Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara
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Il paesaggio è quasi da belvedere. Alle spalle c’è l’Appennino col suo alternarsi di campi e di boschi. Giù, all’orizzonte, la striscia azzurra dell’Adriatico. Mio padre Bruno è nato lì, a Schieppe di Montebello. È una borgata nel comune di Orciano, sulla collina, nella provincia di Pesaro-Urbino. Sembra il posto ideale per viverci. Ma non era così a quel tempo. Mio padre era il quinto di una decina di fratelli e sorelle. Che fosse il quinto sono sicuro, perché il suo nome intero era proprio Bruno Quinto, tanto per non sbagliare nella successione di tante nascite. Però quando dico una decina di fratelli uso un’espressione volutamente generica, perché io non li ho conosciuti. Potevano essere nove, dieci, o undici, dodici. In realtà, ignoro il numero preciso. Questa imprecisione rientra nel quadro di non pochi dati sbiaditi o rimossi della mia infanzia. Cercherò poi di spiegarne la ragione. So di certo che i miei nonni, Eugenio e Marianna, possedevano un piccolo fondo in collina. Coltivavano grano, vite e ulivo.
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Il podere non era sufficiente per una famiglia così numerosa. Molti fratelli emigrarono in Francia e in America. Di loro ho perso le tracce. L’unico che ho conosciuto è Adolfo, quando anni dopo, trovandomi a Parigi per turismo, lo cercai e riuscii a scovarlo. Lavorava in una panetteria. L’incontro fra zio e nipote fu cordiale e sorridente, come può esserlo un frammento di famiglia ritrovato all’estero, per un giorno. Per la verità, ho conosciuto anche mio zio Antonio, ma l’ho sempre considerato a parte, forse perché si fece prete. Un prete di successo, dal momento che fu nominato rettore del seminario arcivescovile di Fano. Da bambino, con mia madre e i miei fratelli, una volta siamo andati in vacanza da lui, quando era semplice curato della sua parrocchia, ancora a Fano. Era estate, faceva caldo, e noi, fra una messa e un gioco in giardino, scappavamo in spiaggia con la mamma, a goderci il mare. Il mare fu decisamente la scoperta più importante di quella vacanza dallo zio Antonio. Il cui ricordo finisce qui. Tralasciando lo zio prete, mio padre è stato l’unico a spingersi oltre la scuola elementare. Frequentò le magistrali, andando su e giù con la corriera (Fano era sempre l’approdo per chi scendeva dalle colline) e si diplomò maestro. Per quei tempi era molto di più che una laurea oggi. Ma anche mio padre prese il volo da Schieppe di Montebello. A differenza degli altri fratelli, che avevano solo le braccia per lavorare, lui possedeva
quel pezzo di carta. E fin dall’inizio se ne servì per percorrere la sua strada. Tenace e intraprendente, mio padre escluse la carriera da maestro di scuola elementare, che avrebbe potuto svolgere anche in qualcuno dei paesi vicini, fra la collina e il mare. Puntò tutte le sue speranze sui collegi privati. Lavorò in diverse città italiane e principalmente a Milano, al Martinitt, un istituto antico di secoli, famoso per l’assistenza agli orfani. Mentre mio padre si faceva un’esperienza come istitutore ai Martinitt di Milano, mia madre Margherita concludeva la sua formazione alle Orsoline di Firenze. La mia preistoria personale è lastricata di collegi privati, che mi hanno variamente perseguitato anche dopo, quando mi sono trovato dall’altra parte della barricata, militante comunista e paladino della scuola pubblica. Oltre a conseguire un diploma magistrale, mia madre imparò a suonare il pianoforte e il violino. Apprese anche altre virtù più domestiche: nozioni di cucina, di igiene, di ricamo e di cucito, indispensabili per la formazione di ragazze di buona famiglia. Le allieve delle Orsoline provenivano da varie province italiane. Lei era di Rovigo, un paesone del basso Veneto. Apparteneva a una famiglia benestante fra le più in vista del rovigotto. Il padre Aldo Masieri gestiva un collegio privato frequentato a sua volta dai ram-
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polli di buone famiglie sparse per la penisola. Solo maschi, niente femmine. Era un collegio ben avviato e in ottima salute economica, tanto da trovarsi nella necessità di acquisire nuovo personale per la gestione dell’istituto. Emise un bando, lo fece circolare. Mio padre ne venne a conoscenza; forte delle sue credenziali ai Martinitt, scrisse, si offrì. Lo chiamarono. E così Bruno Quinto, sul principio degli anni Trenta del secolo scorso, lasciò la grande Milano per la piccola Rovigo. Il trasferimento si rivelò quanto mai fruttifero. Assunse la direzione del collegio. Conobbe la figlia del proprietario, la sposò e divenne contitolare dell’azienda. Ed ecco stabilita la congiunzione astrale che mi ha fatto venire al mondo. Io fui il primogenito. Nacqui a Rovigo il 28 aprile 1939. Dopo un anno e mezzo arrivò mio fratello Federico; dopo cinque anni fu la volta di mia sorella Emanuela.
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I miei primi anni di vita furono anni di guerra. Rovigo era una cittadina appartata nella grande plaga del Polesine, ma non sfuggì all’attenzione dei bombardieri inglesi della Royal Air Force. I miei più lontani ricordi sono i boati delle bombe, i vetri che tremano, l’aria che si sposta con uno sbuffo violento di calore. Si cercava scampo nei rifugi, in spelonche nelle viscere di case e palazzi. Col rischio di fare la fine dei topi sotto le macerie. I più preferirono sfollare verso le campagne. Mio padre, ormai saldamente al timone del collegio, decise di trasferire famiglia e impresa in una villa veneta sul Po, con un contratto d’affitto. Ricordo un lungo viaggio su una corriera ansimante, tutta piena di ragazzi. Un’altra corriera seguiva dietro, anch’essa carica di alunni. Alla fine la colonna si addentrò in un parco, folto come un bosco, con pioppi, platani e sempreverdi che si addossavano a una grande costruzione, fin quasi a nasconderla. In questa villa, nei dintorni di Adria Polesine, si installò la mia famiglia con una sessantina di convittori. La nuova sede, grazie alle sue infinite stanze, si
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rivelò adattissima a ospitarci tutti quanti, compresi una dozzina di insegnanti, due o tre bidelli, una cuoca e un paio di aiuti in cucina. Mio padre impiegò tutte le sue doti di organizzatore per garantire il buon funzionamento dell’istituto, rassicurando così anche le famiglie degli alunni, in ansia per la guerra e per i figli lontani. Nonostante i tempi bui, l’attività scolastica poté procedere senza intoppi. Gli ospiti del convitto erano ragazzi di varie età. I più grandi erano già dei giovanotti che si preparavano all’esame di maturità: di lì a poco, guerra permettendo, sarebbero diventati ragionieri, geometri, oppure avrebbero conquistato il diploma del liceo classico o scientifico. Ma c’erano anche allievi più piccoli, sparsi per tutti i gradini della scalinata scolastica. Per me era normale abitare in una scuola. Allora non mi facevo domande, era sempre stato così a casa mia. I soliti orari scandivano la vita di tutti i giorni. Al mattino nelle aule si faceva lezione; dalle finestre si udiva il vocio sommesso di insegnanti e alunni. Nel parco c’eravamo solo io e i miei fratelli: ci sentivamo sperduti in quella specie di bosco, era troppo grande per noi. Ma nel pomeriggio, esaurite anche le ore del doposcuola, tutti i convittori si riversavano fuori dalla villa. Allora nel parco si giocava, si correva, ci scatenavamo come lepri liberate dalla gabbia. A volte, tra le fronde, si vedevano i bombardieri passare in formazione. Il cielo era tutto un rombo.
Mio padre ci raccomandava di stare fermi e zitti, come se i piloti potessero udirci, da lassù in alto, fra quelle nuvole d’acciaio. Noi stavamo sotto, acquattati nell’ombra del sottobosco, con gli occhi in su; e aspettavamo che scomparissero dal cielo. E così, giorno dopo giorno, passò la guerra, quella almeno che ho visto con i miei occhi di bambino. Quando andai in prima elementare, nell’ottobre del 1945, la guerra era già alle spalle. La scena si spostò di nuovo a Rovigo.
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Della mia scuola elementare conservo pochi ricordi. Non è sopravvissuto molto dopo la riga di separazione che ho tirato a un certo punto della mia vita. Tutto quello che precede quella riga s’è sbiadito fino alla cancellazione. E ora sono in grado di ritrovare solo qualche frammento sperduto. Ho frequentato sempre e solo la scuola pubblica. Questo può sembrare ovvio per qualsiasi alunno. Non per me che avevo una scuola privata in casa. Una scuola parallela dall’esordio sui banchi di prima elementare fino alla maturità. Non ne ho avuto bisogno. A sei anni sono andato alla scuola, quella normale, con tutti gli altri bambini; e così ho proseguito nei gradi successivi. Ma qui cominciano i vuoti nella mia memoria. Non ricordo maestri, né maestre, né compagni di classe. Quegli anni sono in gran parte un film perduto. Ricordo che mi piaceva leggere. In casa avevo i libri della “Scala d’Oro”, una collana di riduzioni per ragazzi dei classici di ogni epoca. Me ne nutrivo appassionatamente. Lì incontrai per la prima volta I viaggi di Gulliver, Peter Pan, Il
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barone di Münchhausen, La freccia Nera, e tante altre opere, ricche fra l’altro di splendide illustrazioni. A scuola me la cavavo bene. Ero un bambino senza problemi, vivevo una vita serena. Mi piaceva giocare a pallone nel campetto parrocchiale e a ping pong nel cortile dell’oratorio. In queste attività ho misurato per la prima volta le mie capacità agonistiche. Sfide strenue, grandi sudate. Cose normali nella vita di tutti i bambini. Le prime prove per altre competizioni. Intanto imparavo a conoscermi, non solo sui campetti di gioco. Scoprivo nuove possibilità di espressione e di confronto. In quinta elementare un mio tema vinse una selezione provinciale. Era la prima fase di un concorso “Veritas” di cultura religiosa: non ricordo con precisione il titolo, so solo che riguardava il valore della fede in Dio. Il coordinatore dell’iniziativa era il mio insegnante di religione don Mario Bisaglia, fratello del leader democristiano Toni Bisaglia. Don Mario mi accompagnò a Perugia con tutte le premure, come un puledro da corsa. Nella città umbra era in programma la fase finale del premio con bambini provenienti da tutta l’Italia. Mia madre visse con grande trepidazione non tanto il mio exploit intellettuale, quanto la mia partenza, il viaggio, la trasferta di due giorni in una città lontana. Quando salii sul treno, mi consegnò con le lacrime agli occhi una lettera che era il suo saluto e la sua benedizione. Cominciava con queste parole:
“Caro Aldo, stasera sarà la prima volta che dormirai lontano dai tuoi genitori e dai tuoi fratelli, fuori dal tetto della nostra casa...”. Ricordo queste righe perché poi di quel foglio scritto a mano, con calligrafia minuta ed elegante come uno spartito, frutto forse dell’educazione alle Orsoline, feci un quadretto, a ricordo di quel primo distacco. O forse fu lei stessa a costruire questo cimelio che conservo ancora in un cassetto. Mia madre aveva di queste attenzioni. Era una donna dolce e sensibile, premurosa, attenta alla formazione dei suoi figli. Ricordo che nella nostra camera campeggiava una frase di Victor Hugo: “Imparare è il primo passo, vivere è soltanto il secondo”. Nelle sue intenzioni quella massima doveva guidare il nostro crescere. L’aveva vergata lei stessa sul muro, cesellandola con un pennellino. A Perugia mi misurai con altri bambini che ambivano, come me, a essere i piccoli campioni della fede cattolica. Stavolta la prova era orale, non scritta. Una sorta di colloquio sulla catechesi. A esaminarci, una severa commissione di uomini di chiesa in abito talare. Nella classifica finale fui terzo o quarto. Tornai a casa senza la palma della vittoria, ma con un piazzamento più che onorevole.
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La mia infanzia scorreva senza scosse, povera di fatti da tramandare ai posteri. La nostra era una famiglia borghese che viveva tranquilla, secondo i riti del suo ceto. Gli album rilegati in pelle con le foto, raccolte e incollate da mia madre. Le vacanze estive a Cesenatico, quelle invernali a Cortina. Sempre rispettando i tempi della scuola: pausa natalizia dalla vigilia all’Epifania, pausa estiva fra gli esami di luglio e quelli di riparazione a settembre. La scuola dettava i tempi della nostra vita. E non solo i tempi. Mio padre era totalmente assorbito dal suo ruolo di imprenditore scolastico. Lui sovrintendeva all’ingaggio degli insegnanti e del personale di servizio, seguiva i rapporti con le famiglie, e sorvegliava tutto l’andamento dell’istituto. Mia madre lo affiancava nel lavoro di segreteria e di economato. Non restava molto tempo per la vita di famiglia. Noi avevamo un appartamento all’interno della scuola, con una cameriera che ci serviva a tavola. Ma più spesso prendevamo i pasti nella mensa scolastica mescolati ai convittori o agli insegnanti. La
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cameriera del resto era la stessa, come la stessa era la cuoca in cucina che sceglieva e preparava il menu di giornata. Quando uscivo da scuola alle dodici e quaranta, io non tornavo a casa come gli altri ragazzi: entravo in un’altra scuola, e ci restavo nel pomeriggio durante le ore del doposcuola, e la sera prendevo la cena ancora alla mensa scolastica. Solo per dormire ci appartavamo nelle nostre stanze, a muro con le camerate dei convittori, coi quali condividevamo gli ultimi schiamazzi, gli ultimi giochi, prima del silenzio notturno. Mia madre faceva il possibile per tenere viva una fiammella di famiglia. Era lei che ci svegliava la mattina. Era ancora lei che ci accompagnava al sonno la sera, con una carezza e un bacio. «Le preghiere!» si raccomandava. Ma i rapporti fra noi fratelli erano quasi come fra compagni di scuola, assortiti dall’età e dal caso. Ci accomunavano vicinanze contingenti più che un legame affettivo profondo. Non abbiamo mai avuto un dialogo vero, solo per noi. Intanto il convitto cresceva. Mio padre giudicò maturo il tempo di lasciare Rovigo e trasferire azienda e famiglia in una città più importante. Quel paesone depresso del Polesine non era la migliore cornice per un collegio che ambiva a esercitare un’attrazione su tutta la penisola. L’occasione la fornì la grande alluvione del Po nel novembre del 1951. Rovigo non fu toccata dall’inon-
dazione, ma si riempì di profughi e di sfollati con i loro birocci trainati dai buoi e le povere masserizie salvate dalle acque. La città divenne la retrovia di una grande catastrofe, come forse non era stata neppure la guerra. Qualche mese dopo, nella primavera del 1952, lasciammo Rovigo. Meta, Bologna. Il capoluogo emiliano, con l’università più antica d’Europa, con Carducci e Pascoli, con il suo tenore di vita, con il suo intreccio secolare fra spirito laico e papalino, era l’approdo ideale per il collegio. Che appunto da allora si intitolò a Giovanni Pascoli. Il testimonial perfetto per la scuola del Fanciullino.
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