FABRIZIO BINACCHI
LUOGHI COMUNI IL POTERE DELLA PAROLA Errori, bellezze, stranezze del linguaggio giornalistico italiano
MINERVA
INDICE
Introduzione di Camilla Ghedini
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I luoghi comuni dei “primi” giornali di fine Ottocento di Angelo Varni
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Neuroni e linguaggio tra creatività e ovvietà di Pasquale De Bonis
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Premessa | Fare i titoli tutti i giorni
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Capitolo 1 | Parole e definizioni Focus I Focus II
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Capitolo 2 | Parole e frasi con racconto Focus III
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Capitolo 3 | Parole rosse Focus IV
83 89-91
Capitolo 4 | Ricordi di parole e di Maestri
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Epilogo | In fondo siamo parole
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Appendice 103 Ringraziamenti 113 Suggello 116 Indice delle frasi, delle sigle e dei termini
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Premessa FARE TITOLI TUTTI I GIORNI
Provate voi a fare titoli tutti i giorni: cinquanta-cento al giorno per trent’anni e poi provate a rimanere insensibili o inerti davanti a una parola sbagliata o leggermente inadeguata. Non ce la fate. Non ce la farete. Dovrete reagire, prima o poi sbotterete: “Ma no!”. È più forte di voi. Avrete sviluppato un rapporto così intimo con la parola per cui essa stessa verrà a cercarvi e a dirvi: “Aggiustami!!!”. Basta una parola, a volte non basta la parola che avevamo in mente. Chi ha fatto dei titoli la propria professione, sa che dalla parola giusta passa tutto: la lettura dell’articolo, la vendita del giornale, la richiesta pubblicitaria. Una volta nei giornali c’erano quelli che scrivevano gli articoli, detti anche articolisti, e poi c’erano quelli che scrivevano i titoli detti titolisti. Noi nel giornalismo siamo abbastanza elementari, ma cerchiamo di non essere mai scontati. A volte in saldo, ma mai oltre il 50% del valore. Scherzo. Gli articolisti erano e sono importanti perché producono il corpo dell’articolo, la narrazione, la trama, la successione di quelle frasi che fanno di un testo qualsiasi un pezzo da giornale. Quello che suona, quello che risulta a misura di emozione. Ah che non è la stessa cosa: un bel testo, anche corretto, non è detto che possa essere un pezzo giornalistico. Spesso negli anni di corsi e ricorsi per praticanti a Fiuggi o in giro per l’Italia proponevo un testo ben scritto e ben impaginato su un tema di antropologia americana e gli aspiran27
ti giornalisti rimanevano giustamente a bocca aperta. Non per stupore ma nel senso che non sapevano cosa dire. Era bello, era corretto, ma non era un testo giornalistico. Era l’inizio di una tesi di mia figlia. È ancora arrabbiata con me per l’uso in altre sedi. Poi proponevo il lead – ah il lead – cioè le prime frasi di un articolo di Gloria Satta de “Il Messaggero” sulla morte della sorella di Alberto Sordi, e lì gli aspiranti giornalisti professionisti si rasserenavano, vedevi proprio in diretta che i muscoli facciali superiori, e immagino anche il corrispettivo mesencefalo, si distendevano. Chiedo scusa per il mesencefalo, ma non ve lo spiego. Qualche volta pure al giornalista concedete una parola tecnica o scientifica: vi spinge ad andare su Google e cercare un po’. Mica possiamo darvi tutto gratis. “Mica” è bello ma non si deve usare troppo. Da non confondere con Micca o Mika. Quindi voltiamo pagina e basta brancolare nel buio. Ci siamo tutti dentro. Tra aspirazione e catarsi, tra delusione e coraggio. Se poi ci arriva la notizia che è stata trapelata, beh allora possiamo dire che siamo proprio fortunati. Perché brancolare nel buio? Il buio spesso non è fuori ma dentro di noi. Dobbiamo abituarci a chiedere sempre: “Perché?”. Oppure: “In che senso?”. Allora vediamo un po’ di parole e frasi su cui riflettere. Fabrizio Binacchi
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Capitolo 1 PAROLE E DEFINIZIONI
Brancolare nel buio Io brancolo, tu brancoli. Il bello è che voi brancolate e non ve ne accorgete. Il bello di scovare delle espressioni che hanno fatto storia nel giornalismo e nella comunicazione che sono un po’ modi di dire e luoghi comuni e poi scoprire che, in fondo, ci siamo abituati e li abbiamo eletti, questi modi di dire, a codici interpretativi. Se non ci sono ci mancano un po’. A patto tuttavia di non ripeterli troppo. Se in un articolo scrivo una o due volte al massimo che gli inquirenti brancolano nel buio forse ci sta e il lettore o il telespettatore mi sopporta, se lo metto quattro volte vado in overdose. Facciamo una prova: se un modo di dire o di scrivere giornalistico messo in bocca alla gente funziona, è un modo accettabile, se invece risulta raro o storpio è a rischio di inaccettabilità. Figuratevi gli inquirenti che brancolano nel buio. Come dice la Treccani, gente che «procede a tastoni muovendo qua e là le mani per cercare gli oggetti al buio». Più che inquirenti dei sonnambuli o degli smemorati. Sì lo so anche io l’ho usata qualche volta e questa frase è diventata una metafora per dire che gli inquirenti tentano varie e inedite strade per scovare omicida o un ladro e che non vanno a tastoni se non in forma idealizzata e metaforica. E che il buio è quello dell’incertezza e non quello fisico o ambientale. Certo, è una frase che ha una sua musica e pure 29
una sua letterarietà. Brancolare è un verbo che è piaciuto tanto a Dante e a Foscolo, si quello su cui al liceo studiando Dei Sepolcri ci scherzavamo dicendo: «ci vedo Foscolo». In Dante ci si muoveva brancolando nell’oscurità della stanza: «io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno», invece in Foscolo «un dì vedrete mendico un cieco… brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne». Insomma se non ne fate proprio a meno, un brancolare nel buio mettetelo e poi trovate un’altra espressione magari più corrente e meno citata. Quale? Be’ per esempio: gli inquirenti cercano il responsabile ma per ora senza risultati. Sì, lo so, è meno poetica e meno musicale, ma spesso risulta più immediata e il lettore va via più liscio e non brancola nella notizia. Il rischio è che a forza di usare il brancolamento facciamo brancolare forse involontariamente anche chi ci legge o chi ci ascolta. Brancolano nel buio: mmh, che ansia. Risposte provocatorie a prova di cambiamento. Brancolano nel buio? Accendete una luce. Ci sta. Tragedia maturata Oh povera. Sarà poi caduta dall’albero troppo maturo? Ma la tragedia matura? E se fosse ancora acerba? Una tragedia maturata tra le mura domestiche. La fiera dei modi di dire. Sarebbe una notizia se la tragedia fosse rimasta acerba fuori dalle mura della città. Tragedia della follia o follia della tragedia. Anche qui sarebbe più notizia se ci fosse una tragedia non della follia ma del buon senso. Comunque, in astratto, la tragedia può essere maturata, ma anche in questo caso, se ne abusiamo, il maturo diventa insopportabile e quasi marcio. E la tragedia marcia proprio non ci sta. Almeno se non si vuole sconfinare in altro senso e 30
passare dall’aggettivo al verbo, perché a quel punto se la tragedia si sposta certo può anche marciare. Tragedia in marcia. Si sono recati o portati sul posto Mi ha sempre fatto sorridere questa tipica frase della cronaca nera o giudiziaria. Gli inquirenti o i carabinieri o i poliziotti o i vigili si sono portati sul posto. E tu li vedi prendersi in braccio o da soli o l’un l’altro e portarsi magari arrancando sul posto del delitto o del misfatto. Una metafora faticosa anche se dipende sempre dal numero degli inquirenti e dalla loro corporatura. Fa molto giornalismo di fine Ottocento e primo Novecento questa espressione: si sono portati sul posto, come una specie di auto-traslazione con sistemi sconosciuti. Quante volte noi ci diciamo tra noi: ci siamo portati al ristorante. Ci siamo portati sul lavoro. Ci siamo portati al cinema. Perché, se noi normalmente non ci portiamo, dovremmo far portare gli inquirenti e gli ispettori? E poi un’altra piccola ma sostanziale annotazione. Si sono portati sul posto. E meno male. Dove sennò? Al mare? In campeggio? È ovvio che si sono portati sul posto, magari spieghiamo che posto è subito dopo. Evviva portarsi, che fa molto francese, ma noi siamo indubbiamente italici. Poi c’è il recarsi al posto dove andare. Ora, recare sembra più nobile. Ve lo concedo due volte in un pezzo da 40 righe, se sono venti ovviamente una sola. Il presidente si è recato in visita, il magistrato si è recato in aula, il vescovo si è recato a benedire. Perché se “andavano” soltanto erano meno presidente, meno vescovo e meno magistrato? Oh scusate mi devo recare al mercato. Scusa cara, mi reco al bancomat. Ci prenderebbero per matti an31
che in famiglia dove ci conoscono. Meno mi reco e più vado e saremo più croccanti. Quando leggo o sento che qualcuno si reca ancora penso alla frasetta che imparavamo alle elementari per ricordare le varie zone dell’arco Alpino: Ma Con Gran Pena Le Reca Giù. Marittime, Cozie, Graie, Pennine, Lepontine, Retiche, Giulie. Ecco, con gran pena mi reco su. Ora o mai più. Si tinge di giallo Si tinge di giallo? Oh mamma che impressione direbbe la signora Coriandoli ovvero il mitico Ferrini di Quelli della notte che celebrava in narrazione i pedalò del mare romagnolo con la lingua di Bagnacavallo. Oh mamma, davvero la vicenda si tinge di giallo? Chissà che colpo agli occhi. Nebbia gialla è un festival di letteratura dedicata al giallo nelle terre della nebbia. Bell’esempio di crasi plurisensoriale. Nel giornalismo molto si tinge di giallo, oppure si avvolge nel mistero, ora il mistero che avvolge è molto poetico e impalpabile, qualcuno troppo materialista ha pensato che se il mistero avvolge può essere anche una carta da regalo o da protezione. Non facciamo i soliti noti e non facciamoci riconoscere alla prima parola: se i contorni della vicenda sfuggono, può essa stessa diventare un giallo, perché proibirci qualche vibrazione in più? Però anche qui una volta sola, sennò troppo giallo confonde la vista e uno pensa pure all’ittero. No vabbè. Consiglio: si tinge di arancione e a volte pure si avvolge di azzurro. È più rilassante. Pecora nera Ai giornalisti indubbiamente piace giocare con i colori. Se una vicenda si tinge di giallo c’è sempre una pecora 32
nera e la storia si fa grigia. La pecora nera è una figura classica: ciò che si distingue e si nota nel gruppo perché di colore opposto. Pecora nera in comunicazione giornalistica ha anche una accezione negativa, di colpa e di reato: povera pecora, al massimo se la deve vedere con l’altra espressione che gioca sul colore più scuro che c’è, e cioè la maglia nera. Eh quante maglie nere abbiamo dato nelle nostre carriere: abbiamo appioppato maglie nere a tutto: in classifiche sportive, economiche, sociali sentimentali, la maglia nera ci piace tanto. E pensare che poi è anche così di moda. Come si dice in giro, il nero sfina. Maglia nera alla pecora nera sarebbe un nero alla potenza. E, in fondo, meglio qualche pecora nera che un intero gregge grigio. Questa mi è venuta così. Alla Goldoni o alla Bergonzoni. È rebus Ma siamo sicuri che sia rebus? Guardate che il rebus è una cosa seria, si studia e si risolve. Noi spesso usiamo la parola rebus tipo “È rebus sulle tasse”, “È rebus in Europa”, ”È rebus al Senato”, “È rebus sul calendario di Serie A”, in realtà pensando a un’altra parola che non usiamo quasi mai perché considerata brutta: casino, confusione massima. Se ci pensate tanti nostri rebus scritti e detti nascondo la parola casino, confusione massima, disaccordo, contrasto, scontro, pareri opposti, difficile o impossibile soluzione. È tutto un rebus, direbbero nel Chianti, ma poi si consolerebbero alla toscana. È rebus sulle nomine? Chiamate Bartezzaghi. È rebus sulle ricette? Chiamate un medico, ma bravo però. È rebus su di noi? Facciamocene una ragione. 33
Traccia spia In un mondo dove tutto è ormai tracciato, basta passare una semplice carta di credito vicino a un lettore, non c’è quasi più niente da spiare. Ma noi giornalisti cerchiamo di resistere anche all’ineluttabile e ci piace ricorrere alla cara vecchia traccia spia come ai tempi di Arsenio Lupin. Traccia spia per scovare il truffatore degli yacht di lusso, dove la traccia spia ha la sua esaltazione solo nell’associazione con gli yacht di lusso, perché se la ricerca fosse riferita a rastrelliere urbane tutta la traccia spia perderebbe il proprio fascino. Comunque, sia traccia, sia spia, sono parole ricorrenti nel nostro dizionario applicato e, quindi, nei nostri testi: c’è una traccia ovunque e c’è sempre una spia dietro l’angolo, mai che sia su un rettilineo. Ma anche qui è solo questione di tempo. Il bello è giocare e spiare la traccia, oltre che tracciare la spia. Sperando che non sia Covid positiva, la spia. Misura shock Una stilettata, un colpo allo sterno. Quando senti misura shock sei pronto a tutto. Invito un uso parco e una pronuncia adeguata soprattutto nei titoli della massima edizione. Non avete idea, o forse sì, quanto una “misura shock” possa colpire a ora di cena la nonnina che si mette a tavola e non è pronta a essere scioccata senza, peraltro, chiedere permesso. “Covid: sarà shock per economia del mondo”, è un titolo che va per la maggiore. E in fondo come dare torto ai titolisti. Solo che un conto è leggerlo su una pagina e metabolizzarlo tra occhiello e sommario, un conto è sentirselo sparato senza mediazione di termini attenuanti nell’edizio34
ne di grande ascolto. “Covid: sarà shock per economia del mondo”, tradotto si salvi chi può. Via d’uscita cercasi oppure, come succedeva a Monopoli, finisci in prigione senza passare dal Via. È tutto shock. Anche perché essendo una parolina di cinque letterine si presta bene a essere infilata in titoli ad effetto e frasi di getto. Shock di nome e di fatto. Misura shock, sentenza shock, titolo shock, notizia shock, clima shock, noi un po’ shock. Misura nella misura, mi sentirei di dire, e attenzione che a forza di shock non avremo più nulla da definire shock. D’altro canto e dal canto suo Tempo perso e non saprei come giustificarlo. Perché d’altro canto? In che senso? Come direbbe un mio amico, ineffabile psicologo. Appunto: chiediamoci più spesso “in che senso?” e cercheremo un nuovo senso. D’altro canto, per passare a raccontare cosa disse il sindaco dopo che parlò il presidente della provincia, ci può anche stare, anche se perdi due preziosi secondi in una eventuale registrazione. Ma quello che quasi sempre non ha giustificazione logica è usare dal canto suo. “Il sindaco – è ovvio che sia dal canto suo in quanto sindaco – ha aggiunto…” perché, se fosse dal canto di un altro, “il sindaco disse” presupporrebbe un sindaco dai super poteri o leggermente schizofrenico. Dal canto suo, può apparire anche leggermente musicale e una frase di collegamento o di discreta apertura, ma nella maggior parte dei casi è letteralmente inutile, sottolinea con effetto a volte distorto una affermazione che è già attribuita a un soggetto. Io lo accetterei solo se davvero ci fosse il canto, o il cantuccio, o l’incanto. Ma qui finiremmo in un festival delle note alternative. 35
Andiamo con ordine Ora andiamo con ordine. Scappa, eh se scappa, a ogni inizio di lettura di rassegna stampa. Ormai le rassegne stampa riempiono ogni canale dalle 23 alle 9 e passa del mattino, dieci lunghissime ore di prime pagine, di titoli in prima di titoli dentro, di corsivi e retroscena e pure di vignette. Non c’è canale che non abbia la sua corta o lunga rassegna stampa chiamata in vario modo: da prima di domani, a oggi in prima, fra poco in edicola, un’occhiata ai giornali, titolando, e via di questo passo. Una volta sfogliavano quelli cartacei e sentivi pure il bellissimo rumore della pagina che voltava, adesso al massimo senti sbattere i polpastrelli sullo schermo digitale. Ci sono le rassegne stampa rapide ed efficaci, dove chi legge e commenta sta al titolo e al testo, e ci sono invece i chiosatori, cioè quelli che fanno prima il riassunto di quel che possiamo trovare sui giornali senza farceli vedere e, già al secondo minuto forse, ci siamo annoiati perché, se tu mi annunci la rassegna stampa e mandi in onda una lunga premessa della rassegna stampa, mi devi avvertire. C’è un canale rapido, invece, in cui quasi il lettore commentatore di titoli non si vede ma legge con chiarezza e senza fronzoli i titoli, gli occhielli e i sommari e non allarga il concetto perché, ovviamente, sarebbe un’altra cosa, tipo un approfondimento della rassegna stampa. Poi capita che chi comincia la rassegna, dopo averci intrattenuto con due minuti di introduzione, pletorica e a volte inutile, per temi, argomenti e sezioni (ma grande nuovo Gutenberg, passiamo al sodo!) si sente in obbligo di dirci “andiamo con ordine”. Ma sei sicuro? Tu dovevi andare con ordine prima e cominciare dal primo titolo. Poi chi l’ha 36
detto che bisogna andare in rassegna stampa con ordine? E quale ordine? L’ordine di tutti i titoli d’apertura o l’ordine di tutte le prime pagine dall’apertura al taglio basso o bassissimo? Oppure l’ordine degli argomenti omogenei, o l’ordine delle foto notizie in prima? Oppure l’ordine di quello che piace a te? Capisci bene che l’ordine, in questo campo, è ben difficile da definire come ordine generale. Facciamoci questa rassegna stampa e rassegniamoci a farla come viene. Ma stando ai giornali. A emozione. Magari è l’ordine migliore. È tutto È tutto. È tutto per stasera. È tutto per questa edizione. È tutto, è impossibile diciamolo. È tutto per stasera, è temerario e naturalmente non dimostrabile. È tutto per questa edizione è più plausibile. Si sente regolarmente a ogni chiusura di telegiornale, giornale radio e trasmissione di informazione: “È tutto”. No, non credo. Sei proprio sicuro che sia tutto? Tutto cosa? Anche nell’edizione di massimo ascolto di prima serata, in 28 minuti dieci vivi letti dal conduttore o vivi con immagini di 3 o 4 righe e 10 o 12 servizi sonori chiusi non possono dirti tutto quello che è successo nel mondo, in tutto il mondo, nelle ultime 24 ore. Perché questo dovrebbe fare un telegiornale nazionale o internazionale di grande ascolto: dare le informazioni essenziali, ma complete, di quel che è successo nel nostro piccolo grande mondo. Quindi, dire è tutto non è bello e soprattutto non è fondamentalmente vero, è una macro bugia, dire “è tutto per stasera” è un azzardo, chissà cosa sta succedendo in Cambogia o a Montepagano che non si riesce a raccontare 37
in diretta, ma cavarsela con “è tutto per questa edizione” è l’ammissione di una piccola responsabilità oggettiva: diciamo a chi ci ha seguito che abbiamo detto tutto quello che abbiamo pensato di raccontare nel sommario che abbiamo scelto, perché ogni Tg, ogni Gr, è il frutto di scelte, e anche l’inquadratura che mette a fuoco un centro e lascia fuori un lato è una scelta. È tutto quello che volevamo dirvi. È tutto per quest’edizione? Un tuttino, non un tutto generale. È proprio necessario dirlo? Non basta salutare? “Grazie per averci seguito. Buonasera”. Sorriso. Riponete con grazia la penna e non sbattete quei fogli. Questa è la mia opinione Lo si sente di solito al termine di un accalorato o tiepido commento o intervento in talk o interviste lunghe, magari detto con tono sommesso o con tono solenne: “e questa è la mia opinione”. Davvero? Pensavamo fosse quella di un altro. Grazie per la precisazione. Giovane ventunenne La notizia sarebbe se fosse un vecchio ventunenne. In una società in cui tutti hanno l’età di prima e l’età che vogliono accostare comunque, la parola giovane o vecchio a un numero di anni confacente risulta sia prudente sia ridondante. Giovane cinquantenne sarebbe una notizia, ma tutta da verificare. Si cerca attivamente il fuggitivo Anche in questo caso la notizia sarebbe nell’opposto: si ricerca passivamente il fuggitivo. E cioè si sta tutti davanti alla finestra belli fermi e passivi e si cerca di capire se quello 38
che passa, che corre, o che deambula con eleganza è un fuggitivo o è quel fuggitivo. Questo avverbio “attivamente” è usato a volte, e specialmente, per omaggiare di determinazione e dedizione le forze dell’ordine che in quell’attivamente dovrebbero ritrovare sulla carta e a parole la loro soddisfazione. O si cerca o non si cerca il fuggitivo, attivamente è un “secondo” di tempo buttato e mal chiosato. Riunione presso Sembra una espressione elegante, magari adatta anche per un invito ufficiale o una notizia formale, e invece è semplicemente un elegante errore. Le riunioni non si fanno presso ma dentro. Se un sindaco mi invita a una cerimonia presso l’aula consiliare io, a rigor di logica, non entro ma sto presso l’aula, apud, negli immediati paraggi, magari attaccato al muro o vicino alla porta, ma se mi dice presso io sto alla lettera e sto presso. Questa cosa che tutto si svolge presso e non dentro è veramente curiosa. L’avvicendamento del Comando si svolgerà presso la Caserma: tradotto, appena fuori il muro di cinta o la porta carraia? Omaggio ai defunti presso il cimitero: al cancello o dietro la chiesetta Madre? Festa dei coscritti presso il Circolo Nautico, e cioè, perlomeno, tutti sul vicino battello. Ma perché siamo così innamorati di questo “presso” al posto di “in”, “nella”, “nel”. Il consiglio comunale si è svolto nell’aula consiliare, non presso la stessa, cioè nell’anticamera. L’intervento chirurgico è stato portato a compimento speriamo con successo all’Ospedale di Firenze e non presso 39
l’ospedale, che sarebbe anche poco igienico. Tanti auguri a presso, ma se non è presso, usiamo in, nel, nella. È più vero. Incidente si è verificato In realtà l’incidente, più o meno grave, è accaduto o avvenuto. Di solito si verificano i conti o i bilanci. Non mi è mai piaciuto l’incidente verificato, sembra soggetto a controllo numerico. Che ci azzecca? Stringere la cinghia Nel senso di risparmiare, evitare spese superflue o non giustificate. Ci sta: espressione usata spesso nel linguaggio di costume, colore e a volte in economia, raramente in finanza. I finanzieri non stringono la cinghia, razionalizzano le uscite. È ben diverso. Fa impressione tuttavia questa immagine della cinghia che si stringe e si stringe sempre più da una carrellata d’anni. Ci sarà ancora una cinghia così stretta? Esubero con Frajese Esubero è ciò che è in più del necessario. Ai miei tempi del Tg1 fine anni Ottanta non era consentito usare termini troppo tecnici o astrusi. Quella sera, per l’edizione delle 20, roba da 15 milioni di telespettatori allora, intervistai il presidente delle Ferrovie Ludovico Ligato che, raccontando il piano di rilancio e riordino, parlò espressamente di esuberi ed usò cotanta parola. La usai anche io nel servizio del Tg1. Conduceva Paolo Frajese. Terminata l’edizione vidi entrare in redazione economia e sindacato Paolo molto concitato «Binacchi, non sai che al Tg1 non si possono usare parole tecniche e astruse, devi imparare il nostro linguaggio e non fare il tecnico, non usare tecnicismi». Lo lasciai sfogare. 40
Poi con un filo di voce, lui era il conduttore Paolo Frajese io ero l’ultimo arrivato alla redazione economico sindacale del Tg1, gli dissi: «Veramente questo termine l’ha usato lui, il presidente delle Ferrovie Ligato». Momento di riflessione sospesa. «Ah, vero? Vabbè, per stavolta vada, amici come prima». Da allora sto molto attento a usare esubero ed esuberi. Ho sempre paura che tra refusi e trascrizioni possano diventare tubero e tuberi. Nella misura in cui Semplicemente da evitare. Se ti scappa chiedi scusa. C’era un tempo in cui se non usavi almeno due volte ogni dieci minuti “nella misura in cui” non eri nessuno. Poi il mondo ha capito che era una modo per allungare il brodo o perdere tempo e allora, soprattutto nel linguaggio giornalistico, si è sempre cercato di evitarlo. Tranne qualche eccezione. Va di monda in burocratese e in certo linguaggio sindacale e politico. Ci hanno fato anche un film nel 1979. Nella misura in cui. Paura. Molto meglio a patto che, dato che, giacché, siccome, visto che, qualora… ah quanto è bello qualora, semplice, veloce trasparente, viva qualora. Voltiamo pagina È un intercalare diffusissimo tra i conduttori televisivi. Usato a volte anche molto frequentemente. Troppo, talora. E voltiamo questa pagina e non se ne parli più. A volte serve dirlo, a volte è davvero inutile. Volta tu la pagina del tuo copione, e noi abbiamo capito che passeremo dalla cronaca nera agli esteri, basta dire: «A Londra tutti in coda per un concerto» e siamo sicuri che non parliamo dell’incidente stradale di Ancona. 41
Ma noi no, noi no. Noi amiamo sottolineare, ribadire, essere sicuri, dare certezze di sommario e allora fisiamo quella telecamera e annunciamo con tono da corte di giustizia: “Voltiamo pagina”, con leggero sospiro oppure con aria da “vediamo che succede ora”. “Be’ dai, voltiamo pagina e che Dio ce la mandi buona”. Voltiamo pagina spesso è anche una metafora. Che si associa all’atto concreto. Era bello quando accadeva all’insaputa dei protagonisti. Il conduttore vecchia maniera annunciava ieratico Voltiamo pagina e le prime parole della notizia successiva era “Il governo vuole voltare pagina”. Qui è tutto un volta-pagina e siamo sempre alla stessa casella. Voltiamo pagina va bene, basta che non sia urlato e ripetuto e che sia funzionale al nostro periodo e al nostro discorso, cioè che abbia un senso dire voltiamo pagina, altrimenti si potrebbe inventare: “Apriamo il prossimo capitolo”. Ma farebbe molto accademia. Entriamo subito nella notizia No, dai, davvero? E me lo dici così senza preamboli: Entriamo nella notizia? Meno male. Siamo qui apposta. Immaginavo che invece della notizia volessi darmi i tuoi commenti prima di sapere i fatti. Entriamo nella notizia è rassicurante ma spesso inutile, pleonastico, o addirittura non pertinente. È una musica per le nostre orecchie, ma una coincidenza operativa: per la stessa ragione per cui mi stai parlando, caro collega caro giornalista, caro conduttore, caro inviato, è implicito che tu mi stia dando una notizia, che tu voglia darmi una notizia, ma cos’è mai una notizia, se non un evento un fatto di rilevanza collettiva che interessa una pluralità anche trasversale di persone? 42
Dammi la notizia, se puoi vuoi anche entrarci e quindi sviscerarla – mmh che impressione – chiedimi il consenso, perché non si sa mai che io in quel momento, in quel pomeriggio, dopo pranzo o a cavallo della cena, possa essere anche impressionabile. È quell’entriamo subito nella notizia che mi può preoccupare: cosa volevi fare prima, dondolarti sul preambolo, dibattere dei colori del titolo, saltabeccare tra un gusto e un suono prima di arrivare al chi, dove, come, quando e perché? La notizia si dà senza bisogno di annunciarla a meno che non dobbiamo fare attesa e aspettare il probabile picco di share, e allora diamo elementi che si avvicinano alla notizia: era bionda, era alta, andava a Capalbio. Ma quella non è informazione, quello è intrattenimento vestito da comunicazione. La notizia è uno, o una, che si presenta davanti a una telecamera e dice chi, dove, come, quando e perché, senza nemmeno troppi aggettivi e avverbi. “Sulla notizia non si litiga”, diceva il mio amato capo cronista Carlo Accorsi, non ci sono dibattiti: un incendio o è un incendio o non po’ essere un’idea di fuoco per caso, un ladro è uno che ruba, non uno che tende a ricercare la giustizia economica in comportamenti informali, e il netturbino diventa operatore ecologico perché siamo moderni nel linguaggio, poi quando lo incontriamo in vita vera diciamo: eh lo spazzino. E mi viene in mente lo spazzacamino. Non è l’errore il solo vero nemico della notizia, quello ci sta anche, diceva l’altro amato giornalista guida degli anni giovanili Rino Bulbarelli, il vero nemico della notizia e del giornalismo è la banalità. È la superficialità. E quando vogliamo entrare nella notizia e non se siamo capaci, è peggio che essere banali, è essere inutili. 43