Marco Belinelli. «Alla fine ho vinto»

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Prefazione di Boscia Tanjevic Contributi di Ettore Messina, Stefano Mancinelli, Giuseppe Poeta, Marco Sanguettoli

€ 6,90 i.i.

Daniele Labanti

marco belinelli

Daniele Labanti, bolognese doc, ha iniziato a tirare a canestro a otto anni. Presto ha capito che poteva dare una mano al gioco fuori dal campo, come allenatore. Infine, si è convinto che il suo posto era alla tastiera, per raccontare lo sport alla radio, sui giornali, su internet. Inizia nel 2000 a Radio Bruno, fonda un sito di cronaca sportiva, collabora con il “Corriere dello Sport-Stadio” fino al 2007 quando apre il “Corriere di Bologna” e parte l’avventura nella redazione locale del “Corriere della Sera”. Ama il basket e scrivere. Tiene un filo diretto con i lettori sul suo profilo Twitter @DL_corriere.

Daniele Labanti

MARCO BELINELLI “Alla fine ho vinto”

Minerva Edizioni

Il primo italiano sulla Luna. Marco Belinelli ha vinto il titolo Nba con i San Antonio Spurs e ha scritto una pagina di storia della pallacanestro del nostro Paese. Da San Giovanni in Persiceto al tetto del mondo, un’impresa mai riuscita prima ad un giocatore italiano. Mentre tutti gli dicevano di lasciare perdere, che non ce l’avrebbe fatta, Belinelli ha continuato a lavorare duramente per affermarsi nel campionato dove ha sempre sognato di giocare. Ha rifiutato offerte milionarie in Europa per restare negli Stati Uniti e conquistarsi ogni minuto in campo, senza perdere le sue radici e la spontaneità di ragazzo di provincia. Ha giocato accanto alle stelle della Nba, riuscendo ad imporsi fino alla chiamata agli Spurs da parte di Gregg Popovich, il miglior allenatore del mondo. A San Antonio il sogno diventa realtà: per la prima volta un italiano è in una squadra che lotta per vincere, per la prima volta un italiano iscrive il suo nome nell’albo d’oro dell’All Star Game. Belinelli vince la gara del tiro da tre punti, successo in passato ottenuto da campioni come Larry Bird, ed è pronto a salire l’ultimo gradino: stringere tra le mani il trofeo Nba, quello che fu di Michael Jordan, Kobe Bryant e LeBron James.

Minerva Edizioni


Alla mia famiglia


Collana Sul filo di lana

Marco Belinelli “Alla fine ho vinto”

di Daniele Labanti

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Direttore di collana: Marco Tarozzi Editor: Paolo Tassoni Editing: Martina Mugavero Foto di copertina © Getty Images © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di settembre 2014 per i tipi della tipografia Li.Pe, Bologna ISBN: 978-88-7381-601-0

Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Daniele Labanti

MARCO BELINELLI “Alla fine ho vinto� Prefazione di: Boscia Tanjevic Contributi di: Ettore Messina Stefano Mancinelli Giuseppe Poeta Marco Sanguettoli

Minerva Edizioni



INDICE

Prefazione

pag. 7

di Bogdan Tanjević

Basket City, Texas

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All Star Game

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Bologna

39

The Epic Hotel

45

L’anello

65

Dicono di lui

79

Postfazione

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Scheda: Marco Belinelli

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PREFAZIONE di Bogdan Tanjević

È facile riconoscere il talento di Marco Belinelli. È stato facile sempre, fin da quand’era un ragazzino. Io sono un vecchio lupo, qualche giocatore nella mia carriera di allenatore l’ho visto. Uno di questi è proprio Marco Belinelli, che incontrai nell’estate del 2002 quando arrivai alla Virtus Bologna. Un ragazzino che mi colpì subito, come aveva colpito l’allenatore delle giovanili Marco Sanguettoli e Giordano Consolini che dopo una lunga militanza nel club era il mio vice. Un tiro naturale, un ragazzo alto ma veloce, con doti di elevazione fuori dal comune. Quel tipo di giocatore al quale non devi insegnare come fare le cose, ma solo assecondarlo, migliorarlo. Un predestinato. Era un’estate difficile per la società, dopo le spese degli anni precedenti c’era stato chiesto di costruire un roster competitivo spendendo la metà dei soldi. Io ero d’accordo: non ho mai avuto paura o problemi a lavorare con i giovani e ritenevo che davvero fossero stati spesi tantissimi soldi, una quantità enorme. Avevo sentito parlare di due ragazzi molto talentuosi del settore giovanile sui quali poteva valere la pena approfondire delle riflessioni. Uno era Luca Vitali, l’altro era Marco Belinelli. Questa situazione, sommata al fatto che dall’inizio della stagione avevamo subito avuto una serie di infortuni a catena, aveva aperto le porte della prima squadra ai due. Ero andato a vedere, come faccio sempre, alcuni allenamenti delle squadre giovanili. Marco aveva già una marcia in più, non posso vantarmi di avere dato spazio a lui in quel 7


Marco Belinelli

Sul filo di lana

campionato: ne avevo bisogno e lui era già dotato della mentalità necessaria per giocare in serie A e in Eurolega. Non avevo voglia di perdere tempo: è bravo, c’è spazio, gioca. Punto. Utilizzando un vecchio trucco di noi allenatori, lo schierai spesso come playmaker. In alcune partite giocò oltre trenta minuti. Lui avrebbe potuto anche diventare un play se si fosse insistito a farlo lavorare in quel ruolo, ma per me era una guardia naturale. Quando un ragazzo di talento è così giovane, di solito lo sposti indietro di un ruolo, in quel caso da guardia a play, per fargli conoscere meglio il gioco, per completarlo, perché poi quando tornerà nel suo ruolo naturale si troverà ancora più facilitato. E a Marco anche le doti nel passaggio e nella visione non sono mai mancate. A Marco non dovevi dire niente. Anzi, dovevi solo farlo allenare, tenerlo in palestra per notare una settimana dopo i suoi progressi. Lo avrei fatto allenare tre volte al giorno, se avessi potuto, e lui ci sarebbe anche venuto. Ma c’era la scuola, qualcosa di non secondario. Era giusto che studiasse e completasse quel percorso senza pensare solo alla pallacanestro. Era l’unica cosa di cui si preoccupava suo padre. E qui si apre il mondo della famiglia Belinelli, il vero segreto del successo di questo ragazzo. Una famiglia mai invasiva ma capace di grande supporto, che gli ha insegnato dei valori e lo ha cresciuto quell’uomo di spessore che è diventato. In un anno ho visto suo padre due volte, a differenza di molti genitori che vedevo sempre addosso ai loro figli prima, durante e dopo gli allenamenti delle giovanili. Un ragazzo ha bisogno di volare da solo. In quei due incontri, il babbo di Marco non si è mai intromesso nella pallacanestro. L’unica cosa che gli interessava era che suo figlio 8


Prefazione

completasse gli studi. Quanto giocava, in quale ruolo, con quali responsabilità, non lo riguardava. È il sogno di qualsiasi allenatore. Un tempo, quando iniziai la mia carriera in panchina, il coach era il primo interlocutore del giocatore: l’uomo che lo guidava, il suo punto di riferimento, la persona alla quale rivolgersi per crescere, migliorare, diventare un campione. Adesso il primo amore di un giocatore è il procuratore, poi ci sono i genitori, la fidanzata, magari qualche compagno di squadra e solo dopo viene l’allenatore. Ho imparato a entrare nel cuore di decine di fidanzate, per evitare di perdere dei giocatori importanti. Con Marco, sul campo, in quella stagione, i primi interlocutori siamo sempre stati io e Giordano Consolini. Quando un talento incontra questo carattere e questa mentalità, siamo di fronte ad un campione. Per noi allenatori era talmente evidente che l’unica preoccupazione fosse trovare il modo di tenerlo in campo senza mettergli pressione. E in quella Virtus era possibile: Marco era nel posto giusto al momento giusto. La stessa cosa che gli accadde dopo, quando purtroppo il club ebbe quei problemi e lui passò alla Fortitudo. Jasmin Repeša è un tecnico che sa riconoscere al volo il talento, e vide subito che quel ragazzo avrebbe potuto dare tanto alla squadra e diventare un grande giocatore. Così non si tirò indietro e lo fece giocare molto, insieme vinsero anche uno scudetto. Nella Virtus che stavo allenando immaginavo un futuro con la coppia Vitali-Belinelli come leaders. Due campioni prodotti dal vivaio, cosa c’è di meglio? Uno era un chiacchierone, non stava mai zitto, imponeva il suo carattere e infatti era il playmaker. L’altro con quel talento straordinario e quel tiro così efficace era la guardia e il terminale offensivo. Purtroppo le cose non sono andate in questa direzione. 9


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Oggi Marco è campione Nba e ha costruito una carriera solida e di successo in America. È facile anche a dodici anni di distanza ritrovare le stesse caratteristiche che vidi allora guardando qualche allenamento delle giovanili: carattere, intelligenza, comprensione del gioco, umiltà e voglia di allenarsi. Era un ragazzo schivo, riservato, ma pronto a sacrificarsi. Non mi prendo alcun merito per averlo lanciato, sarebbe diventato un campione in ogni caso. Ma credo che avere trovato, quand’era così giovane, allenatori in grado di dargli spazio e pronti a credere in lui sia stata una parte importante della sua carriera. Ritengo che sia stato solo il nostro dovere, perché un coach non ha compiti soltanto verso la società che lo paga ma anche verso tutto il mondo della pallacanestro. Ora Marco ha visto premiati tutti i suoi sforzi, il suo valore viene riconosciuto da un tecnico come Gregg Popovich. Ha vinto il titolo Nba, gioca nei San Antonio Spurs, ha coronato il suo sogno. E io sono contento per lui.

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BASKET CITY, TEXAS

Il Texas nei film di Sergio Leone sono le case di legno, le porte dei saloon, le rose di Gerico che rotolano nella pianura deserta. Il Texas di Marco Belinelli vede soprattutto rotolare palloni, palloni da basket, perché a San Antonio è la pallacanestro l’unica vera ragione di esistenza sportiva. Lì ti parlano di El Alamo – la missione spagnola teatro di una epica battaglia, finita in strage, tra texani e messicani nel 1836 – e del River Walk, un lungofiume attrezzato all’americana con negozi d’ogni tipo e feste etniche che si susseguono tutto l’anno. Rettifico: fino a quindici anni fa, ti parlavano di questo. Ora ti parlano solo ed esclusivamente di Tim Duncan, di Gregg Popovich, di Ginóbili. Sono nomi entrati nella leggenda e nel tessuto cittadino di un posto che, a dispetto dei due milioni di abitanti, assomiglia molto più a un paesone che ad una metropoli. A San Antonio si vive di pallacanestro. Non è una città che non dorme mai, come New York, non è luccicante e glamour come Los Angeles o Miami, non è un polo attrattivo come Chicago. San Antonio – con il suo Alamo, il suo River Walk e tutto il resto – è un puntino in mezzo al Texas e tale sempre resterà. La gente vive per gli Spurs, lo fa perché li ama, perché vincono, perché ha solo loro per stare sulle mappe dell’America che conta. Ma lo fa anche per passione vera, sentita, forse unica all’interno del panorama sportivo americano e certamente all’interno di quello della Nba. Il Texas dei San Antonio Spurs avrà sempre nel suo menu delle superstar particolari. Tim Duncan, ad esempio: vie11


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ne dalle Isole Vergini, sarebbe diventato una medaglia d’oro olimpica nel nuoto se non l’avessero convinto a cominciare col basket. Parla poco, anzi non parla proprio. La sua scala di espressività facciale va dal disappunto al compiacimento, emozioni che comunque è molto parco nel manifestare. Non è alla moda. Non fa pubblicità. Non si fa vedere né notare. È sobrio, ai limiti del dimesso. Ma non c’è giocatore, massaggiatore, allenatore, impiegato o chicchessia che passato dagli Spurs non ne abbia riconosciuto la grandezza, la leadership, l’enorme carisma e la forza trascinante. Oppure Gregg Popovich: un ex militare, regala espressioni del volto ancor meno decifrabili di Duncan. Si mostra freddo, duro, solido. Lo raccontano come uomo in realtà gioviale, amante della buona cucina. Ma l’immagine di sobrietà, dedizione, lavoro e tenacia la incarna perfettamente. Ed è l’immagine che questi due signori hanno dato ai San Antonio Spurs dalla seconda metà degli anni Novanta ad oggi. L’icona di un team che ha vinto cinque titoli Nba sapendo restare sempre al vertice, aggiungendo pedine cruciali alla squadra, sostituendone altre, senza mai perdere l’identità costruita attorno a Popovich e Duncan. È ovvio che i texani li amino, San Antonio è gli Spurs. È naturale che attorno all’unico svago proposto alla città, per giunta capace di portare vittorie e soddisfazioni inimmaginabili, San Antonio abbia creato il mito incartando la squadra di basket con un alone mistico fatto di totale devozione, introvabile se non in Europa, dove una competizione sportiva può assomigliare ad una sfida di religioni pagane, se non a una vera e propria guerra. Ecco, San Antonio ha questa devozione. Solamente un po’ più “sana”.

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Marco Belinelli arriva in questo contesto, nella Basket City d’America. E non può che sentirsi a casa. Nato a San Giovanni in Persiceto, alle porte di Bologna, e cresciuto durante l’apogeo della pallacanestro bolognese, ha vissuto costantemente avvolto dal connubio vita-lavoro-basket. Ipotizzare che una città possa “vivere di basket”, generando così attenzione, passione, pressione, non lo trova impreparato. Immaginare che esista un’organizzazione costruita sulla pallacanestro, in cui l’obiettivo è vincere – sempre – non è un fatto sconvolgente. Adeguarsi al più presto a questo genere di vita e di mentalità, non è un problema. Marco aveva 7 anni quando la Virtus Bologna targata Knorr vinceva lo scudetto del 1993 dopo nove lunghi anni d’attesa, tornando a coronare il sogno di migliaia di tifosi che negli anni avevano contribuito ad alimentare il mito delle V Nere. Negli stessi giorni, si perfezionava l’acquisto della Fortitudo da parte di Giorgio Seragnoli, un imprenditore-tifoso molto ambizioso e determinato a dare l’assalto alla Virtus costruendo una squadra da scudetto. Il derby di Bologna, già di per sé celebrato come pagina epica della pallacanestro italiana, esplode in una “corsa agli armamenti” per trionfare in Italia e in Europa: sta iniziando l’epoca d’oro di Basket City. Nel frattempo negli Stati Uniti, Michael Jordan vince il suo terzo titolo Nba consecutivo con i Chicago Bulls, coronando gli anni di duro lavoro e di cocenti sconfitte con la salita al trono più ambito: essere riconosciuto uno dei più forti giocatori della storia, forse il più forte di sempre. Il piccolo Marco guarda alla televisione con i suoi fratelli le strabilianti partite di MJ, e sogna. Il basket, l’America, la Nba. È tutto apparecchiato perché un grande talento di Bologna possa un giorno sbocciare, percorrere una strada che da entram13


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be le sponde di Basket City lo porti negli Stati Uniti e quindi in cima alla Nba, stringendo il trofeo più ambito. Il Larry O’Brien Trophy. È tutto apparecchiato perché, un giorno, il primo italiano metta un piede sulla Luna del basket. “Quando sono arrivato a San Antonio non avevo nessuna paura, ero solo molto carico. Sapevo che avrei incontrato una squadra piena di campioni, con le ambizioni di vincere nuovamente il titolo Nba. Sono sempre stato uno molto tranquillo, non avevo preoccupazioni per confrontarmi con questo tipo di ambiente. Sapevo che se mi avevano chiamato, era perché pensavano potessi essere all’altezza e dare un contributo. Gli Spurs non fanno nulla per caso. Avevo anche grande sicurezza sul lavoro fatto negli anni scorsi, insomma mi sentivo pronto. L’organizzazione di San Antonio è conosciuta, tutti nella Nba sanno cos’hanno fatto e costruito in questi anni. Chiaramente poi bisogna capire subito come funziona. Da fuori, si tratta di un meccanismo quasi perfetto che quando dà il meglio è praticamente inarrestabile: in campo, nel gioco, ma pure come struttura. Da dentro, ci sono regole e mentalità da capire alla svelta per entrare nel gruppo e farne parte appieno. Chi non è in grado, non si impegna, non è adatto o per qualsiasi motivo fa prevalere altre ragioni a quelle del gruppo, viene presto fatto fuori. Questa è la realtà agli Spurs: è una famiglia, e come tale va vissuta. Se ci stai dentro, ti dà tanto, come nessun altro team nella Lega.” Quella del 2013 è un’estate particolare, ricca di aspettative e tensioni. Marco è reduce da una buonissima stagione ai Chicago Bulls, dove aveva un contratto annuale preso 14


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al volo con l’intenzione di migliorare il proprio gioco e poter vivere all’interno di un’organizzazione che punta in alto. I Bulls avevano giocato la finale di conference ad Est nel 2011, perdendo contro i Miami Heat. Inoltre nella squadra c’era Derrick Rose, Mvp nel 2011 e prossimo al ritorno in campo dopo un anno di stop per un gravissimo infortunio. L’idea, a Chicago, è di recuperare appieno il proprio leader e con qualche aggiunta sul mercato – tra cui proprio Belinelli – tornare a dare l’assalto ai Miami Heat campioni Nba in carica. Le cose non vanno come i Bulls sperano: Rose ritarda il suo rientro, fino a non tornare mai. La squadra si trova sprovvista del terminale offensivo, gioca una difesa ai limiti dell’eroico per sopperire alle lacune, ma è evidente a tutti che non potrà far strada e dovrà presto accantonare i sogni di lottare per il titolo. Qualificarsi per i playoff ad Est è quasi scontato ma nessuno accredita Chicago nemmeno di passare il primo turno, dove affrontano i Brooklyn Nets. Il protagonista assoluto di questo duello risolto alla settima partita è Nate Robinson, un piccolo e scriteriato play rubato al football americano capace di segnare 25 punti in un quarto come di buttare via dieci palloni di fila. Il secondo violino di quest’impresa è Marco Belinelli, autore di partite meravigliose per efficacia e capacità di mettere il tiro che conta nel momento cruciale. Per mostrare al mondo questa sua peculiarità, dopo aver infilato l’ennesima bomba, si esibisce in una “big balls dance” ovvero una danza nella quale il ballerino – nello specifico: Marco – teorizza le dimensioni (ovviamente enormi) dei propri attributi ciondolanti. Inevitabile multa da 15 mila dollari comminata dalla Nba, che gradisce il giusto questo genere di raffigurazioni, ma altrettanto inevitabile esplosione della fama per il ragazzo 15


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di San Giovanni in Persiceto, fino a quel momento poco meno che snobbato da molta parte della Nba. La “sleepyeyed guard”, la guardia dagli occhi addormentati, era diventata in un attimo la “big balls guard”, la guardia con i grandi attributi, e l’amore per lui di Chicago, che già l’aveva adottato, divenne cieco. Qualsiasi tifoso dei Bulls avrebbe desiderato un contratto pluriennale per Marco, dopo quelle prestazioni nei playoff e soprattutto dopo la dimostrazione granitica di essere un giocatore affidabile in qualsiasi contesto tecnico la squadra si trovasse. Essere apprezzati dai tifosi di Chicago è un’enorme investitura: è gente che ha ammirato Jordan, Pippen e i Bulls di Phil Jackson, con l’abitudine a vedere buona pallacanestro e l’ambizione di restare ai vertici. Una promozione ai Bulls è un biglietto da visita pesante. A fine stagione, tutto è pronto per il rinnovo contrattuale. Tom Thibodeau, l’allenatore di Chicago, ritiene Belinelli un giocatore da trattenere per continuare a costruire una squadra da titolo. I Bulls parlano con l’agenzia di Marco, la Excel Sports, offrendo una cifra attorno ai 2,5 milioni di dollari e sentendosi replicare una richiesta di 3,5. Una situazione classica di trattativa dalla quale usualmente esce un contratto da circa 3 milioni in perfetta mediazione tra le parti. È il contratto che Marco desidera e che è pronto a firmare per restare a Chicago dove s’è trovato bene e dove – pensa – sarà possibile nelle stagioni a seguire dare l’assalto al titolo Nba. Il 10 luglio, improvvisamente, i Bulls annunciano la firma di Mike Dunleavy jr., una guardia tiratrice esattamente nel ruolo di Belinelli, per un totale di 6 milioni di dollari in due anni. La porta dei Bulls si chiude in faccia a Marco. In realtà, l’agenzia di Belinelli era al 16


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corrente del fatto che qualcosa a Chicago si stesse mettendo male. Alcune voci parlavano di giochi di potere interni alla franchigia, e quindi della possibilità che il coach non venisse accontentato fino in fondo nelle sue richieste per il mercato. Una di queste, era Marco. Questa incertezza aveva consigliato al procuratore di attivare nuovi canali, il più caldo dei quali era con i Cleveland Cavaliers. L’ipotesi dei Cavs rappresenta un investimento rischioso dal punto di vista tecnico, non hanno le ambizioni e la struttura dei top team e nemmeno ovviamente dei Bulls che Marco era stato costretto a lasciare. Offrono 4,5 milioni di dollari subito, più un secondo anno a 5 milioni come opzione per la società. Non una brutta proposta, ma nemmeno l’offerta della vita. Quella arriva di lì a poco, sulla carta intestata c’è il logo dei San Antonio Spurs e la cifra scritta sotto passa quasi in secondo piano. Marco vuole vincere, vuole giocare in un ambiente che possa migliorarlo e dargli l’opportunità di fare la storia. Accetta la proposta dei texani senza pensare allo stipendio. Avrebbe firmato anche al minimo salariale, in quel momento, pur di giocare con gli Spurs di Duncan, Parker e Ginóbili. “La mia carriera è svoltata dopo la stagione a New Orleans. Abbiamo fatto i playoff e ho capito che sono qui per dei traguardi, non per fare presenza. Vincere è tutto, il resto non conta. Questo significa dare un contributo, siano 2 punti o 32 come mi è capitato di segnare quest’anno, ma la cosa più importante è fare i playoff e giocare per il titolo. Nella storia ci va chi vince. Per farlo occorre migliorare il proprio gioco e lavorare in ambienti di altissimo livello, 17


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come sono i San Antonio Spurs. In questa squadra sento che sto diventando un giocatore completo.” L’11 luglio 2013, Belinelli firma un contratto di due stagioni con i San Antonio Spurs. La prima a circa 2,7 milioni di dollari, la seconda a poco meno di 3 milioni. È una franchigia attenta anche a quanto si spende, non ha mai fatto follie nemmeno per trattenere le proprie stelle, preferendo sempre spingere sul senso d’appartenenza al team e all’organizzazione. Non si va agli Spurs per strappare contratti milionari superiori agli altri giocatori, si va per vincere i campionati. La chiacchierata tra Popovich e l’agente di Be-

cheda: Gregg Popovich è uno dei più decorati coach dello sport americano. Figlio di genitori jugoslavi, ha frequentato l’Academy dell’aeronautica prima di dedicarsi alla pallacanestro. La svolta arriva durante gli anni di Pomona-Pitzer, piccolo college di Division III della Ncaa, che Popovich allena dal 1979 al 1988. In quel periodo instaura un’amicizia con Larry Brown, leggendario coach di Kansas University, che raggiunge per un periodo di assistentato “volontario” nel 1985. Quando Brown lascia Kansas per allenare i San Antonio Spurs, chiama Popovich come vice allenatore. Dopo una parentesi a Golden State, Popovich ritorna agli Spurs nel 1994 con il ruolo di general manager per Peter Holt, nuovo proprietario in carica tutt’oggi. Popovich, così come Brown e altri membri dello staff tecnico tra i quali R.C. Buford, erano stati cacciati dal precedente proprietario. Nel

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linelli, suona più o meno così: “Abbiamo pensato a Marco perché è il tipo di giocatore che ci serve, può fare canestro, sa passare la palla e soprattutto capisce il gioco. La sua capacità di comprensione della pallacanestro può integrarlo benissimo nel nostro sistema, nonostante abbia qualche lacuna difensiva. Se vuole giocare per vincere, come ho letto su qualche giornale, noi gli offriamo un contratto”. Quando Marco viene a conoscenza di queste parole, firma subito. “Appena sono arrivato a San Antonio per il training camp, ho ricevuto la prima sorpresa. A prendermi all’aeroporto

1996, dopo due stagioni dietro la scrivania, il gm Popovich decide di esonerare l’allenatore Bob Hill – ex tecnico anche della Virtus Bologna nel 1988-89 con Sugar Richardson in campo, e vincitore di una Coppa Italia – per nominare se stesso capo allenatore. Popovich eredita una squadra con 3 vittorie e 15 sconfitte e il leader David Robinson bloccato da un infortunio. Anche gli altri veterani del team, come Sean Elliott e Vinny Del Negro, hanno problemi. La stagione è un disastro, gli Spurs vincono appena 20 partite su 82 e sono nettamente la peggior squadra della Nba. Questo però consente loro di avere le maggiori possibilità di ottenere la prima scelta assoluta al draft del 1997, dove scelgono Tim Duncan, un ragazzone del college di Wake Forest. Il resto è storia. Gregg Popovich ha vinto cinque titoli Nba con i San Antonio Spurs.

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era venuto il general manager R.C. Buford, una istituzione di questa società, l’uomo che assieme a Popovich ha costruito, solidificato e dato continuità ai successi degli Spurs. Onestamente non avrei mai immaginato di trovarlo in aeroporto. Certo, ero un loro innesto del mercato e pensavo che qualcuno sarebbe venuto, ma non credevo fosse lui. Questo subito mi ha fatto sentire parte integrante degli Spurs e soprattutto mi ha aiutato a capire dove fossi arrivato. La seconda piacevolissima sorpresa avviene durante il media day, la giornata che la società dedica ai giornalisti mettendo a disposizione tutto lo staff e i giocatori per interviste, foto e incontri con la stampa. Stavo parlando con Manu Ginóbili, che avevo ritrovato dopo gli anni di Bologna, e sento alle mie spalle: «Ciao Marco». Mi volto ed è Gregg Popovich, l’allenatore, il coach migliore della Nba, che mi saluta in italiano. Potete solo immaginare come mi sia sentito in quel momento. Questo è stato il mio incontro con l’uomo che ha cambiato la storia dei San Antonio Spurs, di molti dei giocatori che vedete in televisione e ovviamente anche la mia.” “Un’altra bellissima sorpresa la trovo nello spogliatoio. La società ha deciso di assegnarmi il posto tra Ginóbili e Duncan, ovvero due figure sacre della squadra. Duncan è un personaggio quasi venerato, è qui dal 1997 e ha vinto da protagonista tutti i titoli degli Spurs. Manu invece lo ritrovo dopo le sue stagioni con la Virtus. Lui, a differenza di Duncan, non l’ho visto solo in tv o da avversario. Quando ero ancora un ragazzino, la Kinder fenomenale di cui Ginóbili era il miglior giocatore iniziò a chiamarmi per qualche allenamento con la prima squadra. Io giocavo nelle giovanili, fu pazzesco partecipare in quegli anni 20


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al lavoro di quei campioni. Con Manu parliamo in italiano, c’è un rapporto quasi fraterno. Lui si ricorda di me piccolino e magrolino, nel 2002 avevo 16 anni mentre Ginóbili era già l’Mvp dell’Eurolega. Mi è stato molto vicino all’inizio della mia esperienza agli Spurs, perché per quanto uno possa essere bravo deve capire subito come funzionano le regole, il sistema di gioco, la mentalità. Manu mi ha detto cosa avrei dovuto fare in un caso o nell’altro, mi ha spiegato cosa significa essere uno Spur, mi ha insegnato quel che dovevo sapere per capire meglio e più velocemente il sistema. È stato come andare ad un esame sapendo già le domande: puoi farti trovare ancora più pronto. Non che sentissi le prime settimane a San Antonio come un esame, ma certamente avere la possibilità di accelerare il proprio inserimento nella squadra è stato un grande vantaggio perché mi ha dato l’opportunità di avere maggiori minuti in campo e di dare garanzie all’allenatore riguardo alla mia affidabilità. Credo che l’adattamento a nuove situazioni, nuovi Paesi, nuove squadre, sia diverso per ognuno. C’è chi ci mette un attimo, chi qualche mese, chi non si adatta mai. Dipende dal carattere ma anche dal contesto e dalle circostanze. Certamente l’età conta. La Nba è un mondo nuovo, diversissimo, nel quale bisogna sapersi calare. Io sono arrivato che avevo vent’anni, disposto a tutto perché ero giovane e volevo farcela, avevo avuto grandi coach come Sanguettoli, Messina, Tanjević, Repeša. Ci vuole forza di volontà per stare qui dopo il primo anno, quando in pratica non vedi il campo. Tu arrivi che magari hai vinto lo scudetto, sei in Nazionale, la gente ti acclama, ma agli americani non frega niente: devi ricominciare da zero, capire dove sei finito in termini di vita e di pallacanestro. Tu pensi ‘ok, mi 21


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hanno scelto, ora vado là a guadagnare un sacco di soldi e a fargli vedere quanto sono bravo’ mentre per loro non sei nessuno e passi mesi, a volte anni, in panchina a guardare gli altri giocare. A volte rimuginando sul fatto che potresti fare molto meglio di chi ha minuti in campo al posto tuo. A San Francisco stavo da re, mi divertivo, ma guardavo gli altri giocare. È bello, perché sei all’inizio e ti senti carico e convinto che prima o poi avrai un’occasione, ma difficile. E ci vuole molto tempo, molta pazienza, molta forza di volontà. A vent’anni lo fai, se ci arrivi a 25 fai più fatica perché ti senti più affermato o più attratto da altre priorità perché non sei più un ragazzino. E anche per arrivare agli Spurs c’è il tempo giusto, io sentivo che il mio percorso si stava completando ed era il momento di entrare in un top team e lottare per vincere. La prima cosa accaduta in quello spogliatoio, prima che facessimo un solo allenamento, è stato rivedere i minuti finali di gara 6 del 2013, quella che gli Spurs hanno perso in volata all’overtime raggiunti da un canestro impossibile di Ray Allen. Avevano il titolo in mano, gli uomini della security avevano già distribuito i pass per la premiazione. E hanno perso. Abbiamo rivisto quei minuti di partita, io non c’ero quando loro hanno subito quella crudele sconfitta e mi guardavo attorno, in spogliatoio. Vedevo facce determinate a riprendersi il titolo. Quel video ha svegliato subito la squadra, dal primo giorno ci hanno messo in testa l’unico obiettivo: vincere.” Vincere e Spurs sono due parole in simbiosi, quasi un’ossessione. Quando Marco ha firmato a San Antonio, dall’Italia sono rimbalzati i sentimenti di sincero stupore – quello positivo – misto all’incredulità di chi non ha mai conside22


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rato Belinelli un giocatore “da Nba” e riteneva impossibile che Popovich avesse deciso di puntare su di lui. Ma più di tutti, i pensieri erano sulla tipologia di organizzazione e di città che Marco andava a conoscere. Un luogo dove non esistono distrazioni, dove i tifosi vivono per te e dove il focus rimane sul gioco e sul lavoro duro per tutto l’anno. Non ci sono i club – intesi come locali notturni – di Los Angeles e di Miami, a San Antonio. Non ci sono le modelle, le attrici, le campagne pubblicitarie. Non c’è l’ambiente iper critico e insoddisfatto di New York, a San Antonio. San Antonio è una città in missione con la propria squadra di pallacanestro. Durante le finali Nba contro Miami, in un clima quindi di totale esaltazione e pieno di adrenalina, i tifosi degli Spurs erano talmente carichi da muoversi anche solo per ottenere un saluto o un autografo. Un giorno Marco era a pranzo in un mall qualsiasi della città – una specie di mastodontico ipermercato dove è possibile trovare qualsiasi cosa, negozio, ristorante, servizio – ed è bastato il tweet di un passante per far arrivare, con una specie di passaparola su internet, una frotta di tifosi per scattare una foto con lui. I tifosi dei San Antonio Spurs vivono per i loro giocatori. Questo contribuisce a generare e alimentare l’amore per la maglia che la squadra mette in campo durante le partite. E ovviamente la totale assenza di altre distrazioni tiene gli atleti concentrati sugli allenamenti e sull’obiettivo finale, unico, incrollabile: vincere il titolo Nba. “Certamente una grande forza dello spogliatoio è la presenza di bravi ragazzi. C’è armonia, non ci sono gelosie, l’idea è che siamo una squadra e abbiamo un traguardo da raggiungere. In un anno, non c’è stato un litigio. Ed è 23


Marco Belinelli

Sul filo di lana

davvero qualcosa di incredibile perché qualche screzio fa parte della vita di un gruppo, la convivenza di tante personalità diverse può generare a volte momenti di tensione senza che per questo la squadra crolli o ci siano problemi. Ma agli Spurs l’ambiente è proprio sano, quasi tutti i miei compagni sono dei family-man e quindi si crea questa partecipazione reciproca con uomini che hanno moglie e figli e sono maturi, sanno quali sono le priorità nella vita. Agli Europei ho incrociato Parker, che li ha vinti da dominatore con la Francia, e ho scambiato qualche parola con lui. Mi ha detto che era contento fossi arrivato agli Spurs, che ci sarebbe stato da lavorare tanto perché l’intenzione di tutti era prendersi una rivincita contro Miami. A 28 anni trovarmi in un ambiente di questo genere, dove non si pensa alle feste o alle discoteche, ma a lavorare in palestra, certamente aiuta. Tra l’altro c’è proprio la tradizione di stare insieme: quando giochiamo in trasferta, l’idea è fermarsi a cena dopo la partita e non c’è nessuno che pensa di andare con amici o familiari, nemmeno chi magari è nato o vissuto nei paraggi. Si mangia insieme, poi si vedono altre persone. Questo concetto di gruppo anche fuori dal campo è stato poi portato dentro. Sono cene bellissime perché si respira quest’unità della squadra con lo staff e la franchigia. Passiamo del tempo insieme, con noi ci sono anche gli allenatori e ovviamente il ristorante lo sceglie Popovich: vuole mangiar bene e bere bene, lui che è amante della buona cucina e del vino di qualità. E quando giochiamo in casa, a San Antonio, c’è chi tiene aperto il ristorante per noi sapendo che potremmo arrivare a cena tardi. Bisogna telefonare, però, altrimenti pensare di trovarlo aperto è una follia. Non siamo a New York, qui…” 24


Basket City, Texas

Il concetto di famiglia ai San Antonio Spurs è tale che solo legami di sangue sono considerati familiari. Un amico, un agente, un collaboratore, per quanto fraterno, non è considerato famiglia. Così il pass stagionale per entrare nella struttura e alle partite, viene rilasciato solo a parenti di sangue o alla moglie di un giocatore. Tutti gli altri, ogni volta debbono farsi riconoscere. È un dettaglio che esemplifica cosa siano i San Antonio Spurs, perché solo lì c’è questa attenzione. Gli Spurs sono qualcosa di diverso e unico in tutta la Nba. Sono la dottrina di Popovich. È per questo che essendo nel Texas, tra saloon e rose di Gerico rotolanti, hanno vinto cinque volte il titolo.

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