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Il Veneto è la mia Patria. Dò alla parola Patria lo stesso significato che si dava durante la prima guerra mondiale all’Italia: ma l’Italia non è la mia Patria e sono profondamente convinto che la parola e il sentimento di Patria è rappresentato fisicamente dalla terra, dalla regione dove uno è nato.
VENETO BARBARO DI MUSCHI E NEBBIE
Goffredo Parise Lorenzo Capellini
I luoghi dei sentimenti
I luoghi dei sentimenti
Goffredo Parise
VENETO BARBARO DI MUSCHI E NEBBIE con le fotografie di
Lorenzo Capellini
Goffredo Parise
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MINERVA
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i.i
Nelle nostre scorribande per il Veneto, chiesi a Parise di mostrarmi i luoghi che più amava della sua “Patria” per fotografarli. Questo è il suo Veneto. È con emozione che ricordo i tanti anni di affettuosa amicizia con una delle persone più care che ho incontrato nella mia vita. Lorenzo Capellini
Goffredo Parise Lorenzo Capellini
VENETO BARBARO DI MUSCHI E NEBBIE
MINERVA
Veneto barbaro di muschi e nebbie Goffredo Parise e Lorenzo Capellini Collana editoriale: I luoghi dei sentimenti diretta da Lorenzo Capellini Testi di: © Goffredo Parise © Raffaele La Capria © Alberto Moravia © Guido Vergani © Giosetta Fioroni © Giovanna Comisso Fotografie di: © Lorenzo Capellini www.lorenzocapellini.it lorenzo.capellini@tin.it info@lorenzocapellini.it In copertina: Goffredo Parise a Cortina d’Ampezzo, © Lorenzo Capellini
Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Impaginazione: Minerva
Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl - Bologna ISBN: 978-88-7381-862-5
edizioni MINERVA Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com
Goffredo Parise Lorenzo Capellini
VENETO BARBARO DI MUSCHI E NEBBIE I racconti di Goffredo Parise Il mio Veneto Il Ghetto di Venezia Accadde a Cortina Veneto barbaro di muschi e nebbie
Fotografie di Lorenzo Capellini Testimonianze di Raffaele La Capria, Alberto Moravia, Guido Vergani e Giovanni Comisso Un ricordo di Giosetta Fioroni
MINERVA
Goffredo Parise nella casa di Ponte di Piave
IL MIO VENETO di Goffredo Parise
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l Veneto è la mia Patria. Dò alla parola Patria lo stesso significato che si dava durante la prima guerra mondiale all’Italia: ma l’Italia non è la mia Patria e sono profondamente convinto che la parola e il sentimento di Patria è rappresentato fisicamente dalla terra, dalla regione dove uno è nato. Sebbene esista una Repubblica Italiana (?) questa espressione astratta non è la mia Patria e non lo è per nessuno degli italiani che sono invece veneti, toscani, liguri e via dicendo. L’Unità d’Italia non c’è mai stata nonostante la «Patria» del Risorgimento, della prima guerra mondiale, della seconda e della costituzione repubblicana in cui viviamo. Sono nato a Vicenza, una città di pietra grigiastra dalle colonne spropositate, che in molti punti sembra finta, fatta di magnifiche «quinte» teatrali che si riassumono infatti meravigliosamente nel teatro Olimpico di Andrea Palladio, che però è di legno ed è un teatro. Anche Vicenza lo è, e non è mai stata per me una città ma appunto un teatro senza nome, in tutte le sue vie, grandi e piccole, grigie, umide e leggermente muschiose. In questo teatro ho ambientato cinque miei romanzi, senza mai far riconoscere direttamente la città perché appunto la vedevo e la ricordo come un teatro in cui si può cambiare commedia ma non scenografia. È fatta di scorci, di angoli, di improvvise colonne bianco-grigie, lievemente funerarie e grosse come alberi tropicali, non è gentile, graziosa e fantastica come Venezia ma sempre fitta e alle volte solenne appunto come le foreste tropicali. Il resto, la parte per così dire umile, è invece campagnola. Sono nato, cresciuto e vissuto a Vicenza fino ai diciotto anni e poi a Venezia e poi a Milano, e poi a Roma e poi nel mondo. Mi è bastato poco per eleggere nel mio animo Venezia a capitale del Veneto, ed è di quella città che mi sento figlio, ma non interamente. A Venezia l’acqua si accosta alla terra in lagune e se dovessi dire quale è veramente il centro della mia terra direi che è quella parte di terraferma che non è né terra, né acque ed è tutte e due insieme e sente sempre comunque il sapore della laguna e vede il colore del cielo che non è né soltanto di terra (come intorno a Ferrara) né soltanto di mare come a Capri. Sono i colori del cielo di Francesco Guardi e di Tiepolo.
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Lo notammo insieme a Giovanni Comisso, un giorno, sui ghiaioni del Piave ed egli mi disse: «Queste sono le nuvole del nostro cielo». Tuttavia ho girato il mondo fino a quando mi ha sorretto la gioventù e lo spirito di curiosità e di ansia esistenziale che, oltre a Comisso, doveva avere certamente per primo Marco Polo. Con lo stesso candore ed incoscienza noi veneti abbiamo girato il mondo: ma la nostra Patria, quella per cui se ci fosse da combattere combatteremmo è soltanto il Veneto. Con il ricordo dei suoi odori di polenta che uscivano un tempo dai fumaioli delle case durante l’inverno uggioso, nebbioso e nordico, gli odori di paglia, di letame, di grano e di fieno durante l’estate. Quando vedo scritto all’imbocco dei ponti sul Piave: «Fiume Sacro della Patria» mi commuovo ma non perché penso all’Italia bensì perché penso al Veneto. Fuori del Veneto per me è terra straniera e forse ostile. Non ho mai combattuto come altri possono aver fatto questo sentimento perché è veramente il più forte, né amo particolarmente i veneti per il solo fatto di essere veneti. Ci sono i buoni e i cattivi, per lo più sono piuttosto ignoranti, non mi sono particolarmente simpatici, trovo più simpatici altri di altre regioni, ho pochissimi amici veneti. Ma il Veneto resta la mia Patria perché vi sono nato: semplicemente. Il mio sentimento è lo stesso di un contadino che è sempre rimasto lì e ha la sua terra e la sua falce preferita che gode ad arrotare cavandone suono brillante. So distinguere le campane del Veneto da ogni altro suono di campane, specialmente quelle della Basilica di Monte Berico a Vicenza, non le ho mai dimenticate e se ne risento il suono nell’immaginazione mi prende la stessa allegria del mattino di domenica quando, da ragazzo, mi svegliavo al loro suono. Non mi sono mai interessato di politica, né nazionale (?) né internazionale perché è politica che riguarda solo marginalmente la mia Patria. E tuttavia detto tutto questo non sono più veneto da molti anni e se la mia regione ha ormai spazi internazionali il mio sentimento è piccolissimo e fortissimo ed è tutto racchiuso nel Veneto specie sulle immense ghiaie infuocate del Piave durante l’estate e l’azzurro torrente che vi scorre in mille rivoli e pozze gelide. Del Veneto amo Venezia, Treviso, e Cortina d’Ampezzo, i luoghi da me più frequentati. Ritengo che le Tofane e le grandi e scintillanti distese di neve su tutta la Conca Ampezzana ma anche al di là verso la provincia di Bolzano, quella cresta a punta che si chiama monte Lagazuoi, in vetta al passo del Falzarego siano la mia Patria. Che quella qualità di neve, invernale o primaverile su cui gli sci scricchiolano appena durante l’inverno e scivolano durante la primavera, siano più di ogni altro elemento quello distintivo della mia Patria.
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La neve della mia Patria è sempre stata l’elemento primo della mia vita non soltanto sportiva, anzi lo sport non c’entra niente. L’ho baciata, mangiata, leccata, carezzata molte volte. Mi sono immerso in quella neve un giorno o due dopo le grandi nevicate come in un bagno di fresca vita con gli occhi rivolti al cielo immensamente azzurro e al sole, puntino bianco dai raggi accecanti. Ho sorpreso camosci nella loro intimità primaverile, sfiorato caprioli, agguantato a tuffo una pernice bianca e solo per poco mi è mancato un gallo forcello, rotolando con loro lungo i bianchi pendii. Ho guardato da lontano stando sempre sugli sci, i piccoli paesi che si vedono dalle alte vette nevose, con i loro campanili già austriaci o russi e piano piano scendendo nel silenzio li ho raggiunti. Quasi sempre solo o in compagnia di amici che provavano il mio stesso sentimento. Ho infine guardato la neve scendere quando le saltava il ticchio di scendere, lenta, sottile e fatata dalle finestre di una casetta ben riscaldata, per ore e ore senza accorgermene, tanta smania avevo di lei, sempre e sempre. Venezia, il sogno di tutti i sogni, l’ho conosciuta da solo senza guide, d’inverno girando per le calli e perdendomi in continuazione e scoprendo la sua bellezza stranamente lagunare e non marina (il mare sta nel sud dell’Italia oppure a nord, in Liguria) che odora di alghe e anche un poco di merda. Qua e là qualche fritto di pesce. Ho infinitamente amato (quasi come l’odore della neve nel vento) l’odore dei pontili d’estate, che sta tra il forte salso, lo iodio e quello della pelle al sole appena uscita dall’acqua. Le lunghe passeggiate sulla spiaggia mai deserta del Lido dove si è tutti fratelli, sorelle, cugini, zii, nonni, dominata dai due grandi alberghi des Bains ed Excelsior che si ergono come una lussuosa clinica il primo e come immensa Moschea aguzza di minareti in un miraggio da deserto il secondo. Ho amato con brividi di piacere le fresche stradine sepolte di verde del Lido, con cespugli popolati di lucciole, canaletti e poi improvviso il mare Adriatico con la sua luna calma e rossa. Della laguna e delle sue isole ho già accennato che piano piano, a lembi, a strappi, si avvicinano alla terraferma e da dove si vedono sempre incombere le montagne azzurre o coperte di neve. Ed ecco arrivare tra un lembo e l’altro di barena Punta Sabbioni e Jesolo, così pazzamente colorata d’estate e così deserta come il Sahara d’inverno percorsa da venti gelidi là dove migliaia di tende e roulotte stavano pochi mesi prima, per il rincorrersi sempre troppo rapido delle stagioni cosi diverse una dall’altra. Ecco dunque la terra che si innesta quasi immediatamente nella Marca trevigiana attraverso le campagne di bonifica, altro mare di granoturco solcato dal fiume Piave che si fa largo e piatto alla foce, fiancheggiato da vigneti. Ed ecco,
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andando verso Treviso, il Piave rifarsi quello che è, torrente, con le sue isole tra le ghiaie, le grandi bilance da pesca che lo coprono da una riva all’altra e poi farsi ruscello, ragnatela di ruscelli dal rumore leggero di sorgente contro i sassi delle infinite prode. Treviso è una città contadina, esistono ancora sellai e un mercato pieno di oggetti fatti a mano per il lavoro della terra o della casa di campagna; coltelli, falci, falcetti, trappole per i topi, canestri, seggiole di paglia, graticole, spiedi e coltellini con il manico di legno, dritti e ricurvi e tutto è ricoperto da quell’odore di grasso e di consorzio agrario, di semi e bulbi, che ognuno (spero) conosce, salvo gli abitanti delle grandi città. Anche tutti questi oggetti e odori sono la mia Patria. Non parlerò del dialetto che come scrittore non amo perché soltanto in questo penso che la mia patria linguistica è l’Italiano, che può anche essere una traduzione psichica del dialetto stesso ma non amo i dialetti come lingua letteraria: i dialetti (tutti) sono fatti per essere parlati e nel luogo esatto dove sono nati e sviluppati, in quei piccoli luoghi perché il dialetto cambia da un chilometro all’altro. Eppure non l’ho scordato e sempre quando posso parlo con infinito piacere il dialetto perché è la lingua della mia Patria. Piano piano sparirà e la sua conservazione, la più poetica per quanto riguarda la mia Patria, si troverà un giorno nei microfilm delle poesie di Andrea Zanzotto che nel «Galateo in bosco», l’ultimo suo libro, ha raggiunto altissimi gradi di musica perpendicolare, come una sonda conficcata a Pieve di Soligo dai sottoboschi marcescenti di castagni, con i suoi ragni e bisce e vermiciattoli e suoni a mezzo tra vegetali e animali, talpacei, dentro la nostra terra fino al centro del globo a raggiungere fuochi o rose danteschi. Ma il centro vero e solo e unico della mia Patria lo dirò ora: è una casetta, una specie di casa delle fate, minuscola e vecchia, con tutto vecchio dentro ma efficiente e caldo a cominciare dal focolare, che sta proprio sui bordi del Piave e spesso ne viene sommersa. A mezzo metro da una finestrella che ho fatto aprire verso nord per guardare le montagne e la neve, in maggio arriva l’upupa a trafficare per il suo nido, rizzando la sua crestina vanitosa e giustamente «ilare» come dice il poeta. A pochi metri, su un altro salice picchia il picchio, con quel movimento del becco come la piccozza del minatore o dello scalatore di vette. Le rane cantano dentro piccoli stagni e ruscelli che si gettano nel Piave, le lepri, all’alba giocano all’amore in coppie, in piedi, una rivolta verso l’altra come danzando,
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un alveare naturale si è formato tra i due vetri di una finestrella e da un giorno all’altro, un grosso gufo è sceso dal camino in una frana di fuliggine odorosa, le lucciole girano e il sapore del mare quando è scirocco giunge ad avvertire che la partenza, se voglio, può essere imminente oppure no, a seconda dell’estro. La mia Patria è Ponte di Piave, un paesetto vicino un chilometro, con una fontana di acqua ferrugginosa, ma sto qui, abito a Roma, all’estero. Perché? Perché così è la vita.
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VICENZA
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“Ci sono molte case antiche ai lati del canale, nascoste nei vicoli senza selciato cosparsi di pozzanghere piene di ranocchi accanto alla chiesa trasformata in cinematografo, dalla quale non si sa, per il poco tempo che è passato dal cambiamento e per le voci che resistono al tempo, se escano dialoghi allegriâ€?.
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“Vicenza, città dove sono nato e dove camminavo sui tetti, anche sul maggior tetto della Basilica palladiana e da lassù vedevo la mia città e il fiume Retrone da me tanto scritto in quasi tutti i miei libri”.
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“Questa è una sera d’inverno. Prima che il buio e il gelo arrivino nei cortili a tramontana per tutta la notte, Giorgio, Abramo e gli altri ragazzi accendono fuochi con foglie fradice, rami morti e carta raccattata nelle immondizie. Allora il fumo pieno di umori estivi e di erbe aromatiche cammina dentro i cunicoli delle fogne dove il canale s’insinua a trasportare erbe, gatti morti, piccoli involti dal contenuto roseo e informe, spellato dall’acqua”.
A Vicenza Parise ha ambientato il suo primo romanzo Il ragazzo morto e le comete 26
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Vicenza. Villa Valmarana Ai Nani
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Giustino Valmarana, con i suoi racconti, ispirò Parise per il suo romanzo Il prete bello
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IL COLLE DEI SETTE VENTI di Goffredo Parise
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ul «Colle dei sette venti» vive ancora, o sopravvive, o forse è sepolta, non lo so, tutta la mia infanzia. Da quando avevo tre anni, mio nonno socialista vestito di nero con la cravatta alla Lavallière, mi portava per mano fin lassù e allora lo credevo un’alta, irraggiungibile montagna. Vi si raccoglievano viole in primavera (tutto lo sperone è gonfio di viole e fragole), erba menta e basilico per la nonna, gramigna per i decotti che forse un poco valsero ad alleviare la malattia che fece morire mio nonno. Più tardi, col crescere, il colle mi parve una montagna raggiungibile, più tardi ancora un colle alto nel mondo; sino a poco fa una bella ma faticosa passeggiata. Andavo scoprendovi di anno in anno minuscole forre dove ripararsi ai brevi cicloni domenicali, d’estate, quando anche il vento e la pioggia, poi che se ne sono andati, rivelano più breve e intensa all’animo la malinconia delle campane al crepuscolo. Lontani e ancora maestosi mi parevano i conventi delle monache e dei frati che sorgono qua e là su quei colli, scorgevo lunghe file di novizie quasi confuse nelle sottili e basse nebbie di autunno o gruppi di frati neri esposti ai temporali, il capo riparato nei cappucci, o file sottili di seminaristi simili a formiche, insinuarsi lenti nei colli, scomparire e ricomparire poi in ordine serpeggiante e minuzioso a raccogliere da terra frutti caduti, erbe, bacche innocue o radici di dulcamara da tenere in serbo per le prime ore del crepuscolo, quando, prima di infilarsi nelle camerate, anch’essi non sanno più cosa fare. Vidi insomma, di tempo in tempo molte più cose ancora che adesso non sto a raccontare, e fu per questo che quando morì la contessa padrona di quel colle e la terra fu posta in vendita, la comprai subito per costruirvi la mia casa nuova. Ultimati i lavori di scavo subito si iniziò la prima muratura, che era stata destinata in pietra di Vicenza, a blocchi teneri e squadrati rozzamente da uno scalpellino. Fu questo un lavoro che mi diede molta soddisfazione, finalmente vedevo alzarsi i muri della mia casa, solidi di quaranta centimetri di spessore, compatti, pietra contro pietra. Da questo lavoro mi nacque l’idea di far sorgere insieme a quei blocchi di pietra qualcosa di duraturo, che insieme a quella pietra parlasse delle mie abitudini, o dei miei gusti o della mia natura quando fossi morto. Avevo pensato inizialmente ad iscrizioni romane se ne avessi trovate che mi piacessero, poi a quelle decoraziori in pietra, specie di
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medaglioni dal gusto orientale, che in più parti decorano le facciate delle case a Venezia. Un giorno vi stavo pensando e giravo a caso per la città: entrato in un cortile dove da bambino giocavo vi scorsi nel mezzo alcuni pezzi di lapide semisepolte dal terriccio. Vi giocavano dei ragazzetti intorno, essi avevano appoggiato alle lapidi alcune latte e con dei sassi tentavano di centrarle. Era quello un cortile di un vecchio convento, da molti anni il convento era stato adibito a casa di abitazione dopo che Napoleone aveva provveduto a sconsacrarlo. Sapevo che intorno a quel convento doveva esistere un cimitero e subito collegai quel pensiero alla presenza delle lapidi. Insieme ai ragazzini, con un piccone cercai di porle meglio in luce per vederle, nel caso le avrei divelte. Con mia grande sorpresa scoprii così che quelle lapidi erano scritte in ebraico, evidentemente il residuo di un minuscolo cimitero israelitico molto antico, che doveva sorgere intorno. Era quella, sempre stata una zona di ghetto, costeggiante il canale, sede di banchi di prestito, di traffici commerciali con le barche che dall’Oriente, attraverso Venezia e i canali, giungevano in terraferma. Più grande ancora e quasi commovente fu la mia scoperta, quando, fattami tradurre l’iscrizione da un mio amico ebreo venni a scoprire che il nome del defunto a cui apparteneva quella lapide era lo stesso nome di mia nonna. Sapevo che i miei antenati erano ebrei ma grandissima fu la sorpresa e la coincidenza del nome su quella lapide. Con gran lavoro di piccone aiutato dai ragazzetti riuscii con difficoltà a sradicarle dal terreno dove eran state sepolte per così gran numero di anni e caricatele sulla macchina subito le portai alla mia casa nuova, perché le cementassero prima della fine dei muri. Arrivai appena in tempo ed esse, una vicina all’altra, guardano ora il tramonto dalla parte del Garda. Comisso mi scriveva cartoline così concepite: «Non farti una casa, vai ad abitare in alberghi e pensioni, ce ne sono di ottimi e a buon pranzo, ma non farti una casa per l’amor di Dio». Poi venne a vederla, mi portò una vite augurale che volle piantare egli stesso accanto alla finestra della mia camera con una specie di rito che stupì e turbò gli operai e l’impresario: comprese ogni cosa, anche la mania di quei muri che m’aveva preso e non mi abbandonava più, solo mi ammonì a stare attento e a provvedere di ogni cosa contro la malinconia e la solitudine. Il tetto della mia casa ora scintillava sui Berici simile ad un aereo abbattuto o ad un grande uccello sconosciuto giunto dalla Siberia e posatosi per riposare sul «Colle dei Sette Venti». Dalla pianura veneta seminata di ville e di parchi si poteva intravedere nel suo luccichio tra le acacie, dal fiume Bacchiglione dove andavo a fare i bagni, nuotando vedevo i suoi bagliori accecanti salire nel cielo come da un grande specchio.
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Con il grande successo editoriale de Il prete bello, Parise acquistò un terreno sul Monte Berico a Vicenza e costruÏ la sua prima casa
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