A quante persone potrei dedicare questo libro? Qualche migliaio, probabilmente. E allora ne scelgo solo una, che le metta tutte d’accordo. A Helmut Haller. Che non ho mai conosciuto, e non ho mai visto giocare e che in questo libro non viene nemmeno citato. Ma che è stato uno degli ultimi idoli di mio nonno Gino. Lui, Gino, in questo libro invece c’è. È lui che mi ha fatto conoscere il Bologna, è lui che mi ha insegnato ad amarlo. È lui che mi ha fatto salire sul treno di questa storia. È da lui che ho capito che i sogni, a volte, sono proprio lì, Oltre la Rete. E hanno bellissime maglie rosse e blu. Quindi, grazie Helmut. Per quello che hai fatto per Gino. Tu non lo sai, ma ti devo molto.
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Storie di oltre cento anni di tifo rossobl첫
Minerva Edizioni
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OLTRE LA RETE Storie
di oltre
100
anni
di tifo rossoblù
Paolo Alberti – Dario Clementi
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Marco Tarozzi Impaginazione: Francesco Zanarini Le immagini presenti in questo volume sono state gentilmente concesse da Michele Bettini, ad esclusione delle pagg. 116 e 117 che sono di © Walter Breveglieri CD audio “Cam-peones” © 2012 Brisa, Bologna © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.
ISBN: 978-88-7381-474-0
Il CD audio allegato a questo volume è di proprietà e realizzato da Progettobrisa e diffuso dall’editore come allegato omaggio al libro.
Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com
CAPITOLO 1
C’è un vapore denso che gorgheggia sulla banchina formando lente spirali bianche, come un grosso grumo di cotone sfilacciato e portato dal vento. La stazione è vuota e ci sono solo io, al binario. Non ho valigie, non ne ho bisogno. Non stavolta. Gli altri, tutti gli altri, sono già sul treno. Si sporgono dai finestrini, sento il peso dei loro sguardi, anche attraverso la nebbia che esce dalle rotaie e m’inghiotte. Forse quell’ombra che si agita in lontananza è una bandiera, ma da qui è solo un alone scuro che fluttua nell’aria, uno spettro. Esito ancora un attimo, guardo i vagoni scuri, fermi, ma pronti a muoversi, ad avanzare. La locomotiva sputafuoco nera, scintillante e massiccia come la testa di un drago. Sbuffa, sembra impaziente. È lungo, questo treno, molto lungo. Non ne vedo la fine. Deve trasportare un sacco di gente, d’altronde, ma tanta proprio. Tutta gente che aspetta me, a questo punto. Che sarà mai, un viaggio in treno? La porta è aperta, tre scalini di ghisa e sono dentro. Basta solo salirli. Già. Che sarà mai. Ma mica è solo un viaggio in treno, stavolta. Questo è il mio viaggio. Questo è il mio treno.
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CAPITOLO 2
E va bene, devo spiegare. Già sono vecchio, parecchio vecchio, e se comincio così, col mio viaggio e col mio treno, mi prendete anche per rincoglionito, giacchè le due cose, voi giovani, tendete ad associarle spesso. Allora, facciamola breve. Mi hanno chiesto di scrivere la mia biografia. Lo so, sembra impossibile, ma mi è capitato. Qualche tempo fa, mi chiama un tizio. Fa l’editore, dice, è una storia che gli interessa, dice, ed è ora che la racconti, dice. E quando dice che è ora che la racconti, io faccio gli scongiuri. Alla mia età, quella mi suona come una gran gufata, tipo Raccontala finché sei in tempo. Mi dice anche il suo nome, quell’editore, ma me lo scordo subito. Mi capita, è normale, e lui ha un cognome lungo. Fatto sta, che l’idea mi piace. Non so perché, forse ho conservato un pizzico di ambizione e civetteria sotto le rughe, ma mi piace. E dico di sì, accetto. Scrivila come ti pare, dice lui, allora. Ci sentiamo fra sei mesi. Poi mette giù. Socmel, penso io. E adesso? Ecco: adesso devo scriverla, la mia autobiografia. E voi, se avete gentilezza e pazienza sufficienti, leggerla. È una storia lunga. Una storia che dura più di un secolo, provare a riassumerla è quasi impossibile, ma cercherò di non annoiarvi. Me ne rendo conto, sono stato fortunato, a ottobre ho fatto103 anni. Non ci arrivano in molti, quasi nessuno. Ne ho viste di tutti i colori, come si diceva ai miei tempi, e due o tre volte me la sono vista davvero brutta, ero più di là che di qua, sempre come si diceva ai miei tempi, ma ho tenuto botta. Il problema è che alla mia età, la memoria, e tutto il resto a dire il vero, qualche colpo lo perdono. E quando si racconta qualcosa, figurarsi una vita intera, si rischia di incepparsi, di non essere
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lucidi. Di ripetersi, più che altro. In genere, quando succede, chi mi sta di fronte fa finta di niente, ma saper fingere è un’arte in cui tutti si cimentano convinti, e nessuno sa usare davvero. Li vedo, i sorrisi ebeti con cui si sforzano di sembrare stupiti o interessati, gli interlocutori che incontro, mentre in realtà stanno ascoltando per l’ennesima volta lo stesso noiosissimo episodio. E io mi ci diverto, allora. La faccio anche più lunga, quando me ne accorgo. Voglio vedere per quanto resistono. Quindi abbiate pazienza. E se capita, sorridete anche voi, e andate avanti. Ormai me lo sono messo in testa, devo farlo. E poi l’idea è dell’editore, quindi al limite ve la predente con lui. Forse avrei potuto pensarci prima, avrei dovuto sfogliare l’album dei miei ricordi e provare a rimetterli in fila qualche anno fa, quando i miei pensieri avevano meno ragnatele e giravano senza bastone. Ma sapete com’è, aspettavo. Se è vero che chi ha tempo non aspetta tempo, è vero anche il contrario. Se uno riesce ad aspettare, rischia di aspettare per sempre. E poi, pensavo, lo farò più avanti, ero a un pelo dai cent’anni, farlo prima sembrava non volerci arrivare. Ma soprattutto, non me l’aveva mai chiesto nessuno. Fino ad oggi, hanno parlato in tanti, di me. Ma nessuno ha mai chiesto a me, direttamente a me, di farlo. Nessuno tranne quell’editore che mi ha chiamato sei mesi fa. Quindi, ancora una volta, fatevela con lui. A dirla tutta, ne sentivo proprio bisogno di raccontare la mia storia, di ripercorrere idealmente la mia strada, di fare il punto della situazione. Vi auguro di arrivare a cent’anni e anche più. Vedrete se non ne sentirete bisogno anche voi. Lo sentirete eccome, quel bisogno, e sarà una benedizione, visto che gli altri bisogni li avrete seppelliti molto tempo prima o ve li troverete ogni sei ore nel pannolone. È la voglia di restituire con le parole almeno una piccola parte
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della fortuna che si è avuta: una vita lunga e intensa è il regalo più grande che si possa ricevere. Per quello ho accettato l’idea dell’autobiografia. Non so se in tutti questi anni ho imparato tanto o poco, ma qualche certezza l’ho acquisita. Una, ad esempio è l’importanza di condividere. Le emozioni, gli umori, le esperienze. E, appunto, la fortuna di campare così a lungo. Tranquilli, non voglio insegnarvi nulla, so bene che i consigli dei vecchi sono come le catene da neve. Uno se ne frega, finché non ne fa un metro. Quindi non ve ne darò, ma statene certi: in qualche modo, se state leggendo queste righe, mi conoscete. E se mi conoscete, fate parte della mia vita, di quella lunga, lunghissima fortuna che mi è capitata. Parlarne è dunque parlare anche di voi. Non ho altro per ricambiare, per sdebitarmi, per ringraziare per tutto quel che sono stato, accontentatevi. D’altronde, chi tanto e chi poco, mi avete sempre sopportato, ne sono certo. Il problema, quando si vuole scrivere un’autobiografia, ma anche per un sacco di altre cose, è come farlo. Ho scartato subito l’ipotesi di parlare direttamente di me. Di raccontarvi in prima persona quel che mi è passato sotto il naso. Di autocelebrarmi, in un certo senso. Lo trovavo sciocco, e anche un po’ arrogante, ma soprattutto ingiusto. Sempre state indigeste, a me, le persone autoreferenziali, che sembra esistano solo loro al mondo. La vita non è poi così difficile, e quando ci si trova a fare due conti su come è andata, i due conti si fanno con chi si è incontrato, non tanto con se stessi, con chi ci ha accompagnato lunga la strada. Ignorarlo, o meglio ignorare di essere solo una parte di una comunità, sarebbe un errore, a meno che non si sia vissuti da asceti, da eremiti. Non è il mio caso. Io ho sempre avuto un sacco di gente intorno. Sono uno da compagnia. Quella è stata la mia vita, e quella era allora la storia che dovevo raccontare. Potevo in alternativa riassumere tutto attraverso gli episodi più significativi, gli incontri più memorabili, i personaggi a loro modo
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più illustri che hanno segnato la mia esistenza. E ce ne sono stati tanti. Non ci crederete, ma sul giornale io ci sono andato spesso e con me un bel po’ di protagonisti da prima pagina. In fondo, le autobiografie, di solito, sono così: degli almanacchi, gallerie storiche con una bella sfilza di date e nomi celebri, messi in fila, come in una vetrina del centro. Ma mi sembrava banale. E soprattutto, già fatto, già scritto. A questa ci crederete ancora meno, ma ci sono un sacco di libri che parlano di me. E lo fanno praticamente tutti così. Sottolineano i bei tempi della mia giovinezza, i miei successi, le mie conquiste, se così vogliamo chiamarle. Poi sfumano, si intristiscono e chiudono descrivendo i miei ultimi anni, i miei acciacchi, l’inevitabile declino. Ecco, come dire, avrei volentieri evitato. La vecchiaia e i ricordi lacrimosi di un bellissimo passato lasciato alle spalle mi fanno già abbastanza incazzare giorno per giorno, riproporveli per iscritto sarebbe stato sadico per voi, e masochismo puro per me. Ho deciso quindi di procedere in un’altra maniera, quella di escludere me stesso dal ruolo di protagonista, ed escludere coloro che il ruolo da protagonista se lo sono già preso per la storia ufficiale. In quel che segue, troverete quindi incontri con gente comune, come si suol dire, con persone che difficilmente trovano spazio sui giornali o nei libri. Ma che nel mio libro dovevano starci. Anzi, dovevano Essere il mio libro. Sono la migliore testimonianza della mia esistenza, gli incontri a me più cari. Quelli che considero davvero i miei amici, coloro che ho incontrato in tutti questi anni lontano dai riflettori, quelli che mi hanno dedicato tempo, a volte un sacco di tempo, emozioni, comprensione, nei momenti esaltanti, ma anche nelle giornate più nere, senza per questo avere il loro nome stampato nell’Olimpo della fama. Per questo, vi dicevo, volevo sdebitarmi. Ho dato forse tanto, in oltre cento anni, ma ho più che altro ricevuto. Affetto, tanto calorosissimo affetto, dai miei splendidi amici qualsiasi. Forse è per
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questo che campo ancora. Anzi è senz’altro per questo, come il Barone Lamberto di Italo Calvino. Non è questo forse il vero senso dell’amicizia? La sostanza stessa del sentimento? Esserci, sempre, gli uni per gli altri, e senza alcun secondo fine. Ognuno di loro, di quei miei amici nell’ombra, ma sarebbe più opportuno dire Ognuno di voi, è stato un mattone fondamentale per costruire la mia vita. E quello che state per leggere, allora, sono io attraverso loro, una piccola selezione di loro, attraverso i loro sguardi, le loro emozioni. Il vero bilancio di un’esistenza intera si fa così, solo così. Per me, naturalmente, mica voglio darvi consigli. I consigli dei vecchi sono come le catene da neve. Uno se ne frega, finché non ne fa un metro. Ma mi sa che questa ve l’ho già detta. Sorridete. Infine, rimaneva l’ultima difficoltà, nella stesura della mia autobiografia riflessa, passatemi il termine, che fra l’altro mi pare appropriato e pure molto innovativo, visto che me lo sono appena inventato. La struttura. L’editore, quello col cognome lungo, anche su questo mi ha dato carta bianca. Ed è un bel problema, per chi scrive, la carta bianca. È un incubo. Bisogna riempirla, infatti. E farlo con giudizio, con un senso logico, con un filo che tenga insieme le parole e che non faccia venire la nausea al lettore. Con quella cosa che armonizza il racconto e lo fa viaggiare spedito, avanzare senza indugi, collegato dall’inizio alla fine. La struttura, appunto. Mica facile. Mica facile per uno scrittore, figuriamoci per un vecchietto alle prime armi, con la memoria a singhiozzo e i ricordi arrugginiti. Non potevo certo pensare di collegare i personaggi, tutti i personaggi, a contesti precisi, anni, luoghi, azioni. E men che meno pretendere di trovare il modo per passare dall’uno all’altro, senza che l’ingranaggio si inceppasse.
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Allora ho ragionato a lungo, ci ho pensato un bel po’, e devo essermi anche addormentato quattro o cinque volte mentre lo facevo, ma è l’età. Come mettere in fila le tappe del mio viaggio, come e dove collocare quegli amici che avrebbero parlato di se stessi e quindi di me, magari senza annoiare, magari senza che tutto questo sembrasse una piattissima cronistoria di un anziano in delirio? Eccola allora, l’idea. Intendiamoci, non un colpo di genio. Nulla di eccezionale, ma funzionale. Dovevo parlare di un viaggio, la mia esistenza, di una serie di incontri concatenati, immaginando un luogo in cui fare stare assieme un bel po’ di persone qualunque, che si sono mosse in un’unica direzione, lungo la mia vita, come se dei giunti fortissimi le tenessero assieme? Be’, la cosa più simile, e non solo metaforicamente, a tutto questo, era un treno. Ve l’ho detto, mica una roba miracolosa, ma quando arriverete a cento anni voi, poi me lo sapete dire se vi vengono idee brillanti. Un treno magico, dunque, un treno immaginario. Che non corre nello spazio, non misura la sua corsa in chilometri. Ma avanza lento sui binari del tempo. Saltellando sugli scambi dei decenni, sobbalzando nelle curve delle settimane più difficili. Un treno con una locomotiva che sbuffa come quelle di cento anni fa e una coda moderna e attuale. Un treno dentro al quale rimetterci tutti quelli di cui avevo voglia di parlare. Di incontrare ancora, e non importa che fossero ancora al mondo oppure no. È un treno che viaggia nella memoria quello su cui, esitante ed emozionato, sto salendo. Macina passione, ricordi, tempo. Non chilometri. Perché i sentimenti non si misurano in lunghezza. I sentimenti si pesano. Vabbe’, ho parlato anche troppo, avete capito senz’altro. Come si dice in questi casi? In carrozza, si parte. E buon viaggio.
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CAPITOLO 3
Il mio vagone è il primo, dopo la locomotiva. Se proprio devo iniziare una cosa, meglio iniziarla dal principio, faccio sempre così e alla mia età le abitudini non le cambi, fanno compagnia. Faccio i due passi per avvicinarmi al predellino. Poi metto il piede sul primo gradino, mi sollevo quasi per inerzia sul secondo, ma per il terzo avrei bisogno di un po’ di slancio, di una forza che non ho più. O semplicemente di avere 40 anni di meno, accidenti. Sono dannatamente ripidi, gli scalini dei treni di inizio novecento. Sta a vedere che sono arrivato fin qui e mi devo arrendere ad uno stupido gradino di ghisa. Non succede, però: una mano che sembra sbucare dal nulla si allunga verso di me. Istintivamente l’afferro. Ha l’aspetto e la consistenza di un ramo secco e nodoso, ma mi issa a bordo in un attimo. Un boato mi pare provenire dai vagoni di coda, là dove intravvedevo quell’alone, quella bandiera. Sono i ragazzi più giovani. Ne hanno di energia, quelli, ed è bastato che salissi, che ricominciasse tutto di nuovo per fare festa. «Piacere, Remo, – mi dice il proprietario della mano che mi ha tirato su di peso – Anzi, forse sarebbe meglio dire: lieto di rivederla, signore.» Alzo lo sguardo. Ho la netta sensazione di averlo già visto, questo Remo, ma è un ricordo molto sfumato, un alone di alito che si condensa sullo specchio della mia memoria, e si dissolve subito. Certo, ha una forza sovrannaturale, a giudicarlo dall’aspetto. È un omino pelle e ossa, con le gambe curve come avesse vissuto a cavallo di una botte, la mascella larga, il naso aguzzo e due bei baffi a manubrio, molto curati, tanto curati da sembrare quasi posticci. Nel chiudere il suo saluto, solleva appena il cappello a bombetta, poi se lo risistema leggermente piegato sulla sinistra. Ha un dente ogni tanto, e un paio di occhi scuri, direi marroni, anche se siamo in penombra e potrei sbagliarmi. Ai loro lati partono a raggiera rughe profonde, lunghe fin quasi alle orecchie. Insomma, un rudere,
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peggio di me, uno uscito da una foto color seppia di tanto tempo fa. Ma il suo sguardo è vispo, intelligente, pieno di vita, di forza, la stessa con cui mi ha miracolosamente tirato a bordo. E istintivamente, mi sta simpatico. «Piacere Remo, mi pare di conoscerla, ma non ne sono certo. La sua faccia non mi è nuova, eppure… non riesco a collocarla bene. Probabilmente è che sono vecchio, sa io sono…» «Oh, ma so benissimo chi è lei, signore. Non ha bisogno certo di presentarsi. Anzi, è un onore poterle parlare, in mezzo a tutta questa gente. Lei è il motivo per cui sono su questo treno, lo stesso per cui siamo qui tutti. Ed è abbastanza inutile che provi a ricordarsi di me. So bene quanto sarebbe difficile, forse impossibile. È normale che sia così. Nessuno ricorda chi ha conosciuto da piccolissimo, genitori e pochi altri a parte. Anzi, trovo abbastanza assurdo quel che fanno alcuni, quando incontrano qualcuno e se ne escono con stupidaggini del tipo Ti ricordi di me? Io ti ho visto che eri grande così…Eh, se ero grande così, come diavolo faccio a ricordarmi di te? Quanto all’età, signore, non lo dica a me. Sono più vecchio di lei. Molto più vecchio. Sono dell’89, io, 1889, ovviamente. Un bel salto in avanti, per me, riapparire quasi due secoli dopo…» Sorrido. Remo parla a raffica ed è molto divertente ascoltarlo. Ha ragione, non posso ricordarmi di lui. Ma lui è uno dei primi che mi sono stati vicino, evidentemente. Non sarebbe su questo treno, altrimenti. A maggior ragione, non essendo più al mondo, come si diceva ai mie tempi. C’era da aspettarselo. D’altronde il mio è un treno magico, mi pare di avervelo detto. Ma proprio perché mi sta simpatico, lo sfido, fingo di essere imbarazzato, o quasi impaurito: «Quindi lei, come dire, è…morto…» «Oh, certo, signore, morto da un pezzo, mortissimo, finito, putrefatto, concime per erbacce. Nel cinquantotto del secolo scorso. È passata una vita, che son morto. Appunto. – mi strizza l’occhio e
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alza uno dei mustacchi sorridendo – Però, come vede, sono ancora in gran forma. Per essere un morto che cammina, insomma, me la cavo alla grandissima. Ho passato due guerre mondiali, una d’Africa, il ventennio, e proprio quando tutto sembrava andare benone, appena prima di quello che i vivi avrebbero chiamato il boom degli anni sessanta, tac, me ne sono andato io. Gran pugnetta, se mi permette. Ero anziano, per l’epoca, ma avevo ancora una gran voglia di stare al mondo, mi son sentito come uno che si mette in ghingheri, preparandosi per tre ore per rimorchiare, poi arriva alla balera e la trova chiusa. Però, guardi qua, il panciotto che avevo il 4 ottobre del 1909, mi va ancora benissimo.» «Lo vedo, lei ha una vitalità impressionante. Mi rendo conto, nella sua situazione suona strano, è come se dicessi ad un ippopotamo quanto è aggraziato. Ma è così che la vedo, nonostante le rughe, mi scusi, sa.» «Oh, non si deve scusare, anzi, lei è molto gentile, signore. Ma vede, è quello il segreto. Il segreto di tutto, credo. Quella che lei chiama vitalità è solo pura passione. Se nella vita si è avuta, se non si è stati a guardare, be’, dopo funziona così. È energia pura, e la si conserva sempre. O almeno, è quello che succede a me. La pippa è il corpo, invece. Quando uno torna, se torna, non gliene danno uno nuovo. Voglio dire, pazienza quando sei vivo, invecchi, come tutti, lo accetti. Ma dopo, se qualcuno ti richiama da questa parte, come ha fatto lei coi suoi pensieri, ti tieni quello che avevi l’ultimo giorno, con i tuoi solchi in faccia, le ossa curve e tutto il resto. Già che c’erano, invece di cambiare la batteria potevano darmela nuova, la macchina, no?» «Già che c’erano, chi?» «Ah, non ne ho idea. È lei che mi ha chiamato su questo treno, l’ho sentito proprio come fosse una voce. E allora qualcuno deve pur avermi ridato indietro ‘sto rottame.» Sorrido nuovamente, strano tipo di zombie, Remo. L’ho rievocato con la volontà di scrivere la storia della mia vita, oltre 50 anni dopo la sua morte, e sta qui, di fronte a me, senza fare una piega, ciarliero come una comare da parrocchia, diretto come un cazzotto
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sul naso. Nessuna paura e tanta ironia. Sono contento che uno così mi abbia seguito, che sia qui sopra. «E, Remo, lei cosa si ricorda esattamente, di me? – gli chiedo – O cosa ricorda della sua esperienza legata a me, almeno...» Quello sghignazza, aprendo la sua bocca a denti alterni, la tastiera di un pianoforte, in pratica. «Cosa ricordo?, mi chiede cosa mi ricordo, mi chiede. Tutto, signore, ricordo tutto. E ha parecchio a che fare con quello che le stavo dicendo, con la passione. Lei non può saperlo, ma se sono così vivace, anzi vitale, come dice lei, le devo molto, moltissimo. Lei quella cosa lì, la passione, me l’ha nutrita e parecchio. Fin dal primo giorno. Il suo primo giorno, signore.» «Vada avanti. È proprio quello che voglio sapere, io mica mi ricordo, ero un cinno appena nato…» «Humm, vediamo. Mica facile mettergliela giù bene, la storia, signore. Comunque, più o meno la faccenda sta così. Il 3 ottobre del 1909 lei è venuto al mondo, e questo credo lo sappia o gliel’abbiano detto. Non una gran giornata e nemmeno brutta, in teoria irrilevante. Ma è sempre così, il primo giorno, sembra non conti niente, invece sta tutto lì, il miracolo. Nel suo caso, era domenica. Un giorno di festa, la domenica, specialmente se è il giorno prima del Patrono. Forse lei, signore, non se l’è mai domandato: ma il fatto che lei sia nato di domenica, di festa, e che sia poi stato così importante per me e per tutti quelli che sono su questo treno, che sia stato motivo di gioia, che sia stato da sempre legato alla domenica, alla festa, be’, mi sa che c’entra. Io una relazione ce la vedo, insomma. Come si dice? Destino.» Uno strattone, ci stiamo muovendo, lentamente gli sbuffi che scorrono oltre i finestrini si impolverano di grigio, e si comincia a saltellare leggermente. Remo non ci fa nemmeno caso e prosegue: «Io all’epoca aiutavo mio padre. Avevamo una rimessa, con le carrozze, in fondo a via Galliera, vicino alla Porta. E quando finivo
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con assi, ferri, lucido e spazzole, mi piaceva passare dalla Piazza, verso sera. Bologna è bellissima, al tramonto, lo era allora, devo immaginare lo sia ancora.» «Lo è, – confermo io – serve solo un po’ più di immaginazione per ritrovarne la poesia, ma è ancora bellissima, la Piazza. Lei viveva in un mondo più vergine, Remo, più poetico, appunto.» «Forse, signore. Ma era una fatica del diavolo, quel mondo poetico che dice lei. E nemmeno si immaginano, i cinni di adesso, che scomodità.» «Già.» «Comunque, dicevo, mi piaceva andare in Piazza, e magari infilarmi in qualche osteria a farmi un goccio. Lo dico senza vergogna, signore, e non voglio fare l’immodesto, ma me lo meritavo, un goccio, dopo una giornata tra culi di cavalli e ruote alte quanto me. Avevo sempre su il panciotto, questo panciotto che vede ora, all’epoca usava. E poi, lì dietro la Piazza, in via Spaderie, davanti alla birreria Ronzani, c’era la Guerina. Faceva la ricamatrice e, sì, insomma, le facevo il filo, mica potevo andarci in maniche di camicia. Ma torniamo alla storia: come è come non è, anche quella sera, lunedì 4 ottobre 1909, mi ritrovo a girare giù a sinistra, dare un’occhiata alla Guerina, curva sui suoi aghi con la concentrazione di un chirurgo, farle un cenno di saluto col cappello, ed entrare in osteria. Oh, sia chiaro, poi con la Guerina ci siamo anche parlati e abbiamo tirato su 4 ragazzi, ma a quei tempi non è che usasse molto intortare una donna in maniera sfacciata. Erano calci nel didietro, se provavi, e il papà della Guerina tirava di boxe, sì insomma, meglio salutare, e basta.» «Ma, mi scusi…il 4 ottobre, a Bologna, non sarebbe festa? San Petronio, no?, lo diceva anche lei prima…» «Sì. Infatti. E infatti eravamo andati a Messa, la mattina. Poi a lavorare, come sempre. Ha presente quando le parlavo di un mondo molto romanticamente scomodo? Ecco, ai miei tempi, faceva festa solo chi poteva, il giorno di festa. Sennò, ciccia. Non so se mi spiego.» «Si spiega benissimo…»
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«Dove ero arrivato? Ah, sì, entro in birreria, stavo dicendo. Mi siedo dove mi sedevo sempre e faccio quel facevo ogni sera. Niente di che. Solo che quella sera lì, al tavolo di fianco al mio, c’è movimento. Ci sono delle persone vestite che a confronto il mio panciotto sembra un burazzo, gente per bene, insomma, dei signori. Uno è spagnolo, Bernabeu, si chiama. Parlano fitto, che sembrano cospiratori. I tizi vanno avanti un pezzo, discutono, eccepiscono, ribattono, poi scrivono tutto su un foglio, quando sembrano essere tutti d’accordo. La cosa mi incuriosisce, da dove sto seduto non posso capirci un accidente, nemmeno mezza parola, e origliare non sta bene, figuriamoci nel ‘nove. Però resto lì un pezzo a osservarli. Forse per il fatto di quella cosa che le dicevo prima. La passione. Ne vedo tanta negli occhi di quei gentiluomini, sembra luccichino. Alla fine, quando ho il bicchiere vuoto e mi seccherebbe restare lì e sembrare un impiccione, chiamo l’oste per pagare. Quello si asciuga le mani sulle cosce, e viene da me. Al che, mi informo, gliela butto lì, la domanda su cosa succede al tavolo coi signori eleganti. L’oste alza gli occhi, sempre stato uno che badava agli affari suoi lui, ma mi dice che stanno decidendo qualcosa su uno sport piuttosto nuovo, forse su una squadra che hanno fondato il giorno prima, c’era anche un articolo sul Carlino, dice. Ma il giornale in bottega io lo usavo solo per pulirmi le mani dal grasso, e ‘sta notizia me l’ero persa proprio. Poi l’oste aggiunge scettico che secondo lui tutta quell’energia dovrebbero metterla in cose più importanti, cosa vuoi che conti una squadra di fotbàl?, conclude. Infine, conta le monete e torna dietro il banco. Io mi alzo, esco, dò un’ultima occhiata a quei signori, poi passo davanti alla bottega dei ricami, e accompagno la Guerina a casa. Cioè, la seguo a debita distanza, ovviamente. Giusto per rivolgerle un altro mezzo saluto sollevando la bombetta quando infila la chiave nella toppa. Ma sta faccenda dello sport e della squadra nuova, del fotbàl, mi rimane in testa. Anche mentre guardo il culo della Guerina che mi balla davanti sotto al portico. Il giorno dopo, il 5 ottobre, la prima cosa che faccio alla rimessa è recuperare il Resto del Carlino del giorno prima, tutto unto e
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impataccato. Lo sfoglio, cerco nelle notizie minori. Ci sono giusto poche righe che riportano quel che mi aveva detto l’oste alla Ronzani. Dicono che è stata fondata una sezione nuova del Circolo Turistico Bolognese, una sezione “per le esercitazioni di sport in campo aperto” e precisamente il Foot Ball Club. Allora metto il giornale su una sedia al sole, che così si secca il pataccone e dopo lo posso grattare via meglio. Ce l’avevo ancora, quel foglio ingiallito e con l’alone del grasso per le redini, quando son morto. In cornice, proprio davanti alla porta d’ingresso, a casa. Così chi entrava, si faceva subito un’idea.» Remo dice queste cose con uno sguardo sognante e pieno d’orgoglio. Non posso fare a meno di restare incantato. E aspettare che tiri il fiato e prosegua. «Dopo, be’, dopo è venuto tutto di conseguenza. Non le dico che sacrifici, io e i miei amici, prendere su, ognuno dalla sua bottega, qualche ora al giorno, per andare ai Prati di Caprara a vedere ‘sto fotbàl appena nato. Ma ci eravamo appassionati. Sa cos’ha di bello quello sport? Che è facile, facilissimo. Lo si capisce subito. Anche se…» «Anche se?» «No, niente…Sandro. Soccia che asino, Sandro. Sandro Bertuzzi, detto Fittone, perché era un cinno alto un metro e largo altrettanto, ma anche con la stessa perspicacia di un paletto, appunto. La prima volta che l’abbiamo portato al campo non è che ci aveva capito tanto…Aveva visto quei ragazzi, con le loro belle maglie a scacchi rossi e blu, e sa cos’aveva detto?» «Ehm, no…» «Perché c’han la palla? Non sono fantini?» Dopo, quando la squadra ha messo le maglie a righe, invece che a scacchi, be’, dopo s’è appassionato al fotbàl anche il Fittone. Mica difficile, d’altronde, pronti via, avevamo vinto subito il Campionato Emiliano del ’10, era venuta anche l’Inter Campione d’Italia, a giocarci contro…un’amichevole, ma se l’erano sudata, i milanesi. Mai vista tanta gente così soddisfatta dopo aver perso uno a zero…»
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Le ultime case della città fuggono all’indietro, attraverso il finestrino. Inizia una campagna piatta e immobile, imbiancata dalla brina e disseminata di alberi rinsecchiti e aguzzi cresciuti attorno ai maceri, stuzzicadenti e macchie umide lasciati lì, su una tovaglia enorme e senza pieghe. Remo prosegue a raccontare, il rumore ritmato degli scambi che passano sotto i nostri piedi sembra volerne evidenziare le pause, la punteggiatura. Mi parla di quel calcio pionieristico, fatto da gente elegante anche col fango sulle ginocchia e le bende arrangiate, che a ogni stagione cresce insieme alla passione per quelle maglie rosse e blu che cominciano a farsi rispettare. Io mi perdo, cullato dalle sue parole e da quella glassa viscosa, dolce e amara, che è la nostalgia. Mi rifaccio attento quando mi parla di una certa Brigata… «Sì, signore. Ha capito bene. La Brigata Pratello. Come le stavo dicendo, anno dopo anno, la squadra, che ormai per tutti era il Bologna, semplicemente, e lei lo sa bene, stava procedendo spedita, e con sempre più gente a seguirla. Noi che c’eravamo dal primo giorno li guardavamo un po’ dall’alto in basso, quelli che venivano a vederla solo allora, sì, insomma, ce la tiravamo un po’, noi che avevamo capito prima. Anche Fittone. Comunque, la partita del fotbàl per molti era diventato un appuntamento fisso. E quella passione sembrava un’epidemia. Se ne parlava sotto ai portici, dal fornaio, tra un bicchiere e l’altro in osteria. E la Guerina l’aveva presa persa subito, appena sposati. Aveva capito che avrei sempre avuto l’amante. Un’amante strana, con la maglia a righe, da cui dovevo andare ogni volta che giocava. L’aveva capito eccome. E sapeva di dovermi dividere. Una gran donna, la Guerina. Ma torniamo a noi. La squadra si era trasferita alla Cesoia, poi allo Sterlino, nel ’13, e attorno alla rete, oltre quella rete rigida, si stava belli stretti, gli occhi puntati sul campo, sui nostri 11 eroi rossoblu. Si dia un’occhiata in giro, tutti quelli che stanno in questo vagone,
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e in quello dopo, in quello dopo ancora, si son consumati le chiappe, a star seduti per terra per vedere il Bologna.» «Immagino…ma…la Brigata?» «Ah, già, la Brigata. – sorride – Come spiegargliela? Facciamo così: lei, signore, proprio laggiù, in fondo al treno, nei vagoni di coda, incontrerà un sacco di ragazzi, che hanno ora la stessa passione che io, Fittone e gli altri avevamo un secolo fa. Adesso credo che li chiamino Ultras, in genere. E quando si parla di loro, se ne parla male, o comunque in maniera eccessiva. E, soprattutto, come di un fenomeno moderno, tutto sommato. Ecco, mica vero… A nostro modo, lo eravamo già, ultras. Ed eravamo la più lampante dimostrazione che quando si dice che essere ultras è un fatto di noia, di mancanza di ideali veri, di bisogno di sfogare istinti violenti in una realtà tutto sommato pacifica e piatta, be’, si dice una bella boiata, con tutto il rispetto. Io, Fittone, tutti i miei amici, ci siamo fatti la Prima Guerra mondiale, e abbiamo avuto la fortuna di dover “solo” passare qualche anno rannicchiati in trincea, sotto la neve e le mitragliatrici, ma portando a casa la pellaccia. Vivevamo in un mondo rigoroso, pure troppo. C’erano ideali così forti da sembrare acido, accecavano e bruciavano. C’era il Re, azidant a lò, il Re. Eppure… Eppure il Bologna lo vivevamo con una passione totalizzante. E mica ci bastava stare allo Sterlino, a guardarlo. Volevamo seguirlo sempre. E ovunque. Eravamo ultras ante litteram? A me sembra di sì. E, mi scusi, ma non ci vedo nulla di male…» «Mi sta dicendo che…facevate le trasferte? In quegli anni?» «Le sto dicendo questo, signore. Sapevo che avrebbe capito, ci siamo sempre capiti con uno sguardo, lei e noi…» «Sì, ma, come…» «Con la Brigata Pratello, per l’appunto. Sia chiaro, mica si poteva sempre. Distanze e strade, all’epoca, erano un ostacolo talvolta insormontabile. Ma quando si poteva… Come le dicevo, io lavoravo nella rimessa di famiglia. Quella delle carrozze.
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Quindi i mezzi a disposizione li avevamo, come dire…» «Mi faccia capire, andavate in trasferta…a cavallo?» «Be’, in pratica sì. Insomma, sulle brevi distanze si poteva fare. L’idea è venuta a uno che stava lì al Pratello, Nepoti, mi sembra si chiamasse, era giovane, un bimbo, confronto a noi. E all’inizio sembrava una battuta, una di quelle cose che si dicono al terzo bicchiere. Invece…per qualche tempo, a inizio secolo, il Bologna ha avuto i suoi tifosi da trasferta, i suoi ultras da cavalleria. Noi.» «Ma è una storia bellissima…» «Già, tanto bella da sembrare una favola, infatti non ci crede più nessuno. Lo racconti lei, a quelli di là, a quelli vivi, intendo.» «Ma poi?» «Be’ poi, le carrozze sono sparite, si poteva salire su treni come questo. E per fortuna, signore. Mio padre ‘sta cosa di prendere carrozze e cavalli la domenica, e spomparglieli dietro al Bologna, mica l’aveva presa bene. Ma che tempi, signore, che tempi. Eravamo bellissimi, c’eravamo fatti anche una specie di divisa, per seguire il Bologna, tutta nostra. Come succede adesso a quei ragazzi in fondo al treno. Anche nel ‘25, quell’anno lì degli spareggi col Genoa, del primo scudetto. C’eravamo, noialtri.» «Già. Il primo scudetto. Me lo ricordo anche io. Avevo 16 anni. Be’, ma…mi scusi, Remo, ma se lei c’era…posso dirglielo…siete stati un po’ birichini, in quei giorni, o sbaglio?» «Un po’ tanto, signore. Un po’ tanto. Non me ne sono mai vantato, e non ho intenzione di farlo ora. E non voglio neppure trovare troppe giustificazioni. Ma eravamo belli tesi, noi della Brigata, ma anche gli altri. Dopo anni di faticacce per seguire la squadra in quelle condizioni, una guerra, la marcia su Roma, lavori da spaccarsi la schiena ogni giorno, eravamo alla soglia della più grande soddisfazione possibile. Lo scudetto, il primo, per quei ragazzi in rossoblu che seguivamo da quando erano nati, in pratica. Si tagliava a fette, la tensione. Mica come i genoani, che avevano vinto tutto, loro. Per loro era normale. Per noi no.
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Degli sboroni, mai visti, quelli, mi perdoni. Se la tiravano che sembravano la Garbo col marchese. E il Genoa di qua, e il Genoa di là, voi non siete nessuno…sì insomma, volarono parole e scopaccioni in fretta, nei giorni degli spareggi, non eravamo gente che si faceva prendere per i fondelli, noialtri.» «Mica solo scopaccioni…» Remo fa una pausa. È un tipo sveglio e sa a cosa mi riferisco. «Il colpo di pistola, già. Roba da non crederci. È finita lì, temo, la nostra innocenza. Furono giorni pesanti, quelli. Ogni volta che passava una guardia, davanti alla bottega o sotto casa, si stava col fiato corto, sicuri che ci beccassero. Lo scudetto, il primo scudetto, ce lo siamo goduti a metà…» «Ma, signor Remo, mi dica…sinceramente…siete stati voi? C’è una versione che dice il contrario, che furono i genoani…» Remo sorride. Pesca il tabacco dal taschino del panciotto e si arrotola una sigaretta. Mi fa un cenno, appena distinguibile, indicando una seconda cartina corta. «No, grazie. Forse ho 103 anni anche perché non ho mai fumato.» «Ben fatto, signore, ben fatto. Certe cazzate, mi scusi il termine, si pagano. E se non si pagano, ti mangiano dentro.» Me la faccio bastare, come risposta. E non solo sul fumo. Il treno rallenta, di nuovo gli sbuffi di vapore rendono tutto indistinto, oltre il finestrino. Quando si posano, una vecchia stazione emerge sempre più nitida, come una foto ben scattata e via via più a fuoco mentre risorge nella bacinella di una camera oscura. Remo soffia verso l’alto un’ultima boccata. Inclina di nuovo la bombetta e mi stringe la mano. Forse il suo tempo è scaduto. Forse deve tornare a vivere nel suo mondo oltre il mondo, quello da cui l’ho ripescato con i miei pensieri e la voglia di incontrarlo di nuovo.
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Si siede su una delle panche del vagone, mi sembra che abbracci una donna, distinta e con lo sguardo piÚ comprensivo che io abbia mai visto. Ha un cappotto pesante, un bel foulard rossoblu e una spilla a forma di G. Me ne accorgo solo ora. E mentre le rivolgo un saluto silenzioso, forse è suggestione, ma sembrano entrambi dissolversi, inghiottiti dall’ombra che la vecchia stazione proietta nel vagone. Alle mie spalle sento del trambusto. Il rumore di porte cigolanti che si aprono e richiudono. Avanzo, in un altro vagone. In fondo al corridoio si staglia una figura enorme. Appena salita sul treno. Gli vado incontro sereno, qui sopra può essere solo un altro mio amico.
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