Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
A Tiziana che mi ha offerto molti spunti per scrivere questa storia.
Melodramma Maurizio Garuti
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Elisa Azzimondi © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-884-7
Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com
Maurizio Garuti
MELODRAMMA romanzo
MINERVA
1.
«Vieni, ti porto a conoscere tuo nonno.» Zia Vera mi prese per mano e mi trascinò per una mulattiera che saliva in mezzo al bosco. All’altro braccio portava un cestino di vimini coperto da un tovagliolo di canapa grezza. Dentro c’era il mangiare del nonno: due fette di polenta e lo spezzatino che aveva gorgogliato tutta la mattina sulle braci del camino. Ci inerpicammo lente, per un sentiero umido e scivoloso. Nella notte era piovuto e un rigagnolo d’acqua scorreva fra i sassi. «Hai voglia di vedere tuo nonno?» disse zia Vera. «Sì, tanta.» Nella mia classe ero l’unica che non aveva mai visto suo nonno. Frequentavo la prima elementare, conoscevo quasi tutti i nonni degli altri scolari, ma il mio no. Era una stranezza della mia famiglia, una delle tante. «Chissà che faccia ha» pensavo mentre cominciavo ad ansimare per la fatica. Però, guardandomi attorno, non vedevo case, ma solo l’intrico della boscaglia, sempre più folto da una parte e dall’altra del sentiero.
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«Dove abita?» chiesi. «Lassù, nella torre. Eccola, ora si comincia a vedere.» La torre, come la chiamava la zia, era l’avanzo di un’antica fortificazione che si ergeva in cima a un’altura, al centro di uno spiazzo disboscato. Era stata costruita secoli prima, immagino come bastione di guardia sull’alto Appennino bolognese. Poi, dopo anni di abbandono, già un po’ diroccata, qualcuno ci aveva rimesso piede decidendo che quel rudere poteva ancora servire per viverci e per alloggiarci gli animali, il foraggio, gli attrezzi da lavoro. Così, non so come né quando, là si accasò la mia razza. E là da allora i miei hanno vissuto e hanno fatto figli e nipoti insieme a muli, asini, galline: praticamente sotto lo stesso tetto e sulla stessa paglia, per anni e anni. Poi, in tempi di esodo dalla montagna, a poco a poco tutti i membri della famiglia abbandonarono quel posto, ruzzolando giù fino ai paesi sulla riga della via Emilia o alla piana dell’Arno, sul versante opposto. Tutti tranne il nonno. Che ancora si aggirava in solitudine dentro quel residuo di torre, fra mattoni ormai sfiniti dal sole e dalle piogge, dal vento e dalla neve. Io allora avevo sei anni, e con il babbo e la mamma abitavo già in pianura, in fondo alla ruzzolata. Ero lassù per una breve vacanza da zia Vera, l’unica della famiglia che non aveva lasciato i monti. Per la verità, anche lei aveva abbandonato la vecchia torre,
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ma s’era stabilita in una borgata vicina, per non staccarsi del tutto dal padre, mio nonno, che io bruciavo dalla curiosità di conoscere, mentre arrancavo per la mulattiera dietro di lei. A casa mia non c’era neppure una fotografia che lo ritraesse. E anche questa era una cosa strana. L’altro nonno, invece, cioè il padre di mia madre, era morto nel disastro della polveriera di Marano di Castenaso, nel 1940, dodici anni prima che io nascessi. «Un botto più forte di tutti i bombardamenti su Bologna messi insieme» diceva mia madre, che era solita esagerare nei suoi giudizi. Ogni anno, il giorno dei morti, andavo con lei al camposanto. Lui, il mio nonno materno, un volto l’aveva: mi guardava da un ovale sfocato su una lapide cimiteriale e mi mandava un sorriso lontanissimo, come se per quella foto si fosse messo in posa mentre era già all’altro mondo. «Questo sì che era un uomo perbene» ripeteva mia madre indicando la figura diafana sulla lapide. «L’unico uomo perbene che ho incontrato nella mia vita, a parte i miei fratelli» precisava. Ne parlava quasi come di un santo e nelle sue parole sentivo un accento polemico contro tutti gli altri uomini, ma soprattutto contro mio padre e il nonno della torre. Di questo nonno della torre, oltre a non averlo mai visto, non sapevo quasi nulla. In famiglia si diceva che per anni avesse fatto il boscaiolo, lontano
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dalla gente, con la sola compagnia di un’accetta e di un mulo, dall’alba al tramonto. Si diceva anche che in gioventù fosse stato uno degli ultimi carbonai, altro lavoro misterioso che si praticava lontano dagli occhi del mondo. So che a ogni autunno partiva con un garzone, sceglieva un punto nel bosco, tracciava un cerchio sull’erba e ci costruiva sopra una catasta di legna verde, appena tagliata. Poi la ricopriva di foglie e terriccio. Accendeva il fuoco sotto il coperchio, e stava lì a vigilare la bruciatura giorno e notte, alternandosi con il suo garzone. Che da bravo garzone aveva da essere muto e servizievole, come il mulo. Così il nonno, scalcinato demone del fuoco, allevava il carbone e lo accudiva. All’addiaccio, nel gocciolio delle piogge e delle nebbie. Nel sottobosco umido, con il solo riparo di una capanna di frasche. Lui e il suo garzone, solitari, selvatici. E questa, dicevano, era stata la sua vita per lunghi periodi dell’anno. Dopo circa mezz’ora di cammino, zia Vera e io sbucammo su una piccola radura spelacchiata in cima al monte. Adesso la torre incombeva di fronte a me, sotto il sole, silenziosa in tutta la sua decrepita desolazione. Aveva poche finestre, piccole. Le imposte, a un solo battente, erano tutte sbrecciate e picchiavano contro il muro a ogni colpo di vento. Qualcuna ciondolava appesa a un solo cardine. Il tetto, composto
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da lastre di ardesia, era rattoppato qua e là con strati di lamiera arrugginita. In basso, addossato alla costruzione come un fungo, c’era un casotto in muratura. Fino a non molto tempo prima doveva essere servito come ricovero per il mulo o per le pecore; attraverso un varco mal chiuso da una staccionata si vedevano ancora resti di paglia sudicia. Dietro, come un altro fungo, spuntava una specie di capanno, che probabilmente era stato un fienile o un riparo per gli attrezzi. Al centro di tutte queste escrescenze, la torre sembrava una catapecchia abbandonata. Ma in alto, sul tetto, un camino fumava. «Il nonno è in casa» disse zia Vera.
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2.
Il cuore mi batteva forte mentre seguivo zia Vera negli ultimi passi sotto la mole di quell’edificio così diverso dalle altre case. Alla base della costruzione c’erano tre gradini alti e consunti. Li scalai, aggrappata al braccio della zia. Poi, eccomi di fronte a una specie di portale, con un architrave di pietra e due pilastri laterali. Dentro questa cornice, che conservava un impassibile decoro d’altri tempi, c’era una porta grezza e scolorita. Zia Vera la sospinse: il battente girò a fatica sui cardini, ed entrammo. Per qualche secondo il passaggio dalla luce al buio mi accecò. Poi cominciai a vedere. Mi trovavo in una stanza alta e tutta annerita, che fluttuava in un tremolio di ombre. Una scala senza parapetto, con i gradini smangiati dal lungo uso, saliva lungo il muro portando al piano di sopra. Una tenue illuminazione pioveva attraverso una piccola finestra dalle pareti strombate come quelle della segreta di una rocca. L’unica vera fonte di luce era il ceppo acceso in un grande camino, nero di fuliggine. Un uomo era sedu-
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to davanti al fuoco su un grezzo seggiolone di legno, e ci dava le spalle, nel controluce della fiamma. «Papà» disse zia Vera, «guarda chi ti ho portato.» L’uomo girò adagio la testa, senza alzarsi. I suoi occhi si volsero a me, luccicanti ai bagliori del fuoco; sembrava che fiammeggiassero anche loro nel folto di sopracciglia e di barba. «Chi è quella lì?» borbottò. «È l’Antonia, la figlia di Sesto» disse zia Vera. Lui si rizzò in piedi faticosamente, restando appoggiato con una mano allo schienale del seggiolone. Poi esplose in un grido terribile: «Fòra!» e tendendo il braccio con il dito indice puntato come una freccia, quasi volesse indicare il punto più lontano del mondo, sbraitò con tutto il fiato che aveva in gola: «Via! Non voglio bambini in questa casa!» Io ne fui atterrita. Scappai fuori dalla porta, attraversai veloce come una scheggia lo spiazzo nudo davanti a casa e andai a nascondermi fra i cespugli, dove cominciava la boscaglia. Aspettai tutta tremante che zia Vera consegnasse il cibo a quel vecchio spaventoso e tornasse da me. Dopo pochi minuti, infatti, la vidi uscire dal portale della torre col cesto vuoto. «Antonia, dove sei?» «Sono qui» risposi uscendo dal mio nascondiglio. «Hai avuto paura?» disse mentre ripercorrevamo il sentiero verso casa. «Sì.» «Fa così quando è ubriaco.»
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Il giorno dopo zia Vera tornò su dal nonno e insistette perché l’accompagnassi: «Vedrai che oggi non ha bevuto, vedrai che oggi è buono...» Io mi lasciai convincere e risalii con lei per la mulattiera verso la torre. Ma quando fummo davanti alla porta, la paura mi riprese: «No, io non entro!» Mi slacciai dalla sua mano e corsi a nascondermi nella macchia. «Ti aspetto qui!» gridai. Lei sospinse la porta e scomparve dentro la torre. “Zia, torna presto!” pregavo fra me. Passò poco tempo e sulla soglia comparve invece il nonno, eretto, con una mano a visiera sugli occhi. Sembrava un fantasma disturbato dalla luce. Io mi accucciai fra la vegetazione nel timore che mi scoprisse. Per alcuni interminabili minuti scandagliò con lo sguardo i bordi della boscaglia. Cercava me. Aveva una faccia così scarmigliata e grifagna che anche da lontano mi incuteva terrore. Gridò in dialetto: «Venòtra! Venòtra!» Che voleva dire: “Vieni! Vieni dentro!” Neanche per sogno, pensai battendo i denti per la paura. Sobrio o ubriaco che fosse, preferivo starmene alla larga e mi appiattii ancora di più fra i cespugli. Per un momento mi balenò il sospetto che zia Vera mi avesse portata là per consegnarmi a quell’uomo terrificante. Dopo quella volta non rividi mai più mio nonno. E neanche zia Vera.
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Ignoro perché allora mi trovassi in vacanza a Camugnano, da zia Vera. Fra lei e i miei genitori non correva buon sangue e mi sembra tuttora incredibile che mio padre potesse affidarmi, anche per pochi giorni, a sua sorella maggiore, per la quale l’epiteto più gentile era “quella carogna”. Per lui zia Vera era colpevole, in combutta col nonno, di tutti i peggiori delitti del mondo. Non ultimo quello di aver provocato la morte della nonna. Le storie udite in famiglia mi fanno ancora rabbrividire. Ai bambini non si facevano mai racconti interi. Erano brandelli quelli che sfuggivano, parole a mezza bocca, spesso accompagnate da imprecazioni, maledizioni, rimpianti. Che io poi cucivo insieme per ricavarne un senso, da rimuginare fra me. Mio padre non parlava molto del suo passato. Qualche rara volta l’ho sentito dire che l’avevano venduto da piccolo a una famiglia di contadini, accasati un po’ più giù, a valle. Era un bimbo di cinque anni al tempo in cui mio nonno lo cedette come garzone: l’età giusta, si riteneva, perché il piccolo non
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fuggisse via dai suoi padroni e si scordasse in fretta della famiglia di origine. Quando il mediatore venne col carretto per portarlo via, Cecilia, mia nonna, cercò di nasconderlo sotto la sua gonnona scura, lunga fino ai piedi. Avrebbe voluto riprenderselo dentro la pancia quel suo figlio, come prima che nascesse, mentre mio nonno e il mercante gli davano la caccia per tutti gli anfratti della torre. Alla fine fu tradito da un coniglio che, spaventato da quel trambusto, s’infilò anche lui in quel rifugio, svelando i piedi nudi del bambino. Scoperto e catturato, Cecilia lo vide allontanarsi sul carretto come un vitello da portare al mercato. A fine anno, in compenso, il piccolo garzone fruttava un gruzzoletto di lire che mio nonno riscuoteva dal sensale. Poi, che vita abbia fatto mio padre in quegli anni, lo sa solo lui. Con me non ha mai detto mezza parola. Con suo fratello Alfonso qualcosa s’è lasciato sfuggire. È dallo zio che ho raccolto le poche notizie in mio possesso. Il suo lavoro era occuparsi degli animali. Dormiva nella stalla con mezza dozzina di vacche, qualche pecora e un mulo. Vestiva un sacco di iuta. Da aprile a ottobre andava scalzo. Frequentò la scuola saltuariamente, fino alla seconda elementare. Non ha mai conosciuto un Natale in famiglia, né una Pasqua. Non ha mai saputo cosa fosse un dono, né un gioco. Ho pensato spesso a cosa può essere accaduto nella sua testa e nel suo cuore durante quegli anni.
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E solo considerando i guasti che può aver subito in quella fase della sua vita, l’ho perdonato per le sue colpe successive. Mio padre era l’ultimo di sei fratelli. Primogenita fu zia Vera, amata e adoratissima da mio nonno. Poi nacque Alfonso, spedito ancora bambino a scavare in grotta, con mille altre formiche operaie, per aprire la direttissima Bologna-Firenze. Poi venne Sergio, morto a due anni di polmonite. Poi Davide, morto a cinque di vaiolo. Seguì Elena, femmina inopportuna più che inattesa: non erano ammesse insidie al ruolo di Vera, la prediletta. Elena fu scacciata di casa, incinta a sedici anni, non si è mai saputo di chi. “Di uno morto in guerra” fu la formula per scoraggiare indagini e curiosità, se mai qualcuno fosse capitato lassù. La cucciolata finì con mio padre, che prese il nome di Sesto. E a lui toccò il destino che ho già detto. Questa era la mia tribù d’origine. La stessa che qualche generazione prima si era insediata nel rudere in cima alla montagna, come si prende possesso di una caverna o di una tana abbandonata. Intorno, le pinete, le faggete, i torrenti, la neve. Il paese lontano, a un’ora di mulattiera. Là i miei vissero selvatici, lontani dal mondo. Imbrancati come lupi. E tutto quello che poteva succedere, è successo. Mia nonna, che generò quei sei figli, ebbe vita crudele e infelicissima. Mio nonno tornava dai boschi ubriaco e la picchiava. Anche questo lo so da discorsi orecchiati qua e là.
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Una volta, più grandicella, capitai al paese; le vecchie mi chiesero: «Chi sei?» «La nipote della Cecilia» dissi. E loro, sospirando di commiserazione: «Ah, la Cecilia, poverina...» Domandai cosa ricordassero di lei. «Tua nonna diceva sempre: “Ah, le mie povere ossa...”» Io annuii: «È morta a quarant’anni.» E loro: «Di stenti e di tristezza.» Mio padre allora di anni ne aveva undici; faceva ancora il garzone in quella stalla un po’ più giù a valle. Nessuno lo avvertì della morte di sua madre, né tantomeno del suo funerale. Di cosa lo volevi avvertire? Badasse agli animali, invece, alle pecore. Che d’inverno i lupi si aggiravano famelici; la mattina c’erano sempre le impronte sulla neve e i segni degli artigli sulla staccionata della stalla.
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Non furono le botte il male più doloroso che nonna Cecilia dovette soffrire nella sua vita. Il nonno era morbosamente attratto da sua figlia Vera. E lei non si sottraeva. Sono stati visti accoppiarsi nella stalla e nella boscaglia. Poi la loro relazione divenne scoperta, accettata o subita in famiglia come una cosa normale. Occuparono il letto matrimoniale. Per Cecilia non c’era più posto nel suo letto di sposa, né altrove. Vera era incinta di suo padre quando Cecilia morì. Il figlio che nacque, Ruggero, è mio zio e mio cugino. Sono cose che ho orecchiato a brandelli da mio padre, da mio zio Alfonso, da mia zia Elena; e confermate dalle vecchie del paese: «La Cecilia ha visto delle cose così brutte che poi si può solo morire.» La dissoluzione del branco familiare, al tempo del grande esodo dalla montagna, fu accelerata da motivi patrimoniali. A Vera si attribuì anche la colpa di avere indotto il nonno a cederle per testamento tutti i beni di famiglia. Perché i miei, pur miserabili, possedevano alcuni ettari di bosco, frutto di antichi
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diritti comunitari, come la maggior parte delle famiglie montanare. Di queste terre s’appropriò Vera, attirandosi altro odio dai fratelli. Una volta, mi pare in casa di zio Alfonso, vidi l’unica fotografia in cui comparivano i miei nonni. In mezzo a loro c’era lo smanco di una terza figura, tagliata a colpi di forbici, di cui sopravviveva solo un piccolo piede dentro una scarpina di bimba: non ci voleva molto a capire che si trattava di Vera. Alfonso emigrò in Toscana e troncò ogni rapporto con il resto della famiglia. Morì, ho sentito dire, con il desiderio che le sue ossa fossero raccolte insieme a quelle della madre. Nessuno si curò di esaudire la sua volontà. Del resto nonna Cecilia era morta da tempo, e quelle “povere ossa” che lei piangeva in vita erano già andate disperse chissà dove. Zia Elena, scacciata sedicenne per quella gravidanza senza mandante, se ne venne via dalla montagna e si stabilì a Marano di Castenaso, poco sotto la via Emilia. Fu assunta come operaia in una fabbrichetta d’infissi, e si rifece una reputazione. Trovò un marito che accettò come proprio quel figlio non suo. Ricordo con un sorriso lo zio Buda, che vendeva limoni andando in giro con un triciclo riverniciato di giallo e mi diceva: «Ne vuoi uno? Senti com’è buono!» Curiosamente non era cattolico ma valdese, una distinzione che pareva quasi una stramberia a quel tempo, fra uomini sbozzati con l’accetta e ancora soggetti a pulsioni primordiali. Lo ricordo con af-
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fetto perché lui era un buono, uno dei pochi nella cerchia dei parenti. Mi regalò una Bibbia, che fu per lungo tempo l’unico libro in casa mia e l’unica lettura della mia infanzia. Anche di questo gli sono grata, oltre che dei limoni. Si trattava di una lettura impari per i miei anni, che potevano essere sette o otto. Ma l’affrontai lo stesso, come un pesciolino d’acqua dolce che si tuffa nell’oceano. Più avanti, anche zia Vera lasciò la tana di famiglia, senza però rotolare giù fino alla pianura. Si fermò in una borgata di Camugnano, poco lontano dalla torre, con un fidanzato col quale non si sposò mai. Finché visse, zia Vera mantenne sempre quel bieco cordone ombelicale con il nonno. Ruggero, il figlio che ebbe da lui, ignoro se sia mai stato consapevole della sua origine. So soltanto che emigrò giovanissimo in Sudamerica, facendo perdere per sempre le sue tracce. Mio padre, evaso finalmente dalla condizione di garzone, tornò a casa. Ma non ci restò per molto. Scappò quasi subito anche dalla sua famiglia, quella che l’aveva venduto da bambino. Inizialmente fu accolto da zia Elena, giù a Marano di Castenaso, e intanto cominciò a lavoricchiare nei cantieri edili. In una balera conobbe mia madre, bella donna, unica femmina di tre fratelli magnifici a sentire lei, figlia di un uomo perbene caduto da eroe nel gran botto della polveriera. Il nonno buono. Sempre parole sue, naturalmente. Era già la sua idea fissa, la sua linea di demarcazione fra il bene e il male del
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mondo. Una linea che non avrebbe tardato a passare anche fra lei e suo marito. Il fuoco si ritrova anche nella fine del mio nonno paterno, quello della torre. Una fine atroce, da povero diavolo, arso tra le fiamme dell’inferno. Per la verità, morì bruciato nel fuoco del camino. Si disse che era ubriaco, tanto per cambiare. Mentre cercava di accendersi la pipa con la brace di uno stecco, gli abiti avrebbero preso fuoco. E anziché allontanarsi dalla fiamma del camino, ci cadde dentro. Lo trovarono qualche giorno dopo, ridotto a un torso carbonizzato. Mio padre non credette mai alla disgrazia. Secondo lui l’avevano ammazzato. E questa fu la versione anche degli altri fratelli, che supposero una macchinazione di Vera col suo amante per impadronirsi dell’eredità. Al funerale del nonno c’era solo il prete. Nessuno dei suoi figli si presentò. Adesso anche loro sono tutti morti. Senza riconciliazione, senza perdono. Nessun fratello ha accompagnato la bara del fratello. Soli e randagi, in vita e in morte. Lupi balordi, delusi dal branco e dal mondo.
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I ricordi più lontani che conservo di mio padre e mia madre risalgono a quando ero bambina di pochi anni: tre, forse anche meno. Rivedo papà che sale la scala con il Mosquito in spalla (una bicicletta a motore, antenata dello scooter), e lo parcheggia nell’ingressino di un appartamento modestissimo a Marano di Castenaso. Era una tipica casa per braccianti, a un piano, come se ne vedevano nei primi anni Cinquanta. Sembrava venuta su per caso: un muro oggi, un muro domani, intonaci sabbiosi che si sfarinavano d’estate e s’ammuffivano d’inverno, fondamenta quasi inesistenti. Sotto c’era la stalla di un birocciaio, che ospitava un deposito di foraggio e un cavallo da tiro; sopra c’era il nostro alloggio. Per entrare bisognava salire una scala esterna, quasi che l’avessero aggiunta alla fine sostituendone una a pioli, come quelle dei pollai. Il gabinetto invece era rimasto giù in cortile, anche perché doveva servire altre due famiglie. Dentro all’appartamento, tutto era in formato mini: c’era una cucinina con una tavolina contro
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il muro, una camerina da letto per tre, e appunto un ingressino dove mio padre parcheggiava il suo Mosquito. Con lamentele a non finire di mia madre che, anche in una casupola come quella, aveva l’ossessione della pulizia, della cera sui pavimenti, delle pattine. E d’estate appendeva cordelle moschicide dappertutto, per combattere le mosche che salivano a sciami dall’appartamento del cavallo, l’inquilino di sotto. I miei erano solo belli. Bello mio padre, snello, moro, occhi verdi come i miei. Sguardo inquieto, da faina, sempre pronto ad arraffare. Forse per prendere dalla vita ciò che gli era stato rubato nell’infanzia. Voglio tutto e subito, sembrava dire quello sguardo. Bella mia madre, mora anche lei, ma dai capelli biondo platino come una diva del cinema. Ammirata, corteggiata, ma senza che nessuno la trasformasse in principessa. Le sue speranze furono presto sbaragliate, dal matrimonio e dalla vita. Oltre alla bellezza, i miei non possedevano altre qualità. Anche gli episodi più remoti di cui ho memoria sono litigi continui fra loro. Litigavano su tutto, non solo per il motorino nell’ingresso. Si rinfacciavano reciprocamente la colpa della miseria, i lavori saltuari, i quattro soldi che entravano in casa, troppo pochi per sopportarsi. Non saprei dire che lavoro facesse mio padre. Ne ha cambiati tanti. Senza contare la lunga schiavitù infantile, il suo primo mestiere è stato il muratore.
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Ai tempi del Mosquito lo vedevo tornare con una tuta sporca di calce e di bianco; in testa portava un berretto fatto con una pagina di giornale, segno che allora faceva proprio quel lavoro, alle dipendenze di un’impresa di costruzioni. Ma non ha perseverato a lungo in questa occupazione. Non gli andava di faticare sotto padrone. L’Italia del lavoro in proprio e dell’intraprendenza correva con gli stivali delle sette leghe in quegli anni del Dopoguerra. Molti erano gli operai che spiccavano il salto diventando padroni e padroncini. Balenavano i primi luccichii del benessere. Anche lui sognava un’attività indipendente, e molti soldi, subito. Non si trattava della naturale aspirazione che può coltivare ognuno di noi. Mio padre non era come chi, appena un po’ prima, cantava “se potessi avere mille lire al mese”, ma poi si accontentava di quello che la sorte gli offriva. Lui era proprio ossessionato da quel pensiero. Non ci dormiva. E si dannava a escogitare espedienti, anche i più infimi, pur di agguantare qualche briciola della grande torta che frullava in quegli anni, opulenti per tutti, ma non per lui. Non disdegnava neppure di rubare le monetine dal mio salvadanaio, per giocarsele al Totocalcio o a un’altra lotteria, pur che ci fosse in palio qualcosa. So per certo che ha fatto del contrabbando. Una volta, mentre per gioco mi volevo nascondere sotto il letto, ho scoperto una pila di scatole strane: stecche di sigarette americane, ho poi capito dall’odore
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dolciastro di tabacco che filtrava fino al mio naso quando mi svegliavo. Più avanti ha fatto l’autista per una cooperativa di trasporti, da lui stesso fondata insieme ad altri colleghi. Mio padre animatore di cooperative è come immaginarsi Jack lo Squartatore alla testa di un ente per la donazione degli organi. Gli affidarono la guida di un’auto blu. Ma in casa l’ho sentito vantarsi che le prime due chiamate della giornata le intascava regolarmente come roba sua, e si fottesse la cooperativa. Lo diceva con i suoi occhi verdi che brillavano, felici della sua furbizia. Peccatucci, piccole illegalità. Lui si metteva in tasca tutto ciò che aveva il torto di capitargli a tiro. Sempre con l’auto blu faceva viaggi misteriosi in Svizzera. Per accompagnare, sembra, qualche viaggiatore con la valigia. Destinazione una banca elvetica, suppongo. O qualcosa di simile. Valigie che scottavano. Valigie che a mio padre dovevano far salire la febbre a quaranta, conoscendolo. Difficile, per uno come lui, non provare ad allungare gli artigli. Una volta, qualcosa dev’essere andato storto, perché tornò a casa malconcio, con una coltellata su un fianco. Disse che qualcuno gli era andato addosso con la macchina. Un banale incidente stradale. Anzi, un infortunio sul lavoro. Un paio di volte, mi sono vista i carabinieri in casa. Ufficialmente, non è mai stato in prigione. Però ogni tanto spariva, senza una spiegazione.
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Era un uomo dall’ingegno vivace e dalla parlata facile. Ha fatto per qualche tempo anche il venditore di enciclopedie porta a porta. Incredibile per uno che s’era fermato alla seconda elementare e non aveva mai letto un libro in vita sua. Credo sia stato il ripiego in una fase di magra, senza nient’altro di meglio per le mani. Tuttavia, devo ammettere che come venditore seppe procedere con metodo. Prima fece il giro dei parenti, poi degli amici, poi dei conoscenti. E fornì tutti di bei tomi dai caratteri dorati sulla copertina cartonata. Esaurito il bacino del suo mercato, abbandonò al loro destino le enciclopedie, e passò a un’altra occupazione più remunerativa. Non so come, riuscì a conquistare la fiducia della famiglia di una povera handicappata. Si trattava di una donna in carrozzella, di età indefinibile, col corpo deforme, che parlava a grugniti. Mio padre l’aveva trovata in montagna, dalle parti di Monzuno, credo, attraverso non so quale giro. Era di famiglia poverissima, gente sprovveduta, che non sapeva niente della vita e del mondo. Lui fu capace di farsi eleggere tutore di questa infelice e amministratore dei proventi che le spettavano, in quanto persona totalmente disabile. Una bazza da leccarsi i suoi baffi da faina. Credo che le abbia portato via tutto, assicurandosi una specie di mensile fin quando la poveretta è rimasta al mondo. Non aveva scrupoli, mio padre. Rubacchiava ai poveri come ai ricchi, non faceva differenze. Posse-
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deva un’abilità da furbastro nell’adattarsi alle situazioni più diverse, sfruttandole a suo vantaggio. Molti anni dopo, già in pensione, riuscì a farsi assumere come factotum nella villa di un’importante famiglia di Bologna. Si trattava degli ultimi discendenti di un nobile casato. Sembravano fatti apposta per essere spennati: una vedova arcigna con incipiente Alzheimer, un figlio gay con vocazione da prete, una figlia ostinatamente vergine con il terrore della deflorazione. Tre in famiglia, uno più matto dell’altro, con una servitù di cinque persone, fra cameriere, cuoche e lavandaie. In questo bel consorzio, mio padre – inaudito – era riuscito a diventare una specie di maggiordomo. Per arrotondare la pensione, diceva lui. Insomma, un’altra bazza delle sue. Non so cosa gli abbia fruttato questa nuova impresa, ma certo non è tornato a casa a mani vuote. Fortuna per lui che nessuno abbia fatto l’inventario dell’argenteria dopo la sua buonuscita.
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Mia madre urlava sempre. Se penso a lei, me la vedo in un’espressione stizzita di disgusto, in una perenne smorfia schifata. La sua bocca, immancabilmente rosso fuoco di rossetto, trema, si deforma, si allarga, e urla, urla, urla. Urlava per le pattine, urlava per la polvere e per le mosche. Urlava perché non c’erano soldi. Urlava contro mio padre, «quel buono a nulla, quel delinquente.» Le visite dei carabinieri, invece, le toglievano il fiato, come se precipitasse dall’altalena. Ma, prima che gli agenti aprissero bocca, sibilava soffocata dall’ansia: «Che ha fatto quell’avanzo di galera? Eh, che ha combinato stavolta?» Poveretta, si aspettava una vita diversa. Si aspettava un altro marito, un’altra figlia, un altro lavoro, altri colleghi, altri vicini di casa, un’altra casa. Siccome tutte le sue attese erano andate storte, s’era messa a urlare, contro ognuno e contro tutti. Contro il mondo nel suo complesso. Del quale si salvavano soltanto i suoi fratelli, loro sì gente onesta, un’altra razza, con in testa suo padre, il martire della polveriera di Marano di Castenaso.
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Era bella mia madre. La più bella di tutte, a sentire lei. Ma nonostante la sua bellezza s’era ritrovata a marcare il cartellino in fabbrica. Nessuno s’era fatto avanti per riscattarla da una posizione di lavoro così immeritata e punitiva. Le sue amiche di gioventù, tutte più brutte di gran lunga, avevano sposato questa un avvocato, quella un ingegnere, quell’altra un imprenditore. E stavano a casa, le signore, a far luccicare i pavimenti, che per mia madre era la massima aspirazione nella vita. Odiava le persone, mia madre. Odiava le loro facce, le loro parole. Odiava la loro vicinanza. Finì per licenziarsi dalla fabbrica. Scelse di diventare donna delle pulizie. Che non era una condizione più onorevole, ma almeno non aveva più intorno dei colleghi. Così poteva lavorare in solitudine, a tu per tu con la caduta molecolare della polvere, in guerra silenziosa con lo sporco siderale del mondo. Quanto al suo bisogno di urlare, si rifaceva appena tornava a casa dal lavoro. I pretesti per sfogarsi non mancavano mai. L’inaffidabilità di mio padre era un motivo più che sufficiente per dare fiato a tutti i suoi rancori. Spesso si accapigliavano. E mia madre, che aveva in corpo nervi e veleno, non ci stava a prenderle. Era micidiale a morsi e graffi. Il più delle volte mio padre doveva battere in ritirata, sbattendo la porta. Era una donna gretta. Se mio padre rubacchiava le monete dal mio salvadanaio per giocarsele alla lotteria, lei faceva di peggio: una volta vendette i gio-
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iellini che mi erano stati regalati per la cresima e si tenne i pochi soldi ricavati. Era fatta così. Non mi ha mai preso in braccio. Non mi ha mai baciata. Mai abbracciata. Anch’io ero vittima dei suoi sfoghi di stizza. Anzi, ero io la sua prima vittima, la più facile, la più indifesa. Mi picchiava per niente. Io la scrutavo quando tornava a casa, e dal suo passo, da come chiudeva la porta o appendeva il soprabito all’attaccapanni, capivo di che umore era. E stavo in guardia. Il più delle volte ritiravo la testa come una tartaruga, per ripararmi dalla tempesta imminente. Non so quale colpa avessi, ma anch’io facevo parte del mondo infame coalizzato contro di lei. Se le dicevano: «Che bella figlia che hai!» era capace di rispondere: «Bella quella lì? Ha una faccia che sembra una padella!» Non era solo una forma sguaiata di falsa modestia. In privato, con me, era ancora più scomposta: «Ma guardati allo specchio: hai una bocca che sembra un taglio di traverso; io sì che ho delle labbra ben modellate, carnose...» Quando però era in vena di rimpianti le sue belle labbra le torceva come quelle di un clown; allora imprecava contro le amiche più fortunate, sospirando: «E dire che nessuna sapeva ballare il rock and roll come me...» Il suo equilibrio psichico era sempre sul filo del rasoio. Bastava un soffio di vento a precipitarla nel delirio. Non so quale pozzo nero di risentimento
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avesse accumulato in fondo a sé. In quei momenti usciva con parole impronunciabili contro una figlia di sei anni: «Spero solo che tu muoia prima di me! E quel giorno verrò a ballare sulla tua tomba!» Parole che ancora stento a credere di avere udito e che quasi esito a trascrivere. E invece le disse, e le ridisse. La sua parabola fu un chiudersi sempre più in casa e in se stessa. Ogni giorno più disgustata del mondo. Più avanti negli anni, in case più confortevoli di quella catapecchia sulla stalla del cavallo da tiro, rifiutava di uscire. Lucidava i suoi pavimenti, li perlustrava in cerca di granelli di polvere, trovava pace solo fra pareti lucide e levigate. Fuori, per lei, erano tutti furfanti e traditori.
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