LORENZO GALLIANI
LORENZO GALLIANI Giornalista, collabora con “Avvenire”. Su “Verona Fedele” cura la rubrica “Il Calciastorie”. Per Elledici ha scritto Un assist dal cielo (2014, prefazione di Dino Zoff ). Ha fondato crossmagazine. it, giornale online su sport e fede.
RENÉ PONTONI
RENÉ “A ver si alguno de ustedes se anima a hacer un gol como el de Pontoni”
In IV di copertina: il giornalista del Clarín Pablo Calvo e Jorge Mario Bergoglio, (foto di Anna Karim-Nillson)
LORENZO GALLIANI
PONTONI Il calciatore preferito
di Papa Bergoglio
Prefazione di Pablo Calvo
“Vediamo se qualcuno di voi riesce a segnare un gol come quello di Pontoni” MINERVA
Papa Francesco (Discorso alle Nazionali di calcio di Argentina e Italia, 13 agosto 2013)
René Alejandro Pontoni (1920-1983) è stato uno degli attaccanti argentini più forti di sempre, trascinatore di quel San Lorenzo de Almagro che, nel 1946, vinse il campionato nazionale sotto gli occhi di migliaia di tifosi. Tra questi, un piccolo Jorge Mario Bergoglio (di origine piemontese come il suo campione), che pochi giorni dopo la conquista del trofeo festeggiò il suo decimo compleanno. In quella stagione Jorge non si perse neppure una partita casalinga al “Gasómetro”, il mitico stadio della squadra fondata a inizio secolo dal padre salesiano Lorenzo Massa. Lo chiamavano “Huevito”, Pontoni, perché da bimbo, già orfano di padre, andava in giro a vendere uova. Il calcio fu la strada del riscatto. L’esplosione nel Newell’s Old Boys, i trionfi con la Nazionale e con il San Lorenzo che, vinto il campionato, si fece conoscere in Europa sommergendo di reti alcune delle più forti selezioni spagnole e portoghesi. Chiusa la carriera (troppo presto, per colpa di un infortunio), Pontoni aprì a Buenos Aires una pizzeria, “La Guitarrita”, assieme al cognato Mario Boyé, stella del Boca Juniors e protagonista di una tormentata stagione in Italia nel Genoa, ricca di gol e polemiche.
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RENÉ PONTONI Il calciatore preferito di Papa Bergoglio
“A ver si alguno de ustedes se anima a hacer un gol como el de Pontoni” “Vediamo se qualcuno di voi riesce a segnare un gol come quello di Pontoni” Papa Francesco (Discorso alle Nazionali di calcio di Argentina e Italia, 13 agosto 2013)
Collana Sul filo di lana
RENÉ PONTONI Il calciatore preferito di Papa Bergoglio
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Direttore di collana: Marco Tarozzi Editing: Tommaso Refini Immagini: © famiglia Pontoni-Boyé © Iván Aguilar Murguía © Lorenzo Galliani © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Per le immagini contenute in questo volume, l’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare. ISBN: 978-88-7381-842-7
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LORENZO GALLIANI
RENÉ PONTONI Il calciatore preferito di Papa Bergoglio
Prefazione di Pablo Calvo
MINERVA
*Giornalista del Clarín, ha pubblicato sul settimanale “Viva” una lunga conversazione con papa Francesco, nel luglio 2014. Tifoso del San Lorenzo, ha scritto “Dios es Cuervo” (Editorial Sudamericana) sulla storia del club azulgrana
PREFAZIONE di Pablo Calvo*
P
ontoni rappresentò la signorilità, lo stare in compagnia, l’amore per il calcio e non per i milioni, perché non scelse la comodità europea di quei tempi, preferì stare vicino alla famiglia e agli amici. Parlai una volta con l’avvocato costituzionalista Ricardo Monner Sans, uomo onesto che dedicò la sua vita a lottare contro la corruzione: era un fanatico del San Lorenzo e condivise momenti in tribuna con Bergoglio. Nei suoi racconti, mi resi conto del contesto nel quale Pontoni brillò. Diceva Monner Sans che in quel tempo non si festeggiavano i gol segnati su rigore, vista la disparità di forze tra chi tirava e il portiere. Diceva che se il portiere parava, lo applaudivano le due tifoserie. Che le magliette del 1946 non avevano pubblicità, né numero sulla schiena. Neppure c’erano sostituzioni, e quelli talentuosi come Pontoni dovevano prendersi i calcioni e andare avanti, anche se non se ne davano molti. Non c’era il quarto uomo, ma un cronometrista, e quando era il momento faceva un passo avanti e il primo tempo o l’intera partita era terminata. Pontoni non si depilava, non guardava il maxischermo dello stadio come se fosse uno specchio, non posava con orologi o abbigliamento costoso. Era un lavoratore, un signore elegante del calcio, che lasciò le sue prodezze nella memoria di un bimbo di Flores di 9 anni che si chiamava Jorgito. Jorgito Bergoglio. Una volta lo riconobbero come il miglior giocatore d’Argentina, però questo è un dettaglio. 5
Il gol di Pontoni al Racing (20 ottobre 1946), in un disegno pubblicato sul periodico El Grรกfico
PROLOGO UNA PARTITA SBAGLIATA Anima e cuore, e poche regole. Il calcio argentino non lo puoi ingabbiare in un catenaccio. René Carlos era solo un ragazzino e già lo paragonavano a suo padre, il grande René Alejandro Pontoni, stella del San Lorenzo e della Nazionale negli anni ’40. Non sarebbe mai diventato come lui, non sul campo almeno. Ma l’entusiasmo di un bambino non lo puoi mortificare a suon di paragoni. Aprì l’armadio, trovò una ventina di magliette dell’Argentina. Perfette, pensò, per la partita con gli amici. Le prese tutte. Al campo pareva quasi di sognare, sembrava come essere dei veri giocatori della Selección. Senza schemi, senza moduli, un fútbol solo fantasia, anche se la tecnica era un po’ quella che era, e il pallone ogni tanto finiva dove voleva lui. “E le magliette?”, chiese René-padre. “Le ho lasciate ai miei amici”, rispose René-figlio. “Capisco. Erano quelle che avevo indossato in Nazionale, sapevi?”. No, non lo sapeva, ma certo avrebbe potuto immaginarlo. Per questo ancora oggi, ripensandoci, “mi metto le mani davanti alla faccia, per la vergogna”, racconta il notaio di Buenos Aires. Riappare nella mente l’immagine di quel padre tranquillo, davanti alla notizia che alcuni tra i ricordi più preziosi della sua carriera erano spariti, e mai sarebbero tornati in casa. Viveva per il calcio e la famiglia, non per i cimeli. Sarebbero passati alcuni decenni, e di lui avrebbe parlato, in Vaticano, persino il Papa. Il primo papa argentino. 7
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IL PAPA E QUEL GOL DI PONTONI “A ver si alguno de ustedes se anima a hacer un gol como el de Pontoni”. Ossia: vediamo se qualcuno di voi riesce a fare un gol come quello di Pontoni. È il 13 agosto 2013 e davanti a Leo Messi, il più grande collezionista di palloni d’oro, e davanti a campioni come Pirlo e Higuaín, papa Francesco ricorda un grande bomber del passato. Facile immaginare che in molti, tra i calciatori delle nazionali di Italia e Argentina presenti nella Sala Clementina del Vaticano, neppure sappiano chi sia questo Pontoni. Eppure Bergoglio, alla vigilia dell’amichevole all’Olimpico di Roma, li sfida a fare un gol come quello dell’attaccante che rese grande il San Lorenzo. Non ci riusciranno: il destro a giro di Insigne, che regalerà il gol della bandiera agli azzurri (sconfitti 2-1), come gesto tecnico non sarà niente male. Nulla a che vedere, però, con “quel gol di Pontoni”. Il problema, ora, è capire quale rete abbia emozionato Bergoglio al punto da fissarsi nella sua memoria per sette decenni. Perché René Alejandro Pontoni, nei tre anni al San Lorenzo, ne segnò più di sessanta. Qualche tocco da due passi e alcuni tiri smanacciati male dal portiere di turno, certo. Ma di prodezze da mettere in conto ne restano tante. Con il dubbio, magari, che papa Francesco avesse in mente un gol segnato da Pontoni con una maglia diversa da quella del Ciclón di Boedo: Newell’s Old Boys, dove iniziò la carriera, Independiente Santa Fé o, perché no, l’albiceleste della Nazionale argentina. In questo caso, sarebbe davvero come cercare un ago in dieci pagliai. 8
René Pontoni
Talmente tanti che perfino gli stessi parenti di Pontoni, pur toccati nel cuore dal ricordo di Francesco, non sono in grado di restringere il campo: “Non so a quale si riferisse, mio nonno ne ha realizzati davvero tanti – spiega René Pontoni III al quotidiano argentino Olé, che giocando con le parole titola: “El sumo Pontonifice’’ –. Neppure eravamo a conoscenza dell’ammirazione del Papa per il San Lorenzo del 1946”. Questo a dire il vero era noto, e da tempo, almeno agli appassionati della squadra azulgrana e a quanti – uomini di chiesa, giornalisti, agenti in servizio alla cattedrale di Buenos Aires – vedevano spesso l’arcivescovo Bergoglio, e lo sentivano parlare di calcio. Nel libro-intervista “Il gesuita”, di Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin (ripubblicato dopo il conclave del 2013 con il titolo di “Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta”), non nasconde la sua passione per lo sport: “Da giovane giocavo a basket, ma mi piaceva tantissimo anche andare allo stadio a vedere le partite di calcio. Andavamo tutti quanti, compresa mia madre – che è venuta con noi fino al 1946 – a vedere il San Lorenzo, la nostra squadra del cuore: i miei erano di Almagro, il quartiere del club”. Gli chiedono qualche ricordo legato al calcio, e per Bergoglio è un assist: “Il campionato straordinario di quell’anno. Quel gol di Pontoni che meritava quasi il Nobel. Erano altri tempi. Il massimo che si urlava all’arbitro era: barbone, mascalzone, venduto… Niente in confronto agli epiteti che si usano oggi”. Ancora una volta c’è “quel gol di Pontoni”. Ancora una volta, nessun indizio: quale gol? Bisognerebbe chiederlo 9
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direttamente a papa Francesco. Non è una battuta, ma esattamente quello che fa Pablo Calvo, celebre firma del quotidiano argentino Clarín e, come Bergoglio, grande tifoso del San Lorenzo. In quel periodo, tra l’altro, sta scrivendo un libro sulla loro squadra del cuore: “Dios es cuervo – La sagrada historia de San Lorenzo de Almagro”. Dio “cuervo”, cioè supporter azulgrana? Qualche tifoso del Boca Juniors o del River Plate magari non sarà d’accordo. Calvo scrive una lettera con destinazione Vaticano, e prova ad azzardare già un’ipotesi: “Crediamo che si riferisse a un gol che Pontoni segnò al Racing quando, dopo due tocchi, portò la palla dal petto alla punta del piede, si girò e incrociò, verso il palo lontano”. La risposta di Francesco non si fa attendere. Non ricorda il nome della squadra avversaria però, precisa, “può cercare un numero del Clarín che anni fa pubblicò i migliori gol della storia: lì troverà anche quello de Pontoni. O era il quotidiano La Nación?”. Quale, tra i gol di René, meriterebbe un riconoscimento così importante? Forse uno contro l’Estudiantes, nel 1945, in una strabordante vittoria per 6-1, quando si portò avanti il pallone di tacco, prima di anticipare il portiere in uscita. O quello al debutto in Nazionale, due anni prima, con di nuovo un colpo di tacco a confondere gli avversari. Ma Francesco, nella lettera, sembrava riferirsi al San Lorenzo. Torniamo qui, allora: a carriera già chiusa, intervistato dal periodico Leoplán, Pontoni disse che la rete alla quale era rimasto più legato l’aveva segnata al Racing. Insomma, Pablo Calvo, eccellente giornalista e a tempo perso anche ottimo cacciatore di partite, ci aveva visto bene. 10
René Pontoni
I tre indiziati principali, fra i gol di Pontoni, sono questi. Come un detective che ha già ristretto il cerchio, ora bisogna mettere insieme gli elementi. E ricordarsi che il presidente del San Lorenzo, Matías Lammens, si era presentato in piazza San Pietro. Papa Francesco aveva sorriso: “Quest’anno come andiamo? Bene o male?”. Bene, rassicurò Lammens (e tutto sommato aveva ragione, visto che di lì a poco sarebbe arrivata la storica vittoria della coppa Libertadores). “Ti ho sentito dire che andavi allo stadio con tuo padre – riprese Bergoglio –. Anch’io ci andavo, con mio padre, nel ’46. Mi ricordo di un gol di Pontoni che fece tac, tac, tac, gol ”. Anche se la descrizione può apparire un po’ vaga, i dubbi vengono ridotti al minimo. Deve essere proprio la rete col Racing, il 20 ottobre 1946. Cross di Francisco De La Mata, la palla arriva al limite dell’area. Stop di petto (tac), la palla scende al piede ma Pontoni, invece di fermarla per girarsi, alza un pallonetto all’indietro, scavalcando i due difensori. Secondo tac. Il terzo tac, immaginiamo, è il tiro, imparabile. Chissà se qualcuno riuscirà a segnarlo, un gol come quello di Pontoni. Lo ricorda – ma solo vagamente – uno di Neymar (Barcellona), l’11 novembre del 2015, contro il Villareal. Fuga di Suárez sulla sinistra, in contropiede. Palla in mezzo, il talento brasiliano la stoppa di petto e la accarezza di destro, inventandosi un pallonetto all’indietro che scavalca il diretto marcatore. Poi il tiro al volo, prima che il difensore, già stordito dalla giocata, possa rifarsi sotto. Più somigliante, ma meno famosa, è la prodezza firmata tre giorni prima da Chris Dickinson, rete della bandiera del suo Enosis nel 3-1 subito in casa del Nea Salamis. Su 11
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internet il video si trova, e il tiro sembra essere stato scoccato qualche metro più indietro rispetto al gol “gemello” di Pontoni. La differenza, con tutto il rispetto per la serie A cipriota, è che “Huevito” si era liberato di due marcatori tosti come Nicolás Palma e Roberto Yebra, già nel giro della Nazionale. Ricevuto il pallone a mezza altezza, gli aveva vietato di toccare terra, prima di spedirlo nell’angolino alla destra del portiere. Il pallone, chiaramente, aveva obbedito. Il gol più bello fu davvero quello contro il Racing? Qualcuno ha mostrato di non pensarla affatto come Bergoglio. Qualcuno di molto autorevole in materia, visto che ci riferiamo a Pontoni stesso, non nell’intervista al periodico Leoplán ma in un’altra al solito “El Gráfico”, rilasciata a carriera già conclusa: “Ho segnato molti gol nel Newell’s, nella Selección, nel San Lorenzo, in Colombia. Però sempre ce n’è uno che rimane impresso nella memoria, perché è quello che piace di più. Fu nel San Lorenzo, in una partita che giocammo in casa contro l’Estudiantes. Realizzammo sei reti, credo che finì sei a uno. Questo mostra che il San Lorenzo non si fermava mai, anche se la partita si metteva in discesa. Se si potevano segnare cento reti, si segnavano”. È un gol al quale abbiamo accennato poco fa: “Non so come, mi arrivò il pallone da lontano – raccontò Pontoni –. Subito mi resi conto che, essendo il lancio troppo corto, mi sarebbe rimasto alle spalle. Così, quando Palma, il difensore, corse per anticiparmi, io colpii la palla di tacco, in avanti: gli passò sopra la testa e la stoppai dentro l’area. Il portiere Ogando uscì ma lo dribblai, entrando in porta col pallone. Lo ricordo come il gol più bello perché mi applaudirono le 60mila persone presenti nello stadio”. 12
1. PRIMI PASSI TANGO E SCUOLA “Muchachos, cosa fate seduti per strada?”. A rispondere fu quello che a prima vista appariva il leader del gruppetto, René: “Non ci lasciano entrare, non siamo dell’ambiente giusto”. Così, anni dopo, Pontoni raccontò il suo grande incontro, avvenuto quando era uno sbarbatello, con Carlos Gardel, il principe del tango. Un artista che l’Argentina porta ancora oggi nel cuore, e al quale ha voluto dedicare una statua nella pittoresca Caminito, a Buenos Aires. Sul balcone, ammirato dai “porteños” e fotografato dai turisti, sono rappresentati Evita, Maradona e lui, Gardel. Passione politica, sport e arte, in una parola “Argentina”. Anche il 15enne Pontoni, come tanti coetanei, stava crescendo a pane, calcio e tango. Un giorno, assieme a quattro amici, aveva raggiunto il teatro di Santa Fé, dove il maestro avrebbe dovuto esibirsi. Provarono a entrare, senza fortuna: non erano ben vestiti, non abbastanza almeno per uno spettacolo di classe. Rimasero fuori, col broncio. Fu lì che, sulla soglia di una sconfitta, i loro occhi incrociarono quelli di Gardel, e la delusione presto si trasformò in trionfo: “Fateli entrare – pretese il divo –. Altrimenti io non canto”. Li fece sedere accanto al palco. Poi, a spettacolo già iniziato, si rivolse ai ragazzi: “Qual è la vostra canzone preferita?”. Rispose ovviamente Pontoni, a nome di tutti: “Murmullos”. Murmullos, quei bisbigli che riempiono l’anima, dice il brano, “e raccontano cose del tempo andato”. Il tempo di René, invece, era ancora agli 13
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inizi. Era nato il 18 maggio 1920, quarto di cinque fratelli, proprio mentre dall’altra parte del mondo – Wadowice, Polonia – veniva alla luce un certo Karol Wojtyla. Il tempo gli aveva lasciato il soprannome di “Huevito”, in ricordo di quando, ancora piccolino, mamma Lucia lo incaricava di fare il giro delle aziende agricole per comprare le uova, da rivendere nel negozietto, messo in piedi con gli ultimi risparmi di famiglia. Lo accompagnava il fratello Juan Alberto, più grande ma non abbastanza per sostituire papà Hermenegildo, morto quando René era un bimbetto (aveva sette anni, secondo quanto dichiarò lo stesso René; appena quattro, invece, stando al certificato di morte). E ormai erano finiti i tempi della scuola, dove era stato un fuoriclasse nel prendersi gioco dei professori. Una volta aveva riempito le maniche sinistre delle giacche, appese al muro, con dei fogli di carta appallottolati. Da lì partivano dei fili sottili, che arrivavano fino al suo banco. Mentre l’insegnante di geografia stava spiegando, per tre o quattro volte le maniche si erano alzate e abbassate, come se ci fosse un fantasma, tra le risate della classe. Per qualche secondo, forse, il maestro pensò di essere in preda ad un’allucinazione, poi non ci volle molto a scoprire il colpevole, che fu sottoposto a interrogazione. Una punizione da quattro soldi, perché René le risposte le sapeva, e ancora una volta riuscì a salvarsi. “Non farò più questo scherzo”, promise al maestro di geografia, prima di terminare la frase: “...non a lei, almeno”. Preparato e indisciplinato, calmo e imprevedibile: così a scuola, così nei palcoscenici verdi di mezza Argentina. Dove i suoi gol, nel cuore dei tifosi, sarebbero diventati bellissimi bisbigli capaci di raccontare le cose del tempo andato. 14
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NASCITA DI UN “CRACK” Era ingrassato molto, René. Qualcuno disse addirittura 20 o 30 chili. Comunque troppi. Da quando aveva lasciato il calcio, per portare qualche soldino a casa saltando da un lavoretto all’altro, la forma era andata perdendosi. Ma al Gimnasia y Esgrima, dove aveva giocato per alcuni mesi, sapevano di trovarsi davanti a un “crack”, come chiamano i talenti più puri. Sarebbe stato sciocco perderlo. E lui, René, non poteva perdersi. Tornò ad allenarsi, e fu buttato in mischia, appena 17enne, in un derby contro il Ferro Carril. Quattro gol potevano bastare? Da quel momento i grandi club iniziarono a mettergli gli occhi addosso, presentando, oltre alle congratulazioni, qualche bozza di contratto, per insaporire il discorso. Lui però non voleva nessuno, e nella “sua” Santa Fé certo stava bene. Era disposto a lasciarla, chiaro, ma solo per brevissimi periodi: come quando accettò di indossare la maglia del Colón per una partita amichevole contro la corazzata Peñarol di Montevideo: finì 7 a 4 per gli uruguaiani, ma l’“intruso” Pontoni segnò una doppietta. Al Gimnasia erano contenti a metà: le offerte per il campioncino si facevano sempre più pesanti, ma nel 1938 il consiglio del club lo dichiarò incedibile: come sostituire un atleta – per di più, giovanissimo – capace di sfondare ogni record segnando 41 gol nel campionato regionale? Ciò che i dirigenti non furono in grado di decidere, riuscì alla leva militare. L’obbligo di trasferirsi a Rosario tagliò il cordone ombelicale che lo teneva stretto alla città di Santa Fé. La sua nuova maglia fu quella del Newell’s Old Boys, che per lui sborsò 22mila pesos. Debuttò il 30 marzo del 15
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1941, contro il San Lorenzo de Almagro. Il presente di Pontoni, contro il suo futuro prossimo. Bagnò l’esordio con una rete, nella vittoria per 5-1, e andò in gol anche nella gara di ritorno, finita 3-3. Il piccolo Newell’s arrivò terzo, davanti a squadroni ben più titolati come Boca Juniors, Independiente, Estudiantes. L’allenatore, Adolfo Celli detto “L’alemano” (il tedesco) ed ex Nazionale argentino, non aveva troppo da lavorare: bastava prendere i due ragazzi arrivati l’anno prima dal Gimnasia – Pontoni e il bomber Cantelli – e metterli là davanti, e la coppia si trasformava in un distributore automatico di gol: 50, in una stagione. Non male, “Huevito”, non male.
INGRESSO NELLA SELECCIÓN Amadeo tra i pali. Difesa a quattro con Sosa, Perfumo, Albrecht, Marzolini. In mezzo al campo Nestor Rossi e Moreno. Davanti, fuoco alle polveri con Corbatta, Pontoni, Martino e Loustau. “El Gráfico”, storica rivista sportiva, chiese agli argentini di scegliere i migliori giocatori della “Selección” di tutti i tempi. Questo fu il risultato. Era il 1975: ancora dovevano venire i tempi di Maradona e Batistuta, di Tevez e Messi, eppure non si può dire che il calcio da quelle parti fosse appena nato. Tra gli undici campioni, votato miglior centravanti di sempre, c’era “Huevito”, e nessuno si sorprese. “Non c’è altro modo di conquistare qualcosa, se non volendola. Bisogna credere in ciò che si fa”, disse, in occasione della premiazione. Quella formazione, scelta dagli amanti del fútbol, poteva apparire in realtà fin troppo 16
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offensiva, se si pensa che un fenomeno come José Manuel Moreno – un giocatore da 156 gol in 256 partite nel River Plate – non lo si può certo relegare al ruolo di centrocampista di contenimento. Ma “eso es”, è così e punto, al cuor (di tifoso) non si comanda. L’unico ancora attivo era Perfumo (autore di un maldestro autogol contro l’Italia nel mondiale del ’74), in forza al River Plate: avrebbe dovuto raggiungere i compagni di premiazione poco prima di un “clásico” con il Boca Juniors, ma il mister, Ángel Labruna, non gli diede il via libera. Ufficialmente per non deconcentrare il suo calciatore; le malelingue dissero che lo stesso Labruna – vent’anni di carriera ad altissimi livelli – era rimasto dispiaciuto per l’esclusione dai “magnifici undici”. René, l’avversario di mille partite, c’era, mai stato in discussione. Esordì in Nazionale il 25 maggio 1942, nella “Copa Newton”, che doveva il nome non allo scienziato che scoprì la legge di gravitazione universale, ma a un dirigente dell’Afa, la Federazione argentina di calcio. A inizio secolo copiò Sir Lipton (proprio lui, il signore del the), che aveva “inventato” delle sfide di beneficenza tra Argentina e Uruguay, con tanta buona volontà e qualche regola discutibile (in caso di pareggio, vince la squadra in trasferta). La “Copa Newton” fu quindi poco più che un’amichevole, ma tra due nazionali comunque rivali, con la più piccola – l’Uruguay – che un mondiale l’aveva già vinto, nel 1930, battendo in finale proprio l’Argentina. Dodici anni dopo, Pontoni del Newell’s Old Boys era in campo, con la prima delle sue venti maglie biancocelesti indossate nella sua folgorante – e troppo breve – carriera. A Buenos Aires finì 4-1 per i padroni di casa, e l’attaccante di Santa Fé, al suo esordio, non 17
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fu certo tradito dall’emozione. Peccato non essere stati lì, viene da pensare leggendo la cronaca del giornale “La Capital”: “Pontoni segna due gol spettacolari che difficilmente si potranno cancellare dalla memoria dei quarantamila spettatori. In entrambi i casi, sviluppando azioni in velocità, dribblò tutti gli avversari che gli andarono incontro e, davanti al portiere Maspoli, lo trafisse alzando il pallone sopra la sua testa”. Il match si era sbloccato presto, con il rigore – trasformato da Alberti – per fallo fischiato in area sull’imprendibile Pontoni: uno così potente e veloce non lo fermavi neanche aggrappandoti alla sua maglia a peso morto. Finì per vincere tre campionati sudamericani (dal 1945 al 1947) e segnare 19 reti, tante quante le presenze in campo: una media da bomber di razza. Per un breve periodo, la sua riserva fu un ragazzo di sei anni più giovane. Dicono si rivolgesse a René chiamandolo “maestro”, ma intanto dimostrava di saperci fare, e di avere i numeri per diventare anch’egli un campione. Accadde presto: nel 1953 Alfredo Di Stefano – dopo una breve parentesi in Colombia – volò a Madrid, a fare le fortune del Real (cinque coppe dei campioni consecutive) e della Nazionale spagnola. E divenne leggenda.
PRONTI, PARTENZA, GOL L’unico passo falso fu l’1-1 contro il Cile, organizzatore del torneo. Per il resto, il campionato sudamericano del 1945 l’Argentina lo conquistò a mani basse. E Pontoni fu il suo grimaldello. Il 18 gennaio ci mette 10 minuti a 18
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scardinare la difesa della Bolivia (4-0 il risultato finale). Tredici giorni dopo si fa attendere, per modo di dire: 11 minuti per sbloccare il risultato contro l’Ecuador (4-2). Il 7 febbraio la Colombia, al suo esordio assoluto nella competizione, è strapazzata: 9-1. Sono passati 7 minuti dal fischio d’inizio, e René ha già messo a segno una doppietta. Al ritorno in patria, dicono, è già un calciatore del San Lorenzo. Il Newell’s lo vende a 100mila pesos: 40mila più i trasferimenti di Mario Fernández e José Maria Arnaldo. In pochi anni, il valore di Pontoni è quasi quintuplicato. Argentina-Brasile, l’anno successivo, fu invece una delle pochissime partite leggendarie di quel periodo nelle quali René non fu protagonista. Un infortunio lo aveva lasciato fuori dai giochi. C’era poco da fare, ma d’altra parte la Selección era così piena di talento che persino la riserva della riserva sarebbe stata all’altezza. Campionato sudamericano 1946, stadio di Núñez, Buenos Aires. Una parte di questo Brasile – da Zizinho a Danilo, da Chico a Jair – sarà sfortunato protagonista, quattro anni dopo, dello storico “Maracanazo”: la sconfitta contro l’Uruguay, nella partita decisiva del mondiale a Rio de Janeiro, non smetterà più di bruciare. Delusione eterna. Contro l’Argentina, invece, rabbia e solo rabbia. Alla mezz’ora un’entrataccia del brasiliano Jair spezza in più punti la gamba di José Salomon. Qui le cronache di sessanta e passa anni fa si dividono. Alcuni sottolinearono la signorilità del difensore argentino, che avrebbe subito minimizzato: “Sono cose che possono capitare”. E sono divergenti i resoconti sulla durata della sospensione: per qualche cronista passarono addirittura sette ore tra il fi19
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schio d’inizio e quello finale. Di certo fu interrotto il gioco del calcio, e volarono i calci. Il pubblico era rimasto sconvolto dal colpo di Jair, dalla sofferenza di uno dei propri idoli. Quando l’arbitro uruguaiano Nobel Valentini riprese il controllo del match – ma davvero passò molto tempo – espulse salomonicamente il brasiliano Chico e l’argentino Vicente De La Mata. Un nome, quest’ultimo, che rispunterà fuori quando Maradona, nel 1986, segnerà il gol del secolo contro l’Inghilterra, scartando come birilli un avversario dopo l’altro. Prima di Diego, l’invenzione era riuscita al folletto dell’Independiente (fratello di Francisco, buon rinforzo nel San Lorenzo di Pontoni), che saltò sei campioni del River Plate prima di lasciar partire un tiro che non avrebbe potuto essere più preciso: palo e gol. Contro la Seleçao, invece, per lui era arrivato il cartellino rosso. Ci pensò el Tucho Mendéz, formidabile in quegli anni, a far gioire Pontoni e compagnia: 2-0 e vittoria del trofeo. Ma la storia non finì lì. Per dieci anni Argentina e Brasile non si guardarono più in faccia: quando in un torneo una partecipava, l’altra era assente (non troppo giustificata). Al campionato sudamericano del 1947 i brasiliani, ancora carichi di rabbia, decisero di non presentarsi. Per i campioni in carica, invece, fu una passeggiata. Nel 7-0 contro la Bolivia ci fu un ideale passaggio di consegne tra fuoriclasse: René Pontoni uscì per infortunio (ma intanto il suo golletto l’aveva segnato, tanto per non perdere l’abitudine) e al suo posto entrò Alfredo Di Stefano, al debutto con la maglia della Nazionale. Quella argentina: poi avrebbe vestito anche quella della Spagna. Ad ogni modo, segnò pure lui. 20
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Il campionato sudamericano del 1949 si tenne in Brasile. L’Argentina, vincitrice dell’ultima edizione e delle due precedenti, tirò il più classico dei bidoni. Uno sgarbo che non passò inosservato. Ai mondiali del 1950 – ancora si chiamava coppa Rimet – stesso ritornello: organizzatore il Brasile, Argentina assente. La Selección albiceleste solo nel ’58 avrebbe abbandonato l’isolamento nel quale si era chiusa. Ma René Pontoni ormai non giocava più, Mario Boyé neanche, Adolfo Pedernera allenava da sette anni. C’erano altri campioni, per carità: ma il confronto non reggeva più di tanto. Dall’altra parte, invece, era nata una stella; o, meglio, una perla nera. Edson Arantes do Nascimiento. Si faceva chiamare Pelé.
IL TORNEO DEI GRANDI Riavvolgiamo il nastro. Dopo quella partita del 1941 (esordio e gol contro il San Lorenzo) le strade di Pontoni e della squadra di Boedo si incrociarono di nuovo. Ancora una volta, per una grande occasione: l’ultima giornata della “Copa de Oro”. Una di quelle manifestazioni sbiadite nella memoria dei tifosi di oggi (d’altra parte, chiedete a un adolescente italiano se ricorda qualcosa della Coppa delle Coppe). Se all’epoca lo chiamavano “Torneo dei grandi”, però, un motivo deve esserci stato. Basta guardare i nomi delle otto partecipanti, in quel magico 1943, per rendersene conto: Boca Juniors, Independiente, San Lorenzo, Racing, Huracán, Nacional, Peñarol, e il Newell’s Old Boys di Pontoni. Il meglio di Argentina e Uruguay. 21
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Il 28 febbraio, battendo il San Lorenzo, i rossoneri di Rosario – alla vigilia non certo i favoriti – vinsero il trofeo, anche se dovettero aspettare la sconfitta del Boca, due giorni dopo, per fare festa. Pontoni non segnò, ma la sua parte l’aveva già fatta: tripletta al Nacional di Montevideo, gol contro Racing, Huracán, Peñarol, e tanto lavoro per i compagni di squadra. Rimase a secco, invece, nella sfida proprio contro il Boca, quella che diede una svolta al torneo. Si affrontavano le prime della classe. Pontoni, riferì “El Gráfico”, tentò alcune azioni individuali, andando a sbattere contro la difesa avversaria. E nel secondo tempo si mangiò un’occasione d’oro: succede anche ai grandi, però fa male. Ci pensò l’altro bomber Cantelli, e arrivò una vittoria per 2-1 che valeva mezza coppa. Nell’altro schieramento, a mettersi in mostra era stato Mario Boyé, “El Atómico”. Dal suo piede era partito il cross che aveva portato al momentaneo pareggio di Gandulla. I suoi dribbling e la sua velocità mandarono più volte in affanno Reynoso e, con lui, la difesa del Newell’s. Quando era in palla, Boyé era fortissimo, e Pontoni lo sapeva: conosceva molto bene suo cognato.
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