Il Salto del Gatto

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IL delSALTOGATTO

ESSERE FORTI PER ESSERE UTILI

Georges Hébert, 1875 - 1957

Voltò la testa come attirato da un richiamo. Frenò di colpo, fece perno a terra con il piede e le scoprì.

Non le avrebbe viste, se fosse arrivato soltanto un quarto d’ora dopo, ne era sicuro. Tommaso le scruta la bocca spalancata e un brivido lungo la schiena. Mai aveva pensato di poter assistere a una cosa simile. Non nella realtà. E di certo non lì, nella sua piccola città di provincia.

Nella foschia del tramonto, quattro sagome si rin correvano scivolando lungo le ringhiere delle rampe di scale; giunti davanti a un muro, si aggrapparono al la cima e ci saltarono sopra come molle, per camminarci in bilico e poi lanciarsi di sotto, atterrando con una capriola sulla spalla.

«Figo!»

Il sorriso di Tommaso esprimeva pura meraviglia. La rapidità e la leggerezza di quelle evoluzioni erano roba da PlayStation, da Uncharted 4, il videogioco che gli aveva regalato zio Sergio. Ma qui, nella zona indust riale, dove in sella alla bici stava ammirando le quat tro

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e foreste; c’era cemento, c’erano macchine parcheggia te, c’erano alberi spogli. Lui e loro, nessun’altra anima viva.

Se Tommaso non avesse dimenticato le chiavi di casa, forse il destino non gli avrebbe riservato, da quel giorno, una sorpresa dopo l’altra.

Era stato al campetto con Luca, Ricky, Nicho e Ale per la solita partitella di calcio. A Tommaso piace va il calcio, ma non era fanatico come i suoi amici che giocittà, e aspiravano a diventare calciatori professionisti. re qualche altro sport, ma non sapeva esattamente qua le. Un paio di anni prima, a scuola, era stata organizza ta una lezione di ginnastica artistica e Tommaso se l’era cavata piuttosto bene con i salti. Magro, non tr oppo aveva persino cercato di convincerlo a iscriversi al cor so. Sembrava deciso a farlo, poi i commenti ambigui e le risatine sprezzanti di Luca e degli altri gli avevano fatto cambiare idea, così aveva scelto di non pensa re a nient’altro che al calcio, senza grosse pretese. D’estate, quando organizzavano il torneo dei quartieri, lo chia mavano per giocare nella squadretta del San Felice che, per vincere una partita, aveva davvero bisogno di un miracolo.

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Quel pomeriggio di gennaio, la partitella al campet to era terminata in anticipo, poco prima del tramon to. La mamma di Ale gli aveva ricordato dal balcone la ve punizione se non fosse tornato nel giro di dieci minuti. A Tommaso e a Luca la scuola non importava molto, ad Ale solo un poco, perché era obbligato a studiare, invece a Ricky e Nicho sì, avevano la media dell’ot to. Stavano tutti e cinque in 3ª C, nella scuola second aria di primo grado “Don Milani”; avevano su per giù tredici anni e si conoscevano dalle elementari.aveva preso lo zaino che portava sempre con sé, rico perto di scritte e disegni, lo aveva appeso al manu brio della bici, lo aveva aperto e, prima di mettersi a pedalare, ci aveva frugato dentro in cerca delle ch iavi di casa. Non le aveva trovate. Aveva sperato che quello che temeva non fosse vero, ne aveva abbastanza di ramanzine. Aveva guardato una seconda volta. E sì, le aveva dimenticate. E per di più, a quell’ora, a cas a, non c’era nessuno.

Aveva afferrato il telefono: «Nonna, sono io, tutto ok…».

Le telefonate con la nonna iniziavano sempre così, altrimenti lei si agitava immaginando le peggiori tra ge die, dall’incidente al sequestro; e di motivi per preo c cuparsi, be’, la povera donna ne aveva avuti in pass ato. «Ecco, è che… Non ho le chiavi… Sì, lo so… Basta! Vengo a prenderle… Sì, adesso».

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Tommaso aveva salutato gli amici, si era sistemato cappuccio della tuta scostando il ciuffo castano ch iaro era saltato in sella alla bici. Era una mountain bike nera nimento sei mesi dopo che la vecchia bici da corsa gli era stata rubata. Tommaso era talmente disperato ch e aveva persino gettato delle accuse contro il fratel lo di Kiran, la sua migliore amica e vicina di casa, ma er a stato costretto a ricredersi. Quanti capricci per conv incere il padre a comprargliene una nuova, insistendo sui suoi accontentato? In aggiunta, per sicurezza, il padre aveva installato sotto il sellino un mini-geolocalizzatore c he monitorava ogni spostamento a diversi chilometri di distanza tramite un’applicazione del telefono. A prov a di ladro.

Giorgio Buschini era un vero appassionato di sistemi di sicurezza e lavorava per la SecurCom, un istitut o di vigilanza privata. Di giorno piantonava banche o super mercati, di notte rondava nella zona industriale su una Punto bianca inconfondibile, con una striscia azzur ra sulle portiere e il logo in bella mostra. In vent’anni ave va recuperato alcuni portafogli gettati nei cestini, con trollato borse sospette e inseguito inutilmente un paio di ladri. Ma nient’altro, non era riuscito neppure a tro grande passione, detestava quel lavoro di dodici or e

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giornaliere. E pensare che da ragazzo avrebbe volut o fare il detective!

Viveva solo, aveva una compagna e Tommaso anda circa, quando era certo di trovarlo a casa almeno l a sera. Un dialogo ridotto ai minimi termini.

Le chiavi di casa erano con la nonna al circolo ricre ativo Pertini, situato nel centro del quartiere San Grato, a due passi dalla zona industriale, dove nonna Gianna passava i pomeriggi come volontaria, gestendo il piccobili di burraco. Tommaso ci andava malvolentieri, n on gli piacevano quei nonnini arzilli che lo trattavan o da bambino.

Con i beat della trap nelle orecchie e le cause della Prima Guerra Mondiale che sobbalzavano nel cervello al ritmo sincopato della musica, ricordandogli la ve riRistoro di San Grato, un lungo viale di tigli che sc her mava la zona residenziale dal grigiore delle fabbriche. I viali alberati erano segni distintivi della città, un tr an quillo comune di circa quarantacinquemila abitanti, im -

Tommaso aveva pedalato a tutto spiano, imprimen do la sua forza sui pedali; aveva le abitazioni a d estra e le industrie a sinistra. Poi, con la coda dell’occhio si nistro, aveva colto un guizzo, a un centinaio di metr i, forse meno. Gli era bastato uno sguardo veloce per stringere d’istinto le mani sui freni e ancorare un piede

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a terra. Stop. La ruota posteriore aveva disegnato una sgommata sull’asfalto. Il tempo di abbassare il capp uc-

Lì, appoggiato al tronco di un tiglio, si mise ad ammirare le quattro sagome nere che scavalcavano un mur o con la stessa naturalezza di chi scende le scale. Il retra il reale e il virtuale. Sette lettere iridescenti rotea vano davanti ai suoi occhi color nocciola, dalla form a leggermente allungata: K, R, O, A, U, P, R. Un’imma gine improvvisa gli balenò nella mente, e apparve Nathan Drake, l’eroe di Uncharted, che sferzò l’aria con una po tente 45 Defender. Il rimbombo dello sparo scosse i pensieri di Tommaso, mettendo le sette lettere in or di ne: PARKOUR. Ora non aveva dubbi: non poteva essere altro che parkour. «Figo!» disse di nuovo fra sé, e arricciò il naso pu nteggiato di lentiggini. Non fece in tempo a farsi troppe domande e a cerca re le risposte, che i quattro presero a correre, uno die tro l’altro. E sparirono. «E adesso?»

Scosse la testa. Un solo secondo di ritardo e chissà pedalare più veloce che poteva, carico dell’adrenal inatava. Tommaso stava attraversando la strada, quando

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il clacson di un’auto lo fece sobbalzare. Aveva il bru t to vizio di andare in bici come se sulla strada ci fosse soltanto lui, una delle ragioni che facevano preoccupa re la nonna; inoltre, mancava un anno al patentino, e rischiava di giocarsi lo scooter promesso da zio Sergio . Nonostante il pericolo appena corso, Tommaso entrò, sano e salvo, in via dell’Industria, che terminava in un piazzale trascurato dove aveva visto le sagome allenar si tra le ringhiere, le rampe e i muretti, dietro al palazzo tutto specchi della Società Erogazione Acqua. Si guardò intorno. Nulla. Svoltò a destra e imboccò via de gli Artigiani, una distesa di piccoli fabbricati uno id entico all’altro. Nulla. Giunse a un incrocio e proseguì dritto. Quella zona non gli era nuova, riconobbe subito il con trassegno metallizzato bianco e blu che il padre av eva apposto durante un controllo di sicurezza sul cancello d’ingresso della fabbrica di profumi. «I cani pisciano sui muri per segnare il loro passaggio, mio padre segna il suo appiccicando adesivi»: così descriveva il lavor o del padre agli altri. Come una pedina sulla damiera, Tommaso zigzaga va tra una strada e l’altra, cercava e non trovava nulla; prendeva una via, usciva dal lato opposto e gli sembrava di girare in tondo. Le sagome nere non c’eran o più, sparite nel momento in cui avevano oltrepassat o il muro. Eppure era certo di averle viste, quelle o mbre non erano allucinazioni. nello scaldacollo e sotto il cappuccio; ormai la cur iosità di Tommaso si era persa nella nebbia, nel buio, nel

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gelo di quel tardo pomeriggio. Fu costretto a rinuncia re. Deluso, si avviò verso il circolo ricreativo distante poche pedalate; di fronte a sé il viadotto che coll egava la città alla tangenziale esterna. Attraversando lo s curo cunicolo che vi passava sotto, gettò un’occhiata veincomprensibili, faccioni inquietanti, geometrie miste riose e un enorme dinosauro munito di vela dorsale. Conosceva bene quel posto, l’estate precedente ci ave

«Di qui» sentì urlare all’uscita; guardò dietro e fr enò. Tre sagome nere, alte e slanciate, gli sfrecciarono rampe di cemento armato, appoggiarono una mano sul guardrail lanciando le gambe unite in orizzontale d alla parte della strada, e corsero via. Non un rumore, s olo una scia di mistero. «Ma non erano in quattro?» uno scherzo della nebbia; voleva seguirle e basta, s en za perdere minuti. Non poteva arrampicarsi sulle ram pe, tantomeno percorrerle con la bici; doveva per f orza tornare indietro. Subito. Girò di scatto la ruota anteriore e rientrò nel cunicolo sotto al viadotto, ma di fronte a lui si materializzarono due signore rubiconde, ca riche di borse della spesa. Impossibile controllare la bici: il manubrio roteò in un secondo, chiudendosi contro il telaio, e Tommaso rotolò a terra.

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Le due donne si portarono la mano alla bocca dallo spavento, mentre il ragazzo si strinse nelle spalle m u golando per la sofferenza.

“Inseguimento fallito, Buska!”

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TRICK UNO

Sospesi tra il cielo e i tetti di Parigi, gli Yamakasi, come cornicioni; non più prigionieri della città e ingabbiati nei suoi spazi, ma liberi.

Tommaso, traboccante di meraviglia, era incollato al pc e seguiva le acrobazie sorprendenti di un video su YouTube.

“Gli Yamakasi ?” si chiese.

Un gruppo di nove giovani francesi, di etnie diverse, fondò negli anni Ottanta la disciplina Art du Déplacement, l’Arte dello Spostamento.

Affamate di informazioni, le dita di Tommaso batte vano sulla tastiera le sette lettere che quel pomer iggio si erano piantate, con radici profonde, nella sua testa: P-A-R-K-O-U-R.

38.900.000 risultati su Google.

Gli occhi si muovevano al ticchettio dell’orologio – tic tac, sinistra, destra – una riga dopo l’altra.

Il loro obiettivo era quello di vivere i luoghi quotidiani con intelligenza e vivacità, adattandosi all’ambiente in maniera creativa.

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Quell’accumulo di parole non gli provocava il senso di vertigine e disgusto che si manifestava davanti a un libro di scuola. Da sempre, leggere pagine e pagine era per Tommaso una sofferenza, per questo studiava soltanto le parti sottolineate con l’evidenziatore giallo fosforescente, per velocizzare. Lui, però, amava le storie. Da piccolo non vedeva l’ora di ascoltare quelle che gli raccontava la mamma prima di dormire e, diventato più grande, si era appassionato ai fumetti, dove poteva trovare avventure esaltanti e poche parole. Eppure, sullo schermo del pc, quelle migliaia di pagine, sprizzanti di parkour a ogni riga, non lo annoiavano affatto, anzi ne era sempre più incuriosito. Tommaso non smetteva di leggere; si stupiva, sorrideva, storceva il naso, bofonchiava parole incomprensibili e immaginava chissà che cosa. Aveva il brutto difetto di distrarsi facilmente, ma anche il grande pregio di entusiasmarsi in quattro e quattr’otto.

Si servivano delle strutture urbane per il loro sviluppo

Georges Hébert: “Essere forti per essere utili”.

L’indice destro picchiettava la freccia in basso, facendo scorrere le pagine di Wikipedia, fonte primaria delle sue ricerche scolastiche e dei riassunti dei libri: semplice, chiara e veloce.

David Belle si separò dagli Yamakasi e diede vita al PK.

La sera prima gli era mancato il tempo di navigare in ria e, prima, si era sorbito le prediche di nonna Gianna e mamma Chiara per la caduta sotto il viadotto. Ormai era un’abitudine: ogni ferita sul suo corpo era stata battezzata

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da un predicozzo lungo non meno di un’ora. Questa volta era toccato al braccio e alla gamba sinistra.

«Tranqui. A diciotto anni coprirò le cicatrici con un tatuaggio» aveva ribattuto, riparandosi la testa dallo scappellotto della nonna.

Dopo il rimprovero e la medicazione, Tommaso si era accontentato di una googlata veloce al telefono – fremeva dalla curiosità – giusto per essere certo di poter associare le ombre che aveva visto nella zona industriale al parkour. Soltanto un paio di video, poi la madre gli aveva giorno dopo.

Chi se lo sarebbe aspettato di trovare un gruppo di tra ceur in una piccola e anonima città tutta-calcio? Tommaso, mai. All’intervallo, aveva accennato qualcosa a Luca del suo inutile inseguimento, ma l’amico aveva in mente il derby, Azzurra vs Ausiliatrice, e non ci aveva prestato attenzione.

in camera. Guardando le pareti, si intuiva subito quale fosse la sua passione: neppure un centimetro libero di un lampadario composto da bicchieri di plastica trasp a rente, restava scoperto. Tommaso voleva diventare un mera ne era la prova.

Cominciò intorno ai dieci anni, grazie a un laboratorio artistico della scuola primaria che si teneva ogni

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venerdì, dopo la mensa. Si sbizzarriva a sperimentare le tecniche più svariate, ma purtroppo doveva conservare le sue creazioni chiuse in una grande cartelletta nera, con una “B” da lui disegnata; infatti, nella casa in cui viveva con i genitori prima della loro separazione, il padre non gli aveva concesso di appenderle in camera perché avrebbero turbato la sicurezza del bianco asettico che impallidiva le stanze.

Nonna Gianna era di tutt’altra pasta rispetto al padre. due motivi: uno, per i capelli rosso incendio che portava due, per il suo carattere allegro, focoso, a volte soffocante. nitivamente nell’appartamento di nonna Gianna, non poté far altro che gioire. Passava lì undici mesi all’anno, dal lunedì al venerdì, dalle 14.00 alle 19.00, spesso anche il sabato e la domenica; la considerava casa sua, più dell’altra, di quel palazzo residenziale, nella camera che era stata dell’adorato zio Sergio, ora tutta per sé.

Mamma Chiara, assistente ospedaliera, lavorava da mattina a sera, e nonna Gianna si occupava di lui. Aveva tutta la libertà che desiderava.

Nella camera, tutta per sé, Tommaso cercava notizie sul parkour davanti a un portatile che detestava e usava pochis simo, ma che era l’unico strumento per saziare la sua vo glia di conoscere. Sul telefono le immagini e le parole erano troppo piccole per capire bene. Ogni volta che alzava lo

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giugno di due anni prima, quando trovò un pacco sul tavolo nel salotto della vecchia casa: il regalo per la promozione. «Abbiamo pensato che potrebbe esserti utile.» -

sava il pavimento.

Ma la gratitudine, che Tommaso aveva provato in quel momento, si infranse, al ritorno dalle vacanze, contro due valigie, una viola a pois bianchi e una rossa a pois blu, posate nell’appartamento di nonna Gianna, davanti alla porta della sua camera da letto.

«Nonna, ma… Sono della mamma?»

«Sì.»

Gianna aveva sospirato e spostato lo sguardo. Un atteggiamento insolito, lei guardava sempre il nipote negli occhi: «Chi non guarda dritto negli occhi ha qualcosa da nascondere» diceva.

«Perché viene qui? Papà parte?»

«Diciamo di sì.»

«Non me ne ha parlato.»

«Lo so.»

«Neanche mamma.»

«Lo so.»

«E allora?»

«E allora…»

«Nonna, guardami negli occhi. Cosa c’è?»

«Si… Separano.»

«Perché?»

«Non… Non… Vanno più d’accordo.»

«OK.»

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Tommaso era corso via, sbattendo la porta; la nonna aveva strillato dal pianerottolo: «OK cosa? Vieni qui». Gianna non sopportava le fughe, preferiva lo scontro diretto, il litigio, la furia, le lacrime. Era scappato. Lo avevano ritrovato tre ore più tardi seduto su una panchina della stazione.

“Non li ho mai visti litigare. Su che cosa non vann o più d’accordo? Stanno troppo poco insieme per colpa dei turni di papà, di notte e nel weekend? Mamma è forse stufa di vederlo sul divano, a far nulla, nei giorni liberi? Perché allora non gliel’ha detto subito? O forse lei l’ha beccato con un’altra? O forse la colpa è di mamma, che non capisce papà, che passa tutto il tempo al lavoro e poi è stanco? Non si amano più? Perché me l’hanno nascosto?”

Pensieri su pensieri, domande su domande che teneva soltanto per sé, neppure allo zio Sergio valeva la pena parlarne. L’adorato zio, fratello della mamma, di dieci anni più giovane, che aveva colmato il vuoto lasciato dai suoi genitori, non avrebbe potuto fare nulla; infatti, se ne era andato per realizzare il suo sogno: aprire un agriturismo in collina con due soci, lontano 300 chilometri da casa. Era partito quindici giorni dopo l’arrivo delle valigie a pois nella casa della nonna, lasciando solo Tommaso con un abbraccio indimenticabile, una camera tutta sua e la promessa di rivedersi presto.devoli.

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“Dopo gli esami, andrò ad aiutare zio Sergio e mi comprerò un 11 pollici. Sicuro. Questo lo venderò a qualcuno.

Tommaso continuava imperterrito a leggere. Le acrobazie dei traceur Uncharted 4 che aveva giocato con Sergio e allontanavano i brutti pensieri. Nathan Drake cercava il tesoro del pirata Avery, ora anche Tommaso aveva il proprio tesoro da conquistare; Nate si muoveva nell’isola di Libertalia, lui nella zona industriale. Niente di che, ma un luogo senz’altro misterioso ed entusiasmante per un ragazzino di tredici anni in una piccola città di provincia.

Raggiungere, a partire dal punto di inizio A, un punto di arrivo B nel modo più diretto e immediato possibile, evitando ostacoli e impedimenti lungo il percorso.

Gli occhi luccicavano di fronte a quelle parole, l’entusiasmo rizzava i peletti delle braccia. Le pareti della cano a lui c’erano la città, i tetti, i muri, le ringhiere da conquistare. E, all’orizzonte, quattro ragazzi sconosciuti che sembravano chiedergli: «Ce la fai?».

Correre, saltare, arrampicarsi, volteggiare per strada lungo un percorso metropolitano, cercando di toccare terra con i piedi il meno possibile e usando gli ostacoli come trampolini e catapulte per rilanciarsi oltre e in avanti…

Il campanello lo fece sobbalzare. Zoppicando in direzione del citofono, alzò gli occhi verso l’orologio sopra la porta: le 16.40. Mancavano dieci, quindici minuti all’ora in cui il giorno prima aveva visto i ragazzi del parkour in via

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dell’Industria. Era convinto che se fosse tornato in quel piazzale li avrebbe ritrovati, voleva accertarsi che quello passaggio casuale.

Tommaso sapeva bene chi stava suonando al citofono. Premette il pulsante per aprire il cancellino e il por tone, poi aspettò sulla soglia. Sentiva il suono inconf on dibile dei suoi passi – non prendeva mai l’ascensore –, attendeva la comparsa dei suoi capelli nerissimi raccolti in una treccia, gli occhi profondi di cui non scorgeva la pupilla e la pelle color caffelatte. Ma fremeva, doveva andare.

« Sat Sri Akal, Tomy» lo salutò, come sua abitudine.

« Sat Sri Akal, Kiran» rispose lui, celando nel frigorifero della sua timidezza il piacere di vederla e, allo stesso tempo, l’imbarazzo di doverla allontanare.

« Hey, what’s up, Tomy? Come stai? Mi fai entrare?»

«È che… Devo andare da Luca. Adesso.»

Parlava senza guardarla, voltandosi in cerca dell’orologio in cucina. la farai.»

«Kiran, scusami, non posso. Ci vediamo dopo, alle 17,30, promesso. Ora è tardi.»

«Ok, see you later!»

Kiran fece appena in tempo a salutarlo che Tommaso non meritava un gesto tanto scortese; per lui non era soltanto una compagna e neppure solo un’amica. Ma, purtroppo, era tardi davvero.

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lo scaldacollo e lo zaino in spalla. Non prese l’ascensore di proposito, ma scese le scale a intermittenza, appoggiato al corrimano, con la gamba che gli faceva ancora male e pensando che, al suo posto, quelle sagome nere sarebbero scivolate sulla ringhiera. Se non si fosse fatto male alla gamba, forse, ci avrebbe provato, ma forse anche no, ricordando quando da piccolo aveva voluto imitare Mary Poppins e si era quasi rotto il naso.

Inforcò la bicicletta; faceva fatica a pedalare, ma la curiosità era più forte del dolore. Percorse il viale dei tigli e industriale.

Eccoli, i quattro traceur saltavano come scimmie su un muretto, si spingevano con le mani per raggiungere il secondo e poi atterravano in piedi. Perfetti. «Wow!», Tommaso non seppe dire altro. Aveva ragione: quello era il luogo dei loro allenamenti.

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TRICK DUE

Le quattro sagome, una accanto all’altra, stavano sedute su una sedia invisibile: la schiena e la nuca contro il muro, le mani aperte sulle cosce e sotto il fondoschiena nulla. Restarono in quella posizione per pochi minuti, poi si sgranchirono le gambe, pugno contro pugno, e di nuovo seduti sull’aria. Per tre volte. Quindi si rimisero in piedi. camminare a quattro zampe, con il sedere basso, muovendo simultaneamente la mano e il piede opposti, avanti, indietro, come Spiderman in posizione d’attacco di fronte a Dottor Octopus. Erano sincronizzati e armoniosi, senza voce, in un’atmosfera surreale tra la penombra, la foschia e il rumore di fondo della città. Raggiunsero la ringhiera di un marciapiede e ci saltaronotro. Tenendosi per le spalle, piegarono le ginocchia nello stesso momento, su e giù, per una decina di volte. Non si fermavano mai tra un esercizio e l’altro: si piazzavano perpendicolari alla ringhiera e la superavano lateralmente con un balzo; poi di corsa verso un muretto, si arrampicavano staccandosi da terra e appoggiando un piede alla

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parete per riuscire ad afferrare la sbarra più in alto; quindi una camminata in bilico, uno sguardo verso il basso e, in-

Tommaso osservava e ascoltava estasiato i particolari di quei movimenti, che di certo non avrebbe colto se non si fosse avvicinato. Dal viale da cui li spiava, non c’era gusto. Il buio non impiegava molto a nasconderli e l’interesse per i quattro traceur era ormai talmente forte che si era deciso: era arrivato il momento di studiarli da vicino. Aveva notato un muro di cinta che costeggiava un grande capannone; qui trovò un angolo, da cui sporgeva una folta siepe che lo avrebbe protetto, consentendogli di appostarsi a non più di trenta metri di distanza. Dopo aver legato la bici al palo di un cartello stradale, aveva raggiunto il punto di osservazione.

Tommaso rimase affascinato alla vista di un tale spettacolo, che attirava il suo sguardo come una calamita. Già si immaginava in mezzo ai quattro traceur, bardato dalla testa ai piedi, a saltare da un muro all’altro, in incognito, tra la nebbia, il buio, il mistero.

Vedeva bene le loro acrobazie, ma i visi purtroppo restavano indistinti. Tutti e quattro portavano pantaloni lar ghi e scuri, cappuccio, giubbotto e volto coperto. E formavano due coppie di ombre identiche: la prima coppia, alta e atletica; la seconda, più bassa e snella. Mancava la spada in mano, mancavano i tipici gridolini giapponesi, e sarebbe stato facile scambiarli per dei ninja. Tommaso si chiedeva per quale motivo fossero camuffati da ladri in procinto di svaligiare la Banca Centrale. Ladri non lo erano, impossibile, e non avevano nulla a che vedere con i

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protagonisti di Uncharted. Si allenavano in un luogo appartato, ma non del tutto estraneo alla vista di possibili passanti. Come li aveva notati lui, chiunque se ne sarebbe potuto accorgere. Allora era una divisa? Un travestimento per fare gruppo? Forse un po’ eccessivo. Non stavano al gelo dell’Antartico. E perché la zona industriale? Al parco di San Vincenzo c’erano persino le rampe per lo skateboard, perfette per fare acrobazie di parkour. Una foto da quella distanza sarebbe stata perfetnalmente, gli avrebbe dato retta, smettendola per un attimo di pensare al calcio. Ma quando puntò lo smartphone e guardò sullo schermo, si accorse subi to che c’era poca luce per ottenere uno scatto chiaro, nitido. Grazie al cielo non gli saltò in mente di prova in più avrebbe attirato l’attenzione dei quattro traceur.ca. Restò a guardare, continuando a domandarsi chi f os l’altezza non valeva come parametro: due lo superav ano forse di venti centimetri o quasi, gli altri due di dieci o giù di lì.

Ogni volta che si parlava di altezza, Tommaso ne faceva una tragedia, sudava freddo. Era da sempre il più basso della classe, dei suoi amici, della squadra. Suo padre, che raggiungeva il metro e ottanta, lo rassicurava dicen-

Il tempo, però, passava e mentre gli altri guadagnavano manciate di centimetri a volontà, lui si alzava soltanto di

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un dito e niente più. Zio Sergio, invece, in modo più onesto, lo metteva di fronte al suo metro e sessantotto che non era mai cambiato dai sedici anni. A Tommaso mancavano tre anni e tre centimetri per raggiungerlo; il tempo c’era, e si augurava di crescere un po’ più di mamma e di nonna Gianna. Per fortuna, nessuno lo aveva mai preso in giro, tranne forse qualche battutina, ma essere amico di Luca&Co dava i suoi vantaggi.

Tommaso non conosceva nessuno delle classi terze che praticasse parkour, così dedusse che i quattro fossesi sarebbe stupito di trovarsi di fronte una ragazza, dal momento che ne aveva viste diverse nei video. Cercare notizie tra i ragazzi delle superiori, tuttavia, sarebbe stato complicato: in città c’erano ben sei scuole.

I due traceur più piccoli si fermarono a massaggiarsi le gambe, mentre gli altri due camminavano a quattro zampe in posizione dorsale a gambero, senza mostrare alcun segno di stanchezza. Gli allenamenti non erano certo roba da nulla, i dolori ai muscoli e alle articolazioni dovevano farsi sentire: va bene l’agilità di movimento, ma gli arti non erano di gomma. Si avvicinarono alla panchina e presero entrambi dallo zaino una bottiglietta d’acqua. Tommaso sentì dentro di sé una voce – somigliava a messaggio: “Buska, per bere si toglieranno quel coso dalla faccia. Avvicinati!”.

Il cervello di Tommaso si accese all’istante. Calcolando i possibili movimenti dei due, elaborò in un attimo una

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strategia per vedere le loro facce. A qualche metro da grande oleandro piantato nel mezzo. I lati del vasone raggiungevano in altezza la pancia di Tommaso, bastava uno scatto per raggiungerlo e acquattarcisi dietro.

“Buska: tre, due, uno.”

Uno scatto che avrebbe fatto pensare a un gatto zoppicante, la gamba sinistra gli faceva male.

“Obiettivo raggiunto. Ottimo!”. Della sua agilità, Tommaso non aveva proprio da lamentarsi. Il cuore bat-qua e, protetto dal fogliame, cercò con lo sguardo uno spazio libero attraverso cui poter osservare i due ragazzi. La panchina era illuminata da un lampione. Intravedeva soltanto uno dei due traceur, gli occhi puntati al volto. Quello alzò una specie di passamontagna scuro appena sopra la bocca e sorseggiò l’acqua, ma il viso, purtroppo, rimase nascosto sotto il cappuccio. Niente. “È un ragazzo, si capisce. Ma a me servono i dettagli.”

Tommaso si mosse per tentare di esaminare anche l’altro. Aveva foglie e rami davanti; per di più si era girato. Niente. Tommaso si sporse a destra, da lì forse… Improvvisamente, il basso 808, che componeva la suoneria trap del suo telefono, irruppe dal taschino sinistro del giubbotto, gettandolo nel panico.

«Nooo…» imprecò sottovoce, mentre il telefono continuava a squillare e la vibrazione sembrava far muoveresone, premendo forte le mani contro il taschino sinistro,

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quasi a voler disintegrare il telefono. Si era rivelato molto agile come detective, ma la sua solita sbadataggine lo aveva tradito. Moriva di paura, temeva di essere stato scoprima. Poi il silenzio, lo stesso silenzio che precede il momento in cui lo zombie afferra la sua vittima e la riduce in mille pezzi. Tommaso aspettava di essere circondato dai da spiegare a casa. Invece non fu così. Silenzio.sene correndo una dietro l’altra.

“Mi hanno sentito? Visto? Nooo. Scappavano? Basta farsi domande!”. Filò dritto al palo a cui aveva legato la bici, saltò in sella e non ci pensò due volte: se i loro percorsi erano sempre gli stessi, li avrebbe raggiunti.

“Al viadotto” suggerì Jarvis-Buska.

Ci arrivò in cinque minuti, quasi soffocato dal proprio respiro. Quanto dolore alla gamba! Ne attese altri dieci, nulla.

Poi suonò di nuovo il telefono, guardò lo schermo: «Nonna, cosa c’è?» domandò scocciato. «Nani, perché non rispondi? – lo chiamava con quel nomignolo da quando era nato – Kiran ti aspetta da mezz’ora. Vieni.»

Tommaso non fece in tempo a trovare una scusa valida

“Ne manca ancora una” pensò.

«Nani, nani, ci sei? Ti sei messo ancora nei guai?»

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Nonna Gianna continuava a urlare dal telefono. nito il quarto, ma non riusciva a decidere. Si immaginava la nonna su tutte le furie a casa, e di ricevere rimproveri non ne aveva voglia. Erano le 18.00 e Kiran lo stava aspettando, glielo aveva promesso. E poi stare con Kiran gli piaceva.

Decise a malincuore di tornare. Ormai conosceva orari e luoghi dei traceur, rimandare al giorno dopo non sarebbe stato un problema.

«Bentornato, ritardatario! Metti la testa a posto o le dovrai pagare tutte» lo accolse Gianna con un sorriso funesto.

Kiran era seduta in cucina. La sua tuta viola scuro, le gambe lunghe e il sorriso luminoso cancellarono in lui il desiderio di trovarsi altrove.

« Sat Sri Akàl, Tomy.»

Quel saluto lo mandava in estasi. Tommaso adorava sentirla pronunciare il suo nome con la “T” marcata e senza la doppia M, Tomy. Solo Kiran lo chiamava così. Tommy, nessuno. , la mamma – si chiedeva perché omettesse la A –, Tommaso tutto intero, il papà. Buska, gli amici e zio Sergio. Buschini, i prof.

« Sat Sri Akàl, Kiran» rispose lui con un briciolo di imbarazzo che, in tre anni, da quando la conosceva, non era ancora riuscito a nascondere.

Andarono in camera. Tommaso lanciò lo zainetto sul letto; tolse guanti, scaldacollo, giubbotto e strinse il brac-

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« Hey, how are you? Ancora male il braccio e la gamba? You are crazy!»

«Un pochino. Passa.»

«Where have you been?»

«Cosa?» domandò. Per Tommaso l’inglese era un incubo, per fortuna aveva l’aiuto di Kiran.

«Dove sei stato?», sorrise.

«Ehm… Con Luca e gli altri» e abbassò lo sguardo.

17.30.»

«Sì, va bene. Scusa.»

«Yes, all right. Sorry. Tomy, in English!»

Lui ripeté con gli occhi al cielo, nascondendo uno sbuffo.

«Kiran, conosci il parkour?» chiese entusiasta.

«What?» rispose allibita.

«Parkour. Ho visto…»

«Yes, cool! – lo interruppe – But… But… You are crazy!»

“Basta con ‘sto crazy!” pensò.

«Ehi Kiran, sai che ho visto quattro…»

Tommaso stava per raccontarle il suo incontro con i traceur, ma Kiran glielo impedì, si mise a parlare come una macchinetta in inglese, sfogliò le pagine del diario, raccolse i libri e li aprì sulla scrivania, partendo alla carica con la lettura dei testi.

«Ok, ok, tranqui» borbottò lui, rassegnato.

Kiran non era interessata e lui l’aveva capito, la conosceva.

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ESSERE FORTI PER ESSERE UTILI 7

TRICK

TRICK UNO 21 TRICK DUE 30 TRICK TRE 38 TRICK QUATTRO 46 TRICK CINQUE 56 TRICK SEI 65 TRICK SETTE 73 TRICK OTTO 82 TRICK NOVE 91 TRICK DIECI 100 TRICK UNDICI 109 TRICK DODICI 118 TRICK TREDICI 127 TRICK QUATTORDICI 136 TRICK QUINDICI 145 TRICK SEDICI 154 TRICK DICIASSETTE 163 TRICK DICIOTTO 173 TRICK DICIANNOVE 182 TRICK VENTI 191 TRICK VENTUNO 201 TRICK VENTIDUE 213 TRICK VENTITRÉ 225

251
TO BE and TO LAST
234 RINGRAZIAMENTI 249

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