“Dedico questo libro a mia madre Lucille per avermi messo al mondo nel momento giusto per vivere nel periodo dell’Hippy Generation.”
Collana: Sul filo di lana
Grazie a: Coach Dan Peterson per l’aiuto dato quando avevo bisogno di uscire da un tunnel molto buio La mia maestra Florence Kaivani perché mi ha fatto vedere la luce Caterina Biscaglia, Raffaella Mauri; Lorenza Guerra Seragnoli e Celeste Azzolini di LGS Sportlab; Marco Tarozzi, Nino Pellacani che mi hanno aiutato a farlo promuovere e pubblicare Roberto Mugavero, editore di Minerva Edizioni, che ci ha creduto. La foto di copertina e quelle del periodo bolognese sono dell’Archivio Villani Per le immagini contenute in questo volume l’Editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare.
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Direttore Collana: Marco Tarozzi Grafica e impaginazione: Zonamista.it © 2010 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. ISBN: 978-88-7381-360-6 Minerva Edizioni via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.663.05.57 - Fax 051.89.74.20 www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
Mi chiamavano Kociss
Minerva Edizioni
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GRAZIE CAMPIONE di
Dan Peterson
Sono come qualsiasi allenatore: mi sento in debito con qualsiasi mio giocatore che ci abbia fatto vincere qualcosa! E sia chiaro, John Fultz ha fatto vincere alla nostra Virtus Bologna, targata Sinudyne, la Coppa Italia alla fine del mio primissimo anno in Italia come allenatore, 1973-74. Arrivo a parlare di quell’impresa tra poco. Prima, però, volevo parlare della grandissima crescita di John Fultz, da goleador a campeòn. Io non spreco la parola campione mai. Ma quando un giocatore ti fa vincere un evento come la Coppa Italia, e ti regala la qualifica per la Coppa delle Coppe dell’anno successivo, essendo l’MVP del Final Four dell’evento, allora lui merita il riconoscimento. Non è che la nostra sia stata una storia facile. Anzi. Per colpe non sue, John è stato sull’orlo del taglio prima dell’inizio di quel anno storico. Motivo? Due anni prima la Virtus, sotto la guida del mitico General Manger, l’Avvocato Gianluigi Porelli, aveva preso il pivot Vittorio Ferracini in prestito dall’Olimpia Milano, il leggendario Simmenthal. Alla fine del prestito, cioè, l’estate del 1973, Porelli doveva restituire il cartellino di Ferracini all’Olimpia. Ma non l’ha fatto per una clausola penale: 25 milioni se non veniva restituito il giocatore. Porelli mandò un assegno di 25 milioni all’Olimpia e non dava nè Ferracini, nè il cartellino al Presidente, il Dottor Adolfo Bogonceli. Scena da Far West. Avvocati. Titoli sui giornali. Minacce. Alla fine, è intervenuta la FIP: si va alle buste. Finisce che il Simmenthal deve dare Lit. 125.000.000 alla Virtus per il suo giocatore! Bellissimo, ma io sono senza un pivot della Nazionale, alto 205 cm, una tigre come Ferracini. Che fare? La società vuole un “lungo”. Contatto un agente a Chicago, mia città. Ha un ottimo pivot, Steve Mitchell, 208 cm, All-American a Kansas State. Vado a Chicago e prendo Mitchell. Farà una prova con noi. John Fultz è una belva in allenamento. Dico a Porelli, “Teniamo Fultz”. Porelli, “Bene. Abbiamo risparmiato lo stipendio di Fultz…” Certo, John rimaneva, ma certamente scosso dalla faccenda. Infatti, ha iniziato l’anno facendo molti punti ma non come giocatore da squadra e non ancora il “go to guy” alla fine della gara. Infatti, abbiamo perso alcune partite per un solo punto:
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a Napoli, a Torino; a Milano (Olimpia). Ho chiesto a John di non prendere tutta la responsabilità sulle sue spalle, che non credevo nella filosofia che dice: “Diamo la palla all’Americano e ci penserà lui”. Per me, quell’idea portava alla sconfitta. Con questo, John ha cominciato a giocare dentro gli schemi e abbiamo chiuso la stagione con quattro vittorie in fila in Seriea A e un’altra in Coppa Italia. Come dice anche la copertina di questo libro, John Fultz era della GenerazioneH, quella degli Hippies. Con questo, per me lui non aveva una cosa fondamentale nel contesto di una squadra: la disciplina. Infatti, prima della nostra primissima partita di Coppa Italia, a Livorno (Serie B), John è arrivato 20’ in ritardo per la partenza del pullman. Non dico niente. Nello spogliatoio, prima della partita, dico: “John, quanti minuti eri in ritardo? Venti? Bene, farai i primi 20’ della partita in panchina”. E ha fatto panchina fino a dopo l’intervallo. Ma da questo episodio, fra di noi, è nata la grande intesa: una squadra ha norme di comportamento, valide per tutti, senza eccezione. Man mano, John Fultz si trasformava da cannoniere a vincente. Quegli ultimi tiri che non riusciva a centrare ora andavano dentro. John era sollevato dalla pressione di fare tutto lui. Era più disciplinato in ogni senso della parola. Ha lavorato più di tutti, mettendosi in grandi condizioni fisiche. E la squadra cominciava a girare bene. Infatti, la parabola di progresso tracciata dalla squadra era perfettamente in linea con la parabola di miglioramento - a 360° - di John Fultz. Senza saperlo, John stava diventando il leader spirituale della squadra. Sai, quando il tuo migliore giocatore lavora più di tutti, tutto fila per la strada giusta. Vicenza. Fine anno. Final Four. Coppa Italia. La prima sera battiamo Saclà Torino, 79-73, in una gara nervosissima. Anzi, ho chiesto time-out quando mancavano 6 secondi (una cosa che non facevo mai) per dire a tutti di non dire niente agli arbitri dopo la gara perché uno di loro avrebbe avuto la finale la sera dopo. Poi, battiamo Snaidero Udine per il titolo, 90-74. John Fultz ha fatto 28 contro Saclà; 29 contro Snaidero. E ho perso il conto dei rimbalzi, ma era primo rimbalzista sia nella prima che nella seconda partita. MVP del Torneo. E ci ha dato la qualificazione per la Coppa delle Coppe dell’anno successivo, quando quella era, ancora, una grande manifestazione. Alla fine della partita, uscendo dal palazzo di Vicenza, ho fermato John Fultz. Ho detto: “John, certamente hai sentito voci che noi prenderemo Tom McMillen come straniero l’anno prossimo. È vero che siamo in trattative. Ti dico solo questo: se viene lui, lo prendo. Ma se lui dice di no, voglio che tu rimanga. Hai fatto un progresso straordinario durante quest’anno. Ora sei un campione, un professionista, un giocatore disciplinato, un giocatore di squadra. La strada non è stata facile ma apprezzo ciò che hai fatto per tutti noi”. Poi, è venuto Tom McMillen. Ma non ho mai smesso di ringraziare John per ciò che ha fatto per la Virtus e per il sottoscritto.
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QUEGLI ANNI “ON THE ROAD” di
Marco Tarozzi
Framingham, Massachusetts, è la città che ha dato i natali a John Leslie Fultz. Dista appena tre quarti d’ora di auto da Lowell, dove nacque un altro bostoniano illustre, il mitico Jack Kerouac. Si spiega forse anche così il fatto che “Kociss”, icona del basket che rinasceva a Bologna nei primi anni Settanta, avesse nelle corde una sorta di “On the Road” padano, ambientato proprio intorno a quel mondo di canestri e di americani che hanno fatto sognare danzando sui nostri parquet. Fultz lo aveva nel cassetto da tempo, questo libro. E ora, finalmente, può mostrarlo al popolo del basket, che non lo ha certo dimenticato. Non aspettatevi la solita biografia, però. Un romanzo autobiografico, semmai. Parla anche di pallacanestro, ma è soprattutto una storia sociale, il racconto di un’epoca, i primi anni Settanta, vissuti in Italia, tra Varese e Bologna (soprattutto Bologna) e visti con gli occhi di un ragazzo americano piombato nel nostro paese dopo essere arrivato a un passo dal grande sogno. Che per un giocatore di basket è sempre quello: calcare i campi della Nba. John fu soltanto sfiorato da quel destino possibile. Sfiorato davvero. Ma quando Red Shaus gli offrì il minimo contrattuale senza garanzie, seppure con la gloriosa canotta dei Lakers, ringraziò e prese la strada dell’Italia. Eppure i numeri li aveva, e Shaus non lo aveva chiamato per caso. Con la canotta di URI, University of Rhode Island, aveva lasciato il segno. E il ricordo di duelli memorabili. Tre in particolare, con un ragazzone di Roosevelt che giocava a UMass, University of Massachusetts. Praticamente, un derby. I due si affrontavano alla pari, sprigionando talento. John, più tardi, avrebbe attraversato l’oceano per giocare in Italia. L’altro si chiamava Julius Erving, e sarebbe diventato “Doctor J”. Una leggenda della Nba. La storia italiana di John passa da Varese (e da una Coppa dei Campioni sfiorata, da straniero extracampionato), e da Bologna, dove diventò una colonna della Virtus di Porelli ma si aprì anche a un’altra vita, legandosi agli studenti universitari arrivati in città dagli States, scoprendo i capelli lunghi grazie ai quali si guadagnò l’appellativo di Kociss. Sposando ideali di pacifismo, di libertà di pensiero e di azione. Accogliendo nella sua casa, con la generosità di quegli ideali, ragazzi e ragazze
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spesso attirati soprattutto dalla sua notorietà. Una vita quasi “on the road”, senza però mai dimenticare gli impegni sul parquet, dove “Gionmitraglia” seppe entusiasmare: il suo duello col “Barone” Gary Schull segnò l’inizio delle grandi sfide tra Virtus e Fortitudo, e fece ritrovare ai bolognesi la passione per la pallacanestro. Lui e il “Barone” gettarono le fondamenta della Città dei Canestri. Oggi John Fultz ha passato la sessantina, insegna inglese a Napoli, ha un figlio (Robert) che ha vestito anche la maglia azzurra. Ha un talento per insegnare ai giovani che non è quasi mai stato sfruttato nel modo migliore. Ma ha anche uno spaccato di vita da raccontare, e quella vita ci riguarda da vicino. La sua non è solo una storia di sport. Parla di smarrimento e rinascita interiore. Come chiunque, scrivendo, trova la forza di raccontare di sé, John si è messo a nudo. Ha raccontato i suoi errori giovanili ma anche la sua determinazione, la volontà con la quale (potenza dei vent’anni) riusciva sempre a raddrizzare le sue nottate esagerate, sudando e lottando sul parquet. Ha messo nero su bianco il viaggio di un campione che ha inseguito i suoi sogni, spesso ingenui, e ha saputo ritrovare la strada. “Mi chiamavano Kociss” è una storia intensa, movimentata, palpitante. Ed è pura, sincera, onesta come l’uomo che ha deciso di scriverla è sempre stato, nei giorni felici e in quelli difficili. Un gran bel messaggio a beneficio delle nuove generazioni. Non solo quelle che vivono di basket.
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DESTINAZIONE ITALIA
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Ho salutato la mia bellissima madre, Lucille, la sera prima di partire per l’Italia. Con lei c’era Frank, il suo intelligente compagno e mio fratello Bob, lo studioso della famiglia. Ci hanno offerto una cena a base di aragoste all’Anthony’s Pier 4, da dove si poteva ammirare una bellissima vista del porto di Boston. Naturalmente c’era anche Patty, la mia ragazza: spiritosa, sempre con la battuta pronta. Mancava solo la mia amata sorella Barbara, che era sulla costa occidentale del paese, dove viveva insieme al marito Don. Abbiamo avuto modo di vederci spesso quando giocavo nei Lakers e loro abitavano a Newport Beach. Provo un profondo affetto per entrambi, che coppia fantastica! Forse avrebbero dovuto incatenarmi, e costringermi a non lasciare i Lakers! Mia madre, sul punto di scoppiare in lacrime, chiese a Patty: «Come puoi lasciarlo andare laggiù, così lontano?» Patty rispose con il suo solito e tempestivo umorismo: «Be’ non lo so, non è ancora partito. Mi organizzerò per raggiungerlo e stare con lui un bel po’ di tempo». «Certo, farò lo stesso anch’io» disse mia madre. «Potrete venire ogni volta che lo desiderate, perché voi sarete sempre le donne più importanti della mia vita» dissi loro pieno di entusiasmo. «Non credo che tu debba partire. Dovresti restare qui, laurearti e poi pensare al basket» suggerì mio fratello Bob, con la consueta saggezza. «Be’ - intervenne Frank -, credo che andare in Europa sia un’ottima esperienza, anche se ho sempre pensato che lanciare una palla in un canestro fosse una cosa stupida». «Oh, Frank. Adesso basta per favore» disse mia madre commossa. «Sta solo facendo quello che il suo vero padre Jack avrebbe voluto. Lui giocava con Boston, questo lo sai, vero?» «Certo, me l’hai detto mille volte» rispose irritato. «Ascoltate, tornerò presto e andrò alla scuola estiva per completare gli studi, ok?»
Destinazione Italia
ARRIVEDERCI
Mi Chiamavano Kociss
Sul filo di lana
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«Mi sembra un buon compromesso, Johnny, ma fai in modo di tornare presto» disse mio fratello. E continuò: «Lo sai che Julius tornerà per i campi estivi, nonostante stia tirando su un sacco di soldi giocando nell’ABA. Lui ha sempre lavorato duro, molto più di te. Dovresti prenderlo ad esempio». «Certo, Bob, se lo dici tu! Mi hai detto la stessa cosa la mattina prima del nostro debutto con la squadra dell’Università del Massachusetts; siamo arrivati sul vostro campo carichi, con la rabbia dentro, e vi abbiamo inflitto una sonora sconfitta. Se ricordo bene ho realizzato 26 punti e preso 13 rimbalzi, Doctor J invece di punti ne ha fatti 20 e di rimbalzi 12». «Giusto John, ma che mi dici dei successivi due incontri tra te e “The Doctor”»? Era una domanda retorica, conosceva già la risposta. «È vero – dissi –, “UMass” ne è uscita vittoriosa ed Erving ha fatto meglio di me, ma nell’ultima gara, quando lui di punti ne ha fatti 40, io ne ho segnati 33 ed alla fine abbiamo perso per soli 5 maledetti punti, nonostante “Snowflake English” si fosse rotto un polso e fosse dovuto uscire dal campo; sono sicuro che se non avesse avuto quell’infortunio avremmo vinto il campionato!» «Certo! E se il cane non si fosse fermato a cagare, avrebbe preso il coniglio!» disse Bob scherzando. «Ma è vero, devo ammetterlo. Tu non riuscivi a fermarlo, ma neanche lui riusciva a fermare te!» «È vero Bob, non c’era nessuno che potesse fermarlo, ma nel primo match, con l’aiuto dell’inglese, ci siamo riusciti!» «Johnny, credo che dovresti restare qui, e forse un giorno vedremo voi due giocare l’uno contro l’altro e darvi di nuovo battaglia» aggiunse. «Tornerò, stai tranquillo, ho solo bisogno di fare un po’ di esperienza. Sono veramente curioso di vedere l’Europa e scoprire questa nuova cultura. Giocherò con Varese, sono i campioni d’Europa!»
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Patty mi accompagnò all’aeroporto con la sua vecchia Plymouth decappottabile, la stessa che aveva alle scuole superiori. Mi piaceva osservare il vento sollevare la gonna e scoprire le sue bellissime gambe. Le portiere cigolavano un po’ quando le aprivi o le chiudevi, e la ruggine si stava lentamente impadronendo della carrozzeria, ma i ricordi legati a quella vecchia macchina erano ancora vivissimi. C’era qualcosa in Patty, forse il suo profilo malizioso, probabilmente il suo carisma, la sicurezza di sé o la sua classe così spontanea, ma mentre ero seduto accanto a lei su qella vecchia macchina mi sembrava di essere a bordo di una lussuosa limousine. «Mi mancherai, dolcezza» le sussurrai mentre mi chinavo per baciarla di fronte all’ingresso delle partenze. «Sai, Johnny – disse guardandomi dritto negli occhi – sei stato il mio primo amore. E il primo amore non si dimentica mai. So che non mi sei sempre stato fedele quando eri all’università, ma nemmeno io mi sono comportata sempre bene. Eppure anche se entrambi, a volte, ci siamo presi le nostre libertà, il nostro amore continuerà a vivere per sempre, anche nelle altre persone che incontreremo». «Ah-ha, è questo ciò che intendi quando dici “lontano dagli occhi lontano dal cuore”?» scherzai. «No, scemo! Voglio dire che il sentimento che c’è tra noi durerà per sempre, a prescindere dalle cose che succederanno» rispose lei con tono serio. Poi continuò: «Non ti preoccupare Johnny, io sarò qui quando deciderai di tornare a casa. Promettimi che starai via solo un anno». «Tranquilla, spero di tornare a Los Angeles l’anno prossimo. Al massimo starò via due anni. Tu comunque quest’anno sarai occupata a fare il servizio civile al “Peace Core”1. Se decido di restarein Italia un anno in più, potrai sempre raggiungermi e stare con me tutto il tempo che vorrai. Comunque andranno le cose, spero che verrai a trovarmi presto, almeno per un po’». «Anche io lo spero, mi piacerebbe tanto vedere l’Europa, specialmente l’Italia. Ci manterremo in contatto, Big Boy. Ti amo». 1 Programma di volontariato per i paesi in via di sviluppo istituito dal Presidente Kennedy.
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PARTENZA
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Poi mi attirò a sè per un ultimo bacio d’addio. «Anch’io ti amo, Patty». Presi il mio bagaglio a mano e corsi verso l’aereo, voltandomi solo una volta per vederla asciugarsi le lacrime che le correvano lungo il viso.
Mi Chiamavano Kociss
IL VOLO Mi stavo godendo un piacevole volo in prima classe su un 727 della TWA. La mia poltrona in pelle era grande e comoda, e c’era spazio a volontà per le mie gambe. «Gradisce qualcosa, signore? Un drink, oppure uno snack?» Mi chiese una graziosa, biondissima hostess. «Per favore, chiamami Johnny» la esortai prontamente. Dopotutto l’avevo chiamata “Carol” già dal momento del decollo. Avevo letto il suo nome sul cartellino che tutte le hostess portano sulla divisa. Il suo era attaccato a sinistra, appena sopra un seno rotondo e prorompente che sembrava straripare dalla camicia. Se fosse stato lì uno dei miei amici avrei sicuramente commentato con qualcosa del tipo: «Ehi, fratello, guarda i fari abbaglianti che quella bella bionda sta sfoggiando! Non ti piace questa nuova moda di non indossare il reggiseno?» Non potevo fare a meno di pensare anche alla riposta che, se fosse stato lì, il mio amico Joe Lopes mi avrebbe dato: «Vero, Big John: quella ragazza ha veramente dei fari abbaglianti, e puntano su in alto, dritto verso le stelle!» “Grazie Dio per averci dato la hippie generation!” stavo pensando in quel momento. Infatti, e non c’è bisogno di dirlo, erano molti i vantaggi della nuova moda hippie, anche se noi, figli dei fiori, ancora non lo eravamo diventati. Ci chiamavano “Jocks”. Significava che noi eravamo sportivi fricchettoni a cui piaceva rimorchiare ragazze e andare alle feste. Quei ragazzi dai capelli lunghi erano molto simpatici e noi stavamo bene in mezzo a loro e, cosa molto importante, le ragazze sembravano essere diventate più “disinvolte” grazie al fatto che la filosofia dell’amore libero era ormai di moda. Avevo notato Carol, così come aveva fatto quel calvo uomo d’affari italiano, Salvatore, seduto di fianco a me su una di quelle comode poltrone di pelle di prima classe. «Sometimes queste fantastic women dall’America essere veramente belle, come questa fantastic bionda della nostra hostess». «Eh, sì! – concordai –. Ho sentito che anche in Italia ci sono belle ragazze, righta Sir?» «That’s-a right! Italia essere famosa per sua bellezza, suo cibo e sue donne!» mi rassicurò. «Mi è sempre piaciuto il cibo italiano, adoro Sophia Loren e Gina Lollobrigida: sono assolutamente bellissime!» E lui con entusiasmo: «È vero Mister John, ma a me piacere tanto vostre Marylin Monroe e Jane Mansfield, too!»
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«Johnny, gradisci qualcosa da bere, un tè…o me?» mi sussurrò Carol nell’orecchio, chinandosi in avanti e cominciando a stuzzicarmi. D’un tratto aveva assunto un atteggiamento molto confidenziale. «Vorrei una Bud e un sandwich al prosciutto e formaggio. E anche…te!» Le sorrisi timidamente, poi aggiunsi con uno sguardo complice: «Ma visto che questo per ora non è possibile, penso che schiaccerò un pisolino dopo questo spuntino, e se sarò fortunato, ti sognerò». Carol chiese: «Come mai stai andando in Italia John, è una vacanza?» Sembrava sinceramente interessata. «No. Giocherò basket vicino a Milano, a Varese, la squadra campione d’Europa. Penso che mi fermerò lì per un po’ di tempo». «Davvero? Io scendo a Milano due o tre volte al mese e mi fermo un paio di giorni. Forse potremmo incontrarci». «Mi sembra una fantastica idea!» le risposi, un po’ sorpreso dalla sua proposta. «Mi scusi, signorina.» Era una voce maschile alquanto spazientita. «Potrebbe portarmi un altro Jack Daniel’s con ghiaccio quando ha finito? Quell’uomo non è l’unico passeggero di cui si deve occupare». «Mi scusi signore, arrivo subito da lei» disse all’impaziente passeggero.
Dopo un paio di birre fresche ed altrettanti panini, il tutto accompagnato da patatine, cominciai a sentire le palpebre un po’ pesanti. Quando chiusi gli occhi cominciai a pensare, e poi a sognare gli eventi e le situazioni che mi avevano portato su quell’aereo, incontro al mio destino. Mi ricordai delle partite durante il campionato estivo, quando giocavo con i Lakers. Ne avevamo disputate un paio contro i Rockets che poi giocarono a San Diego. Tra le loro stelle c’erano Calvin Murphy, giocatore piccolo, alto appena 1m e 75 ma tiratore micidiale e veloce, e Rudy Tomjanovich, un cestista alto 2m e 05, giocatore davvero completo. Io e Murphy eravamo diventati amici al Five Star Camp, uno dei campi estivi di basket più quotati negli States, dove entrambi lavoravamo come allenatori giovanili. Ricordo quella volta in cui, di mattino presto, dopo aver fatto tiri a canestro sotto le stelle con me fino a mezzanotte, Murphy si svegliò e cominciò ad allenarsi con il baton twirling. Incredulo gli chiesi: «Ehi, Calvin, cosa stai facendo sveglio così presto?» «Ma non lo vedi, scimmione che non sei altro? Mi sto esercitando con il twirling, voglio essere il migliore al mondo». Ho poi saputo che era arrivato secondo nel campionato mondiale tenutosi a Miami. Calvin Murphy aveva uno spirito davvero competitivo. Una volta andammo a fare un paio di tiri in un campo da golf. Io ero stato capitano della squadra alle superiori, avevo vinto qualche torneo amatoria-
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TRA LE NUVOLE SOGNANDO IL BASKET
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le, ed in fin dei conti me la cavavo piuttosto bene. Riuscivo a tirare quasi come un vero professionista. Quella volta avevo fatto tiri due volte più lunghi dei suoi, mentre lui faceva fatica a colpire la palla in modo adeguato, anche perché non aveva mai giocato seriamente. Eppure si ostinò a restare fino a che il suo punteggio non fosse migliorato. Dopo due ore, esausto, gli dissi: «C’mon Calvin! Andiamocene!» «Non se ne parla nemmeno Johnny. Starò qui fino a che non tiro più lontano di te». «Dài, Calvin. Io gioco a golf da quando ero bambino. Come puoi pensare di battermi dopo solo un pomeriggio di pratica?» «Al diavolo! Questo è un gioco da honkey2. Torniamo a giocare uno contro uno al campo». Così quel giorno finimmo di nuovo a darci battaglia sul campo di basket, uno contro uno. Alla fine si prese la sua rivincita vincendo due partite su tre. La gente e i suoi compagni avevano potuto ammirarlo, prima di una gara durante il campionato estivo contro i Rockets, mentre si destreggiava nel twirling e mostrava i numeri che era in grado di fare, intrattenendo il pubblico che era lì quasi esclusivamente per veder giocare le due prime scelte della squadra. Loro avevano due grandi giocatori, ma i 22 punti di McMillian e i miei 19 con 10 rimbalzi ci tennero in partita fino alla fine, e perdemmo di un solo punto. Tiro in sospensione di Tomjanovich all’ultimo secondo. Calvin fece 27 punti. All’epoca ogni squadra NBA aveva dieci scelte ed io ero quarta dei Lakers. La prima scelta era Jim McMillian, la seconda Jim Cleamons, e non c’era un terzo. Appena dopo di me c’era il figlio del grande George Mikan. Era alto come suo padre, ma non altrettanto dotato e determinato. Probabilmente non ero tra le prime scelte perché avevo giocato come centro pur essendo alto “solo” due metri e, nonostante i miei numeri (media di 23 punti e 13 rimbalzi), i talent scout dell’NBA erano scettici sulla possibilità che io potessi diventare una buona ala piccola. Quell’estate giocammo anche contro i Golden State Warriors e i Milwaukee Bucks che avevano la fortuna di avere come prima scelta assoluta il grande Kareem Abdul Jabbar, un gigante da 2m e 20. Chiunque conosca minimamente il basket sa chi è. Un tempo si chiamava Lew Alcindor, ma dopo essersi convertito all’Islam il suo nome è diventato Kareem. Tuttavia la conversione religiosa non ha cambiato il suo modo di giocare: era un grandissimo giocatore sia prima che dopo aver cambiato nome. La prima volta che giocai contro di lui fu durante l’estate tra il secondo ed il terzo anno di università alla University of Rhode Island. Mi ricordai quando Henry Carey, che mi aveva preso sotto la sua ala protettrice all’inizio del mio terzo anno, mi disse: «Ehi, Johnny, perché non vieni a stare a casa mia per qualche settimana. Ti farò vedere cosa significa veramente giocare a basket». Accettai l’invito con entusiasmo. 2 Termine piuttosto comune negli States, è utilizzato nei confronti dei bianchi in maniera scherzosa.
Mi ritrovai così a dormire su un divano nel suo appartamento, composto da tre stanze affollate, ad Harlem. Non si stava tanto larghi, aveva due fratelli e due sorelle, ma questo non impediva che l’armonia regnasse in casa, grazie anche alla madre, che cucinava con amore cose davvero deliziose. Rimanemmo sul campo di pallacanestro di Jones Beach per tre incontri. Funzionava così: la squadra vincente manteneva il campo. La nostra era composta dai migliori giocatori della URI. C’erano Art Stephenson, una macchina fabbrica punti e acchiappa rimbalzi alta 2 metri, e Larry Johnson, ottimo tiratore, un cecchino, alto 1m e 90. C’erano poi Henry, grande saltatore e bravissimo nell’uno contro uno (era alto 1m e 86), e un ottimo marcatore e giocatore versatile di nome Nate Adjer, alto 1m e 95, che all’epoca giocava al junior college, ma l’anno successivo sarebbe entrato in squadra alla URI. La squadra successiva da battere aveva giocatori che tutti conoscevano: uno era Kareem, l’altro era un ragazzo che a 19 anni era già una leggenda dei campi di New York: Doctor J! Kareem, poi conosciuto come Big Lou, era 2 metri e 18 centimetri. Era rapido, forte e possente, famoso per il suo “sky hook”, un gancio impossibile da stoppare. Giocò poi all’UCLA dove la sua squadra era imbattuta. Secondo molti osservatori era senza ombra di dubbio il miglior giocatore del campionato collegiale. Doctor J, ovvero Julius Erving, era un giovane spilungone che volava in aria con eleganza, sfidando la forza di gravità e stringendo la palla nelle sue enormi mani, facendola scorrere da una parte all’altra, mentre cercava un modo per metterla nel canestro con le sue lunghe braccia. Di solito il tutto finiva con una schiacciata o un finger roll. Pochi immaginavano che questo ragazzino sarebbe poi diventato il mio rivale del college all’UMASS, per poi diventare, negli anni ’70, il miglior giocatore di pallacanestro (insieme a Kareem, ovviamente). La loro squadra poteva contare su un rapido e forte difensore proveniente da Fordham, capace di assist incredibili per questi due giganti. Si chiamava Charlie Yelverton e, oltre ad essere un avveniristico assist-man e un difensore forte e instancabile, poteva andare a canestro galleggiando in aria e rimanendo sospeso come se il tempo si fermasse per l’eternità. Che trio incredibile! In qualche modo riuscimmo a restare in partita per un po’, ma alla fine vinsero 40 a 34 e si ripresero il campo. Mi ricordo che Henry mi disse: «Non te la prendere, matricola, gli abbiamo dato filo da torcere. Che ti serva da lezione. Finché non impari a fintare, saltare l’uomo e andare dritto a canestro come fa un nero, non potrai mai competere con giocatori come Doc». «Ho afferrato il concetto. Devo dare una nuova dimensione al mio stile di gioco» gli risposi. Questo è ciò che imparai quell’estate. Cominciai ad allenarmi per migliorare alcuni aspetti: andare a canestro, avere la capacità di mettere il mio corpo sull’av-
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versario e riuscire a fare canestro, usare le finte per battere l’avversario e finire con determinazione. Mi risvegliai dal mio sogno e mi venne in mente Elvin Hayes, il grande giocatore capace di fermare Lou Alcindor. Grazie a lui la squadra di Houston riuscì a infliggere alla UCLA Bruins l’unica sconfitta dell’era Alcindor. La partita si giocò all’Astrodome di Houston davanti a cinquantamila spettatori e fu trasmessa in tv. Oltre ai suoi 35 punti bloccò Lou, che ne fece solo 30. Elvin Hayes diventò uno dei grandi dell’NBA e conquistò uno storico titolo con i Bullets. Ho avuto il piacere di allenarmi con lui in uno dei miei brevi periodi con una squadra dell’NBA quando ero ai Bullets. Non potei fare a meno, però, di ricordare che una volta avevo avuto la meglio su Julius Dr. J Erving alla University of Massachusetts. Eppure non riuscivo a capire come fosse possibile che il suo destino e il mio fossero così diversi. Il motivo per cui faccio questo paragone, che potrebbe sembrare a prima vista fuori luogo, tra Elvin e me, è che Kareem e Julius divennero poi i più grandi giocatori di basket degli anni ’70. La mia memoria viaggiava, i ricordi del mio recente passato di giocatore si succedevano l’uno dopo l’altro, in quello stato intermedio tra sogno e realtà in cui mi aveva portato l’effetto combinato del volo e del grande cambiamento che stavo affrontando. Avevo sognato le partite delle matricole, spaziando dal periodo con i Lakers al campo estivo con Calvin ai playground di Harlem, fino a quello che era stato per me lo storico incontro con Julius Erving.
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TURBOLENZA «Signore e signori, stiamo per attraversare una perturbazione. Vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza» annunciò il copilota destandomi dal torpore in cui avevo sognato Kareem, Julius e il mio recente passato. Anche se di sicuro quei due, più che un sogno, erano un vero incubo per i difensori. «You sai what-a Salvatore means-a? Eh, Johnny?» mi chiese Salvatore, l’uomo d’affari italiano seduto vicino a me. «No davvero, amico, so solo che è un nome abbastanza comune in Italia» risposi. «Be’ se you was Cattolico, you know-a that-a Jesus was nostro “Salvatore” o savior come dite voi in inglese». Poi continuò: «I hope I don’t hava to save-a you se questa thing va giù». «Don’t worry. Andrà tutto bene» lo rassicurai. Non avevo nemmeno finito di dirlo, che il copilota annunciò: «Mantenete le cinture di sicurezza allacciate. Le condizioni meteorologiche stanno migliorando».
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Quando la perturbazione sembrò essere passata, decisi di chiamare l’hostess. «Carol, potresti portarmi qualcosa che mi calmi e che non mi faccia più pensare al Doctor?» «Cosa c’è che non va, signore? Ha bisogno di un dottore?» «No, è che stavo pensando a un mio amico che tutti chiamano “Doctor”». «Ah, certo signore. Le porto un’altra birra?» «Si. Ma solo se la smetti di chiamarmi “signore”». Poi aggiunsi: «Pensavo avessimo superato certi formalismi, e che una volta a Milano saremmo usciti insieme…» «Shhh, Johnny» sussurrò Carol chinandosi per appoggiare la bottiglia di birra sul tavolino insieme ai pistacchi. «Il capo andrà su tutte le furie se vede che sono troppo gentile con un passeggero. Quando ci vedremo a Milano, ti mostrerò quanto posso essere accomodante quando non sono in servizio…» E portando via il vassoio vuoto, sfiorò di proposito la mia spalla con i suoi meravigliosi seni. Andandosene Carol mi aveva lasciato un numero di telefono e l’indirizzo di un hotel di Milano; alzai lo sguardo, e non potei fare a meno di notare il seducente movimento del suo didietro mentre attraversava il corridoio.
Mangiai pistacchi sorseggiando la mia birra e, prima che me ne rendessi conto, mi ritrovai di nuovo a sognare del recente campionato estivo del 1970 con i Lakers. Era un breve torneo giovanile di due settimane e io nel complesso giocai bene. Media di 15 punti a partita e 9 rimbalzi. McMillian, miglior marcatore, ne aveva fatti 16 con 4 rimbalzi. Era la prima scelta e gli fu offerto un contratto garantito di quattrocentoventimila dollari per tre anni. Alla fine del campionato fui chiamato nell’ufficio di Fred Shaus. Insieme a lui c’era ad aspettarmi il coach Mullaney, ex allenatore al Providence College. Mi aveva visto giocare molte volte durante gli anni della rivalità nei derby interstatali, ma era già allenatore dei Lakers quando ero all’ultimo anno alla URI, anno in cui avevo fatto 26 punti in entrambe le nostre vittorie sui PC Friars. Shaus disse: «Mettiti comodo, John. Vorremmo parlarti del tuo futuro da Laker». «S-s-sì, signore» dissi balbettando nervosamente. «John, so bene che la tua ambizione è diventare un grande giocatore con noi» cominciò il coach Mullaney. «Però dovrai lavorare sodo per guadagnarti un posto. Sei abituato a giocare come giocatore interno che ogni tanto esce dall’area, ma qui da noi dovrai imparare a giocare come un solido giocatore perimetrale, e migliorare la tua capacità di palleggiare e passare dentro. Non hai i centimetri per giocare vicino al canestro nell’NBA, ma sei un bravo tiratore e hai il fisico per essere una buona ala piccola o una guardia che può dare una mano al rimbalzo».
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SOGNANDO DI NUOVO
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«Va bene, signore. Farò del mio meglio» lo rassicurai. «Quello che ti possiamo offrire, figliolo – intervenne Shaus –, è un contratto minimo senza garanzie. Abbiamo già usato tutti i contratti garantiti a nostra disposizione, ma penso che alla fine ti prenderemo, a meno che tu non faccia proprio cagare» disse schiettamente. «Be’, io di contratti non so niente – risposi –. So solo quanto prende Jim e, dopo aver giocato come lui durante il campo estivo, mi aspettavo un po’ di più di un quarto di quello che date a lui. Dopotutto sono più alto e anche atleticamente più forte». «Forse, ragazzo. Ma lui è la nostra prima scelta, è più bravo di te nel gioco di squadra e migliore nella fase difensiva. Ad ogni modo, pensaci su e facci sapere appena hai deciso». Non potei fare a meno di pensare: “Scommetto che non chiamerebbe mai ‘ragazzo’ un giocatore nero”. Mi fermai a riflettere: Che tutto questo nascondesse una sorta di stupido pregiudizio al contrario? «Dai, John, pensaci bene. Ti auguro un bel viaggio di ritorno sulla costa est» concluse il coach Mullaney. «Spero di rivederti presto». «Grazie mister» dissi mentre andavo via. «Ci vediamo la settimana prossima al Nord-Sud All Stars Game a New York, ragazzo» disse Shaus. «Ok, ci vediamo» risposi mentre riflettevo: “Questo tizio mi da sui nervi quando dice queste cazzate tipo ‘figliolo’ o ‘ragazzo’”. Forse non avrei dovuto pensare al rispetto o ai soldi, ma sentirmi semplicemente gratificato per la chance di giocare con uno dei top team della storia dell’NBA. D’altro canto, però avevo battuto il grande Doctor J Erving ed ero diventato uno dei migliori marcatori e rimbalzisti nella storia dell’URI. Forse meritavo almeno un contratto garantito.
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Ancora una volta non capivo se quello che stavo facendo, mentre ero in volo verso questo paese a forma di stivale, era un sogno o un incubo! Poco tempo fa, navigando in internet, ho scoperto di essere quarto nella classifica dei più grandi marcatori nella storia dell’URI, e il terzo miglior rimbalzista di tutti i tempi, tanto da essere incluso nella Hall of Fame dell’università. Il mio amico Bob Pound era andato alla cerimonia di premiazione per ricevere il premio. Io ero ancora in quel meraviglioso paese a forma di stivale. Qualche volta penso che, a quei tempi, ci fosse una sorta di pregiudizio al contrario nei confronti dei giocatori di basket bianchi. Se c’era, da un certo punto di vista era anche comprensibile per una squadra come i Lakers: spesso accadeva che perdessero contro i Celtics di Boston, che presentavano uno starting five
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quasi completamente composto da giocatori neri dopo l’era di Cousy, Sharman e Heinson. Ma io non ho mai pensato in bianco e nero.
DI NUOVO NELLA TEMPESTA Improvvisamente l’aereo ricominciò a sobbalzare, e per la seconda volta sentii il copilota annunciare: «Signore e signori, vi preghiamo di allacciare le cinture, stiamo per attraversare una nuova perturbazione». Mi ridestai dai miei nostalgici sogni. Mi sentivo agitato, e sapevo che quello strano stato d’animo non era causato dalla paura del volo, ma dal timore di andare verso la direzione sbagliata! D’un tratto rividi il cartellino con il nome dell’hostess ondeggiare su due seni perfetti e formosi. Cominciai a sentirmi meglio. «Carol, per favore, portami un’altra birra». Credo fosse la terza. «Potresti portarmi anche delle noccioline?» «Certo, Johnny-Boy: appena finisce questa turbolenza, ti porto un’altra Budweiser, va bene?» «Sì, ma non mi chiamare più Johnny-Boy, bellezza…Mi chiamo Johnny, ma non sono un ragazzino. Te ne accorgerai se e quando ci vedremo a Milano» le dissi ammiccando. «Certo, Big Guy. Sono sicura che non mi deluderai» mi rispose provocante. Mentre mi porgeva il vassoio, mi concesse un nuovo piacevole assaggio dei suoi seni sfiorandomi la spalla. «Sono sicuro che ci sai fare, Carol. Non vedo l’ora di giocare uno contro uno con te» le dissi. E nel frattempo pensavo a come potesse essere stare da solo con lei in quella strana città, libero di fare festa con questa ragazza bella, sexy e sicuramente molto spiritosa.
Dopo un’altra birra, la quarta, chiusi gli occhi cercando di dormire un altro po’. Cominciai a sognare dei tempi del North South All Star Game a New York, che quell’anno si disputava nella St. John’s Gym. La partita si teneva per celebrare ogni anno i migliori giocatori dell’ultimo anno, cioè il 1970, che erano stati selezionati dalle squadre dell’NBA. L’evento era anche una vetrina prestigiosa per i giocatori, e un’ottima opportunità che i talent scout dell’NBA avevano di osservare cosa offriva
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NORTH SOUTH ALL STAR GAME
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il panorama del basket collegiale. Uno scherzo del destino volle che mi trovassi sul parquet a giocare con Jim McMillian, che si era laureato alla Columbia, l’università di New York che giocava nella “Ivy League”. Visto che entrambi partivamo in quintetto, ed entrambi eravamo ali piccole, lui finì per giocare come guardia. Sapevo che mi avrebbe aiutato a fare una buona prestazione, visto che voleva che io restassi a Los Angeles. La selezione del Sud poteva contare su Dave Cowens, meglio conosciuto come “Big Red”, un osso duro che giocava come centro in Florida. Avevamo giocato insieme durante un torneo a Portsmouth ed eravamo diventati buoni amici. Nel loro quintetto c’era anche il grande “Pistol Pete” Maravich, marcatore con doti di grande palleggiatore, e Bobby Cremins, playmaker della Georgia. Cowens curiosamente, era nato il mio stesso giorno: il 20 ottobre. Mi stupiva vedere quanto ci somigliavamo. Lui, come me, era il tipo di persona che fuori dal campo di gioco non avrebbe fatto male a una mosca, ma quando era in campo si trasformava in un atleta formidabile, aggressivo e determinato, che non mollava fino alla fine. Lo ammiravo molto per questo, e dentro di me pensavo che avevamo poche chances di vincere contro i ragazzi del sud. Forse però stavo sottovalutando i miei compagni di squadra, tra i quali c’erano il grande Mel Davis dalla St. Johns University, Calvin Murphy, Claude “Snowflake” English, compagno di squadra all’università del Rhode Island, la grande guardia Jeff Petrie, e il possente centro John Hummer da Princeton. Durante la partita andammo in vantaggio, mantenendoci sopra principalmente grazie ai passaggi precisi di Murphy e alla mia mano calda. Fu una serata straordinaria per me, feci 34 punti. Anche il bravo John Hummer, alto 2m e 08, trasse beneficio dai passaggi di Murphy e fece 20 punti, mentre Davis arrivò a 24. La nostra selezione vinse 106-98. A dire la verità, era difficile che qualcuno volesse giocare in difesa in questo tipo di partite, e credo che Jim e Calvin, facendomi tutti quei passaggi, volessero aiutarmi a fare bella figura. A fine partita ero abbastanza infuriato, e non riuscii a trattenermi. Andai verso i dirigenti dei Lakers che avevano guardato la partita dalla prima fila. Mentre stringevo il trofeo di miglior giocatore (MVP) dissi ironicamente: «Sa signor Shaus, lei ha ragione. McMillian è davvero bravo in difesa. Chi stava marcando stasera?» «Avanti, ragazzo – disse il general manager –, nessuno gioca in difesa in queste partite d’esibizione». «Sarà come dice lei, signore – annuii –, ma al posto suo avrei cominciato a muovere il culo quando il mio uomo si avvicinava ai 30 punti!» Jim era davvero un bravo ragazzo, e probabilmente per questo motivo mi aveva aiutato a fare bella figura, e ad avere una possibilità in più di vedere aumentato il mio contratto. Non era nemmeno giusto criticare la sua prestazione contro “Pistol”
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«No-no-no John, quella è la nostra rivale. Noi giochiamo per Varese, c-c-che è vicino a Milano. Forse hai sentito parlare della grande guardia messicana, Manuel Raga, no?» mi chiese. «Sinceramente no, coach. Non sapevo che la pallacanestro fosse famosa in Messico» risposi. «Allora avrai sentito parlare dei grandi giocatori della nazionale italiana: Flaborea, Ossola, Rusconi, Bisson e il giovane centro Meneghin. Hanno giocato contro la vostra Nazionale olimpica a Roma, conquistando la medaglia d’argento». «No, mi dispiace – risposi –. Non ho mai seguito le competizioni internazionali». Forse perché la nostra Nazionale ha sempre vinto facilmente la medaglia d’oro alle Olimpiadi. «Mi piacerebbe vederli giocare, però» lo rassicurai. «W-well, f-forse potresti venire e giocare con loro. H-ho qui un contratto di trentacinquemila dollari, più un bonus di diecimila se vinciamo la Coppa Campioni. Esenti da tasse e con tutte le spese pagate. C-cosa ne pensi, giovanotto?» Forse perché ero stanco della disputa con i Lakers sul mio contratto, o forse a causa del mio carattere impulsivo e spontaneo, risposi così a quell’allenatore garbato e determinato al tempo stesso, la cui balbuzie ne enfatizzava l’accento slavo: «Beh, signore, se mi dà una penna firmo questo contratto, e le prometto che farò del mio meglio per aiutare la vostra squadra a vincere un’altra Coppa Campioni!»
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Pete, visto che nessuno era in grado di fermarlo. Che questo fosse vero o no, forse l’irlandese che è in me stava venendo fuori perché, nonostante avessi ricevuto il premio di miglior giocatore, ero davvero infuriato. Tornando nello spogliatoio stavo ancora pensando a quella che per me, in quel momento, era un’ingiustizia, quando all’improvviso un uomo basso, calvo, con la faccia tonda e dall’aspetto non appariscente si avvicinò con sguardo determinato e un foglio in mano. Con voce profonda, balbettando un po’, mi disse: «J-John, posso parlarti?» «Certo signore, nessun problema» risposi sorpreso. «S-Sono l’allenatore della squadra italiana campione d’Europa» si presentò. «Non sapevo giocassero a basket da quelle parti» dissi mentendo. In realtà sapevo che avevano un campionato soltanto perché due dei miei idoli, Steve Chubin e Bill Bradley, erano andati a giocare a Milano. Il mio agente, Richard Kaner, mi aveva parlato della possibilità di giocare in Italia. Mi aveva detto: «John, è il miglior campionato del mondo dopo l’NBA, e pagano bene. Potresti trasferirti per uno o due anni, fare un po’ di esperienza e poi tornare e giocare con i Lakers». «Ma ricordati di non stare troppo tempo, potrebbe essere un errore» aveva aggiunto come avvertimento. «Ah, certo! Adesso ricordo. Non è dove hanno giocato Chubin e Bradley?» dissi al signore che mi aveva avvicinato negli spogliatoi.
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«M-m-mi fa piacere sentirtelo dire, J-John» disse con grande entusiasmo mentre mi porgeva la penna. Non avrei mai immaginato che firmare quel contratto mi avrebbe cambiato la vita. Mi trovavo ad un crocevia nel mio percorso professionale e umano. Quella firma mi avrebbe portato ad un nuovo stile di vita e all’incontro con una nuova cultura.
ATTERRAGGIO SULLO STIVALE
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Un nuovo annuncio del pilota mi destò dal sonno interrompendo i miei sogni: «Signore e signori, atterreremo a Milano tra circa quindici minuti. Vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza. La temperatura è di 32 gradi centigradi e sono le 11 del 2 settembre. È una bella giornata di sole, con vento debole da sud-ovest. Stiamo cominciando la discesa da 1500 metri». Ricordo che pensai: «Ma cosa sta dicendo? Solo 32 gradi? Ma è freddissimo! Dove sto andando, al Polo Nord? E cos’è questa stronzata dei metri?». Non sapevo ancora niente del sistema metrico, ed ovviamente ero abituato a sentire le temperature in Fahreneit. Chiamai Carol: «Ehi, bellezza, ci sono davvero solo 32 gradi?» «Ma no, sciocco! sono gradi centigradi, ci sono 94 gradi Fahreneit oggi a Milano. Ragazzo, sei davvero nato ieri!» «Ti avevo detto di smetterla con questa stronzata del pivellino, Carol!» dissi con aria stupidamente offesa. In qualche modo mi ricordava il mio rapporto con il direttore generale dei Lakers. «Avanti, non essere così permaloso» mi rispose dolcemente. «Ok Carol, scusa. Non avrei dovuto essere così brusco con una ragazza dolce come te. Perdonami, ma a noi hoopers non piace essere chiamati pivelli. Forse perché molti di noi sono neri». «Capisco, mio grande hooper – disse sorridendo –. Scommetto che sei bravo a fare centro, o almeno spero». Non sapevo che nel posto da dove veniva Carol, Raleigh, in Virginia, l’espressione “fare centro” si riferiva al rapporto sessuale tra uomo e donna. «Vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza. Siamo scesi a ottocento metri e stiamo cominciando la manovra di atterraggio». Mi sentivo di nuovo le farfalle nello stomaco, e quando Salvatore, il mio gioviale compagno di viaggio, se ne accorse, mi chiese: «Hava you gatta somma kinda paura of volare or qualcosa?...» “No amico, sono solo un po’ in ansia per quello che mi aspetta” dissi tra me.
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Non mi riferivo alla speranza di un appuntamento con Carol. Forse ero un po’ preoccupato per il mio futuro ruolo di giocatore di Coppa con lo squadrone della Ignis Varese. Sarei stato all’altezza delle aspettative? L’aereo continuava a scendere e finalmente atterrò senza troppi sbalzi. Quasi tutti gli italiani a bordo fecero un lungo e sonoro applauso complimentandosi col pilota: «Bravo capitano!» Questo fu il mio primo assaggio di forte e autentico entusiasmo italiano. Chiesi a Salvatore: «Perché stanno applaudendo così?» «Be’, Gianni, è stato un safe-a atterraggio, and it is a bella giornata and siamo happy tornare a casa. Understand-a?» «Sì, credo di sì» dissi, anche se le mie emozioni stavano ballando su un’altra frequenza. Mentre scendevamo dall’aereo in modo incredibilmente disordinato, con persone di ogni tipo ed età che spingevano per passare davanti, chiamai Carol. «Ehi, cosa succede? C’è una bomba a bordo?» le chiesi. «No, Johnny, è solo il loro modo di scendere dall’aereo. Sono sempre molto eccitati all’idea di vedere i loro cari». «Ah, capisco. Ma potrebbero stare un po’ più calmi, no?» «Ti ci abituerai presto, tesoro. Starai qui per un anno intero, non è così Big Guy?» «Sì cara, credo proprio di sì. A che ora devo chiamarti stasera?» «Be’, Johnny, oggi pomeriggio, dopo il pranzo con l’equipaggio, farò un sonnellino». «E lo farai con loro per caso?» azzardai, a costo di sembrare un po’ impertinente. «Non fare lo scemo» mi disse sorridendo. «Abbiamo tutti bisogno di un po’ di riposo per smaltire il fuso orario. Sarò tutta per te stanotte, quindi fammi uno squillo verso le sette e mezza per svegliarmi, e per le nove sarò pronta, ok?» «Per me è perfetto, Carol» risposi felice. «A dopo, bellezza». «Ci vediamo dopo, Big Guy» disse mentre scendevo le scale verso quel nuovo mondo.
Salutai Salvatore e, dopo aver preso le mie due valige, passai attraverso il controllo passaporti. Vidi il coach Nikolic che mi stava aspettando insieme ad un uomo più alto di lui. «B-buongiorno John, fatto buon viaggio?» «Certo coach, non potevo desiderare di meglio». «Questo è G-giancarlo Gualco, il nostro direttore generale» disse il coach.
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OSPITALITÀ ITALIANA
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«Piacere di conoscerla, signor Gualco» dissi mentre gli stringevo la mano. Era un uomo alto e di bell’aspetto. «Buongiorno, e benvenuto in Italia» mi rispose in italiano. «Giancarlo non parla inglese – mi spiegò il coach –, ma tu imparerai presto l’italiano». «Domani mattina prenderemo l’aereo per la Sicilia, dove stiamo giocando in un torneo internazionale, quindi stanotte dormirai al Jolly Hotel. Hai bisogno di un po’ di riposo per smaltire il fuso orario». «Wow, è semplicemente fantastico!» risposi entusiasta. Era l’hotel in cui si sarebbe fermata Carol. Ma loro non potevano sapere perché ero così felice: non avevano avuto il piacere di conoscerla! Lasciato l’aeroporto salimmo in auto e mi sembrò quasi di prendere il volo un’altra volta, visto che il piede pesante del signor Gualco ci portò sull’autostrada in pochi minuti. Lasciammo il paesaggio agricolo circostante, con i suoi ampi e verdi spazi aperti per arrivare in poco tempo su una moderna strada a pedaggio. Una volta in autostrada, il signor Gualco si immedesimò nella parte del pilota di Formula 1, e cominciò a correre ad una velocità che non avevo mai sperimentato prima. In un attimo toccò i duecento chilometri all’ora. Credo non fosse poi così strano, perché le altre macchine sfrecciavano alla stessa velocità, nonostante noi le sorpassassimmo quasi tutte. I miei occhi dimenticarono i colori dei campi coltivati, quando entrammo a Milano, che si rivelò al nostro sguardo mostrando i suoi splendidi edifici, quasi tutti di epoca medievale. Alcune strade erano larghe ma, mentre ci avvicinavamo al centro della città, dopo aver attraversato una Porta, diventarono sempre più strette e tortuose. Questo obbligò il signor Gualco ad andare più piano, ma le continue sgommate delle ruote provavano che in realtà stava ancora andando alla massima velocità consentita in quel frangente. Mentre eravamo in macchina diretti verso l’hotel domandai: «Coach, contro chi giochiamo in questo torneo?» «G-giocheremo contro lo squadrone russo, la grande Armata Rossa3, nella pprima partita, e poi se vinciamo affronteremo la vincente tra l’Olimpia Lubjana, campione di Jugoslavia, e la Simmenthal Milano, la nostra r-rivale più forte nel Campionato Italiano». «M-ma c-coach – ora ero io a balbettare – come faccio a giocare se non conosco i nostri schemi e i compagni di squadra?» «N-non ti preoccupare John, fai del tuo meglio e vedrai che i tuoi compagni ti aiuteranno». Una volta arrivati in hotel, mentre ci avvicinavamo alla reception il coach Nikolic mi consigliò: 3 Oggi CSKA Mosca.
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«Cerca di riposare stanotte. Veniamo a prenderti domani mattina alle 9.30, abbiamo il volo alle 11». «Riposerò per essere pronto per la partita di domani». Mentre il facchino prendeva le mie valigie, il signor Gualco mi diede una busta. «Take-a tis lira Gianni, ok?» mi disse sorridendo. «Grazie signor Gualco. Arrivederci» dissi in italiano utilizzando le poche parole che conoscevo. «Arrivederci e buon riposo» rispose. «Chiamami Giancarlo» aggiunse sorridendo. «Ok, lo farò». Mentre ci avvicinavamo al banco della reception vidi Carol che entrava nell’ascensore in compagnia dei suoi collleghi. Una volta arrivato nella mia piccola camera, fui felice di vedere che c’erano anche un mini-frigorifero e un enorme letto matrimoniale. Era da poco passato mezzogiorno, e la prima cosa che feci, dopo una bella doccia rinfrescante, fu chiamare il servizio in camera per ordinare un piatto di spaghetti al pomodoro e un’insalata mista. Stavo morendo di fame. Il servizio sul volo della TWA era stato ottimo, per non parlare della compagnia, ma il cibo lasciava un po’ a desiderare. Decisi di non chiamare Carol prima delle sette e mezza di sera, come lei aveva chiesto. Avevo avuto un primo assaggio dell’ospitalità e della cucina che rendono l’Italia amata in tutto il mondo. Dentro di me sentivo che mi sarei trovato bene.
IT’LL GO AROUND THE RIM BUT IT WON’T GO IN4
Stavo saltando per tirare giù un rimbalzo, librandomi in aria con i gomiti fuori a proteggere la palla, e quando tornai con i piedi per terra, invece di fare un passaggio di apertura, mi girai verso l’arbitro e chiamai il time-out. Giocavo al Boston Garden per il Tech Tourney, il campionato dello stato del Massachusetts. Ero con la mia squadra del liceo, i Warriors, ed eravamo sotto di un punto a cinque secondi dalla fine nella partita finale. Avevamo collezionato 36 successi consecutivi, ma rischiavamo di mandare in fumo tutto quello che avevamo costruito fino ad allora. Fu una partita combattuta fino alla fine, e quando presi quel rimbalzo, dopo un tiro 4 Coro intonato dalle cheerleader del nostro liceo durante le partite di basket.
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Una volta nella mia stanza d’albergo, dopo la mia prima deliziosa cena italiana, mi buttai sul letto matrimoniale e sprofondai nel sonno. Mi ritrovai di nuovo a sognare episodi del mio recente passato.
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fuori misura della loro stella Rick Katherman, chiamai il time-out a cinque secondi dalla fine, sotto di uno. Il nostro coach Lou Baldwin ordinò: «Ok ragazzi, passiamo allo schema numero 5!» Eravamo così organizzati da avere uno schema studiato per una situazione come quella, in cui avevamo bisogno di un canestro nei cinque secondi che ci restavano da giocare. «Cercate John a metà campo dopo il blocco cieco, o passatela a O’Conner mentre taglia in mezzo per andare a canestro». Mike Phippard mi preparò un blocco cieco e il co-capitano e playmaker Spiller mi fece un passaggio perfetto mentre mi involavo verso il nostro canestro. Palleggiai tre volte e saltai tirando in sospensione poco fuori dal top of the key. La palla colpì il ferro, girando e rigirando intorno, per quella che sembrò un’eternità, per poi saltare fuori. It went around the rim, but it didn’t go in! Credo che non dimenticherò mai quel tiro. Dopotutto eravamo rimasti imbattuti per tutta la stagione: fino a quando non sbagliai quel canestro! Non riuscivo a scacciare dalla mia mente quel famoso coro che le cheerleaders cantano quando un giocatore avversario si prepara per i suoi tiri liberi: «It’ll go around the rim, but it won’t go in!» «Non te la prendere, Johnny. Hai fatto una partita strepitosa» cercò di confortarmi il mio amico e co-capitano Wayne Spiller. «Sì amico, una grande partita e un grande campionato» aggiunse Mike Phippard, mentre mi abbracciava e, piangendo, rivelava le sue origini italiane e un grande calore umano, elemento che caratterizzerà le relazioni sociali del mio futuro da giocatore in Italia. «È vero, Johnny, hai fatto un partita straordinaria e un campionato fantastico. È stato un onore giocare con te» aggiunse un altro mio grande amico e futuro pilota della marina, Renny Ide. Non dimenticherò mai il coach Baldwin che mi chiedeva con grande calma, mentre tutti erano in lacrime: «Senti di aver fatto la cosa giusta, Johnny?» «No coach, non avrei dovuto sbagliare». «Ascolta figliolo, era un tiro in sospensione da sei metri. A mezzo secondo dalla sirena. Hai fatto la cosa giusta, con un bel tiro nonostante fossi sotto un’enorme pressione. Quindi congratulazioni!» «È stato un bel tiro Johnny, eseguito perfettamente. Hai fatto la cosa giusta!» ripeté con enfasi. «Ricordate che la vera vittoria è sapere di aver dato il massimo, giocando per la squadra, rispettando gli avversari, l’arbitro e i tifosi. Pensate di esserci riusciti, ragazzi?» ci chiese il coach. «Sì coach, abbiamo fatto del nostro meglio. Però non è bastato» disse Wayne. «Avete disputato un’ottima partita e un campionato fantastico, quindi non ave-
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te nulla da rimpiangere. Congratulazioni. E tu John hai fatto un’ottima partita, con 36 punti e 18 rimbalzi!» Le sue parole mi confortavano, così come mi rincuorava il pensiero che una folla di allenatori di college fosse lì ad aspettare di parlare con me. Non sapevo che all’epoca l’Italia era un paese di sportivi “assatanati”, dove la vittoria della squadra del cuore era l’unico obiettivo ammissibile! Non avrebbero mai accettato una filosofia sportiva come quella del nostro coach Baldwin, che professava: «La vera vittoria è sapere di aver dato il massimo e fatto tutto il possibile, mettendosi al servizio della squadra, e rispettando gli avversari e gli arbitri». La maggior parte degli italiani, invece, approverebbe il pensiero di Vince Lombardi: «Vincere non è una cosa, ma l’unica cosa!»
PRIMA NOTTE IN ITALIA
Poco dopo ero davanti alla sua porta, suonai e lei aprì. Non riuscivo a credere a quello che avevo davanti agli occhi. Indossava un abito rosso corto e scollato, che non solo metteva in risalto le sue forme conturbanti, ma lasciava vedere un paio di belle gambe lunghe. Mi lanciò uno sguardo malizioso con i suoi luminosi occhi blu, mi prese per mano e disse: «Let’s go Johnny, ce ne andiamo a fare un giro per la città. Ti mostrerò com’è la vita qui in Italia!»
Destinazione Italia
Mi risvegliai sudato, ma rimasi sdraiato a letto a pensare. «Dove sono, cosa ha in serbo per me il destino in questo strano e affascinante paese?» All’improvviso uscii da questo stato di trance. Mi diede una mano il pensiero di Carol. Decisi di farmi una doccia e poi farle uno squillo. Erano le sette, feci un’altra doccia e mi misi un paio di jeans e una camicia da golf Lacrosse. Alle sette e mezza precise chiamai la reception: «Potrebbe passarmi Miss Carol Mason, per favore?» chiesi. «Certo signore, è nella camera 111». Non riuscivo a crederci, io ero nella stanza 123. Carol era proprio alla fine del corridoio. «Ciao Carol, come va?» le chiesi timidamente. «Tutto ok. Mi sono svegliata da poco, ho fatto una doccia e ora mi stavo preparando per il nostro appuntamento. Vieni tu da me?» «Certo, non c’è problema. In realtà non mi trovo molto lontano». «Hai pensato a me?» sussurrò con voce dolce e sexy. «Come potevo non pensare a una donna bella come te? Non ci crederai, ma sono in una stanza del Jolly Hotel, proprio sul tuo stesso piano» le risposi. «Che fortuna! – disse entusiasta –. Allora perché non vieni da me tra una mezz’ora?»
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«Ok, quale è il programma?» le chiesi. «Prima di tutto andiamo al Bar Caffè Visconti per un aperitivo in Piazza Duomo, poi possiamo cenare al Ristorante Ibiza, lì vicino, e andare a ballare in un posto chiamato Hollywood. Cosa ne pensi, ragazzone?» Mi aveva chiamato di nuovo “ragazzo”, ma questa volta avevo deciso di far finta di niente. «Sembra fantastico, dolcezza, e cos’altro vuoi fare stasera?» «Mio caro, qualsiasi cosa, qualunque cosa tu voglia» disse facendo le fusa. «Stasera sarai la mia guida e la mia donna, dolcezza. In questa mia prima notte in Italia sono nelle tue mani!» Dopo un aperitivo al Gran Caffè Visconti in Piazza Duomo, nella splendida galleria Vittorio Emanuele II, andammo al ristorante Ibiza per una cena a base di pesce. «Cosa mi consigli, Carol?» le chiesi, non sapendo cosa ordinare. «Prendiamo prima le ostriche, poi possiamo ordinare un risotto alla pescatora, e se abbiamo ancora posto, una frittura mista. D’altronde, tutti questi frutti di mare sono degli afrodisiaci naturali» suggerì. «Non penso che ne avrò bisogno, visto che sei così bella e provocante, stasera» le dissi sinceramente. Dopo aver ordinato quei piatti, il cameriere chiese in un inglese improvvisato: «What-a would you like-a to drink-a?» Carol rispose senza esitazione: «Una bottiglia di Pinot Grigio dovrebbe andare bene». «Certo signorina, gliela porto subito. Gradite anche una bottiglia d’acqua frizzante?» «Perfetto! Grazie, Mario» rispose. Ovviamente era già stata lì altre volte e conosceva il nome del cameriere.
Mi Chiamavano Kociss
Era la prima volta che assaggiavo il pesce cucinato secondo le regole della vera cucina italiana. Delicato e dal gusto unico. Ancora oggi è il mio piatto preferito. «C’mon Johnny, andiamo a ballare! Ti porto in una discoteca chiamata Hollywood» disse sorridendo. «Va bene, ma io ci sono già stato a Hollywood: quando ero al campo estivo con i Lakers». «Ma no, sciocco. Questo è un posto dove vanno tutti i vip italiani». Ballammo per un’oretta. Oltre a Carol, non potei fare a meno di notare quante altre belle ragazze c’erano in quel locale. Mettevano soprattutto funky e rock n’roll. Ci divertimmo come matti e, dopo diverse bottiglie di vino, prendemmo una tequila Sunrise, per scacciare qualsiasi inibizione!
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Alla fine misero un lento, “My Girl” dei Temptations, una delle mie canzoni preferite. “I got sunshine on a cloudy day, when it’s cold outside it feels like the month of May” cantavano i Temps. Carol si strinse forte a me, e mi sussurrò nell’orecchio: «Andiamo ragazzone, torniamo in hotel, sono tutta un fuoco» e mi mordicchiò l’orecchio. Non aspettavo altro. Come immaginavo, fu una notte di fuoco. Dopo aver fatto la doccia insieme, facemmo l’amore, appassionatamente.
Destinazione Italia
«Johnny, è stata una serata meravigliosa. Tornerò ogni due settimane e usciremo ancora, ok?» «Certamente, dolcezza. Non ci sono dubbi. Non potevo immaginare di meglio per la mia prima notte in Italia» la rassicurai. «Oh mio Dio. Sono le quattro del mattino. Devo tornare nella mia camera e farmi il mio beauty sleep» disse ridendo. «Già, è meglio che mi riposi un po’ anch’io. Domani devo giocare la mia prima partita in Sicilia. Ho la sveglia alle 8 e 30». «Ok ragazzone, non dimenticare di lasciare il tuo numero alla reception, così posso chiamarti quando torno in città». «Lo farò, Carol» la rassicurai. Avevo cominciato questa mia avventura in Italia col botto, e avevo tutta l’intenzione di godermi un replay appena se ne fosse ripresentata l’occasione!