TERRORISMO. IMPARIAMO A VINCERE LA PAURA di Paola Vinciguerra iacobelli

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Estremismo Strage di massa Interessi Azione

Geopolitica Internazionale Bombe Pericolo

Mondo Colpi

Eleonora Iacobelli

Chaos Fanatismo Persecuzione Invasione

Paola Vinciguerra

Tattica Violenza Paura

TERRORISMO Odio Innocenti Abominio

Civili Indiscriminato Problema Religione Guerra Morte Orrore

Vittime Esplosione

Conflitto Politica

Sangue

IMPARIAMO A VINCERE LA PAURA

MINERVA


Prefazione

Terrorismo impariamo a vincere la paura

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: ufficio grafico edizioni Minerva © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-851-9

edizioni MINERVA Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com

Nel giugno 2015 sono a Gerusalemme. Martedì viene trovato nei territori occupati il corpo di un ragazzo israeliano rapito tre settimane prima. Mercoledì scoppiano disordini, muore un ragazzo palestinese, esplode un ordigno nel centro commerciale vicino alla Casa francescana dove alloggiamo. Giovedì sera si sentono chiaramente spari intorno a noi. Venerdì altri scontri; l’esercito israeliano ha chiuso la Spianata, i musulmani non possono andare a pregare. Sono preoccupata ma non ho paura: assisto a tutto questo pensando con sgomento e incredulità che attorno a me ci sono persone che si odiano a tal punto da non esitare a uccidersi a vicenda. 13 novembre 2015: sono a Parigi con mio figlio Lorenzo. Nel primo pomeriggio viviamo qualcosa di veramente insolito. Stiamo visitando le torri di Notre Dame quando agenti in borghese invitano ad abbandonare la cattedrale per motivi di sicurezza. La gente esce in assoluta tranquillità senza panico, come se avessero chiesto la cosa più normale del mondo; nessuno chiede spiegazioni. 3


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Prefazione

Lorenzo e io commentiamo l’accaduto un po’ increduli e stupiti, ci è parso tutto davvero molto strano ma neanche per un istante ci è passato per la mente che si potesse trattare di un attentato terroristico. La sera siamo a cena in Rue de Rivoli, non sentiamo niente di quanto sta accadendo nel quartiere vicino. Torniamo in albergo, i nostri cellulari squillano in continuazione, i nostri cari ci chiedono come stiamo. Stiamo bene. Accendiamo la tv e vediamo le atrocità che sono state appena perpetrate. Per tutta la notte si sentono le sirene della polizia e delle ambulanze. Non abbiamo paura ma non riusciamo a dormire, siamo invasi dalla tristezza, dall’inquietudine, dalla delusione. Non riusciamo a capacitarci di come sia mai stato possibile che con grande facilità terroristi islamici abbiano potuto uccidere così tanta gente nei luoghi “normali” del nostro vivere quotidiano. Il giorno dopo Lorenzo è ansioso, vorrebbe stare in albergo, è sotto shock: pensava che Charlie Hebdo rappresentasse un caso isolato e non riesce ad accettare che si possa ammazzare gente inerme e indifesa in questo modo vile e vigliacco, per strada o in luoghi pubblici mentre è spensierata, si sta divertendo, assolutamente ignara di cosa sta per capitargli. Ci facciamo coraggio, decidiamo di non anticipare il volo di rientro a Roma ma di visitare Parigi, così come

era nei nostri programmi. Ma è impossibile: la città è vuota, tutti i negozi e i musei sono chiusi, per le strade solo turisti che cercano invano di far finta che nulla sia successo e i pochi parigini hanno lo sguardo perso nel vuoto, disorientati, annichiliti. Sentiamo empatia per il loro lutto collettivo, che è il lutto di una società europea che non capisce il perché di tutto questo, che si sente assolutamente vulnerabile e sta perdendo certezze circa l’agibilità delle proprie libertà personali e del diritto inviolabile soggettivo all’incolumità fisica e psichica. 22 marzo 2016, ore 9:20 sono a pochi metri dalla stazione della metropolitana di Maelbeek a Bruxelles. Abito lì vicino, sto andando a piedi in ufficio ancora scossa dalla notizia dell’attentato a Zaventem ma soprattutto da una signora incontrata sotto casa che urlava che c’era stata un’esplosione alla stazione metro di Schuman. Non le ho dato importanza, sono a cento metri da lì ma, tranne lei, intorno a me non c’è niente di strano. Più in là incontro una ragazza, impietrita, leggo il terrore nei suoi occhi. Le chiedo cosa succede, lei mi dice di un’esplosione a Maelbeek. In quel momento vedo persone correre e scappare, il terrore nei loro volti. Il loro terrore diventa il mio: intorno a me sento un silenzio surreale, penso che ora un’altra bomba sta per scoppiare proprio lì dove sono io o che

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altri terroristi spunteranno da qualche parte lì vicino e inizieranno a sparare. Per la prima volta in vita mia ho provato cosa significhi essere terrorizzata: non è la paura di morire durante un attacco di panico; né la paura che provoca la scarica di adrenalina quando ci si sente in pericolo e inadeguati a fronteggiare una certa situazione. Il cuore non va all’impazzata, anzi. Mi sembra che i battiti siano al minimo. Rimani lì fermo, inerme, impietrito, aspettando che quello che pensi stia per accedere davvero succederà di lì a breve. Quel martedì ho trascorso la mia giornata chiusa in ufficio talmente sotto shock che ho vissuto come un ebete, senza alcun discernimento sul mio agire, mi trascinavo per forza d’inerzia, assolutamente confusa. Mercoledì la mia unica preoccupazione è stata quella di cercare un volo fuori dal Belgio che mi riportasse a Roma, a casa, al sicuro, a riabbracciare mio marito e i miei figli. Giovedì mattina ho il crollo: non riesco ad alzarmi dal letto, la testa mi gira, le gambe fanno male, non riesco a stare in piedi, le immagini di terrore si ripetono nella mia mente senza che io riesca a fermarle (poi mi è stato spiegato che ero preda di un PDST - sindrome post traumatica da stress). Ho pianto tutta la mattina, la mente andava sempre a quegli attimi di terrore, sentivo una morsa stringere lo stomaco, mi si serrava la gola, avevo tanta voglia di piangere.

In uno di quei momenti di pianto irrefrenabile, mi telefona la dott.ssa Vinciguerra per sapere dove ero e come stavo, ci conosciamo da molto tempo, le dico che sono viva, non mi è successo nulla, ma sto malissimo e nel pomeriggio sono subito da lei per una seduta di psicoterapia con il metodo dell’EMDR. Conoscevo già il metodo, visto che nel mio percorso di psicoterapia avevamo trattato traumi antichi che trent’anni dopo ancora disturbavano il mio presente. Pur non conoscendone la validità scientifica, so che ci sono un gran numero di ricerche di neurofisiologia che la comprovano; quello che posso dire sulla mia pelle è che funziona. Ho sperimentato che su di me funziona sempre. Durante la seduta rivivo il terrore, l’angoscia e il senso del nulla di quei momenti a Bruxelles con grande dolore e sofferenza, ma finito l’incontro mi sento assolutamente meglio, sollevata e in pace. Vi potrà sembrare strano ma è proprio così che è accaduto. Dopo una settimana dalla terapia, quei ricordi non tornano più con insistenza alla mia mente e, se li vado a cercare, non fanno più male; rappresentano solo una parte del mio vissuto, anche se certamente non proprio tra i più felici. Ho raccontato queste mie esperienze personali per testimoniare che anche noi europei probabilmente dobbiamo iniziare a imparare a convivere con la paura, condizione questa assolu-

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tamente imprevista e imprevedibile dei nostri tempi, ma se questa è la realtà con cui dobbiamo confrontarci è bene usare tutti gli strumenti che la scienza ci offre per difenderci, per proteggerci, per combattere la paralisi della paura. Dobbiamo avere la consapevolezza che ci sono strumenti psicoterapici, come l’EMDR, che ci possono davvero aiutare a superare i traumi e le sofferenze. Chi di noi li ha utilizzati e ha potuto constatare che funzionano ha il dovere di espanderne la conoscenza e l’informazione a chi non sa che esistono o a chi di primo approccio ne diffida. Dobbiamo promuovere l’accesso a questo tipo di terapie e fare in modo che tale accesso sia quanto più possibile alla portata di tutti.

Daniela Rondinelli

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Prefazione

Il libro di Paola Vinciguerra ed Eleonora Iacobelli arriva in un momento in cui la paura del terrorismo è forte. Si tende a evitare i viaggi all’estero, i cinema e i luoghi affollati e se possibile si evita di prendere anche la metro, i treni e tanto meno gli aerei. Qualcuno salta perfino le uscite serali. Sono i “contagiati dalla paura”: un esercito di oltre milioni di italiani che modifica quotidianamente le proprie abitudini sotto la minaccia del terrorismo. Le più impaurite sono le donne. E’ questa una recente fotografia del Censis che ha provato che ha provato a indagare “le ragioni dell’onda populista che sta investendo le società europee. Insomma, c’è bisogno di sicurezza, la gente ha un primario bisogno di percepire più sicurezza. I recenti attentati di Bruxelles per esempio, hanno causato grande attenzione anche per l’Italia, ma quello che il nostro Paese sta facendo, in termini di prevenzione dal terrorismo non nasce oggi, sulla base di questa nuova emergenza, ma è frutto di un coordinamento molto stretto di vari asset9


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Prefazione

ti - il Ministero degli Interni, il Ministero della Difesa,l’Intelligence e la Magistratura - per mettere a punto idonei strumenti di risposta e prevenzione. Il terrorismo è un fenomeno subdolo e per affrontare una tematica di questo tipo bisogna adottare strumenti idonei a prevenirne l’insorgenza. Negli ultimi due anni abbiamo raddoppiato la presenza dei nostri militari impiegati nell’operazione “Strade Sicure”, per sostenere il lavoro della Polizia e dei Carabinieri nel controllo del territorio e degli obiettivi sensibili. Oggi con 6.300 soldati su tutto il territorio nazionale diamo un contributo importante in funzione antiterrorismo e la gente apprezza anche perché si sente più sicura. Il terrorismo è un fenomeno complesso che ha radici nel tempo, con collegamenti politici, economici, culturali e religiosi che nel corso degli anni è divenuto un fenomeno sempre più organizzato, radicato e strutturato. Il suo intento è distruggere ogni forma di pensiero e di cultura che sia diverso dal suo “credo” per poter sottomettere tutti ad una unica cultura che potrebbe apparentemente avere fondamenti religiosi, ma nella realtà è soltanto un disegno di potere. La religione è tolleranza per le diversità, è comunque pace, fratellanza, non è supremazia degli uni sugli altri. La lotta contro il terrorismo è una lotta complessa, i terroristi vestono i panni dell’apparente normalità,

sono spesso integrati nella nostra cultura, talché individuarli è difficile poiché spesso la loro apparenza non fa pensare ne prevedere cosa veramente stiano ideando contro di noi. Occorre inoltre osservare che la morte viene considerata come un premio: l’inizio della vita felice, a fronte della paura di morire della civiltà occidentale, questo ci rende nel confronto fragili e rinforza il loro apparente coraggio. Il lavoro incessante sta sicuramente permettendo l’individuazione di molte cellule, ma la loro ramificazione è talmente complessa che non esiste paese a “rischio zero”. Apparentemente è come se fossimo in “guerra”. Una guerra però diversa: lo scontro non si sviluppa al fronte, con regole e protezioni nei confronti dei civili, la guerra può apparire nelle nostre case, nelle nostre città, è contro il nostro modo di vivere e pensare. Si sta insinuando nelle nostre abitudini, nei nostri pensieri, nelle nostre scelte e rischia di renderci insicuri, paurosi, guardinghi, paralizzati. Ecco perché dobbiamo imparare a gestire la nostra paura, la nostra insicurezza e a questo possono sicuramente concorrere associazioni come l’EURODAP. L’opera delle due autrici è importante in quanto tende a darci quegli strumenti necessari per combattere la paura, tende a sostenerci per farci organizzare un pensiero aderente alla realtà che permetta di non paralizzarci.

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Questo è sicuramente necessario in questo momento, in cui il terrorismo vorrebbe rinchiuderci nelle nostre case, far abbandonare le nostre abitudini, la nostra economia, la nostra curiosità, le nostre frontiere aperte agli scambi e all’accoglienza. Loro vogliono vincere questa guerra mettendoci “Paura”. Noi non abbasseremo la testa rintanandoci, sorrideremo ed andremo avanti nel nostro modo di vivere. On. Domenico Rossi Sottosegretario di Stato alla Difesa

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Introduzione

Stiamo vivendo, ormai da diverso tempo, una situazione economica, sociale ed ambientale molto complessa. L’ essere umano deve continuamente fare i conti con le sue paure, dove la precarietà viene vissuta spesso come minaccia. Per questo si cercano di costruire delle basi solide in vista di un futuro sempre più “nero”. In questo periodo storico ci siamo visti spazzare via l’illusione della sicurezza del lavoro, la sicurezza economica per la nostra vecchiaia, la sicurezza per il futuro dei nostri figli, la sicurezza per la nostra salute. Di questo scenario di forte destabilizzazione ultimamente è entrato a far parte, in modo prepotente e minaccioso, anche il pericolo del TERRORISMO. A rappresentare il grande stravolgimento della nostra organizzazione sociale ricordo che qualcuno degli economisti incaricati di salvarci dalla crisi disse: «ci dobbiamo dimenticare il posto fisso, che in fondo è una grande noia». Sì, ma su quella noia noi avevamo costruito la nostra stabilità, la sensazione di essere protetti dal pericolo di quello che potrebbe 13


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Introduzione

avvenire, che spesso viene temuto come un’attesa di un evento negativo. Quando non ci sentiamo in pericolo pensiamo al futuro in maniera tranquilla e curiosa. Se, invece, viviamo nell’ansia non ci aspettiamo di ricevere un regalo, una notizia positiva, un evento allettante che ci possa stimolare, che ci possa mettere di fronte al domani con la speranza di un momento migliore, ma ne abbiamo solo paura, lo temiamo. Questo stato di precarietà ci fa sentire insicuri e minacciati, non aspettiamo sorprese positive ma più facilmente pericoli, perdite, difficoltà. Tutto ciò sta creando un notevole disagio nella popolazione con conseguenti risposte patologiche. Non a caso l’Unione Europea ha già stimato che lo stress nel 2020 sarà la causa di moltissime malattie, tanto da definirlo il nuovo colera. La depressione, l’ansia, lo sviluppo di illusori comportamenti di difesa, che sono conseguenti agli stimoli di allarme determinato dal cambiamento di strutturazione dei codici sociali, porterà sempre di più a sviluppare patologie anche importantissime. L’ultimo rilevamento dati fatto dall’Istat sulla mortalità del 2015, infatti, evidenzia un grave aumento delle morti. Questa percentuale di aumento è paragonabile solo al periodo della prima e seconda guerra mondiale. Evidentemente le nostre risposte sono le stesse che hanno avuto i nostri predecessori durante le Guerre.

In questo quadro, già complesso, si sta inserendo un ulteriore elemento di ansia, di stress, di pericolo: IL TERRORISMO. La sensazione di minaccia che sta provocando, e che vuole provocare, sta paralizzando non solo nei comportamenti ma nelle emozioni, nel desiderio, nei sogni, senza che noi ce ne rendiamo direttamente conto. La sensazione di pericolo ci avvolge, intorpidisce le nostre menti e le nostre azioni, la voglia di fare, tentare, immaginare, provare. La paura riduce al silenzio, al non sentire più il diritto e la voglia di combattere per la propria vita, per la propria libertà. L’assenza di questo stimolo toglie il senso alla vita stessa. Ci è sembrato quindi necessario scrivere un libro alla portata di tutti, che possa spiegare il fenomeno, conoscerlo, poiché la conoscenza può bloccare l’enfatizzazione che la paura, la minaccia può produrre amplificando la realtà delle cose. Abbiamo pensato di dare anche tutta una serie di suggerimenti, esercizi, riflessioni per migliorare il nostro stato d’animo ed essere quindi meglio equipaggiati a combattere la guerra che ci è stata dichiarata. Per poter vincere dobbiamo essere armati, in questo caso le armi dirette non sono dell’individuo ma dei servizi segreti, delle alleanze di tutti gli Stati. Noi, tuttavia, possiamo però imparare a gestire la nostra paura, per non consegnarci prigionieri e non arrenderci.

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Non pensate che proteggersi sia la soluzione, la protezione abbassa i livelli dell’umore e innalza quelli dell’ansia. Dobbiamo imparare ad affrontare le minacce, di qualsiasi tipo esse siano, altrimenti le nostre energie verranno fiaccate, il nostro corpo smetterà di reagire in modo sano, e per bene che ci vada ci troveremo a vivere senza particolare sprint, input, soddisfazioni, ideazioni e tutto ci apparirà piatto, monotono, ripetitivo, senza senso. Leggere questo libro con attenzione, cercando di applicarsi negli esercizi che vi verranno suggeriti, significherà non solo lottare contro il terrorismo ma imparare a interpretare la propria vita, diventare attori che incidono sul percorso degli eventi e non comparse che debbono solo proteggersi rispetto a realtà minacciose nei confronti delle quali non possono nulla. Si può sempre fare qualcosa!

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Capitolo 1 TERRORISMO: IMPARIAMO A COMPRENDERE IL FENOMENO Capire per conoscere Il termine Terrorismo implica l’uso di violenza ingiustificata, che ha il fine di suscitare una reazione di terrore nei membri di una comunità e di destabilizzare l’ordine di essa, attraverso l’utilizzo di metodi violenti come attentati, rapimenti, dirottamenti. Atti terroristici possono essere imputati a gruppi, movimenti o organizzazioni di diverso genere, ma anche a individui isolati. Questi soggetti hanno l’obiettivo di apportare dei cambiamenti radicali del quadro politico-istituzionale. L’ultima tipologia di terrorismo su vasta scala è venuta alla luce con l’inizio del XXI sec. Il concetto di terrorismo, come viene inteso oggi, ha avuto origine con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. Questo episodio ha dato inizio a una catena di eventi che hanno reso necessario un rinnovamento del significato da attribuire al termine. Sono stati approfonditi principalmente tre aspetti: l’individuo, il gruppo e l’ambiente. L’individuo. – Di solito coloro che fanno parte delle organizzazioni terroristiche sono ritenuti 17


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generalmente individui psicologicamente deboli, socialmente frustrati, disadattati, esaltati e spietati. Ricerche più attuali, però, hanno smentito tale credenza e hanno invece evidenziato che sono gli stessi gruppi armati a evitare di arruolare individui psicologicamente vulnerabili poiché essi rischierebbero di mettere in pericolo la sopravvivenza dell’intera organizzazione. Contrariamente a quanto si crede, inoltre, gli affiliati a queste organizzazioni hanno in genere un livello d’istruzione e provenienza sociale più elevato rispetto alla condizione socio-culturale dalla quale provengono. I terroristi non sono, in genere, individui isolati e la decisione di prendere parte alle organizzazioni terroristiche è spesso favorita dalla condivisione di progetti politici e sociali comuni al gruppo di appartenenza. L’avvicinamento alla violenza non avviene frettolosamente ma in maniera graduale, in modo che il soggetto non percepisca troppa discrepanza rispetto all’impegno socio-politico già intrapreso. L’aumento dell’avversione nei confronti degli islamici, in seguito all’attentato dell’11 settembre, ha influito sull’identificazione di questi ultimi esclusivamente rispetto alla loro identità religiosa. Il gruppo. – Un secondo aspetto approfondito è quello del gruppo. La ǧihād («battaglia») è un concetto che è stato affermato dai gruppi fondamentalisti islamici sulla base del diritto islamico all’autodifesa, nonché sulla base di concetti quali

dignità e orgoglio. Grazie a ricerche sui gruppi clandestini attivi in diverse regioni del mondo si può ritenere che, comunque, l’ideologia tende a trasformarsi nel corso dell’azione, giustificando la scelta di strategie sempre più brutali. Una delle conseguenze celate dietro la scelta della clandestinità è la limitazione delle capacità di adattamento all’ambiente esterno. Questi gruppi, pian piano si concentrano sempre di più sull’obiettivo della sopravvivenza, perdendo interesse per il raggiungimento di mete esterne, diventando sempre più simili a sette chiuse, esasperando in questo modo la solidarietà interna e alimentando la radicalizzazione strategica. Il prestigio di ogni organizzazione cresce soprattutto grazie ad azioni terroristiche sempre più brutali, messe in atto anche per distinguersi da organizzazioni concorrenti, nonché per il loro risalto mediatico. Tali gruppi sono caratterizzati principalmente da quattro elementi fondamentali: -- Si considerano un “gruppo eletto”; -- Gli appartenenti a quel gruppo si isolano dal resto della società e si sentono differenti e superiori; -- L’adesione al gruppo è volontaria e ogni membro è uguale agli altri di fronte a Dio, ma all’interno dell’organizzazione vige una forte struttura gerarchica dominata da leader carismatici e autoritari;

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Come in una vera e propria setta chi aderisce al gruppo deve rispettare regole rigide e avere una forte disciplina. L’ambiente. – Le condizioni ambientali, come per esempio la presenza di fratture etniche o di classe, la cultura socio-politica di un Paese, le discrepanze economiche tra i membri di una società possono contribuire alla nascita e allo sviluppo del terrorismo. Le esperienze storiche ci dicono che il terrorismo non è quasi mai un’azione a sé stante, ma è spesso sostenuto da comunità caratterizzate da culture di violenza, in cui regna un senso diffuso di ingiustizia subita. I gruppi etnici, infatti, sperimentando il senso di oppressione da parte di altri gruppi o addirittura della totalità esterna, cui è seguito un sentimento di umiliazione, ma anche rabbia e indignazione, arrivano a ricercare una vendetta contro quella che viene vissuta come aggressione indiscriminata contro un popolo. È così che la percezione comune di una reale o presunta ingiustizia subìta provoca l’aggregazione sempre più stretta dei componenti di queste comunità le quali diventano sempre più chiuse e distaccate dall’esterno, sviluppando identità esclusive e rafforzando la resistenza. Le relazioni interpersonali vengono così scisse in due polarità, entrando in un circolo vizioso, caratterizzato dall’isolamento sempre più estremo. La crisi dello sviluppo socio-economico dovuta

a problemi interni o internazionali, l’urbanizzazione accelerata, l’industrializzazione, la modernizzazione, la disoccupazione e la povertà estrema incrementano il terrorismo perché rendono ancora più visibile la vulnerabilità delle società contemporanee. D’altro canto alcuni ritengono che la democrazia stessa ponga le condizioni per lo sviluppo di un’ideologia terroristica in quanto i diritti di ogni individuo limitano gli strumenti repressivi in mano allo Stato e la libera stampa diffonde i messaggi dei terroristi. Al contrario, altri hanno associato l’idea di terrorismo al concetto di movimenti sociali quando situazioni politiche (o di altro genere) non permettono la mobilitazione di massa. Grazie allo studio di circostanze ambientali esterne al singolo individuo, si è potuto quindi spiegare il concetto di differenza strutturale e ideologica che caratterizza i gruppi emersi in periodi e ambienti differenti. Grazie a studi sull’evoluzione della globalizzazione dell’ideologia terrorista, sappiamo che i futuri terroristi sono stati indotti ad assumere una visione militaristica della politica anche a causa degli svariati conflitti presenti in Medio Oriente, Cecenia ed ex Jugoslavia. Ciò non ha fatto altro che diffondere competenze militari e motivazioni ideologiche ai territori limitrofi.

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Qual è la differenza tra terrorismo ed omicidi di massa? Spesso si tende a confondere i due termini, terrorismo e Mass Murder, credendo erroneamente che possano rappresentare lo stesso tipo di fenomeno. Occorre però puntualizzare che in realtà ci sono delle differenze sia dal punto di vista psicologico, che nel modus operandi. Innanzitutto il terrorismo è un fenomeno di natura politica, metagiuridica o religiosa e come tale, influenzato da fattori storici, politici, culturali, militari, religiosi e ideologici. Da ciò deriva la difficoltà di formulare una definizione universalmente valida, che può essere comunque accennata sottolineando il carattere “organizzativo” di questo fenomeno; infatti per poter esistere, un atto terroristico necessita di un’organizzazione ben strutturata alle spalle e idee politiche e religiose ben salde. Generalmente i gruppi terroristici sono formati da organizzazioni segrete che combattono per i diritti o i privilegi di un determinato gruppo. La strage diventa una missione da portare a termine in nome di un credo religioso, ideologico, politico per il quale i terroristi sono disposti a rischiare la loro stessa vita. Il fenomeno del Mass Murder, invece, non ha nulla a che vedere con il concetto di politica, è infatti un termine coniato dall’FBI (la cui definizione viene accettata e utilizzata in ambito criminologico inter-

nazionale) per descrivere l’assassinio di massa perpetrato da chi uccide le sue vittime in un solo luogo e in un solo momento, maturando una “spinta” omicida che coltiva da tempo ed alimentandola con fantasie paranoiche di persecuzione. Di solito i mass murderers non si preoccupano della cattura, non prestano attenzione a non lasciare indizi che possano condurre gli inquirenti all’identificazione e al conseguente arresto. La maggior parte di questi assassini sceglie di suicidarsi o di affrontare la morte quando sono con le spalle al muro. Il terrorista invece, può decidere di perpetrare l’atto facendosi saltare in aria grazie a una grande quantità di esplosivo che porta con sé; oppure, in caso di sparatoria, tenta di fuggire per non essere catturato. È un individuo organizzato, razionale, audace, pianifica l’atto nei minimi dettagli, ha grandi capacità strategiche e il più delle volte anche una grande disponibilità economica e logistica. Il mass murderer invece, generalmente è un soggetto psichicamente vulnerabile, sottoposto a una situazione di stress intollerabile, che nel dare sfogo alla sua rabbia, compie un massacro. Le spinte motivazionali del mass murderer sono numerose, ma possiamo ritrovare le caratteristiche di base in un articolo scritto nel 1997 da uno dei massimi studiosi del fenomeno, George Palermo il quale ha dimostrato che le stragi avvengono sotto la spinta di un impulso, espresso con profonda rabbia e

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frustrazione per torti presumibilmente subiti da colleghi, compagni, o dalla stessa società. Il mass murderer quindi, esplicitando la sua rabbia con questo gesto, crede di poter rendere giustizia a tali torti subiti, andando ad attaccare il fulcro di tale meccanismo. L’omicidio di massa è quindi il risultato di una vendetta spesso non premeditata, o una “protesta” contro l’autorità che viene vissuta con un senso di rivalsa. Le stragi si possono verificare sia all’interno del contesto familiare, con l’uccisione di coniugi, figli e consanguinei, che al di fuori di esso, uccidendo anche degli sconosciuti con i quali però l’omicida ha un comunque legame più o meno diretto, come è avvenuto nel massacro della Columbine High School, Colorado, nell’Aprile del 1999: due studenti fecero ingresso nell’edificio scolastico armati e spararono a numerosi compagni e insegnanti uccidendo 13 persone. Per il terrorista al contrario, le stragi hanno tutt’altro significato: il loro obiettivo è quello di diffondere terrore nelle persone. Le motivazioni che spingono questi soggetti a perpetrare stragi di questo genere sono da ricercare nelle dinamiche psichiche che hanno avuto luogo durante il periodo della crescita e della strutturazione dell’identità. Un dato interessante si può ricavare dallo studio fatto dal prof. M. Sageman (psichiatra dell’University of Pennsylvania), che analizzando centinaia di documenti federali e intercettazioni di terroristi

islamici, ha potuto constatare che i terroristi non aderiscono all’immagine che l’opinione pubblica ha di loro. Infatti spesso non si tratta di soggetti socialmente isolati, disagiati e plagiati, ma principalmente di individui provenienti da famiglie relativamente agiate nelle quali erano presenti affetto, educazione e istruzione. Questi soggetti, oltre ad essere narcisisti patologici (con deliri di grandiosità e onnipotenza), sono più propensi di altri ad abbracciare l’estremismo perché è insito in loro il forte bisogno di appartenenza (che caratterizza ogni essere umano). Questi soggetti manifestano a livello psicologico una vulnerabilità proprio sul loro bisogno di percepirsi come parte di qualcosa che dia un senso alla loro esistenza. Ciò che differenzia il mass murderer dal terrorista è quindi la spinta motivazionale, il modus operandi e la storia di vita.

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Analisi storica del terrorismo Dal punto di vista storico il terrorismo nasce come un sistema di lotta politica con l’obiettivo di destrutturare o rinforzare un’organizzazione di potere tramite l’utilizzo di atti violenti e brutali. Questi si esplicano per esempio in attentati non solo a discapito di coloro che rivestono cariche politiche, ma anche di individui innocenti. In diversi periodi


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storici si è potuto assistere a episodi di terrorismo avvenuti sotto regimi politici, come ad esempio le congiure di palazzo ai tempi dell’impero romano, gli attentati dinamitardi contro i sovrani autocratici, guerriglie di movimenti anticoloniali. I primi attentati contro capi di Stato e di governo, e quindi le prime manifestazioni terroristiche che hanno destato interesse a livello internazionale, risalgono al XIX-XX sec. Si tratta di atti terroristici di matrice anarchica che evidenziarono la necessità di porre rimedio a tale fenomeno puntando alla prevenzione di ulteriori stragi. Il 16 novembre 1937, fu così istituita a Ginevra la Convenzione per la prevenzione e la repressione del terrorismo e la Convenzione per la creazione di una Corte Penale internazionale, due istituti internazionali che però non entrarono mai in vigore a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Dagli anni Sessanta, le stragi terroristiche sono state perpetrate anche da individui appartenenti a popoli senza territorio. Si può parlare di terrorismo a base etnica per descrivere quel fenomeno portato avanti da organizzazioni che lottano per l’indipendenza dei territori che gli spettano. Questi individui hanno l’obiettivo di attirare l’attenzione sul loro bisogno di rivendicare una liberazione nazionale. Una nuova forma di terrorismo è quella fondamentalista affermatasi negli anni Ottanta ed esplicatasi in aggressioni contro il mondo Oc-

cidentale. L’azione più brutale che meglio rispecchia questa tipologia di atti terroristici è l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, seguito dalla strage di Madrid l’11 marzo 2004 e quella di Londra il 7 luglio 2005. Per quanto riguarda il concetto di fondamentalismo, potrebbe stupire il fatto che, contrariamente a ciò che di solito si pensa, esso non è frutto di una definizione relativa all’ambito islamico, bensì nacque per descrivere la reazione di ambienti antimodernisti nell’Inghilterra protestante tra il XIX e XX secolo. Il fondamentalismo ha lo scopo di difendere e mantenere le tradizioni, in risposta alla marginalizzazione della religione causata dall’avvento della modernizzazione. Va comunque tenuto presente che il fondamentalismo non può essere identificato con il terrorismo.

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Analisi economica del terrorismo Non è facile stimare i danni che gli attacchi terroristici hanno creato all’interno delle economie dei Paesi colpiti. Come si può immaginare le spese maggiori si registrano nel settore militare e in quello della sicurezza in genere. Ovviamente non vanno sottovalutate anche le ripercussioni sul libero movimento di merci e persone. Per fare giu-


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sto un esempio: dopo gli attacchi dell’11 settembre vennero chiusi i confini degli Stati Uniti. Così facendo vennero bloccati anche tutti i camion al confine con il Canada che dovettero aspettare fino a venti ore per una traversata per la quale, in genere, bastano pochi minuti. Infine vanno considerati i danni materiali e le risorse economiche investite nella ricostruzione. Nel 2001 gli Stati Uniti subirono il più devastante attentato terroristico della loro storia, le conseguenze economiche che esso comportò furono enormi. Tra settembre e ottobre le borse rimasero chiuse per quasi una settimana e ciò comportò enormi perdite; inoltre, nei mesi successivi all’attentato oltre 60.000 persone rimasero senza lavoro. Queste sono solo alcune delle ripercussioni dirette che l’attacco terroristico ha avuto. Quantificare quelle indirette risulta ancora più difficile. Oltre ai danni materiali, alla perdita di vite innocenti e alla creazione di un clima di paura, uno dei fini del terrorismo è sicuramente quello di provocare un’instabilità permanente nelle economie dei Paesi che colpisce. Gli effetti che il terrorismo ha sull’economia sono sempre difficili da stimare sia perché i movimenti integralisti islamici hanno un’ampissima portata, sia perché è praticamente impossibile comprendere a quale prezzo ognuno di noi è disposto a cambiare la propria routine e il proprio stile di

vita. In genere, infatti, il fattore “paura” gioca un ruolo fondamentale e molto complesso poiché è estremamente soggettivo ed è praticamente impossibile prevedere in che modo possa incidere sui mercati azionari e sui consumi individuali. Tuttavia, secondo l’Istituto per l’Economia e la Pace, composto da un gruppo di esperti a livello internazionale, il reddito globale sarebbe più elevato di almeno il 30% se il mondo vivesse in pace.

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La psicologia del terrorista Comprendere la mentalità del terrorista da un punto di v (manca qualcosa oltre a vista) è cosa semplice; le difficoltà sono date soprattutto dall’impossibilità di avvicinarsi all’oggetto di studio, il terrorista, appunto. Si può comunque rilevare dagli ultimi studi che la personalità del terrorista non è da classificare tra quelle genericamente definite “malate”; al contrario, questi soggetti sono persone carismatiche dotate di un grande potere manipolatorio e sono in grado di valutare razionalmente costi e benefici che derivano dai loro atti terroristici. Ritengono, inoltre, che le loro azioni siano necessarie e valide ai fini delle loro ideologie estremiste. Si possono rilevare anche gruppi che infondono tra i loro membri un senso d’appartenenza talmente intenso da spingere tutti coloro che ne fan-


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no parte a compiere questo tipo di azioni senza alcun senso di colpa. Di contro, è bene anche tenere presente che coloro che decidono di aderire a detti gruppi, manifestano a livello psicologico una forma di vulnerabilità caratterizzata dal bisogno fondamentale di appartenere a una comunità che possa guidarli e accompagnarli con le sue ideologie per tutto il corso della loro vita. È come se appartenere ai gruppi estremisti e abbracciare il loro pensiero aiuti le persone ad affrontare le loro insicurezze riguardo sé stessi e il mondo che abitano. Per molti di loro, trovare una situazione di comfort esistenziale all’interno di una comunità (che loro definiscono addirittura famiglia), significa reprimere in questo modo l’ansia che deriva dal senso di “non-essere”, e così riempiono il vuoto con sistemi e strutture di credenze che fungono da auto-protezione. Il meccanismo psicologico è quello di indurre un potente condizionamento creando comunità chiuse con una forte impronta mistico-militare, dove tutti si sentano affratellati nella realizzazione di un progetto segreto e considerato di vitale importanza. Il sacrificio di ciascuno, in questa logica, porta alla salvezza degli altri «fratelli» quando non della intera comunità. Molti di loro rifiutano ogni tipo di autorità o legge che non incorpora i loro punti di vista e ciò in cui credono.

Le motivazioni più dominanti a oggi, sono di carattere religioso. Alla fine degli anni ’90, è stato svolto uno studio in cui sono stati intervistati 250 membri di Hamas e Jihadisti di varia estrazione. Le interviste furono poi analizzate e valutate da un punto da vista psicologico e si è potuto constatare che queste persone trattavano l’argomento “terrorismo” con freddezza, senza mostrare particolari coinvolgimenti emotivi neppure riguardo gli attentati e le vittime coinvolte, ritenendo che le loro azioni fossero ben motivate da profonde convinzioni religiose, che li portano a considerarsi dalla parte del giusto. I terroristi islamici radicali sono caratterizzati da fedeltà assoluta alla scrittura del Corano e rifiutano ogni forma di interpretazione e “spiritualizzazione” del messaggio religioso, cosa che li conduce a vedere nel jihad una guerra senza esclusione di mezzi contro quegli individui e quelle società «infedeli» che non consentono il libero e totale esercizio della religiosità e della legge islamica. Quindi è da escludere la presenza di disturbi psichici o psicopatologie che possano giustificare, o anche semplicemente spiegare, una scelta di vita così radicale. Anzi, è da ricordare quanto già accennato: cioè che quando i leader delle cellule terroristiche arruolano persone nuove, valutano con attenzione se gli aspiranti in questione mostrino dei segni di squilibrio mentale riconducibili a for-

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me di psicopatologie gravi e, nel caso, non esitano ad allontanarli, escludendoli dal gruppo. Contrariamente a quanto si può pensare, inoltre, la maggior parte degli estremisti islamici non proviene da classi sociali bisognose e deprivate, bensì da ambienti socio-culturali medio-alti. Sono per lo più giovani non sposati, con un buon livello d’istruzione, ma con lavori precari, inesistenti o comunque non relazionabili al loro livello di studi. Fanno parte, generalmente, di famiglie con una media di otto persone e, pur non patendo la fame, conoscono condizioni di vita molto dure. Non hanno subito alcun “lavaggio del cervello” né tantomeno si possono definire isolati sociali; sono persone, invece, dotate di importanti capacità organizzative e intellettuali, in grado di controllare a livello emotivo tutte le eventuali reazioni derivanti dal rischio che corrono e, di conseguenza, non hanno paura di nulla. Le caratteristiche psicologiche peculiari dei terroristi si possono così riassumere: -- Capacità strategiche e organizzative; -- Concentrazione, vigilanza e determinazione; -- Capacità di monitoraggio e gestione delle proprie emozioni; -- Freddezza e lucidità nell’affrontare situazioni impreviste; -- Mancanza di empatia; -- Capacità di poter rinunciare alla propria vita pur di arrivare al proprio obiettivo o, meglio,

l’incapacità di considerare la propria vita più importante di un obiettivo. Per quanto riguarda il terrorismo suicida, le condizioni di deprivazione sociale sono ragioni sufficienti per indurre la persona a mettere fine alla propria vita, tramite un atto di protesta contro la società ritenuta ingiusta e inadeguata. L’aspetto che ha richiamato di più l’attenzione degli studiosi è la frustrazione legata alle prospettive lavorative e professionali che non trovano uno sbocco positivo in una società spesso piagata dalla guerra civile. Inoltre, si è potuto verificare che la maggior parte dei terroristi suicidi palestinesi ha avuto in passato esperienze traumatiche con le forze speciali israeliane che hanno perpetrato sugli oppositori più irriducibili violenze umilianti. Per lo psicologo Andrew Silke, infatti, la genesi della scelta del terrorismo suicida risale a una serie di eventi che hanno leso la sfera sociale della persona. In particolare sembrano rivestire importanza le «forme di violenza fisica estrema commesse dalla polizia o dalle forze di sicurezza sui futuri martiri o loro amici o parenti». Si possono genericamente classificare i terroristi in base alle motivazioni che spingono loro ad unirsi in gruppi e perpetrare questi atroci crimini: Terroristi con interessi speciali da tutelare: si tratta di coloro che utilizzano il terrorismo come stru-

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mento per difendere il loro pensiero riguardante cause radicali civili; Terroristi estremisti di destra: sono coloro che hanno l’obiettivo di mantenere o promuovere differenti livelli di gerarchia sociale (razzismo); Terroristi estremisti religiosi non tradizionali: coloro che professano culti poco diffusi, con una spiccata tendenza megalomane (ad esempio Aum Shinrikyo, cioè “Religione di Verità”, è un nuovo movimento religioso giapponese che diffonde credenze buddhiste e induiste; nel 1995 i seguaci di tale pensiero religioso commisero un attentato nella metropolitana di Tokyo uccidendo dodici persone e intossicandone circa seimila); Terroristi solitari: coloro che commettono atti terroristici senza essere affiliati a nessun gruppo e che, nella maggior parte dei casi, sono affetti da un disturbo psicologico.

Alla prima categoria appartengono gli atti terroristici che hanno il fine di rivendicare l’indipendenza di una Regione; come quelli avvenuti negli anni Sessanta in Alto Adige. Il terrorismo di destra, invece, aveva l’intento di destabilizzare il precedente quadro politico al fine d’instaurarne uno nuovo, facendo ricorso a vere e proprie stragi, le più sanguinose delle quali furono quella di Piazza Fontana a Milano nel 1969 e quella della stazione di Bologna nel 1980. Le forze di estrema destra, inoltre sono state colpevoli di aver ucciso magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, ecc… Dagli anni Settanta in poi hanno avuto luogo anche numerosi attentati imputabili ai gruppi di estrema sinistra, in particolare Brigate rosse e Prima linea. Questo tipo di terrorismo non era indiscriminato, ma mirato nei confronti di rappresentanti politici e sempre rivendicato. Non si può non menzionare il più drammatico omicidio imputabile alle Brigate Rosse, quello di Aldo Moro, avvenuto il 9 maggio 1978 a Roma.

Il terrorismo in Italia In Italia il terrorismo si è iniziato a sviluppare negli anni Sessanta del secolo scorso. Si possono distinguere tre categorie di terrorismo che hanno operato all’interno del nostro Paese: -- Quello irredentista, -- Quello di destra, -- Quello di sinistra. 34

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