Valeria fa "gli" Olimpiadi

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Valeria Straneo - Marco tarozzi

valeria

fa “gli� olimpiadi

Storia di una campionessa che non sapeva di esserlo Minerva edizioni



A Manlio e Beatrice, che da sempre mi sostengono e a cui devo moltissimo Valeria

“Success isn’t how far you got, but the distance you traveled from where you started.” (Steve Prefontaine)


Collana Sul filo di lana

Valeria fa “gli” olimpiadi di Valeria Straneo - Marco Tarozzi

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Le foto contenute in questo volume sono di proprietà di © Valeria Straneo ad eccezione di: © Foto Colombo/Fidal per gentile concessione Fidal (Federazione Italiana Atletica Leggera) pagine 124, 125, 128 e 129 © Foto Alessio Guidi e Colombo/Fidal pagine 134, 135 © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di settembre 2014 per i tipi di ISBN: 978-88-7381-587-7

Minerva Edizioni

Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Valeria Straneo - Marco Tarozzi

valeria fa “gli�

olimpiadi Storia

incredibile ma vera di una campionessa che non sapeva di esserlo

Minerva Edizioni



INDICE

Prefazione di Marco Marchei Esile, minuta… praticamente fortissima 14 maggio 2010

pag. 7 9

Un’altra vita

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Le olimpiadi in cortile

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Ma che cosa è successo?

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Beatrice

34

Improvvisamente, ad alta quota

42

Insoliti sospetti

48

London calling

55

Valeria fa “gli” olimpiadi

61

Il mondo visto dall’alto

67

La mia Europa

73

Vi devo qualcosa…

81

Io e le altre

89

La corsa, secondo me

94

Ultimo chilometro

100

Sezione fotografica

105



Esile, minuta… praticamente fortissima di Marco Marchei

Direttore della rivista Runner’s World Italia

Stranèo. Aveva l’accento rigorosamente sulla e, Valeria, la prima volta che ne ho sentito parlare, cioè sparlare. Anche dopo, non è cambiato né l’accento né l’antifona. Il sospetto che i suoi risultati improvvisamente lievitati fossero frutto di qualche alchimia chimica era diventato certezza anche per gente che non aveva avuto alcuna occasione d’incontro con Valeria né l’aveva mai vista gareggiare eppure si prendeva la libertà di mettere in dubbio le sue prestazioni. Per quanto mi riguarda, più ne sentivo parlare più immaginavo una virago muscolare che di gara in gara stroncava cinicamente quelle tapine delle sue avversarie arrivate invece a risultati di rilievo dopo anni di onorata carriera. Il sospetto, insomma, aveva contagiato anche me. Ho finalmente incontrato Valeria («In verità mi chiamo Stràneo, con l’accento sulla a, ma va bene anche Stranèo…») sabato 25 febbraio 2012, la vigilia della trentottesima RomaOstia, nella conferenza stampa di presentazione dei top runners partecipanti alla classicissima mezza maratona capitolina che assegnava anche i titoli tricolori sulla distanza. Non vedendo in sala atlete dal fisico anabolizzato o dall’aria risoluta di chi si appresta ad asfaltare le avversarie, mi sono detto – con non poca delusione e anche un pizzico d’inquietudine – che probabilmente aveva deciso di evitare l’irrinunciabile rito pre gara. Quale sorpresa nello scoprire, invece, che la Straneo era presente, eccome!, ed era quell’esile biondina seminascosta in ultima fila… E quale imbarazzo nel sentirla spiegare ai presenti – incalzata dal moderatore – i 7


motivi della sua esplosione atletica, dall’asportazione della milza in poi, che questo libro spiega perfettamente. Nonostante il tono pacato, rafforzato nelle smorzature dalla tipica erre moscia alessandrina, era evidente il suo disagio nel dover affrontare l’ennesima platea scettica, al fine d’illustrare il suo strano caso – ormai ben noto nell’ambiente – ma soprattutto, per stemperare i sospetti e placare certa foga gossippara, di fare una sorta di ammissione di una colpa inesistente. Quel 25 febbraio sono diventato un tifoso di Valeria, che, per la cronaca, l’indomani fece suo il titolo con la nuova miglior prestazione italiana sui 21 chilometri, 1:07’46”. Istintivamente mi sono sentito dalla sua parte, infastidito da quel suo doversi difendere a oltranza come una ladra quando fino ad allora era stata derubata di qualcosa – il suo reale potenziale atletico – che ora stava tornando a riconquistare. Ebbi a scrivere che mi sarebbe piaciuto che qualcuno di quelli che si scambiavano sguardi di complice sospetto le chiedesse con quale fatica, con quale spirito, con quale passione aveva gareggiato per così tanti anni confusa tra le tante, frenata dalla sferocitosi ereditaria, perfettamente cosciente di non poter andare oltre certe prestazioni. Ho avuto anche il piacere di entrare in familiarità con Valeria. Un’amicizia discreta, per nulla invadente, che mi esenta dalla sua diffidenza. E che forse potrebbe non essere un mio privilegio: con quel suo fare gigione, divertito e divertente, infatti riesce a mettere a proprio agio chiunque. Una particolarità non da poco, che la dice lunga sul suo approccio con la gente, con la vita, con la corsa. Caratteristiche che verranno fuori – ancor meglio di quanto, in queste poche righe, possa aver fatto io – in questo bel libro del bravo (anzi bravissimo) Marco Tarozzi, al quale mi lega profondo affetto e grande stima professionale. L’unico che poteva scrivere in punta di penna il delicato racconto di un’atleta straordinaria come Valeria Stràneo (con l’accento sulla a, ovviamente). 8


Capitolo 1

14 MAGGIO 2010

14 maggio 2010. Non riuscirò mai a dimenticarla, quella data. Ce l’ho stampata qui, nella testa. Se provo a mandarla in fondo ai miei pensieri, riaffiora. È viva, incancellabile, destinata ad accompagnarmi per sempre. È il giorno in cui sono finita in una sala operatoria all’ospedale di Alessandria. Per “alleggerirmi” di una parte di me che era diventata ingombrante, fastidiosa. È il giorno che mi ha cambiato la vita, ma in quel momento io non potevo nemmeno immaginarlo. Me ne stavo con un lungo camice addosso, immersa nei miei pensieri. Aspettavo, come una normale paziente che sta per subìre un’operazione. Con addosso un senso di liberazione e un naturale timore per quello che sarebbe successo di lì a poco. Splenectomia. Tecnicamente, si chiama così. Mi operò il dottor Spinoglio, quel giorno, e ricordo che c’erano addirittura le telecamere per… riprendere l’evento. La mia operazione, come quelle di altri pazienti “di giornata”, sarebbero finite a fare da corollario a qualche importante ricerca medica. Ci pensavo distrattamente, mentre aspettavo il mio turno. Le immagini della mia operazione erano destinate a destare l’attenzione di pubblici d’elìte in chissà quali posti in giro per il mondo. La mia sarebbe stata un’operazione destinata a ricevere applausi ai convegni medici, ma tant’è. Non mi sentivo certo nei panni di una star televisiva… Ricordo di essere entrata in sala operatoria con addosso una grande tranquillità, mentre i tecnici sistemavano le luci, l’audio, le inquadrature. Più che un ospedale, sembrava uno studio televisivo. E io ero la star a cui stavano per togliere la milza. 9


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Ricordi, appunto. L’anestesista era un po’ timoroso, mentre cercava la vena per infilarmi nel polso un ago bello spesso. Io me ne stavo lì, col mio camice verde e un copricapo da panettiere sulla testa, e lui temeva che tutto quell’armeggiare intorno al mio braccio mi impaurisse. Invece ero piuttosto tranquilla. Rispondevo a segno alle domande, almeno fino a quando l’anestesia ha cominciato a fare l’effetto dovuto. Quando mi sono risvegliata su una barella, mi hanno raccontato del “2x1” di cui ero stata fortunata destinataria: via la milza, come previsto, e ciao anche alla colecisti. Una ragazza nuova di zecca… Nonostante io sia una fifona, una che si impaurisce alla sola idea di farsi fare una puntura, quel giorno di maggio sono stata impeccabile. Non mi sono scomposta, ero semplicemente concentrata su quello che avrei dovuto fare di lì a poco. Mai stata così tranquilla, e ancora mi chiedo cosa sia successo all’ospedale, e quale fosse il motivo di tutta quella quiete. Forse era anche un senso di liberazione. Non me l’ero passata benissimo, nei cinque mesi precedenti l’operazione. Avevo iniziato a stare male a dicembre del 2009, e già a gennaio il problema si era acuito. Ero sempre stanchissima, ma di una stanchezza veramente fuori del normale. Facevo fatica anche a camminare, e in quelle condizioni mettersi le scarpe da running e uscire di casa per correre non era nemmeno più un piacere. Una sofferenza bella e buona. Avevo dato la colpa alla preparazione della maratona di Carpi, fatta a novembre. Lavoravo in un asilo nido e ogni mattina mi svegliavo alle sei e mezza, non sempre con la voglia di tirarmi su dal letto perché i miei bambini erano ancora piccoli e spesso la notte l’avevo passata in bianco, come succede a tutte le mamme in certi periodi della vita, loro e delle creature che hanno messo al mondo. All’asilo nido dove lavoravo, la tranquillità non era mai di 10


14 maggio 2010

casa, l’impegno era notevole e la guardia non poteva mai restare abbassata. Uscivo dal lavoro verso l’una e mezza e mi fiondavo a correre. Un allenamento al giorno, e ringraziare. Non avevo tempo per nient’altro. Alle quattro e mezza c’erano i ragazzi da recuperare, poi le cose di casa da seguire. Alla sera ero completamente stravolta. Pensavo che tutta questa stanchezza fosse il risultato di un periodo così impegnativo. Come quando uno accumula, accumula e alla fine il corpo gli dice basta, gli impone di frenare. A febbraio 2010 sono partita per la mezza maratona di San Blàs, in Portorico. Ci tenevo a farla, l’avevo programmata da tempo, e quando sono arrivata là mi sono sentita subito meglio. A volte il clima ti raddrizza l’umore: a casa mia c’erano freddo e giornate grigie, lì mi godevo una temperatura di trenta gradi. Insomma, era più una piccola vacanza che un impegno sportivo. Ma quella stanchezza mi era rimasta addosso, non mi dava tregua. Non mi sentivo a posto, sentivo che qualcosa non andava. La gara si disputava in condizioni quasi proibitive: alle quattro del pomeriggio, con un sole a picco e un’umidità pazzesca. Quella mattina ricordo di essermi svegliata in condizioni pietose. Non riuscivo neppure a camminare, mi trascinavo, e solo il pensiero di dover correre per ventuno chilometri mi angosciava. Sono partita con la filosofia del “come va, va”, e in effetti è andata come temevo, ovvero malissimo. Il peggior crono in carriera, intorno all’ora e trenta, su un percorso impegnativo, pieno di salite, tornanti, affascinante ma durissimo. Dopo l’arrivo ho iniziato a farmi domande: avevo corso cinque mesi prima in 1:14:07, mio personale, alla Run Tune Up di Bologna, e un risultato del genere non poteva spiegarsi soltanto con le difficoltà del percorso. Ho provato a catalogare la cosa alla voce “incidenti di percorso” e ad andare avanti. Ma il ritorno a casa è stato, se possibile, anche peggiore. Ho continuato a stare male, anzi le cose sono andate peggiorando. 11


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Una volta a settimana passavo almeno una mezza giornata in bagno, e la cosa divertente, a pensarci adesso, è che mi succedeva quasi sempre di venerdì. Ho temuto che a scuola pensassero che ero diventata una appassionata del “weekend lungo”… Soffrivo da impazzire, pancia e stomaco erano gonfi in modo anomalo. Ho continuato col lavoro, con gli allenamenti che erano diventati una fatica sempre più assurda. Finché una mattina Manlio ha detto basta: mi ha portato al pronto soccorso, direttamente, invece di accompagnarmi al lavoro. Era un venerdì, ovviamente… Mi hanno fatto un esame del sangue e hanno scoperto una situazione disastrosa. Avevo l’emoglobina a 6, l’ematocrito a livelli bassissimi. Mi hanno spedita quasi d’urgenza in ematologia, a fare una trasfusione. E hanno iniziato a rivoltarmi come un calzino, a farmi esami su esami, perché non si riusciva a venire a capo dei miei problemi. Io continuavo ad andare in bagno, a perdere peso, a sentire questo peso sullo stomaco. Pesavo niente, mangiavo niente eppure mi sentivo “piena”. Alla fine, dopo tanto tempo e un numero infinito di esami, ho scoperto perché. Avevo una milza di 26 centimetri, quando normalmente misura tra i 5 e i 9 centimetri. Pesava un chilo e ottocento grammi. Per arrivarci, mi hanno fatto fare un bel tour dei reparti dell’ospedale. Da Ematologia sono passata da Gastroenterologia, da Malattie Infettive. Ho fatto lastre e controlli, mi è rimasto ancora oggi l’incubo della tac col liquido di contrasto. Io ho la psicosi, mi fa paura l’idea che mi iniettino qualcosa, e poi temevo una reazione allergica, visto che nel mio giro dei reparti ero transitata anche da Allergologia, per non farmi mancare niente. Nei giorni in cui ho fatto quell’esame mi sembrava di aver toccato il fondo. Ero quasi in depressione, non riuscivo a dedicarmi alle cose più elementari: fare la spesa, giocare coi miei figli. Tutto era diventato sofferenza. E mi ricordo che l’addetto all’esame mi aveva infilato l’ago nella vena per iniettare il liquido e si era allontanato, io ero rimasta lì 12


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da sola, con la mia tristezza addosso, e all’improvviso ho sentito un dolore pazzesco e l’ho visto correre verso di me per bloccare tutto. Mi si era rotta la vena. Cambio braccio, stessa scena: rotta anche l’altra. Non sapevamo che pesci pigliare. Alla fine hanno deciso di farmi l’esame senza liquido. La scena me la sono sognata di notte per non so quanti mesi. E ogni tanto quell’operatore lo rivedo durante gli allenamenti, perché anche lui è un runner. Lo incrocio e glielo ricordo, che è stato la mia dannazione. E lui ribatte che una roba del genere non gli era mai capitata in anni di lavoro… Oggi ci ridiamo sopra, ma in quei giorni ero proprio dentro a un tunnel che più buio non si può. Sì, quello è stato davvero il momento più triste della storia. Non ne potevo più, volevo che la faccenda si risolvesse in un modo o nell’altro. Sono uscita da quell’esame con la consapevolezza di questa milza gigantesca da portarmi dietro, così grossa che non era nemmeno possibile quantificarla attraverso l’ecografo. Usciva dalle immagini del monitor. Per fortuna tutti gli altri test erano risultati negativi. Ho fatto tutto quello che si doveva fare, e il bello è che fino a quel periodo, in trentaquattro anni, non avevo mai messo piede in una stanza d’ospedale. Mai un’operazione, mai un esame, niente. Ho pagato tutto con gli interessi: tre mesi di dentro e fuori dagli ambulatori, a cercare di capire. In Ematologia mi facevano tre esami del sangue a settimana. Lì, però, ho trovato il mio angelo custode. La persona che mi ha aiutato a venir fuori in qualche modo da questo circolo vizioso. Lei si chiama Daniela Pietrasanta, ed è la mamma di una delle bimbe che seguivo all’asilo nido. Lavora proprio nel reparto di Ematologia, è un medico in gamba, e quando l’ho incontrata mi ci sono attaccata con tutte le mie forze, come fa chi si sente perduto in una realtà con cui fa i conti per la prima volta. Sei spaventato, non sai da che parte voltarti e una faccia amica in certi casi è fondamentale. Io ho trovato un appiglio, non lo dimenticherò mai. 13


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È stata lei a decidere di non farmi trasfusioni, già da quella prima volta al Pronto Soccorso. Invece, ha chiamato il Centro Malattie Rare di Milano, e da subito ha cominciato a lavorare di concerto con quel gruppo di specialisti, che certamente avevano una casistica più significativa di sferocitosi. Insieme hanno deciso di non trasfondermi, ma di sottopormi a una settimana di flebo, per “rimpolparmi” un po’ il sangue, che era diventato praticamente acqua. In quei giorni ero in “day hospital”, andavo e venivo e facevo questi trattamenti in Oncologia, accanto a persone che stavano facendo la chemioterapia. È stata una bella lezione di vita. Io ero lì, stavo male eppure mi sentivo una persona fortunata, ringraziavo il cielo perché non stavo affrontando una prova così impegnativa come quelle di chi vedevo intorno a me. E al tempo stesso vedevo queste persone, e tra loro tanti giovani, affrontare i loro problemi con dignità e con una forma di tranquillità che mi ha sorpreso e mi ha riempita di ammirazione nei loro confronti. Mai visto nessuno piangere o disperarsi. Solo persone che chiacchieravano tra loro, ascoltavano musica, leggevano un libro, cercavano di affrontare nel modo più naturale possibile situazioni difficili e delicate. Ho avuto e ho il massimo rispetto per loro. Di quei giorni in ospedale mi resta vivo il ricordo di una grande umanità delle persone che ci lavoravano dentro. Gente rispettosa della dignità del malato. E questa è la cosa fondamentale, perché quando sei lì a cercare di capire quello che hai addosso, e devi fare esami su esami, senza capire, la dignità rischi davvero di perderla. L’ultimo esame è stato una colonscopia, che è servita a comprendere che tutti i miei problemi… del venerdì erano dovuti a una subocclusione intestinale dovuta alle dimensioni esagerate della mia milza. In pratica, era talmente grossa che stava occludendomi una parte dell’intestino. Per questo stavo così male: di per sé, la 14


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sferocitosi non crea queste problematiche. L’anomalìa era solo e soltanto la milza. E andava asportata. Ho atteso l’operazione fino a maggio, “condannata” a un regime di riposo assoluto. Sono rimasta letteralmente immobile per quasi cinque mesi, dal momento della decisione alla fine della convalescenza post-operatoria. La corsa non mi mancava di sicuro: stavo talmente male che non riuscivo ad alzarmi dalla sedia. Certi pomeriggi mio marito mi lasciava tranquilla in casa, portava i bimbi fuori a giocare, e io non potevo stare con loro. Allora mi mettevo davanti al computer e cercavo su Youtube i video delle operazioni di splenectomia, per vedere cosa mi aspettava. Una bella botta di vita, non c’è che dire… Il 14 maggio 2010, il giorno del cambiamento, mi hanno fatto una sorpresa. Oltre alla milza, hanno deciso di togliermi anche la cistifellea. C’erano dei calcoli, grossi abbastanza da far decidere al chirurgo di togliere via tutto quanto. Rewind.

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Capitolo 2

UN’ALTRA VITA

Ci tenevo, a raccontare questa storia partendo da quella data. Perché non la dimentico, ma anche per far capire. Non tanto la mia storia di atleta, o il fatto che quello è stato davvero un crocevia, fondamentale per le mie scelte successive. Qualcosa che mi ha cambiato la vita, ma non deve essere necessariamente mandato a memoria da chiunque mi conosca. Però serve a comprendere. Magari a usare le parole, i toni giusti. Quando sono tornata nel mondo delle corse, o per meglio dire quando mi sono affacciata ai piani alti di questo mondo, ne ho sentite parecchie di storie. La più comica, se dietro non ci fossero mesi di apprensione, di domande a cui non potevo dare risposta, anche di naturalissime paure, è che Valeria Straneo avrebbe deciso di andare sotto i ferri, a farsi togliere milza e cistifellea, per avere un futuro migliore nella corsa. Di tante che ne ho sentite, questa è qualcosa più di una mistificazione. Per quella che è, da sempre, la mia filosofia del running, è una barzelletta. In quei primi mesi del 2010, io semplicemente soffrivo. Ero esausta, sfiancata, sfiduciata, talvolta depressa. Ed ero tutto meno che un’atleta, in quel momento. Ero una donna in difficoltà nella sua vita di tutti i giorni. Come madre, condannata a non poter seguire i propri figli come avrebbe voluto. Come compagna di vita, perché a Manlio toccavano tutte le incombenze che io non riuscivo ad assolvere. Come donna e come lavoratrice, perché anche al nido praticamente mi trascinavo, e le giornate si erano fatte enormemente pesanti. 16


Un’altra vita

La corsa era, in quei giorni, l’ultimo dei problemi. Non mi passava nemmeno per la testa. Non riuscivo neppure mentalmente a pensare di poter aggiungere fatica a fatica, di poter affrontare il sacrificio degli allenamenti oltre a quello, ormai altrettanto duro, del vivere quotidiano. Ci ho provato, s’intende, perché la passione è la passione. Ma la sofferenza era troppa, e quando mi hanno detto che era il caso di staccare la spina non ci ho pensato due volte. Non ho mai avuto un approccio fanatico alla mia vita da runner. Mi è sempre piaciuto correre, molto semplicemente. Mi ha fatto sentire libera, in pace con me stessa. Per anni ho ritenuto fondamentale ritagliarmi quello spazio per me, anche se significava fare un sacrificio in più, anche solo per infilarlo tra lavoro e famiglia. Sono una donna che nella vita ha fatto delle scelte, come tante. Ho studiato, anche all’estero, mi sono resa indipendente, mi sono costruita un nucleo familiare. E dentro le mie giornate ho sempre fatto in modo che la corsa ci fosse, perché è un punto di equilibrio, di sicurezza. Ma in quei giorni del 2010 non è stato così. Avevo perso interesse, e soprattutto forze. Per questo adesso mi fa sorridere ripensare alle cose che ho sentito dire sul mio conto, quando ho cominciato a migliorare le mie prestazioni dopo l’operazione. Anche se allora mi ferivano, non lo nego. Per fortuna, so passare sopra alle cose. Affronto la vita con un ottimismo che a volte può sconfinare nell’ingenuità, ma sono fatta così. Non voglio male a nessuno, e faccio fatica a pensare che altri ne vogliano a me. Quello che conta, comunque, è essere in pace con sé stessi. Io so quello che significava andare in sala operatoria, per una come me che non aveva mai messo piede in un ospedale per trentaquattro anni. E adesso so anche quello che significa avere qualcuno che lavora sulla tua pelle e sul tuo corpo, levandoti qualcosa di te, lasciandoti comunque qualche ferita. Se ci fosse ancora qualcuno che pensa che certe scelte siano state volute, addirittura studiate 17


Sul filo di lana

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a tavolino, a questo punto lo lascio lì, a perdersi nei suoi pensieri contorti. Mi bastano le mie sensazioni. Quelle che ho provato, quelle che provo. Come quella mattina, appunto. In testa una cuffietta verde, addosso il grembiulone che ti mettono quando arriva il momento giusto. In realtà, il dottor Giuseppe Spinoglio, responsabile del reparto di Chirurgia dell’ospedale di Alessandria, ha fatto un lavoro splendido. Tutto è riuscito alla perfezione. A parte un solo problema, dovuto alle condizioni particolari in cui mi trovavo. Quando ti fanno un’operazione in laparoscopia il concetto è quello di “insacchettare” l’organo e farlo poi uscire da uno dei buchi che ti sono stati praticati, il che serve a evitare tagli pesanti e invasivi sul corpo. Ma la mia milza era talmente grossa che non c’era nessun sacchetto che potesse contenerla, e i sei buchi che mi avevano fatto i medici non bastavano a risolvere il problema. Così, mi hanno dovuto fare in pratica l’equivalente di un taglio cesareo, e la milza è uscita da lì, proprio come un bambino, e mi ha lasciato un ricordo di sei o sette centimetri nel sottopancia. Il che ha anche ritardato la mia ripresa con la corsa: anche se la voglia mi era tornata quasi subito, il dolore era forte, proprio come succede quando una ha partorito col cesareo e non deve fare sforzi. La prima settimana l’ho accusato parecchio. Ma la cosa importante è che ho potuto dimenticare il mio problema, praticamente da subito. Ho capito quanto quella milza grossa come un neonato mi avesse frenato, e anzi mi sono meravigliata di quanto fossi riuscita a trascinarmela addosso, e lo stesso stupore l’ho visto negli occhi e l’ho sentito nelle parole dei medici che mi hanno seguita e curata. Altro che correre, il problema era vivere la quotidianità. Ecco il motivo di tutta quella stanchezza, quell’improvvisa mancanza di voglia e volontà, che non facevano certamente parte del mio carattere. Mi ero sentita strana, così diversa da me stessa, dalla Valeria che ero e che 18


Un’altra vita

sono, per mesi e mesi. E improvvisamente ero libera. Con un po’ di dolore per quel taglio, d’accordo, ma sapevo che quello sarebbe passato in fretta. Libera, completamente libera. E pronta a farmi riavvolgere dalle passioni di sempre. Su quel tavolo in sala operatoria, insomma, non c’era posto per l’atletica, né per la Valeria di sempre. Era un momento importante della mia vita. Non credo di avere mai avuto paura, ero soltanto vessata da tutti quegli esami, tutte quelle corse in ospedale, tutto quel cercare di capire e risolvere. Sono una che si è trovata dentro a un tunnel, e alla mia maniera ho sempre visto in qualche modo la luce in fondo. In questo, mi ha aiutato vedere quelle persone di cui dicevo, gente che aveva ed ha problemi ben più enormi del mio, decisa a prendere il toro per le corna, come si dice. A uscirne più in fretta possibile, e nel modo migliore. Ho visto begli esempi di coraggio, all’ospedale SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria. Un posto dove non ero mai stata prima, e nel quale in qualche modo credo di aver affrontato una prova importante della mia vita. È stata una lezione. Se, come dice qualcuno, ne è uscita una Valeria ancora più determinata e risoluta di prima, è merito di quei compagni di viaggio. Un viaggio temporaneo, dove ci siamo sfiorati prima di prendere ognuno la propria strada. Ma quando sono ripartita, ero più ricca dentro anche grazie a loro. Il ritorno alla corsa è un altro di quei momenti che mi resteranno dentro per sempre. Ero stata completamente ferma per più di quattro mesi, senza sentire alcun trasporto all’idea di ricominciare. Ero troppo concentrata sul mio problema fisico da risolvere. Liberarmi di quei quasi due chili di milza è stato molto più di un fatto tecnico. Una liberazione totale, anche e soprattutto della mente. Ho sempre detto che non potrei fare a meno del movimento, e già durante i primi giorni della convalescenza ho capito che era ancora così, che la Valeria di sempre stava tornando. Una decina 19


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di giorni dopo l’operazione, cominciavo a muovere i primi passi di corsa. Venti minuti, massimo mezz’oretta, viaggiando alla media di sei minuti al chilometro. Me le sono proprio gustate fino in fondo, quelle prime uscite. Piccoli passi, ma per me giganteschi, verso il ritorno alla normalità. Quando ho fatto la prima visita di controllo post-operazione al Centro di Malattie Rare, a Milano, ho subito messo in risalto la questione. Ho chiesto se avrei potuto riprendere a correre, e mi hanno risposto che avrei potuto farlo anche subito. Allora mi sono sentita in obbligo di chiarire la faccenda: guardate, ho detto, che io corro per davvero, non faccio jogging una volta a settimana, e quando parlo di allenarmi intendo questo. Mi hanno risposto che il problema non esisteva. “Puoi fare tutto quello che vuoi, adesso. Anche correre una 100 chilometri, se ti va”. Li ho presi in parola: a fine giugno, un mese e mezzo dopo l’operazione, ero al via della mezza maratona di Biella, col numero attaccato al petto. Niente di clamoroso, s’intende: ho chiuso in un’ora e ventuno minuti, stavo alla grande dal punto di vista fisico ma ho fatto una fatica incredibile, soprattutto nella seconda parte di gara, perché ero completamente a digiuno di allenamento. In cinque mesi, solo quelle uscite di pochi minuti, a ritmi blandissimi. Ma quello che contava era lo spirito, finalmente ritrovato. Ero di nuovo me stessa, con la mia voglia di muovermi, di sentire addosso le emozioni della corsa. Anche se mi rendevo conto che probabilmente non era più la stessa cosa. Non mi importava più di tanto della prestazione, del risultato cronometrico. Non avevo più voglia di sforzarmi, di vivere le mie giornate con l’affanno che le aveva contraddistinte fino a quel momento: vai al lavoro, esci e vai ad allenarti, a fare ripetute, fondi medi, torni a casa e devi occuparti della famiglia, della vita di tutti i giorni… non potevo abbandonare il lavoro, non intendevo certamente mettere da una parte i miei figli. È stato lì che mi sono detta: okay, non c’è più spazio per l’atletica, vado a correre quando mi va, a sensazione. 20


Un’altra vita

Mi bastava poter correre, alla mia maniera. In quei giorni, passata la bufera dei problemi fisici, consapevole di essere finalmente una donna in salute, ho iniziato a fare i conti con la mia filosofia del running. Mi interessava davvero andare tutti i giorni ad allenarmi, seguire un programma preciso, tabelle per migliorare le mie performances di atleta? O mi bastava semplicemente sapere che in qualunque momento avrei finalmente potuto cambiarmi e uscire a correre, prendendomi uno spazio mio dal quale non potevo prescindere. Ero di fronte a un bivio: continuare a fare l’atleta amatore evoluto, o prenderla facile? E avevo già chiara in testa la risposta. In realtà, credevo che il bivio fosse questo, ma quello vero era un altro: di fronte avevo la possibilità di aprirmi a un mondo fin lì sconosciuto, quello dell’atletica di vertice. Ma in quel momento non potevo neppure immaginarlo. Mi godevo la mia salute ritrovata, la mia voglia di fare sport senza pensieri. Avevo di nuovo un mio equilibrio, non potevo sapere che di lì a poco lo avrei stravolto, così come avrei rivoluzionato i miei ritmi quotidiani.

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Capitolo 3

LE OLIMPIADI IN CORTILE

Quando la gente mi chiede che cosa ho provato a gareggiare ad un’Olimpiade alla bella età di trentasei anni, sono sempre tentata di raccontare tutta la verità. Che è molto semplice: Londra non è stata la mia prima Olimpiade, ecco tutto. Beh, la rivelazione è forte, ma non preoccupatevi. Se la partecipazione a Londra l’ho conquistata grazie alla mia testardaggine e al sostegno di chi mi è stato vicino (Manlio, i miei bambini, Beatrice, oltre a tutti quelli che hanno lavorato per facilitarmi la vita in azzurro), mia sorella Ivana aveva già pensato a farmi vivere l’esperienza molto prima. Succedeva, quasi ogni anno, nei cortili e sulle strade intorno a casa mia, ad Alessandria. Eravamo bambini, e Ivana era quella che si prendeva la briga di organizzare queste vere e proprie mini Olimpiadi, a cui partecipavano tutti i ragazzi del posto. Ecco, di quelle ne ho fatte almeno tre o quattro, prima di Londra… Lo sport è entrato presto nella mia vita. E ho avuto molte infatuazioni, e per fortuna una famiglia che mi ha sempre assecondata nei miei desideri. Mio padre, Carlo, aveva fatto atletica da ragazzo, nel gruppo sportivo scolastico. Aveva provato le campestri, ma non è che ci si trovasse troppo bene, perché pur essendo tutt’altro che grasso ha sempre avuto una struttura pesante. E dunque nell’atletica decise di virare sul salto in lungo. Ma la sua passione era lo sci. Se papà era uno sportivo, non posso dire altrettanto di mamma Marina. Lei non ha mai praticato, ma la pensava esattamente 22


Le olimpiadi in cortile

come lui. Forse anche con maggiore convinzione, perché è cresciuta in una famiglia non benestante, è rimasta orfana di mio nonno a dieci anni, e insomma non ha avuto troppe possibilità. Non ha potuto fare molte cose, da bambina e da ragazza, e ha voluto che ai suoi figli non mancassero mai le opportunità. Insieme hanno tirato su una bella famiglia, numerosa. Quattro figli: Ilaria, la più grande, nata nel 1969. E poi Ivana, quella delle mini Olimpiadi, che è del 1972, io che sono nata nel 1976 e infine Jacopo, che ha soltanto un anno meno di me. Io e lui ci sentiamo quasi “gemelli”: tra di noi ci sono dieci mesi di differenza, abbiamo sempre fatto tutto insieme, scuola, vacanze, almeno finché non abbiamo avuto una dozzina d’anni. Papà e mamma ci hanno sempre spronati, non soltanto nello sport. Per esempio, hanno fatto in modo che ognuno di noi suonasse uno strumento. Ne poteva uscire un bel complesso, se solo papà avesse avuto un suo progetto, e strategie di mercato come il padre di Michael Jackson e dei suoi fratelli. Non è stato così, per fortuna. Ma tutti noi abbiamo fatto il Conservatorio, a partire dalle medie, e Ilaria è andata addirittura fino in fondo. Lei suona pianoforte e violoncello, anche io ho fatto la stessa trafila e suonato gli stessi strumenti, mentre Ivana ha iniziato con violino e chitarra, per poi passare anche al sassofono. E Iacopo si è dilettato un po’ con la batteria. Quanto allo sport, il primo è stato per tutti il nuoto. I nostri genitori volevano assolutamente che lo imparassimo, anche per una questione di sicurezza. Io poi ho avuto un amore breve per la danza, e uno molto più intenso per la ginnastica artistica, dove me la cavavo bene. Qualunque disciplina volessi affrontare, i miei c’erano sempre. Disponibili, pronti ad assecondarmi. Mai obbligata a fare qualcosa, a parte forse il nuoto per i motivi che dicevo, mai nemmeno ostacolata. Alla corsa sono arrivata intorno ai quindici, sedici anni. Prima c’erano state le famose Olimpiadi del cortile, quelle organizzate 23


Sul filo di lana

Valeria fa “gli” olimpiadi

da Ivana. Io a podio ci andavo spesso, qualunque fosse la gara mi battevo per le prime posizioni. L’avversario con cui me la giocavo più spesso era Paolo, il ragazzino che abitava nell’appartamento al piano di sotto. Il podio era spartano, tre cassette da frutta rovesciate coi numeri da uno a tre scritti sopra. Erano gare agguerrite, ci si divertiva. Le prime esperienze vere sono arrivate con la scuola e, come per tanti ragazzi della mia generazione, con i mitici Giochi della Gioventù. Io andavo a correre senza un briciolo di allenamento, e mi divertivo soprattutto a fare le campestri. Ho iniziato presto anche a vincerne, e ricordo che tornavo a casa e papà e mamma erano soddisfatti, mi facevano i complimenti, anche se a vedermi in quegli anni non sono mai venuti. Non per disinteresse: avevano il loro lavoro da portare avanti, non era semplice. D’altra parte, la tradizione è continuata quando ho iniziato a correre… da adulta. Non ricordo di gare a cui siano venuti a vedermi, nelle ore della corsa la mia famiglia diventava quella di Beatrice Brossa, la mia allenatrice, che partiva alla volta delle gare con tutta la famiglia, con il camper, e mi faceva salire con loro. Però poi i miei genitori non hanno voluto mancare in quelle che sono state, per diversi motivi, “grandi occasioni” della mia vita da corsa. Per esempio a Piacenza, quando ho fatto la mia seconda maratona nel 2003, la prima preparata con Bea e chiusa in 2:48. E naturalmente me li sono portati a Londra, quando si è trattato di correre la mia prima Olimpiade… vera. E sono stati anche a Zurigo, agli Europei, questa estate. Insomma, sono orgogliosi di questa mia nuova carriera, anche se sono fatti così, cercano sempre di non prevaricare, non vogliono “invadere” quello che considerano il mio mondo. La corsa mi è piaciuta da subito, è diventata un momento importante della mia vita. Capivo di esserci portata, perché stare sempre tra le prime nelle gare dei Giochi della Gioventù, praticamente senza alcun tipo di allenamento specifico, doveva pur 24


Le olimpiadi in cortile

significare qualcosa. Ma poi nel 1995 ho iniziato l’Università, e l’idea di darmi all’agonismo, se mai era passata per la testa, è tornata subito in cantna. Per cinque anni, fino al 2000, ho pensato soprattutto allo studio, tra l’altro muovendomi parecchio. Ho studiato un anno in Francia, poi mi sono trasferita per un annetto a Torino, e in quel periodo non ho mai smesso di correre, ma uscivo tre o quattro volte a settimana per fare una quarantina di minuti, un’ora quando proprio esageravo. Gareggiavo poco, giusto ogni tanto alle corse su strada domenicali. Il mio percorso universitario l’ho terminato nel 2001, quando mi sono laureata in lingue e letteratura moderne all’Università di Torino. Intanto, avevo ritrovato Manlio. Ci conoscevamo da quando eravamo bambini, lui era amico fraterno di mio cugino e ci eravamo anche frequentati, un po’ di sfuggita, prima che i nostri percorsi di studio ci portassero fuori da Alessandria. Una sera del ’98 ci siamo ritrovati a una cena organizzata da amici comuni dell’ambiente dell’atletica, tra gli altri anche da mia sorella Ivana, e da allora praticamente non ci siamo più lasciati. Da ragazzo lui era stato uno specialista dei 400 ostacoli, e non aveva mai dimenticato quella passione. Con lui ho preso a frequentare il campo d’atletica, e un poco alla volta mi sono fatta prendere dall’entusiasmo. Fino al punto in cui ho deciso di darmi un obiettivo “importante”. Ho deciso: volevo correre una maratona. Avessi saputo dove mi avrebbe portata, quella decisione… In quel momento, l’unica sfida era con me stessa, come succede spesso a chi decide all’improvviso di entrare nel magico mondo dei 42 chilometri. Volevo semplicemente provare quell’esperienza, per poter dire “ce l’ho fatta, sono arrivata fino in fondo”. Lo ritenevo un bell’esercizio spirituale, un modo per scavare nel profondo di me stessa. Così, mi sono iscritta alla Turin Marathon del 2000, e mi sono preparata all’appuntamento correndo una decina di chilometri al 25


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Valeria fa “gli” olimpiadi

giorno, niente di più. Il giorno fatidico della gara ero bella carica, piena di entusiasmo e per niente in ansia, perché non ero lì per pensare al cronometro o alla prestazione, volevo solo vedere la linea del traguardo. La sentivo quasi come una scampagnata domenicale, perché a Torino mi avevano accompagnata Manlio, mia sorella Ivana e il suo fidanzato, che oggi poi è suo marito. Insomma, una domenica in famiglia… A Torino ho corso senza patemi, e sono arrivata in fondo in 3:32, il mio primo personale sulla distanza. Mi sembrava un grande risultato, ed in effetti lo era, se penso a come mi ero preparata, senza lavori specifici né grande tempo da dedicare all’allenamento. Ero proprio soddisfatta, appagata. Per me la “performance” arrivava lì, non pensavo certo a grandi miglioramenti. Sì, magari qualche volta mi sarò anche detta quanto sarebbe stato bello entrare in un gruppo sportivo, fare le cose sul serio, ma né più né meno come quando a cinque anni sogni di andare alle Olimpiadi perché le hai viste alla televisione. Sogni, nient’altro che sogni. La corsa, anche dopo quel debutto in maratona, è rimasta nella mia vita esattamente come prima: qualcosa di cui non avrei mai voluto fare a meno, ma allo stesso tempo un’appendice della mia vita “normale”. Corollario degli anni di studio, poi di lavoro. Mai pensato di farne un mestiere, nemmeno quando ho iniziato a mettere più impegno negli allenamenti. Il che è successo quando nella mia vita è entrata Beatrice Brossa. La mia allenatrice, da sempre. Meglio: da quando ho iniziato a spenderci davvero più tempo, in questa passione. L’ho conosciuta nel 2002, e solo da allora ho iniziato a fare le cose con un po’ di convinzione, con un minimo di preparazione vera. Fin lì ero stata semplicemente un’appassionata, mai mi ero sentita veramente un’atleta, nel senso di chi passa buona parte del suo tempo quotidiano a sviluppare il talento sportivo. E anche dopo, almeno per i primi anni, mi è rimasto quel fondo di discontinuità 26


Le olimpiadi in cortile

per cui non facevo mai le cose al cento per cento, forse anche per evitare che quel divertimento diventasse un’ossessione. Non potevo e non volevo permettermelo. Avevo altre priorità. C’è anche da dire che ho iniziato a fare le cose con un certo criterio relativamente tardi. Avevo già ventisei anni, quando ho conosciuto Bea. A quell’età, chi ha un talento da mostrare di solito lo ha già fatto. Diciamo che ero certa che con Beatrice, e con un po’ di convinzione in più, avrei potuto dare una svolta alla mia vita da runner. Abbastanza per essere catalogata alla voce “amatore evoluto”. Non avevo ambizioni più elevate. E forse è proprio per questo che continuo a stupirmi quando arriva un risultato che nemmeno io mi sarei mai aspettata. All’inizio, qualcuno storceva il naso. Ricordo che dopo la Roma-Ostia di febbraio 2012, quando abbassai il personale a 1:07:46, qualcuno criticò quelle mie dichiarazioni del dopogara. Dissero che giocavo a meravigliarmi troppo. Anche in quel caso cercai di spiegare a tutti che ero davvero presa in contropiede, io per prima, dalla facilità dei miei miglioramenti. Sono fatta così, le parole mi escono spontanee e dico quello che penso. Uscivo da un inverno bruttino, tanto che i ritmi che ho tenuto in gara quel giorno, fin lì li avevo fatti solo nelle ripetute. Come potevo immaginare che avrei migliorato il personale di quasi due minuti? Tant’è, dal 2002 ad oggi ho fatto atletica con costanza. Ma né io né Beatrice avremmo mai pensato di trovarci, oggi, in questa situazione, e a questi livelli. Una situazione che continuo ad affrontare con tutta la naturalezza che ho. Ma che certamente mi ha cambiato prospettive, e di conseguenza la vita.

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