell’abitacolo.

Mark Arnall gli siede accanto e gli porge una bottiglia con un liquido attentamente selezionato. Il clima è caldo e umido, 34 gradi, ma il condizionatore serve ad isolarti. L’auto fa un balzo in avanti. Non appena superata la rampa dell’hotel, Kimi accelera oltre i 100 km/h. Con la mano sinistra agita la bottiglietta da mezzo litro, che contiene un liquido denso, grigiastro. Uno smoothie. La mano destra regge il volante, col

Entrando in quello spazio esclusivo in cui nessun altro ha accesso: il suo mondo. Quel che da fuori potrebbe sembrare introversione, è semplicemente concentrazione.

dito medio scala le marce, la macchina ha un sussulto. Lancio un’occhiata al limite di velocità: 70 km/h. Quando il limite sale a 100, Kimi accelera a 140. Lancio un’occhiata a Sami Visa, e la sua espressione dice: «Lascia perdere, è sempre così».

La distanza dell’hotel dal circuito di Sepang è poco meno di dieci chilometri. Il compagno di scuderia, Sebastian Vettel, è già partito col suo personal trainer Antti Kontsas prima di noi, ma arriviamo al circuito contemporaneamente. Durante il percorso, Kimi, a parte un «buongiorno», non ha detto una parola, anche se nella macchina ci sono i suoi più stretti collaboratori, Mark e Sami. Ricordo quel che Sami mi aveva detto in precedenza: «Kimi diventa pilota sin dal primo mattino, entrando in quello spazio esclusivo in cui nessun altro ha accesso: il suo mondo. Quel che da fuori potrebbe sembrare introversione, è semplicemente concentrazione».

Usciamo dall’auto. Visa ci rammenta che, prima di raggiungere l’area dei box, c’è un breve incontro coi fan. Dietro una rete metallica ce n’è ingabbiato un centinaio, che agitano cappellini, cartoline, braccia, magliette. Kimi traccia il suo confuso scarabocchio sui cappellini, posa per un cellulare che

ondeggia in cima ad un’asta, fa quello che può per garantirsi che non ci sia da fare niente altro.

Per i fan questo incontro vuol dire tanto. Hanno versato una bella cifra per quel posto dove possono osservare le auto, di solito intraviste solo di sfuggita, e i piloti, di fatto mai spiati così da vicino. Vorrebbero molto, gli spetta ben poco. Vorrebbero fatti, ma il tempo passa e restano sogni. Le storie cambiano; le chiacchiere provenienti dai box fanno più fumo dei tubi di scappamento; i piloti, celati dentro caschi enormi, appaiono sugli schermi televisivi come astronauti. Il tabellone li riporta sulla terra, i piloti rimuginano brevemente su quel che è accaduto. In ogni caso i fan pretendono un pezzo dell’uomo in carne e ossa, vogliono vederlo, magari toccarlo, fissarlo dentro gli occhi. Occhi celati dietro occhiali scuri. Quegli occhi di ghiaccio che hanno visto soltanto nelle foto, occhi che scrutano la pista, la corsia, il varco buono per tentare il sorpasso. O per nascondersi.

Difficile dire che cosa riusciranno a strappare a Kimi, che durante i suoi diciotto anni di carriera ha dato lo stesso numero di interviste che Lewis Hamilton, quattro volte campione del mondo e re dei social, concede in una settimana.

In dieci minuti è finita, e Kimi si sposta nell’area dei box. La sua maniera di incedere è una via di mezzo tra la camminata e la corsa: avanza leggero come una lepre e si infila all’interno del box Ferrari. È andata. Misteriose sono le vie del Signore, anche quando il signore in questione corre su una pista chiusa.

La sua stanza nel quartiere della Ferrari è spartana, più o meno 12 metri quadri realizzati con una specie di truciolare, in cui ogni centimetro è utilizzato al massimo: un lettino angusto, usato per i massaggi. Un tavolo, su cui Mark Arnall ha disposto tre caschi, un paio di guanti da pilota e uno di scar-

pe, salviette e diverse bottiglie con bevande assortite. In un angolo c’è una tinozza azzurra, di vetroresina, piena di acqua ghiacciata. Il pilota vi si accoccola dentro per un po’ prima della gara e subito dopo. La temperatura corporea va regolata poiché il sole scalda l’abitacolo di quella vettura di 700 chili fino a livelli insostenibili. Il glamour ha abbandonato questa stanza a favore dei media: lì è di casa.

Ci spostiamo negli spazi di rappresentanza della Ferrari che si trovano nel paddock, un corridoio destinato agli ospiti e alla stampa, lungo il quale tutte le squadre hanno costruito il loro piccolo mondo. Il paddock è accessibile anche a chi ha acquistato per il weekend un pacchetto che costa intorno ai 6000 euro. Per quella cifra si ha diritto a pasti gourmet e a qualcosa che il detentore di un normale biglietto non può nemmeno sognare. Di che si tratta per l’esattezza? Della possibilità di dare una sbirciata ai piloti, di un posto in un ristorante realizzato al di sopra dei box, oltre alla sensazione di essere una persona importante. Una sensazione per cui, nella storia dell’umanità, si sono pagati prezzi nettamente superiori.

Nei locali riservati agli ospiti della Ferrari aleggia un aroma di basilico, aglio e pane tostato appena sfornato. La Ferrari ha trasportato l’Italia in Malesia. Ed è ciò che il team fa sempre, senza badare a spese. Tutto il ben di Dio sulla tavola apparecchiata sono piatti tradizionali italiani, preparati dallo chef e dai suoi aiutanti. Sergio Bondi, responsabile della logistica Ferrari, conferma che dall’Italia è stato portato tutto il possibile: pasta, caffè, sedie, tavoli. Perfino la farina per fare i panini. Lo chef va in cerca dei migliori prodotti freschi reperibili in ogni Paese due giorni prima della gara. Cina, Abu Dhabi, Australia, non importa dove: l’Italia va ricostruita ovunque. Per spostarsi in Europa la Ferrari ha bisogno di trenta auto-

E tutto questo denaro soltanto per permettere a due giovanotti di guidare un’auto per un’ora e mezza o giù di lì, sfidando la morte, senza alcuna destinazione, e cioè per ritornare esattamente al punto da cui sono partiti; fradici e ansimanti, con la nuca in fiamme, a corto di parole, ma vivi.

carri. Altre destinazioni comportano circa 300mila chilometri di volo all’anno. Dopo ogni gara il circo da 44 tonnellate viene smontato e nuovamente impacchettato nell’arco di sette ore. Il consumo annuale di caffè si aggira sulle 70mila tazze. Quest’anno alle prove della nuova vettura Ferrari a Barcellona erano presenti 170 membri del team. Tutto ciò farà salire il budget annuale ben oltre i 400 milioni di euro. Una cifra, a pensarci bene, tutt’altro che ragionevole.

E tutto questo denaro soltanto per permettere a due giovanotti di guidare un’auto per un’ora e mezza o giù di lì, sfidando la morte, senza alcuna destinazione, e cioè per ritornare esattamente al punto da cui sono partiti; fradici e ansimanti, con la nuca in fiamme, a corto di parole, ma vivi.

Sono completamente immerso nei miei pensieri quando Sami mi batte sulla spalla: è ora di andare nel garage a osservare i preparativi della prima prova libera. Avanzando nel labirinto dell’area dei box raggiungiamo il punto focale: due automobili rosse. Tra le due auto c’è un’isola, abitata da computer e uomini in rosso con le cuffie sulle orecchie. Noi restiamo un po’ in disparte, per cui ci bastano dei tappi per le orecchie.

Kimi è già nell’abitacolo, di lui si vedono solo il casco e la mano destra, verso la quale Mark Arnall protende una bottiglia. Arnall ne stringe un’altra nella mano sinistra. Ci vogliono sempre due bottiglie, nel caso che una cada o si rompa. Un pilota a secco serve a poco.

È ora di avviare i motori. La Ferrari ha la voce di un animale di 700 chili che viene ammazzato, trafitto da un centinaio di coltelli sui due lati. Il rombo è quello di una bestia infuriata e ferita che vuole a tutti i costi fuggire via dal garage, lontano da quegli uomini tirannici in rosso, verso la libertà del rettilineo di partenza, su quella pista chiusa.

Il rombo attraversa i tappi e cola nel cervello come acciaio fuso. L’auto dal box sfreccia sulla pista dove in 5 secondi arriva alla velocità di 200 chilometri orari. Ci mette meno di un minuto e mezzo a percorrere l’intero circuito. Le macchine passano davanti ai box come missili che volano bassi, appena distinguibili. È solo sugli schermi che puoi avere una visione d’insieme, anche se tutto ti passa davanti agli occhi.

Dico più tardi a Kimi di questo rumore infernale. Lui, in tono asciutto, commenta che il rumore delle auto dei nostri tempi ricorda quello di un tosaerba, mentre i modelli di qualche anno prima facevano un rumore più decente.

Ci sono due sessioni di prove libere, ognuna dura un’ora e mezza, tempo durante il quale si verifica l’assetto delle vetture

e si provano gli pneumatici. Tutto serve a preparare le qualifiche del giorno dopo. Nel pomeriggio la pista è silenziosa, ma il lavoro va avanti con una serie di riunioni tecniche, seguite da qualcosa che Kimi ha appreso all’età di tre anni, ma che di fronte a gente sconosciuta resta ancora una prova difficile: parlare. Si ritrova in piedi circondato da una decina di microfoni, e si passa la mano destra sulla nuca. Paula, sua madre, sa cosa significa: il ragazzo è irritato. Ma deve dire qualcosa. Inanella frasette apparentemente chiare ma che non significano niente. Frasi del genere imperversano dovunque, ma la discarica che le raccoglie ha una capacità illimitata. Le si lascia macerare in rete, mentre la versione cartacea viene avviata al riciclo, o usata per avvolgere pesci, e comunque nessuno, né i reporter, né i fan, né gli stessi piloti dopo un paio di settimane ricordano dove quelle frasi siano state pronunciate: in Malesia, in Giappone, in Cina o magari a Austin, nel Texas. Nessuno se ne ricorda perché si tratta delle stesse parole, ripetizioni delle stesse cose, conferme verbali dei numeri che compaiono sul tabellone.

Nelle prove libere sei arrivato quinto. Che vuol dire per le qualifiche di domani? «Mah, non saprei.»

Sei stato più veloce del tuo compagno di scuderia di tre centesimi di secondo. A cosa pensi che sia dovuto? «Mah, difficile a dirsi.»

La macchina ti ha dato buone sensazioni per le qualifiche di domani? «Mah, mi pare ok. Vedremo domani.»

Per domani sei fiducioso? «Be’, sì.»

Non ti sei ancora arreso per la classifica dei costruttori? «Be’, no.»

Punta gli occhi sui piedi del reporter, o al di là, o al di sopra, ovunque tranne che su di lui. Gli occhiali scuri, secondo Kimi, sono stati inventati per difenderti dagli altri, non dal sole.

L’intervista è finita. Kimi scivola via e sprofonda di nuovo nel garage della Ferrari, dove il team sta per iniziare la vivisezione tecnica dei fatti del giorno.

Poi riappare e si fa largo con determinazione tra la folla. Non è difficile perderlo di vista, è ormai il crepuscolo quando ci dirigiamo verso l’albergo. Kimi accelera oltre i limiti consentiti, mentre con la mano libera raccatta la bottiglietta del suo drink e se la porta alle labbra.

Tutto tranquillo, a parte un ronzio di fondo; è solo la Maserati che brontola, a comando.

Non posso vedere nella mente di Kimi, ma posso immaginare cosa gli gira nella testa. Un altro giorno se n’è andato, 10mila chilometri da casa, in Svizzera, un’altra notte prima di arrivarci. Sul sedile dietro un tizio che scrive un libro su di me. Tra breve una doccia e poi a letto. Voglio dormire il più a lungo possibile. Chissà come va a casa, se tutto procede bene. Robin avrà imparato parole nuove? E Minttu… la piccola Rianna la lascerà dormire, o si agita? Vorrei essere lì, ma non posso. Oggi la macchina andava bene, dentro ho avuto buone sensazioni. La cosa più gradevole è la guida. È quando esco dalla macchina che cominciano i problemi. Quando corri nessuno ti fa domande.

Kimi parcheggia la Maserati nello spazio riservato e si avvia a grandi passi verso l’ingresso. Qualche fan dei più tenaci è lì in agguato nella hall. Il pilota, stanco, s’è tolto gli occhiali scuri, punta i suoi occhi azzurri nei loro e con la mano destra fa il solito scarabocchio su un cappellino. Poi il cigolio della porta dell’ascensore, e scompare.

A notte fonda attivo l’internet nella mia stanza. Mi cade l’occhio sulla conferenza stampa di giovedì a proposito del weekend seguente. Ai piloti viene chiesto che ricordi abbia-

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