Prezzo di copertina € 2,20 - marzo 2013 - Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, C/RM/68/2012
attualità
dossier
fatti
missioni
Intervista a P. Giuseppe Calderone OMI neosacerdote
P. Natoli racconta dell’incontro tra p. Puglisi e gli OMI
Scegliere la vita. La testimonianza di Chiara Corbella
Qui Uruguay Qui Senegal Lettere dei missionari
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RIVISTA MENSILE DI ATTUALITÀ MISSIONARIA
OMI
n. 03 MARZO 2013
Intervista esclusiva a mons. Bertolone
Padre Pino Puglisi verso la beatificazione
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SOMMARIO MISSIONI OMI Rivista mensile di attualità Anno 20 n.3 marzo 2013
Una cartolina dal Vaticano di Fabio Ciardi OMI
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La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250
Vale la vida!
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EDITORE
Conoscersi per superare i pregiudizi
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Notizie in diretta dal mondo oblato
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attualità
di Gianluca Rizzaro
Provincia d’Italia dei Missionari Oblati di Maria Immacolata Via Egiziaca a Pizzofalcone, 30 80132 Napoli
di Giacomo Coluccio
news
REDAZIONE
Via dei Prefetti, 34 00186 Roma tel. 06 6880 3436 fax 06 6880 5031 pasquale.castrilli@poste.it
a cura di Elio Filardo OMI
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Mgc news
DIRETTORE RESPONSABILE
Pasquale Castrilli REDAZIONE
Salvo D’Orto, Elio Filardo, Gianluca Rizzaro, Adriano Titone
fatti
COLLABORATORI
Nino Bucca, Claudio Carleo, Fabio Ciardi, Gennaro Cicchese, Angelica Ciccone, Luigi Guzzo, Thomas Harris, Sergio Natoli, Luca Polello, Claudia Sarubbo, Giovanni Varuni
Chiara è nata e non morirà mai più 30 di Angelica Ciccone
Sport paralimpici
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Lettere al direttore
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Storia di storie
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Lettere dai missionari
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Qui Uruguay, Qui Senegal
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di Michele Palumbo
PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE
missioni
Elisabetta Delfini STAMPA
Tipolitografia Abilgraph Roma FOTOGRAFIE
Si ringrazia Olycom www.olicom.it UFFICIO ABBONAMENTI
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dossier
Intervista a mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione di Luigi Mariano Guzzo
Padre Pino Puglisi
DOSSIER
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un martire cristiano del nostro tempo I
Si ringrazia il Centro diocesano vocazioni dell’arcidiocesi di Palermo, per la concessione di alcune foto pubblicate in questo articolo
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l 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto sul martirio in odium fidei. In che cosa consiste il martirio di questo sacerdote? Perché don Pino, oltre ad essere un testimone sociale, come Borsellino, Falcone, Dalla Chiesa, è anche e soprattutto un santo dei nostri giorni? La differenza tra la morte di p. Puglisi e quella di altre vittime della mafia è chiara: mentre giudici, poliziotti e altri servitori dello Stato pongono a fondamento delle proprie azioni il dovere, la coerenza, l’obbedienza indiscussa alla legge, chi ha fatto della missione cristiana il proprio fulgido codice deontologico risponde sì alle leggi dello Stato, ma in primis a quella di Cristo: l’amore di Dio e del prossimo. Giuseppe Puglisi è martire cristiano, perché è andato incontro alla morte per essere fedele al suo ministero di prete. Egli è stato un testimone del suo tempo, perché si è fatto carico di tutte le ingiustizie alle quali gli abitanti di Brancaccio erano da anni sottoposti dalle cosche mafiose, da un lato, e dall’indifferenza totale delle Istituzioni dall’altro. Fu un missionario, e come ogni missionario sapeva che la sua stessa presenza, di per sé sola, era motivo di scandalo. E chi versa il proprio sangue per questo, in nome di Cristo e per il suo Vangelo, è un martire.
Lei ha molte volte sottolineato che don Puglisi più che un sacerdote “contro e anti” sia stato un prete che ha vissuto in pienezza il suo ministero sacerdotale. È una santità feriale quella di don Pino, innestata nel suo essere parroco. Che cosa privilegiava nella sua attività di pastore? A Brancaccio don Puglisi non si sente un eroe e la sua azione ha un sapore inconfondibilmente evangelico. La quotidianità semplice della pastorale della Chiesa è la cifra del suo ministero: il Vangelo che egli cerca di annunziare e vivere, il Crocifisso che ha scoperto come motivo ispiratore della ortodossia e dell’ortoprassi; il Padre che ama presentare nelle sue conversazioni, scardina e quindi rende improponibile il “padrino”, la cui figura più che derisa, ne è annientata. Puglisi è un prete che fa il suo lavoro amministrando i sacramenti, preparando i bambini alla prima comunione, i genitori al battesimo dei figli, le giovani coppie al matrimonio. Si impegna in tutte le opere di misericordia. E col suo esempio ai sacerdoti dice: agite sempre con semplicità, non per affermare pur nobili ideali civili, bensì per amore di Cristo ed in nome del Vangelo, perché soltanto dove la croce di Cristo e l’autodonazione sono il criterio della vita, il seme del Vangelo cresce, le coscienze maturano
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una foto per pensare
L’ora di Dio
UNA FOTO PER PENSARE
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foto Alessandro Milella, alexmil@tele2.it testo Claudia Sarubbo, claudia.sarubbo@yahoo.it
fa spazio Lentamen te si vita, nel fluire della affannosa nella ricerca che sfugge. di qualcosa È lo scoccare richiamo di un nuovo capace di svelare vita. della il segreto
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editoriale di Pasquale Castrilli OMI pasquale.castrilli@poste.it
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La missione di 3P
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Intervista a P. Giuseppe Calderone OMI neosacerdote
P. Natoli racconta dell’incontro tra p. Puglisi e gli OMI
Scegliere la vita. La testimonianza di Chiara Corbella
Qui Uruguay Qui Senegal Lettere dei missionari
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RIVISTA MENSILE DI ATTUALITÀ MISSIONARIA
OMI
n. 03 MARZO 2013
Intervista esclusiva a mons. Bertolone
Padre Pino Puglisi verso la beatificazione
nore agli uomini illustri. Onore agli uomini di Dio. La storia e il ministero di don Pino Puglisi, il sacerdote palermitano ucciso il 15 settembre 1993 occupano le pagine del dossier di questo numero del nostro mensile. Dell’uomo colpisce la lucidità. In un quartiere difficile del Sud ha saputo incontrare le esigenze della gente, tentare un dialogo con personaggi non facili, perseguire un’ideale di giustizia, educare alla gratuità. La Chiesa cattolica lo proclama beato il 25 maggio, esempio per tutta la comunità dei fedeli che guarda ai santi con amore, rispetto e devozione. Modelli di virtù, esseri umani con pregi e difetti, essi hanno fatto di Cristo il centro della propria vita. Un santo è modello per tutti, ma ci piace guardare a don Puglisi anche come esempio e amico di quanti sono chiamati al sacerdozio, a servire il popolo di Dio con dedizione e gratuità. La semplicità del tratto umano, faceva di don Pino una persona vicina a tutti, segno di quell’amore di Dio che si mette in cerca di ogni uomo, senza distinzioni di sorta. Un uomo che viveva la preghiera come spazio di incontro con il Signore della vita. Nella Chiesa ci sono vari modi di vivere il sacerdozio. A noi sembra che questo sia uno dei più validi: vicini a Dio e alla gente, senza cadere in
trappole formalistiche o legate al ruolo. Un sacerdozio, insomma, missionario, con l’attenzione costante agli ultimi, ai poveri e derelitti della società, coloro che spesso sono dimenticati anche dalle istituzioni. Don Pino ha conosciuto e incontrato in molte circostanze i Missionari Oblati di Maria Immacolata a Palermo dove da vari decenni è presente una comunità oblata. Ne riferisce con particolari inediti p. Sergio Natoli, oblato impegnato attualmente nella pastorale dei migranti. Ospitiamo anche un’intervista esclusiva a mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione. È significativo notare l’affetto che l’Italia ha per don Puglisi. Lo testimoniano strade e piazze intitolate alla sua memoria. Da Belmonte Mezzagno (Pa) a Ribera (Ag) e Alcamo (Tp) in Sicilia, da Reggio Emilia a Pontecchio Polesine (Ro), a Piossasco (To). Anche le pubblicazioni sono sempre più numerose. Presentando il volume di Vincenzo Ceruso intitolato A Mani nude (Paoline 2012) Andrea Riccardi scrive: “Le pagine di questo volume danno al lettore un ritratto a tutto tondo del parroco di Brancaccio, un uomo pieno di vita, di sogni e di domande, un cristiano vero, un siciliano non autoreferenziale né complessato”. n
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lettere al direttore
Raduno della Famiglia oblata della zona romana Domenica 11 novembre si è svolta la Giornata annuale della Famiglia oblata della zona romana. Una giornata a tratti piovosa; ma non per questo è venuto meno il fascino dei monumenti e delle chiese del centro storico, nella zona di S. Maria Maggiore. Ci siamo ritrovati presso la casa delle suore di via dell’Olmata. L’apertura della mattinata è stata
MISSIONI dedicata ad una riflessione del superiore provinciale, p. Alberto Gnemmi che ha invitato i presenti ad alzare il capo e guardare sempre più in alto verso la croce. Alzare la testa dalla povertà della nostra storia personale, fino a vedere i grandi passi della storia di Dio. Nella seconda parte è stato proposto un pellegrinaggio in alcune chiese limitrofe selezionate per la loro particolarità artistica e spirituale e per l’attinenza con i temi trattati nell’incontro. Il pellegrinaggio è stata l’occasione per una riflessione personale sul proprio cammino spirituale, una riflessione del proprio essere cristiani in questi tempi difficili, un appello a
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farsi coinvolgere in prima persona dalle tematiche che il Santo Padre ha proposto per l’Anno della fede. La Giornata si è chiusa con la celebrazione eucaristica presso la basilica di Santa Prassede. La storia racconta che la santa raccoglieva con una spugna il sangue versato dai martiri per conservarlo in un pozzo per non disperdere neppure la più piccola goccia della testimonianza del martirio. Un grande esempio per noi tutti, un invito a vivere attenti alla qualità dei giorni e alla ricchezza di chi ci circonda e a soffermarsi nella preghiera e nel ricordo dei martiri e dei santi oblati che ci hanno preceduto in cielo. Carlo Capobianco Roma
IN VIAGGIO CON S.
Un blog (www. eugenedemazenod. net/ita) che da quasi tre anni offre una possibilità unica: conoscere testi di S. Eugenio de Mazenod, fondatore dei Missionari Oblati di Maria Immacolata. Il suo curatore è p. Frank Santucci, oblato sudafricano, specialista del carisma oblato. Dopo vari anni trascorsi a Aix en Provence, Frank si trova ora a San Antonio, Texas, docente alla “Oblate School of Theology” dove insegna spiritualità, e anima ritiri, workshops e seminari su temi oblati. Ogni giorno Frank “fa parlare” S. Eugenio in quattro lingue e sono circa cinquecento le persone che lo ascoltano via email o direttamente sul sito.
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ON S. EUGENIO DE MAZENOD
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Qual è l’obiettivo di questo servizio? È un invito a conoscere Eugenio de Mazenod. L’approccio è cronologico, il mio scopo è presentare la storia che Dio ha fatto con quest’uomo. Inoltre è un mezzo attraverso cui sviluppare un database su Internet degli scritti di Eugenio. Ad oggi sono presenti quasi settecento brani. Ciò significa che utilizzando il semplice spazio “cerca”, è possibile ricercare i testi di Eugenio su vari temi. A che punto siamo in questo viaggio? Ricordiamo che nel gennaio 1816, i Missionari di Provenza (come erano conosciuti gli Oblati inizialmente) iniziarono a vivere insieme per essere missionari verso quelle persone che in Provenza non venivano raggiunte dalla Chiesa locale. Abbiamo seguito lo sviluppo e l’attività missionaria di questo gruppo. Li abbiamo visti espandersi fino a stabilirsi nel santuario mariano di Notre Dame du Laus e nel santuario dedicato alla Croce, al Calvario di Marsiglia. Questa espansione aveva portato una ricchezza, ma anche scatenato un certo numero di ostilità. Fu perciò essenziale avere un vescovo locale come “protettore”. Questa possibilità arrivò nel 1823 con la nomina dello zio di Eugenio, Fortunè de Mazenod, a vescovo di Marsiglia. La condizione per questo era che Eugenio stesso fosse suo vicario generale. Così nel 1823 Eugenio dovette lasciare Aix e stabilirsi a Marsiglia dove rimase per i successivi trentotto anni. Da quel momento gli scritti riflettono la sua duplice responsabilità: la guida dei Missionari Oblati come superiore generale, e l’amministrazione della Chiesa nella seconda città più grande di Francia. Questo ”viaggio” con S. Eugenio può essere un’opportunità per ciascun membro della famiglia mazenodiana di apprezzare più profondamente le nostre radici.
Tombolata missionaria La parrocchia dell’Immacolata Concezione di S. Maria Capua Vetere (Ce) ha deciso di sostenere il progetto di costruzione del Centro educativo di Koumpentoum in Senegal attraverso il gioco più rappresentativo del Natale: la tombola. La comunità si è riunita a inizio gennaio presso la sala S. Eugenio coinvolgendo persone di tutte le fasce di età. La serata si è aperta sulle note della celebre canzone “Oh Happy Day” con una presentazione del progetto dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, proiettando immagini suggestive del Senegal, dei suoi abitanti e dei missionari con loro. La comunità ha preso parte a questa iniziativa dando un forte contributo fin dalla fase preparatoria, manifestando il desiderio di essere uniti, solidali e pronti
a sostenere con ogni mezzo questa importante missione. La serata è proseguita con il gioco della tombola con divertenti intervalli musicali che hanno coinvolto grandi e piccini. Ciò che ha contribuito alla riuscita dell’iniziativa è stato, senza dubbio, l’amore che ciascuna persona ha donato a sostegno di questo progetto, dimostrando un forte senso di appartenenza alla propria comunità parrocchiale. Vedere i sorrisi sul volto dei presenti, la gioia dei bambini e la generosità mostrata ha creato quell’atmosfera di famiglia capace di aprire il cuore di ciascuno! Dalila Di Tora S. Maria Capua Vetere (Ce)
INFORMAZIONI Per inviare lettere al direttore utilizzare l’indirizzo pasquale.castrilli@ poste.it
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attualità
Una cartolina dal…
Vaticano
di Fabio Ciardi OMI ciardif@gmail.com
“U
na cartolina dal Vaticano?” Sì, le mie cartoline sono tutte da altri Paesi! Ma sono sempre cartoline missionarie… Anche questa! Ve la mando da un luogo particolare del Vaticano, più propriamente dal Museo etnologico che si trova all’interno dei Musei Vaticani. Prima si chiamava semplicemente Museo missionario. “E gli Oblati cosa c’entrano?” C’entrano e come! Poco tempo fa vi è stata la presentazione del primo catalogo del Museo etnologico, che illustra tremila delle
Presentato a Roma il primo catalogo del Museo etnologico nei Musei Vaticani. Il ruolo dei Missionari OMI
ottantamila opere lì conservate: uno di quei libri straordinari che fanno sempre tanta figura nei salotti. L’evento si è tenuto in un ambiente prestigioso, nientemeno che nella grande sala della Pinacoteca dei Musei Vaticani, proprio dove è esposta la Trasfigurazione di Raffaello, assieme ad altre opere. Valeva la pena andare anche solo per sedersi davanti al capolavoro di Raffaello e ammirarlo con calma, quasi a lasciarsi trasfigurare con il Signore stesso. La raccolta del museo iniziò con sei doni d’epoca precolombiana, offerti al Papa nel 1692. Da allora la collezione si è arricchita con sempre nuovi tesori. Sono rappresentati tutti i continenti e tutte le culture. Alla presentazione del catalogo numerosi ambasciatori e studiosi, richiamati dall’evento. Apre la serata il card. Lajola, presidente emerito del Governatorato dello stato della Città del Vaticano, quindi la parola passa al direttore dei Musei Vaticani, poi al card. Ravasi e infine al direttore del Museo etnologico. Ravasi richiama i grandi temi della cultura, ripercorrendone la terminologia, dall’humanitas dei latini alla paideia dei greci, fino alla parola cultura dei tedeschi del 1500, gradualmente trasformata in concetto antropologico. Accenna poi al passaggio dell’im-
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piego di questa parola al plurale, le culture, a significare il superamento della convinzione dell’esistenza di una sola cultura, fondamentalmente quella europea, greco romana, verso il riconoscimento dell’esistenza di una pluralità di culture, a cominciare da quella ebraica, dilatandosi sempre più su tutta intera l’umanità.
La Chiesa incontra le culture Ravasi non poteva non parlare di come la Bibbia, lungo la sua storia millenaria, abbia assunto la varie culture dei popoli attorno. Anche la Chiesa grazie all’Incarnazione si è aperta su tutti i popoli. “Cristo è il Logos - diceva Giustino - e tutti quelli che vivono il Logos, come Socrate, Eraclito e tanti altri, sono cristiani”. Entriamo così nel significato più profondo del Museo etnologico: il riconoscimento dell’universalità della Chiesa e il suo rispetto per ogni cultura. Quando esso nacque, in pieno periodo colonialista, Pio XI volle che accanto a Raffaello e Michelangelo ci fossero anche gli aborigeni dell’Australia; forse perché papa Ratti, grazie anche alla sua esperienza come prefetto dell’Ambrosiana di Milano era un persona dai grandi orizzonti e interessi. Non per niente è passato alla storia come il “Papa delle missioni”, come il
grande ammiratore degli Oblati, che definì “gli specialisti delle missioni difficili”. Il Papa fondò il Museo missionario etnologico il 12 novembre 1926, alla chiusura dell’Esposizione Universale Missionaria, che lo stesso Pontefice aveva voluto in occasione dell’Anno Santo del 1925. A quella esposizione contribuirono tutte le società missionarie. Gli Oblati portarono a Roma da tutto il mondo centinaia e centinaia di casse con i più vari oggetti, che poi entrarono a far parte del museo. La sezione dell’Esposizione Universale Missionaria riguardante libri e documenti fu affidata a un Oblato, p. Roberto Streit. Arrivarono tavole geografiche, grammatiche e vocabolari delle lingue indigene, catechismi, sto-
rie sacre, commenti teologici, e libri riguardanti la storia della religione, la topografia, l’etnografia dei Paesi di attività missionaria; tutto, al termine dell’Anno Santo, fu donato al Papa e costituì l’inizio dell’attuale Pontificia Biblioteca Missionaria. P. Streit divenne il primo bibliotecario e da allora la Biblioteca è sempre stata diretta da un Oblato. L’attuale direttore del museo, p. Mapelli del PIME, illustra il catalogo e parla della sua nuova ristrutturazione, del collegamento con tanti altri musei nelle più varie parti della terra, dei viaggi compiuti da lui e dai suoi collaboratori per trovare la documentazione, del battaglione di donne che lavorano nei vari laboratori, tutte giovani studiose entusiaste del loro incarico. Infine ecco finalmente l’inaugurazione delle nuova sede, sempre all’interno dei Musei Vaticani. Gli oggetti danno voce ai popoli, i pannelli raccontano le loro esperienze. Il reperto più antico, una pietra lavorata milioni di anni fa, proviene dal Sudafrica. Ventimila gli oggetti preistorici. Tremila le foto. Il museo è la testimonianza dell’interesse, dell’amore, del rispetto della Chiesa per tutte le culture, ossia per l’umanità! È proprio vero quello che diceva Paolo VI: “La Chiesa è esperta in umanità”. n
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attualità
Vale la vida! “Una storia con Dio che viene da lontano”
A qualche mese dall’ordinazione sacerdotale p. Giuseppe Calderone condivide le sue sensazioni e racconta della sua vocazione di Gianluca Rizzaro gianlucarizzaro@gmail.com
L
o scorso 30 settembre, nella cattedrale di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Calderone è stato ordinato sacerdote da mons. Francesco Milito, vescovo della diocesi di Oppido-Palmi. Il sacerdozio, per qualcuno, può rappresentare un punto d’arrivo e nel caso di Giuseppe - Peppe per tutti quelli che lo conoscono - la conclusione di un cammino cominciato nel lontano 14 settembre 2003, al momento del suo ingresso nella comunità di Marino e che affonda le
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Sopra, p. Giuseppe con una longeva parrocchiana in posa dopo la messa. Nelle foto a fianco, Giuseppe a Marsiglia sulla tomba di S. Eugenio de Mazenod e al lavoro nella cappella
di Autodromo in Uruguay con un gruppo di volontari
radici in un’esperienza di Dio vissuta, a vari livelli, sin da bambino. Se si guarda all’evento dalla prospettiva della missione, l’ordinazione sacerdotale è solo un punto di partenza. Peppe è un giovane calabrese di 28 anni. Sta per conseguire la licenza in teologia spirituale, suona la chitarra, è un grande consumatore di libri e di film, ed è un tifoso “doc” della Juventus; da un paio d’anni a questa parte, ha anche una grande passione per l’Uruguay, passione nata con la sua esperienza missionaria in America Latina. Da qualche tempo ha abbandonato il mate, (una bevanda tipica dell’America latina, ndr), ma la sciarpa della Celeste, la nazionale uruguagia, campeggia sempre sul muro della sua stanza! Lo scorso anno, ero con lui allo stadio Olimpico di Roma in occasione dell’amichevole Italia-Uruguay (0-1 il ri-
sultato finale) e avrei alcune cose da raccontare, ma questa è un’altra storia... Abbiamo chiesto a Peppe di raccontarci dei mesi che hanno preceduto l’ordinazione sacerdotale, ma anche di parlarci della sua vocazione. Quali erano le tue sensazioni nel periodo che ha preceduto l’ordinazione presbiterale? L’8 dicembre 2011 ho professato i voti perpetui e a gennaio 2012 sono stato ordinato diacono da mons. Raffaello Martinelli nella cappella della nostra casa provinciale. Sono stati due momenti molto intensi, particolarmente i voti perpetui, con la definitiva incorporazione, dopo un cammino di sei anni di voti temporanei. Mi sono avvicinato al sacerdozio con il cuore pieno della grazia di questi due eventi. Proprio grazie a questi, che possiamo
chiamare “i passi definitivi”, ho riletto tutta la mia vita e la mia vocazione alla luce del progetto d’amore che Dio ha su di me e di cui spesso non mi sento degno. So per certo che molti miei amici, ad esempio, hanno capacità più grandi delle mie, ma in tutto questo mi guidano le parole che Paolo stesso dice di aver ricevuto da Gesù: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9). Come risuona, nel tuo cuore, l’idea di essere un sacerdote missionario? La prima esigenza che sento è vivere personalmente, in maniera sempre più intensa, il rapporto con Gesù. È importante poi, soprattutto per un missionario, portare agli altri Gesù che si lascia incontrare quotidianamente nell’Eucarestia e che viene a dirci il suo Amore
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infinito. Per me è stato fondamentale sentirmi amato da Dio in maniera personale e ciò che mi spinge è il desiderio che anche gli altri siano coinvolti in questa stessa esperienza, che sento di non poter tenere solo per me. Come è maturata la tua vocazione al sacerdozio oblato? La mia vocazione al sacerdozio si innesta in una storia con Dio che viene da molto lontano. Il primo dono che Dio mi ha fatto è stato quello della vita. Non solo la mia, ma anche quella di mia madre, che al momento del parto ha rischiato di morire a causa di un problema per cui, a quel tempo, si salvava una donna su mille. Sin da bambino, ho sempre frequentato la parrocchia che, del resto, in un piccolo paese come Oppido Mamertina, rappresentava l’unico centro di aggregazione. Ma a quel tempo non ero io a scegliere di andare a messa, andavo, perché i miei mi dicevano di farlo, perché an-
In questa pagina due scatti fatti in Uruguay durante una gita. A sinistra, foto di gruppo e a destra p. Giuseppe
con p. Jorge Albergati OMI
davano i miei amici… una routine insomma. Contemporaneamente sentivo crescere dentro di me un forte senso di insoddisfazione a causa del periodo non proprio felicissimo che si viveva nel mio paese. Non mi piaceva quello che vedevo intorno a me, avevo sete di qualcosa di grande. Ma non sapevo cosa fosse. Capii tuttavia che, se volevo cambiare qualcosa, dovevo cominciare da me stesso. Sentivo di dover essere un “dono per gli altri” e questo iniziò a caratterizzare le mie giornate. Nel marzo 2001, insieme a mio fratello, mia cognata ed alcuni amici, iniziammo a frequentare le catechesi del cammino neocatecumenale. Ritengo questo periodo decisivo per la mia conversione ad una vita di fede più seria e non di “tradizione” come lo
era stata fino ad allora. In particolare credo sia cambiato soprattutto il mio rapporto con la Parola di Dio. Fino a quel momento l’avevo ascoltata sempre distrattamente, ma quando iniziai a capire che potevo viverla e non solamente ascoltarla, fu una vera rivoluzione. Nello stesso anno, dal 20 al 28 ottobre, dopo una preparazione di quasi due anni, i Missionari Oblati di Maria Immacolata, insieme ai giovani del Movimento Giovanile Costruire e ad altri giovani provenienti dai paesi della nostra diocesi, vennero ad Oppido per animare una missione giovanile. Quella missione fu un passo ulteriore verso una maggiore consapevolezza di quanto la fede non fosse qualcosa di intimistico, bensì da vivere in comunione con gli altri. Ciò che mi
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attualità
Giovani nelle case di formazione oblate in Italia La comunità dello Scolasticato di Vermicino-Frascati, il seminario dei Missionari OMI nei pressi di Roma, è attualmente costituita da dieci scolastici di nazionalità italiana, spagnola, senegalese e ucraina. Due scolastici sono in stage in Senegal e Uruguay, mentre p. Giuseppe Calderone vive quest’ultimo anno di seminario nella vicina comunità di Marino laziale. Gli scolastici studiano teologia all’Università lateranense
colpì, infatti, fu il modo in cui Oblati e giovani si volevano bene, stando insieme e condividendo la loro esperienza di fede. Lo stile degli Oblati mi ha spalancato davanti la porta di questa nuova realtà e, insieme, quella della comunità di Marino. Non pensavo ancora alla consacrazione e ancor meno al sacerdozio, anche se la domanda, pian piano, iniziava a farsi strada dentro di me. Le esperienze successive (i primi voti, lo Studentato, gli studi teologici, lo stage in Uruguay) hanno contribuito a far crescere dentro di me la consapevolezza del desiderio di donarmi. “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9,7) è una frase-chiave della mia esperienza. E quale donazione più grande può esserci se non essere sacerdote oblato? Sacerdote, quindi, nell’oblazione di sé senza riserve, scelta al momento dei voti perpetui e meditata durante gli anni della mia formazione, in cui mi sono sentito protagonista del cammino, sia nei momenti belli che in quelli di difficoltà. Ho sempre sentito che Dio mi chiamava a mettermi di fronte alla sua volontà e non mi lasciava mai
di Roma, due sono impegnati nel corso di Licenza in teologia. Insieme agli studi prestano il loro servizio pastorale in alcune parrocchie dei Castelli romani, al carcere di Rebibbia e partecipano al progetto Mondi Riemersi e ad alcune missioni al popolo in Italia. L’età media degli scolastici è di 29,3 anni. Il superiore allo Scolasticato è p. Gennaro Rosato (gennaro.rosato@ gmail.com, tel. 06 7265 0353). Nella comunità giovanile di Marino laziale (Roma) sono invece presenti sette giovani: uno in noviziato, due in prenoviziato e quattro al Centro giovanile. Provengono da Calabria, Campania, Lazio, Veneto e Piemonte. Il superiore della comunità è p. Salvo D’Orto (salvodorto@ gmail.com, tel. 06 938 7300).
solo, né in balia degli eventi o, peggio, di ciò che gli altri avrebbero potuto decidere per me. Chi ti ha incontrato negli ultimi due anni ha potuto verificare quanto sia cambiata la tua vita dopo l’esperienza in Uruguay. Abbiamo già detto della sciarpa della Celeste nella tua stanza... Ma cos’ha significato per te vivere otto mesi in America Latina? L’Uruguay è un Paese abbastanza particolare, perché, pur essendo in America Latina, un continente con un forte senso religioso, si professa apertamente laicista, con conseguenze abbastanza evidenti nella partecipazione alla vita religiosa. Ho trascorso i miei otto mesi in una comunità oblata a 10 km dalla capitale, Montevideo, occupandomi di un gruppo di giovani della parrocchia, che poi ho accompagnato al sacramento della confermazione. Oltre alla vita ordinaria nella parrocchia, in cui ho esercitato il mio ministero di accolito, ho vissuto anche molti altri momenti di intensa vita missionaria. In Uruguay, così com’era stato prima in Italia, ciò che mi ha se-
gnato tanto è stata l’esperienza comunitaria, che lì si vive in un modo molto profondo, sia per il numero limitato di persone, rispetto all’Italia, ma soprattutto perché si crede profondamente nell’esperienza di sentire Gesù presente in mezzo a chi vive la comunità. Un altro elemento importante dei mesi trascorsi in America Latina è stato valorizzare ulteriormente la mia esperienza di fede. Mi è capitato di incontrare persone che, private del rapporto con Dio, vivono una vita senza quella speranza che deriva, appunto, dalla fede in Qualcuno o in qualcosa che va oltre noi. Ho cercato di partire, sempre e comunque, da relazioni personali che non rimanessero ad un livello superficiale, ma che potessero approdare quantomeno a porsi delle domande su Dio. È un lavoro che ha bisogno di tempo, ma è quello che siamo chiamati a fare. Ed è stata proprio questa esperienza ad aprirmi gli occhi sull’importanza di vivere con Cristo e di farlo conoscere agli altri, e questo vivere con Lui, come si direbbe in Uruguay “no vale la pena, vale la vida”! n
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attualità
Conoscersi per superare
i preguidizi
Dakar
Tre giorni di animazione missionaria con gli immigrati senegalesi nel soveratese, in provincia di Catanzaro di Giacomo Coluccio
S
ono le otto di un mattino di metà ottobre. Enza, dell’equipe missionaria dell’Associazione Missionaria Maria Immacolata (AMMI) di Catanzaro, si chiede da dove cominciare per consentire a p. André Ndene OMI e a Marcel Sarr, scolastico oblato, di incontrare la comunità senegalese presente a Davoli, comune a 30 km da Catanzaro. In passato altre volte si era tentato un avvicinamento, ma senza grandi risultati: i senegalesi vivevano con grande dignità, non avevano mai chiesto aiuti economici in parrocchia, a differenza di altri gruppi, ma erano isolati. Stavolta, forse, era il momento giusto: nella vicinissima Soverato era giorno di mercato, dove i senegalesi espongono le loro bancarelle. Così decide di accompagnare p. André e Marcel al mercatino. Una grande gioia ha animato il mercato quando i senegalesi hanno sentito qualcuno che si rivolgeva loro in lingua wolof. Questa gioia ha
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In apertura un momento della veglia del 21 ottobre, Giornata missionaria mondiale. In alto i giovani con Marcel Sarr OMI, don Gregorio Montillo e p. André Ndene OMI, Sotto, don Gregorio, p. André Ndene OMI, Marcel Sarr OMI e Giacomo Coluccio con i rappresentanti della comunità senegalese
riempito il cuore di tutti noi animatori e ci ha accompagnati nei tre giorni di animazione missionaria. Ha fatto cadere le nostre ansie e paure. Da giorni cercavamo contatti e strade per avere la possibilità di un incontro. Avevamo riflettuto, avevamo cercato di programmare tante cose anche nei particolari, ma poi, quando era stato necessario cambiare il programma e spostare il primo appuntamento della giornata, Dio aveva indicato la strada da percorrere!
La genesi Come è nata questa tre giorni missionaria? In una forma un po’ inusuale. Per molti anni l’AMMI aveva animato nell’arcidiocesi di Catanzaro-Squillace la veglia in occasione della Giornata missionaria mondiale, ma da due
anni non vi era alcuna iniziativa. Non volevamo che anche quest’anno l’ottobre missionario fosse ricordato solo con la raccolta durante le messe. Altre motivazioni ci hanno mosso: a ottobre di quest’anno aveva inizio l’Anno della fede, proclamato da Benedetto XVI, si ricordava l’apertura del Concilio Vaticano II e si svolgeva il Sinodo sulla Nuova evangelizzazione. Erano tutti appuntamenti importanti, che la nostra comunità missionaria voleva ricordare a sè stessa e in diocesi, in modo speciale, per rafforzare la propria fede donandola. Se la nuova evangelizzazione ha bisogno soprattutto di testimoni d’amore, noi dovevamo cominciare dal nostro piccolo, dall’ambiente in cui viviamo con le nostre famiglie, in cui lavoriamo. Così, in collaborazione con don Gregorio Montillo, vicario espi-
scopale per la zona pastorale sud della diocesi, è nato questo progetto, che potremmo definire di incontro tra culture, persone e religioni, per conoscere e così superare i pregiudizi, per costruire una società più giusta, dove noi cristiani possiamo essere riconosciuti per come sappiamo stare insieme.
Disponibilità e dialogo Nell’invito, scritto in lingua wolof, oltre che in italiano e francese, rivolto alla comunità senegalese e a quella italiana e distribuito per le strade e nei locali pubblici, si parlava proprio di unirsi in un’occasione di comunione. I momenti da raccontare sarebbero stati tanti. Dai tipici strumenti delle missioni al popolo: visite nelle case dei senegalesi, incontri con gli adulti e con i giovani, incontri nelle scuole. Alla
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attualità
L’emigrazione
Per molti decenni la meta storica dell’emigrazione senegalese è stata la Francia. Dopo i due grandi flussi migratori nell’antico Paese colonizzatore, nei periodi successivi alle due guerre mondiali, l’emigrazione senegalese in Europa ha avuto altre mete tra cui l’Italia. Lo attesta un’inchiesta condotta nel 2008 da Silvia Lencioni dell’Università di Pisa. A partire dagli anni ’80 si registra una crescita di immigrati del Senegal attratti dal nostro Paese soprattutto per la facilità di ottenere un permesso di soggiorno, per la mancanza di controlli stretti e ancora per la possibilità di lavorare, anche senza
senegalese in Italia
Alcuni rappresentati della comunità senegalese hanno incontrato sia i giovani che gli adulti della città. Un momento di confronto e di scambio necessaio per capire e condividere vita e necessità di ciascuno
alcun tipo di contratto. È soprattutto la gente di etnia wolof a muoversi verso l’Italia dove all’inizio il lavoro era soprattutto nel commercio ambulante. Secondo i dati della Caritas italiana le associazioni senegalesi in Italia, sono, numericamente, al primo posto tra le associazioni di immigrati presenti nel nostro territorio. L’inchiesta della Lencioni contiene anche dati sull’esistenza di comunità senegalesi in altri Paesi europei, in particolare la Spagna dove sono approdati soprattutto artigiani e commercianti e la Germania che si è rivelata, invece, meta di sportivi e artisti. (P.C.)
presenza dei due missionari senegalesi, che hanno raccontato di sé, della loro terra, ma soprattutto del bisogno che hanno sentito di fare una scelta di vita radicale. Accanto a loro anche Claudia Sarubbo, giovane della nostra comunità, che è stata, per un breve, ma intenso periodo in Senegal. Anche questa presenza ha fatto nascere un clima di disponibilità tra i presenti. Altrettanto significativo nell’incontro con i giovani e nella veglia, è stata la presenza attiva di giovani del Movimento giovanile Costruire (MGC). C’è stata particolare emozione durante l’incontro con gli adulti della parrocchia di Davoli Marina, quando nella sala piena sono entrati alcuni senegalesi, che si sono seduti davanti, nei pochi posti liberi. Un loro rappresentante è intervenuto in lingua wolof e p. André ha tradotto. Anche l’attenzione dei presenti è aumentata e l’incontro si è vivacizzato. Sono emerse alcune delle cause di carattere anche sociale che hanno reso difficili i tentativi di stabilire rapporti umani migliori tra le due comunità. Anche i senegalesi hanno riconosciuto che il passo in avanti fatto non poteva essere lasciato cadere e bisognava creare altre occasioni per
proseguire su questa strada. Don Gregorio Montillo ha sottolineato alcuni valori comuni emersi come la famiglia e l’accoglienza, ma non ha nascosto le difficoltà del cammino. Tutti, comunque, hanno espresso disponibilità per promuovere altre iniziative. Molta cura è stata dedicata alla veglia del sabato sera. I segni volevano ricordare oggetti di particolare significato per i senegalesi: il baobab, l’albero della vita, di cui niente va perduto; la barca, che per i senegalesi è simbolo di salvezza della loro nazione, il Senegal (“la mia barca”), l’acqua, memoria del battesimo, il mappamondo con le bandiere di tutto il mondo, unito dall’amore di Cristo. Erano presenti due folti gruppi di Davoli e S. Andrea apostolo dello Ionio e rappresentanti delle altre parrocchie della forania, cui è stato dato un mandato missionario per stabilire una rete di rapporti con le comunità straniere presenti in parrocchia. Il messaggio finale per tutti (scritto anche in wolof) è stato: “Ecco come è bello e dolce che i fratelli vivano insieme” (Sal. 133). È il messaggio che portiamo nel cuore e che guiderà le nostre prossime iniziative. n
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storia di storie
MISSIONI
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Federico Ozanam
e gli Oblati di Maria Immacolata di André Dorval OMI - tradotto e adattato da Nino Bucca OMI
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iovanni Paolo II, il 22 agosto 1997, nel corso della XII Giornata Mondiale della Gioventù, dichiarava beato Federico Ozanam, un grande laico profondamente cristiano e fondatore della Società di S. Vincenzo de’ Paoli. Nato a Milano il 23 aprile 1813, ma vissuto in Francia dall’età di due anni, fu sposo e padre di famiglia, professore universitario, riformatore sociale e amico dei poveri. Le sue Conferenze della Carità ebbero inizio il 23 aprile del 1833 a Parigi, quando Federico, che aveva allora solo ventiquattro anni, si mise alla testa di sei compagni d’università, impegnandoli in un movimento che in pochi anni si diffuse in tutta la Francia, ma anche a Roma, Londra, Monaco di Baviera, Bruxelles e Algeri. «Vorrei rinchiudere il mondo in una rete di carità», aveva detto un giorno. A Marsiglia il movimento ebbe inizio il 31 maggio 1844, quando otto giovani, fra cui due avvocati e un medico, si riunirono per fondare una Conferenza. Fra il clero ci fu una certa diffidenza: i parroci non ritenevano opportuno aggiungere un’altra opera a quelle già presenti. Temevano di disperdere le forze e di stancare la generosità dei fedeli. Inoltre, si stentava ad accettare che l’associazione fosse diretta da un laico e che fra le sue fila non fossero accettati sacerdoti. Mons. de Mazenod, alla testa della diocesi dal 1837, si mostrò molto più favorevole del suo clero e si disse felice di approvare l’opera, promettendo “aiuto, assistenza e consigli”. Gli Oblati, da parte loro, acconsentirono a mettere a disposizione di questi giovani la cripta della missione del Calvario per la loro riunione settimanale. Ben presto offrirono anche la sala capitolare, meno umida e più adatta.
L’8 dicembre, sei mesi dopo la fondazione, 17 nuovi membri si aggiunsero ai primi. In quell’occasione mons. de Mazenod presiedette l’assemblea generale e raccomandò caldamente la Conferenza ai suoi preti, facendo svanire le loro paure. Marsiglia fu così conquistata dal movimento: nel 1846-1847 gli effettivi passarono a 230 persone e il numero di famiglie visitate si elevò a 284. A Aix, p. Hippolyte Courtès OMI, offrì anche lui la sua piena collaborazione alla Conferenza del posto e mise a disposizione dei membri “la sua persona, la sua casa e coloro che l’abitavano”. Soleva ripetere: «Se un giorno questi signori non avessero più nulla da dare ai poveri, mi toglierei il pane di bocca per darlo a loro». Aggiungiamo, a titolo d’informazione, che la Società di S. Vincenzo de’ Paoli conta oggi circa 50mila Conferenze, mediamente costituite da 15-20 persone ciascuna e presenti in 141 paesi e territori, dove è impegnata a sostenere progetti in tutti i campi del sociale. n
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Intervista a mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione di Luigi Mariano Guzzo
Padre Pino Puglisi
un martire cristiano del nostro tempo I
Si ringrazia il Centro diocesano vocazioni dell’arcidiocesi di Palermo, per la concessione di alcune foto pubblicate in questo articolo
l 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto sul martirio in odium fidei. In che cosa consiste il martirio di questo sacerdote? Perché don Pino, oltre ad essere un testimone sociale, come Borsellino, Falcone, Dalla Chiesa, è anche e soprattutto un santo dei nostri giorni? La differenza tra la morte di p. Puglisi e quella di altre vittime della mafia è chiara: mentre giudici, poliziotti e altri servitori dello Stato pongono a fondamento delle proprie azioni il dovere, la coerenza, l’obbedienza indiscussa alla legge, chi ha fatto della missione cristiana il proprio fulgido codice deontologico risponde sì alle leggi dello Stato, ma in primis a quella di Cristo: l’amore di Dio e del prossimo. Giuseppe Puglisi è martire cristiano, perché è andato incontro alla morte per essere fedele al suo ministero di prete. Egli è stato un testimone del suo tempo, perché si è fatto carico di tutte le ingiustizie alle quali gli abitanti di Brancaccio erano da anni sottoposti dalle cosche mafiose, da un lato, e dall’indifferenza totale delle Istituzioni dall’altro. Fu un missionario, e come ogni missionario sapeva che la sua stessa presenza, di per sé sola, era motivo di scandalo. E chi versa il proprio sangue per questo, in nome di Cristo e per il suo Vangelo, è un martire.
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Lei ha molte volte sottolineato che don Puglisi più che un sacerdote “contro e anti” sia stato un prete che ha vissuto in pienezza il suo ministero sacerdotale. È una santità feriale quella di don Pino, innestata nel suo essere parroco. Che cosa privilegiava nella sua attività di pastore? A Brancaccio don Puglisi non si sente un eroe e la sua azione ha un sapore inconfondibilmente evangelico. La quotidianità semplice della pastorale della Chiesa è la cifra del suo ministero: il Vangelo che egli cerca di annunziare e vivere, il Crocifisso che ha scoperto come motivo ispiratore della ortodossia e dell’ortoprassi; il Padre che ama presentare nelle sue conversazioni, scardina e quindi rende improponibile il “padrino”, la cui figura più che derisa, ne è annientata. Puglisi è un prete che fa il suo lavoro amministrando i sacramenti, preparando i bambini alla prima comunione, i genitori al battesimo dei figli, le giovani coppie al matrimonio. Si impegna in tutte le opere di misericordia. E col suo esempio ai sacerdoti dice: agite sempre con semplicità, non per affermare pur nobili ideali civili, bensì per amore di Cristo ed in nome del Vangelo, perché soltanto dove la croce di Cristo e l’autodonazione sono il criterio della vita, il seme del Vangelo cresce, le coscienze maturano
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UNA LUCE POSTA SUL M IL RICORDO DI UN MISSIONARIO OBLATO DI MARIA IMMACOLATA CHE HA LAVORATO A STRETTO CONTATTO CON P. PINO PUGLISI DI SERGIO NATOLI OMI
Quando sento parlare di don Pino Puglisi, nella maggior parte delle testate giornalistiche, si racconta del suo servizio nel quartiere di Brancaccio. Tranne qualche libro scritto su di lui, pochi riescono a fornire un profilo che tocchi i suoi 56 anni e non solo i tre anni da parroco di S. Gaetano. Desidero offrire la mia esperienza e la mia personale lettura di alcune fasi della sua vita, dato che ne sono stato amico, confidente e collaboratore diretto dal 1983 al 1990.
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Chi era
Giuseppe Puglisi nasce nel quartiere Brancaccio di Palermo. Il 15 settembre del 1937 i suoi genitori, Carmelo e Giuseppa Fana, lo vedono nascere e nel 1993, stesso giorno e stessa borgata, è ucciso da Salvatore Grigoli assistito da Gaspare Spatuzza mandati da due mafiosi, Filippo e Giuseppe Graviano, che oggi scontano l’ergastolo proprio per quell’omicidio. Giuseppe Puglisi dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1960 dal cardinale Ernesto Ruffini, strada facendo si è guadagnato la terza “P” di padre Pino Puglisi (padrepinopuglisi.diocesipa.it) ed il 25 maggio prossimo sarà beato. Tra le esperienze più significative come parroco quella di Godrano dove, tra il 1970 ed 1978,
“3P”
e si diventa annuncio, testimoni e profezia anche senza profferir parola. Nel suo ultimo libro La sapienza del sorriso (Paoline 2012) lei scrive che “da un seme che è morto stanno maturando migliaia di spighe”. In effetti don Puglisi con la sua testimonianza riscrive quella pagina evangelica del chicco di grano che caduto a terra muore e produce molto frutto (cfr. Gv. 12, 20-33). Quali sono queste “migliaia di spighe” che stanno maturando?
si è impegnato per la riconciliazione delle due famiglie coinvolte nella faida che aveva lacerato il paese. Insegnante di matematica e religione a partire dal 1962, nel 1978 è prorettore del seminario minore di Palermo e nel 1980 comincia a collaborare nella pastorale vocazionale con incarichi a livello regionale e nazionale. Ai giovani propone i percorsi formativi dei “campi scuola” e diviene animatore di diversi movimenti ed associazioni cattoliche. Il 29 settembre 1990 è nominato parroco a S. Gaetano a Brancaccio. In questo quartiere socialmente e moralmente distrutto, dove la mafia ha il suo peso, nel 1993 “3P” apre il centro ‘Padre Nostro’ per offrire ai ragazzi un orizzonte alternativo. (Elio Filardo)
Il martirio di don Puglisi è denso di futuro, perché quella morte così tragica e dolorosa è oggi un seme insuperabile di vitalità e un esempio glorioso di quella Ecclesia militans che prepara sulla terra la Gerusalemme celeste. Sopprimendo fisicamente il sacerdote palermitano, i mafiosi volevano distruggere la fede che ne animava le azioni, volevano tacitare quella voce che gridava e richiamava tutti, anche i mafiosi, alla conversione, all’avvento di una stagione di pace, di fratellanza,
di amore nel nome di Cristo. Questa stagione è la profezia di don Giuseppe Puglisi: il suo sangue innocente, specialmente per la Chiesa palermitana, è stato come una trasfusione, una sorta di trapianto vitale fautore di un deciso, rinnovato approccio al fenomeno mafioso e, quindi, per una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a misurarsi con esso. La sua fulgida icona, oltre ad aver risvegliato le coscienze addormentate, continua ad additare ai credenti e agli uomini
L MOGGIO La prima volta che incontrai don Pino Puglisi fu ad una riunione del Centro Nazionale Vocazioni (CNV), di cui ero membro, nel 1981. Fu mons. Pizzo ad introdurlo a tutta l’èquipe. In quel periodo lavoravamo alla realizzazione della Mostra vocazionale che portava il titolo Sì! Ma verso dove?. Gli incontri di studio, riflessione comune e programmazione del CNV, erano sempre molto positivi, propositivi ed arricchenti. La diversità dei vari doni naturali, delle vocazioni specifiche della Chiesa lì rappresentate e la stessa preparazione culturale e pastorale di ciascuno, non erano un ostacolo, ma una ricchezza, segno visibile dell’unica Chiesa. In una delle riunioni del CNV dell’inizio del 1983 comunicai a don Puglisi di aver avuto un trasferimento nella
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di buona volontà la via della speranza e della salvezza, attraverso i sentieri della solidarietà e della fratellanza nel nome del Vangelo. Lei parla di “sapienza del sorriso”. Il sorriso ha caratterizzato il martirio di don Puglisi, come se il sacerdote palermitano fosse consapevole che quegli attimi di angosciosa agonia erano di preludio alla beatitudine eterna. È questa la sapienza del sorriso? Il suo messaggio può aiutare credenti e non credenti a vivere una esistenza autenticamente felice? La sapienza del sorriso di don Puglisi e di altri Servi di Dio: basti citare papa Luciani - proviene dall’interiorizzazione di Cristo e del suo messaggio. Chi vive pienamente questa trasformazione restituisce la buona notizia con atteggiamento gioioso, fidente. Con il sorriso sulle labbra, appunto. In don Puglisi il sorriso rivelava ciò che di prezioso, gioioso e santo custodiva nel cuore. Non poté, certo, la morte - peraltro già messa in conto - cancellargli dalle labbra an-
che post mortem quel tesoro che aveva trovato in Cristo Gesù. Quel sorriso, scorto non soltanto dal killer sulla bocca, vittima immolata, è oggi il segno di una primavera ecclesiale che deve sbocciare ancora del tutto. Puglisi è stato un vero e proprio missionario nel portare la Parola di Dio in terre depresse socialmente e culturalmente dal giogo della pressione mafiosa. Ed è nella sua ansia di rievangelizzazione che ha trovato il martirio. Qual è l’insegnamento che don Pino affida ai sacerdoti, alle suore, ai laici che sono in terra di missione, vicine o lontane che siano? Don Puglisi rappresenta un vero segno per la comunità cristiana, nell’Isola e altrove, in quanto mostra la strada corretta per affrontare il fenomeno mafioso: quella di una pastorale attenta ai deboli, diretta ai bambini e ai giovani per non lasciarli inermi prede della proposta mafiosa; una pastorale coraggiosa e pacifica, che non usa formule politiche, ma che parla al cuore di
comunità religiosa dei Missionari OMI di Palermo. Gioì immediatamente. I suoi occhietti esprimevano chiaramente un entusiasmo semplice. “Sei il benvenuto! Il Signore ti aspetta. Ha bisogno anche di te. Vedrai che insieme faremo cose belle”. Tale augurio si rivelò una realtà. Sapendo che avevo partecipato a tutte le fasi della Mostra vocazionale Sì! Ma verso dove? e che avevo avuto la responsabilità dell’esposizione di Assisi, mi “ingaggiò” prima del tempo per collaborare con il Centro Diocesano Vocazioni (CDV) di Palermo ed in particolare per l’animazione della medesima mostra che, a partire dal mese di ottobre 1983, si sarebbe svolta nel palazzo arcivescovile, messo a disposizione dal card. Salvatore Pappalardo. Il 29 settembre 1983 giunsi a Palermo, dove rimasi fino a settembre 1990. Il primo incontro con don Puglisi a Palermo lo ebbi verso la metà di ottobre proprio nel palazzo arcivescovile dove ero andato per vedere come
quanti sono irretiti in disegni malvagi. La sua testimonianza va resa eloquente, in quanto preziosa per tutta la Chiesa ed in particolare per quelle Chiese che si confrontano con il problema delle organizzazioni criminali più o meno segrete. Puglisi, col suo esempio, invi-
fosse stata sistemata la mostra vocazionale. Fu subito festa! Un fraterna festa, fatta ad un amico di sempre, di ritorno da un lungo viaggio. Ci fermammo insieme a pregare nella cappella del palazzo arcivescovile. Lì ebbi la netta sensazione che Dio, attraverso di noi avrebbe potuto compiere quelle “cose belle” di cui mi aveva detto a Roma. Ebbi chiaro che per l’Amore reciproco che ci legava, “avrebbe fatto di Cristo il cuore del mondo”. Al primo incontro del CDV conobbi Agostina, don Gianni dei Passionisti, don Agostino Ziino, p. Carlo Aquino, la famiglia Porcaro ed altri. In quei primi incontri al CDV perfezionammo l’inserimento della mostra all’interno della grande Missione popolare indetta e voluta dal card. Salvatore Pappalardo e come percorso esistenziale da offrire alle scuole della città. Ogni giorno centinaia di giovani salivano le scale del palazzo arcivescovile, per visitare la mostra vocazionale. Io impegnavo due o tre mattinate alla settimana nell’animazione. Fu interessante il giorno in cui don Puglisi scoprì le mie
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Alla luce
Don Pino Puglisi, vittima della mafia, nel film è interpretato da Luca Zingaretti. È ambientato a Palermo, nel quartiere Brancaccio. Don Puglisi è il sacerdote della chiesa del quartiere e si accorge ben presto di una dura verità: i bambini della zona sono coinvolti nella malavita e molti hanno dei genitori mafiosi. Don Puglisi cerca quindi di cambiare la situazione, dicendo loro di andare a scuola, in chiesa e di non rubare. Ai ragazzi piace andare a trovare don Puglisi in parrocchia: è infatti un momento in cui si possono sfogare giocando, per Nella foto Luca Zingaretti esempio a calcio. I in una scena del film di Roberto Faena, uscito nel 2005 genitori mafiosi, al
del sole
ta a mostrare a se stessi e soprattutto ai giovani che vale la pena di lottare per poter cambiare, per migliorarsi, per convertirsi e convertire. Nell’agosto 2010 il cardinale Romeo, arcivescovo di Palermo, le chiede di ac-
contrario, sembrano non gradire gli insegnamenti di don Puglisi: per esempio, a un ragazzino di nome Domenico viene impedito di frequentare la parrocchia e addirittura, quando disubbidisce, viene frustato dal padre. Don Puglisi manda comunque dei messaggi chiari ai mafiosi di Palermo, facendo dei discorsi nella piazzetta della chiesa, ma non viene ascoltato praticamente da nessuno. Il suo messaggio per i cosiddetti uomini d’onore era di presentarsi “alla luce del sole” e di non agire nell’ombra. Don Puglisi si rende allora conto di essere in pericolo e che potrebbe essere ucciso in qualsiasi momento. Infatti, il giorno del suo 56º compleanno, viene ucciso per strada. Le ultime parole da lui pronunciate sono state: “Vi aspettavo”. Nell’ultima scena, in cui viene celebrato il funerale, sono presenti tutti i bambini della parrocchia che lasciano un pensierino per lui sopra la bara.
cettare l’incarico di postulatore per la causa di don Pino Puglisi. In meno di due anni don Pino viene riconosciuto martire. Che cosa significa per Lei accompagnare agli onori degli altari questo santo sacerdote? Io non ho alcun merito: ogni cosa è
doti di cantautore. Tale scoperta lo entusiasmò ancora di più. Il linguaggio della musica moderna a cui erano sensibili i giovani, permetteva di raggiungere il cuore dei ragazzi. Il suo entusiasmo non era strumentale. Don Puglisi apprezzava profondamente ed accoglieva con grande semplicità il mio modo di esprimermi che era molto diverso dal suo. Da quel giorno, ogni qualvolta c’era qualche iniziativa a favore dei giovani, don Puglisi mi ricordava sempre di portare con me la chitarra. In lui non c’era gelosia. Non ci teneva ad essere o apparire “il primo della classe”. Dare spazio a ciascuno era uno stile di vita. Una sua conquista culturale. Solo Dio conosce tutte le volte in cui don Puglisi si è messo da parte per far parlare la mia chitarra, o un altro animatore, perché riteneva che in quel momento l’annuncio avrebbe avuto una maggiore incisività sui destinatari. E il “mettersi da parte” avveniva al momento giusto. Era come se fosse un direttore d’orchestra che sa quando deve intervenire uno
scritta nel disegno imperscrutabile di Dio. Il card. Romeo pensa di affidarmi la Causa durante la celebrazione eucaristica a Cassano allo Jonio (Cs) in occasione della festa di S. Biagio, patrono della diocesi. A noi credenti, se davvero credenti, Cristo Gesù insegna che
strumento o l’altro. Don Puglisi aveva questa capacità di costruire armonia con le persone ed i talenti di ciascuno. Una delle espressioni ricorrenti era “tutti non possiamo fare tutto, ma se ciascuno fa qualcosa, il mondo può cambiare”. Nel CDV gli incontri di verifica erano una tappa importante che precedeva ogni ulteriore programmazione. “3P”, come familiarmente lo chiamavamo, non esitava a lasciarsi mettere in discussione, ad accogliere, a fare così come era stato deciso da tutti, perché a tutti interessava “fare di Cristo il cuore del mondo”. La Mostra vocazionale era ormai un centro di gravitazione. Intere classi scolastiche venivano quotidianamente. L’animazione della mostra era affidata a delle équipes composte sempre da un sacerdote o un religioso, una religiosa, da laici e dei giovani. Don Puglisi era molto impegnato anche nella Missione popolare. Con lui programmavamo incontri per i giovani
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ogni nostra azione deve essere guidata dalla fede, condita dalla carità e riscaldata dalla speranza. E poi pregare, pregare Dio e sempre. La preghiera è una chiave capace di aprire ogni chiavistello, anche vecchio e arrugginito. Comunque, sul terreno e nel processo delle cose, il tempo, il mutato sentire, una più attenta coscienza - all’interno ed all’esterno della Chiesa - hanno reso possibile ciò che per tanti anni non era sembrato tale. Non dimentichiamo, sonelle parrocchie del settore. Molti incontri avvenivano a tavola, nella nostra comunità missionaria. Ha voluto conoscere meglio i singoli padri della comunità, amava informarsi sull’esperienza carismatica del nostro fondatore e lo sviluppo dell’Istituto. Non smetteva di essere aperto ai doni di Dio per la Chiesa. La sua azione pastorale non è stata un’opera di un navigatore solitario, ma l’azione della Chiesa composta da persone di vocazioni diverse. È in questo contesto di ecclesialità che dal 1984 offrivamo ai giovani momenti intensi di preghiera con ritmo mensile. Arrivammo fino a 600 presenze. Con queste iniziative si era molto attenti alla formazione delle coscienze attraverso l’ascolto e l’accompagnamento individuale. Tutto quanto veniva proposto aveva sempre l’impronta della comunione dei carismi presenti nella Chiesa di Palermo. È nella formazione delle coscienze, che si può ricondurre, come privilegiata, l’attività pastorale
svolta dal Servo di Dio don Pino Puglisi, che sarà beatificato il prossimo 25 maggio 2013. Un’attività che ha pervaso tutto il suo ministero sacerdotale e non solo gli ultimi tre anni trascorsi come parroco nel quartiere Brancaccio. Non sono pochi i racconti di don Pino insegnante di religione al Vittorio Emanuele II. Molti giovani hanno scoperto o riscoperto la fede cristiana attraverso l’accompagnamento individuale ed il suo modo semplice di “essere con” loro. Per questa sua attenzione alle persone il card. Pappalardo gli affidò un’esperienza di accompagnamento e discernimento vocazionale di un gruppo di giovani. Tra loro vi era anche l’attuale vescovo ausiliare di Palermo, mons. Carmelo Cuttitta, suo parrocchiano a Godrano (Pa) da quando aveva otto anni. Don Pino, già da parroco di Godrano, dal 1970 al 1978, aveva svolto un’azione evangelizzatrice capillare di casa in casa, con l’ausilio dei cristiani appartenenti al movimento Presenza del Vangelo. Attraverso
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prattutto, che gli ultimi due Pontefici, papa Benedetto XVI e il beato Giovanni Paolo II, hanno avuto parole chiare ed inequivocabili sulla incompatibilità tra mafia e Vangelo. Da parte mia ho portato il mio piccolo contributo nella fase finale dell’iter della Causa. Prego p. Puglisi, perché mi sostenga nel mio servizio apostolico. Il martirio fin dalla Chiesa delle origini è considerato un secondo battesimo, il
battesimo del sangue. È una gloria che apre direttamente le porte della Gerusalemme celeste. Ed è per questo che nella disciplina canonistica, nel momento in cui la Chiesa decreta il martirio non c’è bisogno del miracolo come attestazione delle virtù eroiche per procedere alla beatificazione. Don Pino sarà presto beato. Come si sta preparando la diocesi di Palermo a questo evento? Quando Paolo, rivolgendosi ai confratelli nella fede della Chiesa di
l’annuncio delle beatitudini evangeliche con la formazione delle coscienze individuali e familiari, era riuscito a compiere un’azione di pacificazione sociale in un paese che da anni era permeato da lotte, faide ed omicidi. È a Brancaccio (dal 1990 al 1993) che don Pino Puglisi fa l’esperienza dello scontro con un ambiente ad alta densità mafiosa. È qui che emerge l’audacia dell’apostolo che non lascia nulla di intentato pur di arrivare ad illuminare e formare le coscienze a cominciare dai bambini. Afferma il nostro vescovo nella sua lettera pastorale: “La Chiesa vivendo pienamente incarnata nel territorio insieme con gli uomini di buona volontà, si scontra con tutti i micro e macro-fenomeni legati alla criminalità di stampo mafioso - che non si esauriscono solo nell’organizzazione di Cosa nostra e delle sue filiali, ma si radicano innanzi tutto in una cultura diffusa del fatalismo, della diffidenza verso lo Stato,
Corinto affronta l’argomento dei “carismi più grandi” e apre alla “via migliore di tutto” (1 Cor 12, 31), vuole convincerli della bontà, dell’efficacia della condivisione, dell’annuncio, della donazione totale di sé agli altri, in nome di Gesù, che arriva fino all’offerta della propria vita, proprio per testimoniare Cristo nel “Battesimo del sangue effuso”. Per questo la Chiesa non chiede un miracolo. P. Puglisi è un martire per aver difeso senza esitazioni la fede, per aver osato portare il Vangelo in un contesto ad altissima densità mafiosa. Sarà beatificato nella mattinata del 25 maggio 2013: il suo esempio dà luce alla Chiesa palermitana (ed all’intera Chiesa siciliana), che, sono certo, si sta preparando all’appuntamento come meglio non potrebbe, calendarizzando eventi di approfondimento e momenti di preghiera e riflessione perché p. Puglisi diventi, senza più remore, patrimonio della speranza universale. n
dell’indifferenza verso il bene comune: un vero e proprio sottobosco culturale che dilaga e risulta devastante più di quanto noi possiamo immaginare”. Come Gesù don Pino Puglisi ha preferito pescare con la canna da pesca, anziché con la rete. I dodici apostoli “pescati” da Gesù sono divenuti il fondamento della Chiesa. Don Pino Puglisi mi ha lasciato il senso di Cristo e della Chiesa comunione. Un altro martire, il Servo di Dio p. Mario Borzaga OMI, ucciso a 28 anni nella missione del Laos insieme al suo catechista diciottenne Paolo Xyooj ha scritto: “Noi missionari siamo fatti così: il partire è una normalità, andare una necessità. Domani le strade saranno le nostre case; se saremo costretti ad ancorarci ad una casa, la trasformeremo in una strada a Dio”. Adesso anche per il ‘ragazzo di strada’ che premette il grilletto, si apre un cammino di conversione, che con l’aiuto del beato don Pino Puglisi potrà farlo camminare sulla strada che lo condurrà a Dio.
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news
Notizie in diretta dal mondo oblato messaggi e notizie dalle missioni a cura di Elio Filardo OMI eliofilardo@omimissio.net
Senegal
Marcia ecologica
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na camminata di otto chilometri, dalla parrocchia di Parcelles Assainies fino ai giardini di Hann - il parco naturale e zoologico di Dakar - giovani cristiani e musulmani insieme, in un clima di allegria e amicizia e, una volta giunti a destinazione, una piccola operazione ecologica per ripulire i viali ed offrire un servizio all’intera comunità. Tutto questo si è svolto il 18 novembre scorso: “La mia fede, un cammino di pace”, marcia organizzata dall’Unione delle Associazioni della parrocchia Maria Immacolata Madre di Dio di Parcelles Assainies, alla quale hanno partecipato circa cinquecento persone. Durante il cammino, p. Claudio Carleo OMI, responsabile della pastorale giovanile nella grande parrocchia oblata situata alla periferia nordovest della capitale senegalese, ha letto alcuni brani di Africae Munus, l’Esortazione Apostolica Post-sinodale pubblicata nel 2011, sulla Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. Il sindaco musulmano di Parcelles Assainies, M. Moussa Sy, ha preso la parola al termine della marcia ringraziando l’intera comunità cristiana per il lavoro svolto quotidianamente a servizio della gente del quartiere, ed ha ribadito l’importanza di camminare insieme, per una convivenza all’insegna della pace e della speranza.
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l 7 dicembre a Dhaka, nel corso di una tavola rotonda dal titolo La vita e la politica di aiuto a favore dei diritti delle popolazioni indigene: Il punto di vista della Comunità Khasi, è stata chiesta la formazione di una Commissione per risolvere i problemi degli indigeni. All’iniziativa organizzata da Bangladesh Paribesh Andolon (BAPA) e da Adivasi Poribesh Rokkha Andolon (APRA), ha partecipato anche Flora Bably Talang, leader ed attivista per i diritti umani, che, a nome dell’Ufficio oblato Giustizia, Pace e Integrità del Creato (GPIC) in Bangladesh, ha detto: «Noi, della comunità Khasi, siamo figli Il diritto fondiario della foresta. Ci prendiamo cura del foresta e la foresta si prende cura di noi. Abbiamo bisogno di essere protetti e riconosciuti dal governo degli indigeni del Bangladesh. Se la terra non ci sarà concessa legalmente saremo sfrattati. Sappiamo come proteggere e promuovere la biodiversità di colline e foreste. Coltiviamo il betel sull’albero che è parte integrante della nostra vita (…) contribuiamo all’economia del Paese ed allo stesso tempo creiamo lavoro anche per coloro che non appartengono alla comunità Khasi». Nella regione di Sylhet ci sono quasi cento villaggi Khasi. Direttamente o indirettamente, ogni villaggio Khasi (Punji) fornisce posti di lavoro a cinquecento persone. Nel corso della riunione Flora Bably Talang, insieme ad altri relatori, ha espresso la sua bangladesh profonda preoccupazione per la violazione dei diritti umani dei popoli indigeni. (fonte: omiusajpic.org)
Bangladesh
GIORNATA DI PREGHIERA E DIGIUNO PER I MISSIONARI MARTIRI
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ata nel 1993 per iniziativa delle Pontificie Opere Missionarie italiane, scegliendo come data il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di mons. Oscar A. Romero, arcivescovo di San Salvador (24 marzo 1980), la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri raggiunge quest’anno il suo ventunesimo traguardo. L’iniziativa intende ricordare con la preghiera e il digiuno i missionari e gli operatori pastorali che sono stati uccisi nel mondo. Tra le indicazioni per la celebrazione della Giornata, le comunità parrocchiali e di vita consacrata, i seminari, i noviziati, sono
invitati ad utilizzare le tracce della veglia, della via crucis, e delle altre celebrazione preparate per questa circostanza; a creare in chiesa “l’angolo del martirio” utilizzando una croce, un drappo rosso e scrivendo i nomi delle missionarie e dei missionari uccisi nell’anno 2012; a informarsi se nella propria diocesi ci sono stati missionari uccisi, e a far conoscere la loro testimonianza; a compiere un gesto di riconciliazione. I sussidi e il materiale per la celebrazione della Giornata sono rintracciabili sul sito: www.missioitalia.it/download. php?id=109&sito=Missio
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Paraguay
Violenza contro gli indigeni
Spagna
Festa interculturale
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n occasione della novena per la festa della Virgen de Caacupé, la principale devozione mariana del Paraguay che si celebra l’8 dicembre nella Basilica di Caacupé, dove i fedeli si recano in pellegrinaggio da tutto il Paese, domenica 2 dicembre è stato aperto l’Anno della Fede. La celebrazione è stata presieduta dal vicario apostolico di Pilcomayo, mons. Lucio Alfert OMI che si è soffermato in particolare sulla grave situazione delle famiglie indigene di cui è pastore. A nome loro ha denunciato la difficile realtà in cui vivono, la violenza degli speculatori che gli sottraggono la terra e che spingono sempre di più alla deforestazione. Molte di queste zone sono ormai contaminate da agro-tossine e sono state dichiarate come terreno non abitabile. Mons. Alfert ha denunciato che questa situazione impedisce la vita normale di ciascuna famiglia indigena, costringendo alla fuga ed alla ricerca di altre terre. Purtroppo molti indigeni finiscono per vivere nelle tende lungo le strade provinciali, chiedendo l’elemosina per sopravvivere. Alla celebrazione del 2 dicembre hano partecipato indigeni delle etnie Nivaclé, Guarani Ñandéva, Tobas Qom y Makâ. (fonte: fides.org)
Sudafrica
Mons. Verstraete finisce il suo mandato
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iciassette Oblati il 27 novembre hanno partecipato alla celebrazione eucaristica al ‘Good Shepherd Retreat Centre’ di Hartbeespoort, per salutare mons. Daniel Verstraete OMI in occasione del suo rientro in Belgio. Giunto in Sudafrica nel 1950, ha svolto la sua missione in diverse parrocchie a Soweto, nell’arcidiocesi Johannesburg. Il 9 novembre 1965 è stato nominato prefetto apostolico del Transvaal Occidentale e il 27 febbraio 1978, al momento dell’erezione a diocesi della Klerksdorp, è stato designato come primo vescovo. Nel 1994 si è ritirato per motivi di salute ed ha fondato il “Good Shepherd Retreat Centre”, un luogo di preghiera e di riposo per persone di tutte le fedi. (fonte: omiworld.org)
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gasajo Navideño è la festa natalizia del Gruppo socio-culturale e cristiano che si è tenuta domenica 23 dicembre nella parrocchia Virgen Peregrina di Madrid. Gli Oblati di Diego de León hanno accolto con grande gioia i partecipanti a questa iniziativa interculturale che coinvolge gente proveniente da Bolivia, Equador, Perú, Cile e Paraguay. Dopo la celebrazione Eucaristica p. Antón Pacho ha dato il benvenuto a tutti i partecipanti e p. Otilio Largo ha rivolto un breve messaggio di Natale. Durante la festa, la consegna di alcuni premi da parte della Caritas, una rappresentazione natalizia, l’esibizione con danze tradizionali da parte del gruppo del Perù e gli assaggi di alcuni piatti tipici. Il Gruppo socio-culturale e cristiano, fondato da p. Ignacio Escanciano, si incontra ogni domenica in parrocchia dedicando del tempo al confronto su questioni legate alla vita quotidiana. Ultimamente sono stati organizzati un laboratorio di pittura ed uno di preghiera. (fonte: nosotrosomi.org)
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Santa Maria a Vico Convivenza delle ragazze
GMG, Brasile 2013
Mancano meno di duecento giorni alla Giornata mondiale della Gioventù che si svolgerà in Brasile dal 23 al 28 luglio. Nei giorni che precedono il programma a Rio de Janeiro, e precisamente dal 18 al 22 luglio, i giovani di tutto il mondo che condividono il carisma oblato si incontreranno al Santuario nazionale di Aparecida. Per avere informazioni e conoscere notizie sul programma oblato si può cliccare su www.jomibrasil.com/it Il sito di riferimento per i giovani italiani che parteciperanno alla GMG brasiliana è www.gmgrio2013.it
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n’esperienza fortemente voluta questa mini-convivenza svoltasi dal 18 al 20 dicembre. Abbiamo inaugurato, per la convivenza, alcuni locali della casa oblata di S. Maria a Vico (Ce) e - a dispetto della conoscenza del posto - tutto, era per noi, una novità. La prima cosa che abbiamo percepito è il grande calore della comunità oblata che, nonostante sia formata da tanti oblati anziani, ci ha accolto con grandissimo entusiasmo. Condividendo gli stessi luoghi, abbiamo sperimentato la bellezza e la semplicità della vita giornaliera e abbiamo sentito la presenza di un “Dio vivo” tra noi che si manifesta attraverso le debolezze e i talenti. Alla fine della convivenza eravamo cariche di tante esperienze, ma soprattutto ognuna portava dentro di sé parte della vita e della quotidianità dell’altra. Questa convivenza è stata una vera scuola dell’Amore, una scuola di relazioni, di condivisione e di accoglienza, dove l’unico maestro era Lui, che ci ha dato la grazia e il calore del suo amore per vivere questa esperienza di cui ognuna ha fatto tesoro. Carmen e Tonia
Messina C
Quelli del venerdì
on gli organismi diocesani con cui stiamo collaborando dall’anno scorso per realizzare momenti di animazione missionaria in città, quest’anno abbiamo sentito l’esigenza di un posto in cui stare insieme, non per fare incontri, pregare e parlare di missione, ma un posto che potesse servire anche per coinvolgere nostri amici che in chiesa e agli incontri non verrebbero mai anche solo per partito preso. E così, grazie alle suore del Divino Zelo che ci hanno messo a disposizione i loro locali, il secondo venerdì di dicembre ci siamo incontrati la
prima volta per una tombolata. L’esperienza che abbiamo è poca, ma l’importante è che a collaborare all’organizzazione di queste serate, che avranno cadenza bisettimanale, siano ragazzi provenienti da gruppi diversi. Finora siamo noi dell’MGC, il missio giovani e il gruppo portato dalle suore del Divino Zelo. La bellezza dell’iniziativa è che è completamente giovanile ed è una sfida grande per noi, visto che dipende da quanto noi ragazzi ci metteremo in gioco per portarla avanti e lavorare insieme. Giovanni
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COSENZA
Una vita sgrammaticata
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on lo slogan Più migliore assai si è svolta il 16 dicembre nella comunità di S. Domenico la Giornata giovanissimi. Presenti più di 60 ragazzi, provenienti da varie parti della Calabria: Montalto, Cetraro, Aprigliano, Paola, Cosenza, S. Fili, Andreotta, Belmonte, in provincia di Cosenza, S. Andrea sullo Jonio e Badolato in provincia di Catanzaro. Una vita “più migliore assai”. E chi può insegnarla se non il Vangelo e Colui che certo non si è accontentato di sopravvivere, ma di vivere donandosi totalmente? Il tema metteva a confronto una vita “base”, fatta di compromessi e poco stimolante, con una vita “premium”, un livello più alto, che mette in gioco e dà delle soluzioni alternative: sicuramente è la scelta che più espone al rischio, ma garantisce la felicità e la piena realizzazione. Quale scegliere? Quello che si notava tra i ragazzi era non solo un’attenzione viva, ma soprattutto un entusiasmo nel mettere subito in pratica ciò che era stato loro comunicato. Così un libro antico di molti anni come il Vangelo, con un personaggio che sembra essere “il perdente”, è divenuto un manuale dai consigli ricchi e preziosi. La Giornata è proseguita con la celebrazione dell’Eucarestia e si è conclusa con un momento di comunione a gruppi nel quale ognuno ha condiviso le perle della giornata.
SUI PASSI DI S. EUGENIO A MARINO (RM)
Antonella
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FIRENZE
Le sensazioni di un animatore
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uest’anno il cammino dei Giovanissimi MGC prende spunto dai programmi televisivi dei canali Dmax e RealTime e prevede una Giornata mensile dove tutti i ragazzi delle varie zone di Firenze e Prato si incontrano. Sono veramente tanti - circa 110 - e la mancanza di animatori alcune volte accenna a farsi sentire. Io sono uno di questi. Due anni fa dopo aver concluso il cammino giovanissimi mi venne proposto di diventare un animatore e ho accettato. Inizialmente ero un po’ come un pesce fuor d’acqua e mi ci è voluto tempo per entrare pienamente dentro questa nuova realtà. Recentemente mi sono messo in gioco come presentatore ad una Giornata e devo dire che la sensazione di trasmettere ad altri quello che poco più di un anno prima provavo e che mi è rimasto nel cuore è indescrivibile. Sono soddisfatto delle esperienze che sto vivendo e spero vivamente di farne altre sempre più costruttive, che mi facciano sentire parte di questo fantastico movimento chiamato “MGC”. David Il 27 dicembre ha segnato l’inizio della tre-giorni a Marino con lo slogan “Ti racconto una storia… in cammino con S. Eugenio”. Eugenio presentato è un uomo giovane, appassionato, dal cuore grande quanto il mondo, un uomo che quando incontra lo sguardo di Gesù in croce ne rimane profondamente rapito. I momenti di condivisione sono serviti per una conoscenza più profonda tra noi ragazzi delle varie comunità d’Italia: ai primi sorrisi e sguardi degli arrivi si aggiungevano cose più profonde, storie che la presenza di Gesù tra noi ha permesso di condividere. Abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni luoghi romani dove il santo trascorse momenti importanti, cruciali per la propria vita e per la congregazione oblata. S. Silvestro in Quirinale, S. Maria in Trivio e S. Pantaleo sono le chiese da noi visitate, tre delle tappe del cammino di S. Eugenio. Ascoltando p. Fabio spiegare cosa quelle chiese avessero rappresentato per il santo, abbiamo potuto dare sostanza ad una storia che sino ad allora era stata solo racconto e questo ci ha permesso di sentirla più nostra.
Ed ecco che ci siamo riconosciuti nei dubbi di Eugenio, nelle difficoltà quotidiane che, come noi, affrontava. Nelle fragilità umane del carattere del santo abbiamo trovato la forza per accettare le nostre e per comprendere che i limiti di ciascuno non sono più ostacolo, ma frutto per chi ci sta accanto: questo rappresenta un invito costante a non pensare mai di bastare a noi stessi, ma a riscoprirsi sempre dono per gli altri. Abbiamo anche partecipato al 35° Incontro europeo dei giovani di Taizé in piazza S. Pietro con il Papa. Con questo carico di emozioni, rigenerati, abbiamo concluso la tre-giorni così com’era cominciata, intorno all’altare per la messa della domenica. Una nuova tappa del nostro cammino è incominciata e la si può percorrere forti dell’esperienza si S. Eugenio, la cui storia ci è stata raccontata e i cui passi, ora, accompagnano i nostri. Ciò che portiamo dentro è anche la consapevolezza che non esistono distanze fra noi, perché saremo sempre un unico cuore se crediamo in Lui. Gilda, Serena, Amedeo, Aurora e Domenico
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una foto per pensare
L’ora di D
fa spaz io Len tamen te si lla vita , nel fluire de affannosa nella ricerca che sfugge . di qualcosa È lo scoccare richiamo di un nuovo elare capace di sv lla vita . il segreto de
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Dio
foto Alessandro Milella, alexmil@tele2.it testo Claudia Sarubbo, claudia.sarubbo@yahoo.it
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Chiara è nata e non morirà mai più
La storia di una giovane donna, testimone autentica di vita cristiana. La regola dei “piccoli passi possibili” di Angelica Ciccone angelica.ciccone@gmail.com
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hiara Corbella aveva ventotto anni, era una donna, una moglie e una mamma. Era una ragazza della mia età, appartenente a questa generazione che soffre il problema della disoccupazione, del mettere su famiglia, della precarietà della vita in tutti i suoi aspetti. Eppure Chiara ha saputo rispondere a questa società “in crisi” facendo della sua vita un progetto divino. Le persone che in questi mesi hanno seguito la sua storia e quella di Enrico Petrillo, suo marito, si sono commosse, arrabbiate, scandalizzate, convertite. Ma cosa può dire a noi cristiani questa ragazza di Roma che ha vissuto un’esistenza così felice ed è salita in cielo con una felicità ancora più grande?
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Una storia che interroga Chiara nasce il 9 gennaio 1984. Cresce frequentando la parrocchia e, durante un viaggio a Medjugorje, conosce Enrico, con il quale si fidanza. Pochi anni e, dopo aver fatto ad Assisi un cammino di formazione per fidanzati, Chiara ed Enrico si sposano nel settembre 2008. Ha ventiquattro anni Chiara. Pochissime ragazze ormai si sposano a quell’età, perché non si hanno certezze, perché ci si vuole godere la vita, perché non si è preparati ad abbracciare un progetto di vita per sempre. Lei ed Enrico, invece, si fidano di Dio e della Provvidenza e si lanciano in questa “volontà di Dio”. Chiara rimane subito incinta di una bambina, ma già dalle prime ecografie alla bimba viene diagnosticata un’anencefalia: incompatibile con la vita, dicono i medici, morirà appena nata. Chiara ed Enrico accolgono la notizia e si rifiutano di abortire. Vogliono dare alla bambina la possibilità di vivere quanto Dio vorrà. Chiara porta avanti una gravidanza difficile fino al
Sì Enrico, la croce è dolce come dice il Signore giorno in cui nasce Maria Grazia Letizia, che viene battezzata e sale al cielo dopo trenta minuti. Chiara racconta questa esperienza durante un incontro ad Assisi, una testimonianza che si può vedere e ascoltare in un video su Youtube, nella quale afferma quanta gioia loro abbiano sperimentato davanti a questo avvenimento. Chiara ed Enrico non si rassegnano e pochi mesi dopo arriva un’altra gravidanza. Anche stavolta il bambino è incompatibile con la vita per alcune gravi malformazioni, di nuovo la gravidanza viene portata a termine e nasce Davide, che vive poco più della sorellina.
In questa pagina un’immagine del funerale di Chiara, che dimostra quanto amore abbia dato e ricevuto e la copertina di una pubblicazione che racconta la sua scelta. In apertura Chiara Corbella con suo marito, Enrico Petrillo.
Arriva per Chiara anche la terza gravidanza. Il bambino è sano e nascerà senza problemi. Al quinto mese, però, a Chiara viene diagnosticato un tumore alla lingua. Provano ad intervenire, ma non funziona; c’è bisogno di cure più serie e specifiche. Chiara, però, rifiuta di farsi curare, perché metterebbe a rischio la vita di suo figlio. Il 30 maggio 2011 nasce Francesco e subito iniziano le cure contro il tumore. Ma ormai è troppo tardi e nessuna cura funziona. Ad aprile 2012 i medici le dicono che non ha nessuna speranza di vita e il 13 giugno 2012 sale in cielo. Dice Enrico: “Questa Croce - se la vivi con Cristo - non è brutta come sembra. Se ti fidi di lui, scopri che in questo fuoco non bruci e che nel dolore c’è la
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pace e nella morte c’è la gioia. Quando vedevo Chiara che stava per morire ero ovviamente molto scosso. Quindi, ho preso coraggio e poche ore prima era verso le otto del mattino, Chiara è morta a mezzogiorno - gliel’ho chiesto. Le ho detto: “Chiara, amore mio, ma questa Croce è veramente dolce, come dice il Signore?”. Lei mi ha guardato, mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha detto: “Sì, Enrico, è molto dolce”. Così, tutta la famiglia, noi, non abbiamo visto morire Chiara serena: l’abbiamo vista morire felice, che è tutta un’altra cosa”. Chiara ha vissuto tutta la vita con questa disposizione interiore ad accogliere il dolore e trasformarlo in gioia. C’è una frase che ripeteva sempre: “Siamo nati e non moriremo mai più”. Chiara, infatti, non è morta, ma ha dato la vita nel senso più fecondo del termine.
La vita di Chiara ci parla Chiunque davanti ad una storia del genere si chiede: cosa avrei fatto io al suo posto? Molti di noi risponderebbero che forse non avrebbero avuto il coraggio di reagire così. Di portare una gravidanza fino alla fine e con sofferenza, per generare una vita di appena trenta minuti. Di farlo per una seconda volta. E dopo queste due esperienze, di
essere ancora aperti al dono della vita. Di credere che la vita la dona Dio ed è lui a dover decidere se e quando. Di correre il rischio di morire per mettere alla luce una vita che ancora non è nel mondo. Di stare nella gioia sapendo che hai un solo mese da vivere. Chiara è una “santa”, e non si ha paura di essere blasfemi nel dirlo. E davanti alla santità ci sentiamo sempre inadeguati, pensiamo che sia una cosa riservata solo a chi fa cose grandi nella vita. Forse perché i santi, nostri contemporanei, ai quali ci stiamo abituando negli ultimi anni, nella maggior parte dei casi sono ancora troppo lontani da noi, persone che hanno fatto cose grandi per il mondo, per i poveri, per la Chiesa. Oppure donne e uomini di grande umiltà, ai quali è stata donata la grazia di un rapporto mistico con Dio. Sulla storia di Chiara, nel web, si possono leggere commenti e reazioni di tutti i tipi. Qualcuno si chiedeva come possiamo pensare di essere anche noi santi, se Dio non ci chiama a croci così grandi, come possiamo vivere le croci con questa fede e questo coraggio? Durante un incontro con i giovani del Movimento giovanile Costruire nel 1995, p. Giovanni Santolini OMI diceva che dobbiamo essere “eroi per abitudine”: se cominciamo ad essere fedeli al Vangelo nelle piccole cose,
La vita, che duri trenta minuti o cent’anni, non fa molta differenza saremo così “abituati” che riusciremo ad esserlo anche nelle cose che sembrano più grandi noi. Anche la beata Chiara Luce Badano, una ragazza di diciotto anni morta di tumore, che aveva vissuto la croce della malattia restando fedele al Vangelo, diceva: “Ho capito che se noi fossimo sempre in questa disposizione d’animo, pronti a tutto, quanti segni Dio ci manderebbe!”. Chiara Corbella fa scandalo, perché è la sua “normalità” a sconvolgere le coscienze. Non si può restare indifferenti davanti alla vita di una donna che potrebbe essere simile a tante altre. Perché in fondo ciò che è successo a Chiara potrebbe accadere a me, alla mia compagna di scuola, alla mia sorella di comunità, alla signora che incontro al supermercato. Chiara è
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Non mettere barriere alla Grazia Racconta Enrico, marito di Chiara, in un’intervista a Radio Vaticana: «Anche attraverso le vite dei nostri figli abbiamo scoperto che la vita, trenta minuti o cent’anni, non c’è molta differenza. Ed è stato sempre meraviglioso scoprire questo amore più grande ogni volta che affrontavamo un problema, un dramma. In realtà, noi nella fede vedevamo che dietro a questo si nascondeva una grazia più grande del Signore. E quindi, ci innamoravamo ogni volta di più di noi e di Gesù. Questo amore non ci aveva mai deluso e quindi, ogni volta, non perdevamo tempo, anche se tutti intorno a noi ci dicevano: “Aspettate, non abbiate fretta di fare un altro figlio”. Invece noi dicevamo: “Ma perché dobbiamo aspettare?”. Quindi, abbiamo vissuto questo amore più forte della morte. La grazia che ci ha dato il Signore è stata di non aver messo barriere alla sua grazia. Abbiamo detto questo sì, ci siamo aggrappati a lui con tutte le nostre forze, anche perché quello che ci chiedeva era sicuramente più grande di noi. E allora, avendo questa consapevolezza sapevamo che da soli non avremmo potuto farcela, ma con Lui sì».
“santa”, perché si è allenata ad amare giorno dopo giorno e ha amato fino alla fine. Perché ad ognuno di noi nella vita, presto o tardi, verrà chiesto di amare. Quando mi trovo davanti a una malattia fisica, mia o di un familiare, quando un marito o un amico mi tradisce, quando subisco una violenza, o più semplicemente quando il collega di lavoro mi crea problemi, l’amico mi cerca solo quando ha bisogno, quando c’è da buttare l’immondizia nel momento della giornata in cui sono più stanco. “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16,10), dice Gesù. Ed è l’ordinario, non lo straordinario che ci fa ‘santi’. Chiara si è preparata bene, seguendo la sua regola preferita: piccoli passi possibili. Non conta ciò che non hai fatto nel passato, o quello che pensi tu possa fare in futuro. Conta l’amore che puoi dare adesso. Siamo in un momento storico in cui la crisi si fa sentire, pesa sulle nostre vite. Ci disperiamo, perché non abbiamo un
lavoro, non ci sposiamo, perché non abbiamo una sicurezza economica, non facciamo figli, perché ci tolgono la libertà, ci accontentiamo di una vita mediocre, perché vivere pienamente significa anche farci carico delle croci, che di certo non sono cosa piacevole. Tant’è che il nostro è un mondo che cerca di cancellare il dolore (partendo dall’aborto e dall’eutanasia) in tutte le sue forme. Chiara ha risposto a questa crisi con la fedeltà al Vangelo e ci dice quanta responsabilità abbiamo noi cristiani di fronte ad un mondo sempre più spaventato e incerto. La scelta di Chiara ci ricorda anche una cosa fondamentale: che le donne, nella Chiesa e nel mondo, hanno una missione unica che possono portare avanti solo loro. È la missione della maternità, che Dio ha messo dentro ciascuna donna sin dalla nascita. Chiara ha vissuto fino in fondo la sua vocazione di donna: ha accolto e generato vita. Solo attraverso la realizzazione
piena di questa vocazione ciascuna di noi può portare frutto nella Chiesa e nel mondo. Questo significa essere una donna nel senso pieno del termine. La scelta di Gesù, infine, è una cosa che non basta fare personalmente, è necessario portarla avanti insieme. Non possiamo pensare di riuscirci da soli. Chiara ha avuto la capacità di essere fedele alla sua vocazione, perché ogni suo passo è stato compiuto insieme ad Enrico. Hanno vissuto un matrimonio in cui Gesù era al centro e hanno fatto insieme il cammino verso la santità. Il loro amore vissuto alla presenza di Gesù invita anche noi, tutte le comunità legate al carisma oblato, i fidanzati, le famiglie, a farci riconoscere da quanto ci amiamo. Eugenio de Mazenod l’aveva capito duecento anni fa che da soli non possiamo fare molto. Il mondo ha bisogno di persone che sappiano vivere il Vangelo insieme per realizzare il Regno di Dio proprio ora che manca di più la speranza. n
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Sport paralim p fra presente e futuro
L’edizione 2012 dello showdown di Villa la Stella. Parla Remo Breda di Michele Palumbo
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ella splendida cornice di Villa la Stella, a Firenze, si è svolto il torneo di showdown organizzato dalla polisportiva Dani e intitolato alla memoria di Francesco Bracci. A Villa la Stella si sono dati appuntamento 28 atleti e 18 atlete per un totale di 218 incontri: un’adesione e un impegno di gran lunga superiore a quello delle edizioni precedenti. Negli ultimi anni, il crescente interesse nei confronti di questa e altre discipline paralimpiche sta portando le competizioni a standard agonistici elevati che potrebbero portare a interessanti risvolti nell’immediato futuro. Ne abbiamo parlato con Remo Breda, presidente del FISPIC (Federazione Italiana Sport Paralimpici per Ipovedenti e Ciechi) e vicepresidente del CIP (Comitato Italiano Paralimpico). Ancora una volta Firenze è capitale dello showdown. Villa la Stella potrebbe diventare un appuntamento annuale, un punto di riferimento inequivocabile per lo showdown nazionale? Il torneo Bracci è certo il primo appuntamento nazionale. Firenze rappresenta la porta che apre la stagione sportiva. Un momento importante che avrà un futuro nella misura in cui la polisportiva Dani vorrà riproporlo. Tuttavia, il fatto di essere passati dai due
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Disciplina
Lo showdown è una disciplina agonistica per ipovedenti e ciechi, riconducibile al tennis tavolo, ma il cui termine, di chiara etimologia anglosassone, pare ne sottolinei invece le antitesi, dovendo riferire il colpo della racchetta “sotto”, anziché “sopra” la rete (o in questo caso lo schermo) di mezzeria. Annullate le varie differenze ipovisive con una benda, gli atleti seguono il rumore sibilante di una pallina riempita di sferette metalliche e la indirizzano verso la porta avversaria. Il gioco si mostra semplice e intuitivo, ma include un vasto repertorio di tattiche di gioco che comunque, mai
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prescindono da un senso di lealtà e sportività, in media molto più spiccato che negli sport fra normodotati.
tavoli dell’anno scorso ai cinque di quest’anno, con un notevole tour de force da parte di arbitri e partecipanti, è segno che gli atleti hanno imparato a valorizzare questo appuntamento.
tranquillità dell’ambiente e della possibilità di fare una passeggiata tra gli ulivi: aspetti che infondono serenità e predispongono a un’ottimale condizione psicologica. Gli interni poi, vanno valutati sotto un piano soggettivo: dipende dall’educazione, dalla cultura e dalla concezione del ‘bello’ di ciascuno. Il “bello” non è una sensazione che passa solo dagli occhi. Lo possiamo condividere e respirare. Noi sentiamo “l’antico” a livello olfattivo e non solo. Possiamo renderci conto al tatto della qualità delle merlature e degli intarsi. Il “bello” non è prerogativa della vista, non è solo patrimonio visivo.
Cosa cambia per un atleta ipovedente giocare in sale austere, con parquet e antiche mobilie, quadri del XVIII secolo, piuttosto che in spazi appositamente predisposti, quali palestre o palazzetti dello sport? Bisogna vedere l’ipovedente che tipo di sensibilità ha verso l’arte, l’antico e il bello. Ma non credere che l’ipovedente non possa godere comunque di una location di assoluto prestigio come questa. Io, in qualità di cieco assoluto posso godere, ad esempio, della
Torniamo alla disciplina sotto un profilo tecnico: l’anno scorso sottolineava come la promozione e la divulgazione dello sport, a livello agonistico, fossero alla base del suo programma in qualità di presidente della FISPIC. Cosa è effettivamente cambiato dall’anno scorso a oggi? Per quanto riguarda lo showdown abbiamo migliorato i regolamenti vigenti e stiamo riducendo al minimo le soggettività. Navighiamo con più certezza e consapevolezza della disciplina.
Abbiamo ampliato il calendario con un torneo che si giocherà a Tirrenia: “Italian top 12”, riservato ai migliori dodici atleti e atlete del ranking nazionale. Credo sia destinato a diventare un torneo molto esportabile dal punto di vista mediatico e della sponsorizzazione. Oggi siamo in fase sperimentale, ma dalla terza edizione in poi, diventerà una competizione prestigiosa. Il campionato sarà disputato con partite al meglio dei cinque set. Chiaro che verranno fuori doti sia fisiche che tecniche: vincerà il migliore sotto ogni punto vista. Alla lunga verrà fuori la capacita di reggere gli undici incontri e quindi conterà tanto la preparazione atletica. Durante le ultime paralimpiadi svoltesi a Londra, la BBC trasmetteva un programma dedicato, con interviste e dirette. In Italia la copertura di stampa e televisione è stata più limitata. Come giudica il comportamento del pubblico normodotato e dei mezzi di comunicazione nei confronti di questi sport e dei suoi atleti? Sono d’accordo che la copertura sia
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fatti
litano. Paradossalmente la massima aspirazione possibile per un comitato paralimpico è quella di morire. Noi siamo nati solo per creare i presupposti culturali affinché si possa un giorno sparire, tornare nell’oblio, perché saremo riusciti a convergere il movimento paralimpico nel movimento olimpico.
Alcuni momenti e protagonisti dello showdown nella cornice di Villa la Stella a Firenze
stata limitata, se il confronto è fatto con la BBC che giocava in casa e aveva più di un motivo per trasmettere le paralimpiadi: a Londra è stato sperimentato, per la prima volta, un unico comitato con competenze olimpiche e paralimpiche. Già partendo da questo assunto gli inglesi si aspettavano moltissimo da questo evento. Io sono stato contentissimo della copertura dei media italiani. Se penso che Sky aveva cinque canali dedicati e la Rai si collegava intorno alle dodici e non chiudeva se non con l’ultima gara intorno alle ventitré o, se penso che siamo passati da una copertura zero dei tempi di Pechino alla copertura attuale, come potrei dichiararmi insoddisfatto? Bisogna dire inoltre, che la Rai ha mandato in onda eventi non coperti dalla rete nazionale inglese. Credo che
grazie ai media italiani, a Londra sia passata la lezione che il disabile sia una persona con la quale interloquire e con la quale si può avviare un rapporto fra pari, senza false paure. Cosa succederà adesso? La popolarità degli sport paralimpici è giunta al suo parossismo? Dovremmo aspettarci una parabola discendente dopo Londra 2012? Ho ragione di credere che Londra abbia segnato una svolta definitiva e che i margini di crescita siano ancora abbondanti, sia a livello di attenzione che a livello politico. Dal punto di vista politico c’è una nuova sensibilità che è quella di dar vita a un unico organismo: l’ha detto Luca Pancalli (presidente del CIP, ndr.) e persino il presidente Napo-
Potrebbe essere questo il momento ideale per inserire lo showdown tra le discipline paralimpiche? Quali sono le idee di Breda a riguardo? Anche questa, dal punto di vista sportivo, è un’ambizione. I tempi tuttavia non sono maturi perché per essere disciplina paralimpica c’è bisogno di un requisito fondamentale: essere praticato in almeno tre continenti. Lo showdown è uno sport prettamente europeo, tanto che tra campionato mondiale e europeo non c’è quasi differenza. Per essere realistici: non lo vedremo in Brasile nel 2016, ma ci sono comunque buone speranze per il 2020. Il torneo di Villa la Stella si è concluso, dopo tre giorni di sfide, con le vittorie finali degli atleti Ferrigno, per la categoria uomini e Marcato, per le donne, rispettivamente delle polisportive di Milano e Bologna. Gli atleti sono stati tutti premiati dal primo all’ultimo, in base al vero principio ispiratore dello showdown che, al pari di ogni altra disciplina sportiva, è quello della condivisione. n
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lettere dai missionari
MISSIONI Gli immigrati non sono numeri
P. Sergio Natoli OMI con un gruppo di immigrati a Palermo il giorno della visita del Papa nell’ottobre 2010
Nell’analisi del fenomeno migratorio si scrivono fiumi d’inchiostro ed i numeri hanno sempre una loro valenza. Spesso, però, prendono il sopravvento i criteri sociali, economici e statistici distaccati dalla persona umana. È opportuno dare la giusta centralità e recuperare la dimensione umana ed umanizzante del fenomeno migratorio ed allora i numeri con tutte le statistiche acquisteranno anche un valore antropologico. Chi parla delle loro culture, tradizioni, credo religioso, del modo con cui intendono e vivono la famiglia, il lavoro? Esistono molte denunce nei confronti di quanti calpestano la loro dignità. Ma quali azioni si compiono per ridare dignità a quanti l’hanno vista schiacciata anche da parte
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delle istituzioni? Poche, molto poche! Oggi si continua a parlare della grande crisi economica e finanziaria. Una crisi che ha diverse radici che a me piace riassumere in alcune espressioni della Bibbia: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt. 6, 24). “In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello...” (1Gv 3,10). Sono espressioni dure e radicali che, oltre ad avere una valenza religiosa, hanno una valenza antropologica. Lo afferma anche la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di
coscienza e devono agire in uno spirito di fraternità vicendevole” (10 dicembre 1948, art.1). La disuguaglianza e la squilibrata distribuzione della ricchezza, sono la conseguenza di un’impostazione della vita in cui l’individuo e le società pensano di essere i padroni del mondo e degli uomini. Se insieme ai numeri riuscissimo a fare anche una riflessione sulla “qualità della vita” riusciremmo a comprendere le persone che vivono in condizione di mobilità in quanto saremo capaci di cogliere i drammi e i traumi dello sradicamento dalla cultura, dagli affetti, dall’ambiente e dal clima. La presenza di circa cinque milioni di immigrati regolari nel nostro Paese è un numero che da un lato dice che l’Italia è scelta come dimora stabile da tanta gente, ma dall’altro che questa porzione d’umanità proviene da luoghi in cui le condizioni economiche, politiche e sociali non consentono di vivere serenamente la propria esistenza per mancanza di pace, risorse economiche e prospettive migliori di vita. Sergio Natoli OMI Ufficio Migrantes, arcidiocesi di Palermo
Natale 2012
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OMI P. Vincenzo Bordo OMI in Corea
Il Natale, celebrazione dell’incarnazione di Dio nella storia, non è il dolce e romantico ricordo di un bel Bambino, riccioluto e pasciuto che è venuto con gioia e spensieratezza a far festa in mezzo a noi, ma è la risposta d’amore di un Signore compassionevole e misericordioso che ha ascoltato il nostro grido di dolore. Sento suonare alla porta e vado ad aprire. Davanti a me c’è un signore dai lineamenti ben curati che porta sul fianco della cintura una forbice da potatura e un seghino. Mi chiede di poter tagliare e sistemare gli alberi del nostro giardino. A me sembra che non ce ne sia bisogno e quindi rifiuto la sua richiesta. Lui
replicando mi dice: “Ho bisogno di guadagnarmi la giornata. Mi dia questa opportunità”. A quelle parole lo lascio entrare e comincia il suo lavoro. In un momento di pausa gli offro un caffè e ci mettiamo a parlare. Mi racconta la sua penosa esperienza: “Ero un dirigente di una grande industria. Vivevo agiatamente ed avevo una bella casa con un piccolo giardino proprio come questo. Per hobby il fine settimana lo passavo curando il mio prato ed i fiori. Così, a poco a poco, ho imparato questa arte. Quando la fabbrica è fallita mi hanno licenziato in tronco. All’improvviso mi sono trovato senza lavoro e con tre figli giovani da mantenere. Ho provato a
fare tante domande qui e là ma nessuno, vista la mia età non più giovane, mi ha accettato. Dovendo sostenere la mia famiglia mi sono messo a fare questo lavoro. Alcune volte riesco a guadagnarmi la giornata altre volte invece trovo solo porte chiuse. Quelle sere non vorrei tornare a casa… mi vergogno di non poter offrire niente ai miei amati”. Ogni mattina uscendo di casa incontro immancabilmente la signora che consegna il latte porta a porta nel nostro quartiere. È da anni che ci conosciamo e per questo ci salutiamo sempre con cordialità. Una volta ha iniziato a raccontarmi la sua pietosa storia: “Mio marito lavorava e guadagnava uno stipendio che ci faceva
vivere dignitosamente. Ma una mattina all’improvviso egli venne colpito da una paralisi. Mesi e mesi di dolore e di costose cure soltanto per recuperare, in parte, l’abilità motoria. Nel frattempo ho cercato un impiego, ma accudire mio marito e lavorare erano due realtà che non si conciliavano. Così ho trovato questa occupazione precaria che però mi permette di vivere e sostenere la mi a famiglia”. Quante realtà di afflizioni intorno a noi e noi nemmeno ce ne accorgiamo! L’occasione giusta, per noi, che ci diciamo seguaci di Gesù, per aprire il cuore. Vedere e ascoltare il grido dei mali di tanti uomini e donne che patiscono intorno a noi. Incarnarci nel loro dolore, farci compartecipi in qualche modo della loro sofferenza. Condividere con loro quello che possediamo: tempo, denaro, interesse, preghiera e la vita stessa impegnandoci nel volontariato. Vincenzo Bordo OMI Corea
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lettere dai missionari
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OMI
Qui Uruguay
A novembre si è tenuto l’incontro di delegazione degli OMI dell’Uruguay. È stata un’occasione per conoscere la realtà oblata, per comprendere meglio la storia di questa delegazione che vede presenti in questo momento tredici missionari OMI sul territorio, distribuiti in quattro case. Sono stati giorni di valutazione della nostra vita comunitaria e del lavoro pastorale, uno spazio per dialogare, per interrogarci sul futuro della delegazione, di ricerca
delle priorità nell’azione di evangelizzazione. È stata presentata la valutazione del lavoro svolto nei Centri educativi (la Scuola San José e il Centro Talitakum) grazie agli interventi di Rosario e Veronica, quest’ultima una COMI impegnata nell’attività di recupero degli adolescenti che abbandonano il percorso scolastico ordinario. Giorni di lavoro, di confronto trasparente, ma anche di distensione: le pause tra una sessione e l’altra, bevendo un mate, sono stati i momenti migliori per conoscere meglio le persone con cui sto condividendo un pezzo della mia vita e della mia formazione oblata.
anni. Ora è un monaco felice e ringrazia Dio per quella clarissa grazie alla quale ha seguito la sua vocazione. Insieme a lui, c’è Pierre Nicolas Natalino (il terzo nome è in onore di un oblato): nativo della Casamance, è cresciuto a Parcelles, impegnato
molto attivamente nella vita della parrocchia oblata. Venticinque anni, comincia il quarto anno di noviziato e ha le idee molto chiare. Nella vita cristiana, mi dice, contano due cose: la qualità - più della quantità - e sentire Dio nel cuore. Come dargli torto?
di Luca Polello OMI poleesdra@gmail.com
Condividere, base della missione
Qui Senegal di Gianluca Rizzaro OMI gianlucarizzaro@gmail.com
Sentire Dio nel cuore Fondata nel 1963, situata 50 km a nord di Dakar, Keur Moussa è la prima abbazia contemplativa nella storia dell’Africa. I monaci - tra
professi, novizi e postulanti sono 41 - seguono la regola benedettina. Preparano liquori e marmellate, rilegano libri, accudiscono gli animali e costruiscono le kora, strumenti musicali tipici di questa parte d’Africa. L’abate ci accompagna per un po’, poi ci presenta il decano dell’abbazia, ultimo rimasto tra i nove fondatori. Dopo la messa, due monaci si fermano a pranzo con noi. Jean Louis Marie è l’unica vocazione della Guinea-Conakry. Primo di ventiquattro figli, è riuscito ad entrare in abbazia solo nel 2001, a quarantotto
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Missione è… guardarsi intorno col cuore aperto E di Adriano Titone OMI titonomi@gmail.com
ssere missionari è guardare il mondo dal quale veniamo e nel quale viviamo, sentendosi chiamati ad incontrarlo in profondità e autenticità, per raccontare a tutti la testimonianza del vangelo di Dio-Amore. E per incontrare il mondo, ascoltarlo con interesse e simpatia… guardarsi intorno e farlo con il cuore aperto. Essere aperti agli altri: al mondo in genere, con una predisposizione positiva, perché Dio ama questo mondo. Ne siamo convinti? “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio non per condannarlo, ma per salvarlo” (Gv 3,16 ss). Essere aperti allo Spirito Santo che, primo attore della missione, ci precede ed opera già nel cuore di quanti incontriamo prima che noi diciamo o facciamo alcunché. Seguiamo le sue tracce con apertura, dovunque ci conducano! Ero a Dakar da alcuni anni ormai, occupato nella missione di una popolatissima periferia: più di cinquemila abitanti e il 5% cristiani. Pochi, ma intensamente impegnati nella vita ecclesiale per varie ragioni, non ultima l’essere minoranza. Una grossa comunità cristiana quindi, con più di
ventimila persone, la maggioranza giovani. Giornate pienissime! Ma nel cuore una strana inquietudine non mi lasciava. Pregando compresi perché: spendevo la mia vita solo per il 5% della popolazione a cui il Cristo e la Chiesa mi inviavano. Mi son detto: “Io non sono un funzionario della religione cattolica, ma sono inviato come testimone del vangelo per tutti”. Dovevo aggiustare il tiro e trovare il modo di passare più tempo con i non-cristiani che erano la stragrande maggioranza. Cominciai a rendermi attento ai segni, alle opportunità che certamente si sarebbero presentate e scoprii che in una delle comunità di base della missione, c’era una “amicale di giovani mista”: cristiani e musulmani che si ritrovavano per fare insieme qualcosa per il quartiere. Lo Spirito era già all’opera! Cominciai a frequentarli e pochi mesi dopo abbiamo dato il via ad alcune belle iniziative comuni. I frutti sono stati significativi: quelle persone si aprivano insieme ai ai valori del Regno, all’accoglienza reciproca, nel rispetto. Non è questa una provocazione missionaria per le nostre comunità parrocchiali, i nostri movimenti, il nostro modo di essere cristiani, sacerdoti… di essere Chiesa? Non dovremmo forse occuparci un po’ di più delle novantanove pecorelle che stanno fuori dall’ovile e aprire loro il nostro cuore con più simpatia, proprio come faceva Gesù! n
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LE NOSTRE COMUNITĂ€,
SPAGNA
MISSIONARI OMI Parroquia de San Leandro Calle Escalona 59 28024 Madrid (Spagna) www.parroquiasanleandro.es
www.facebook.com/missioniomi www.missioniomi.it www.omi.it 0IV_cop.indd 3
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