PEDRO FERNÁNDEZ due nuove tavole per un retablo spagnolo
Il presente volume è stato pubblicato in occasione della trentaduesima edizione della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, che si è tenuta dal 24 Settembre al 2 Ottobre 2022 a Palazzo Corsini
ISBN: 9788894193329
Alle pagine seguenti: Pedro Fernández, Annunciazione e Presentazione al tempio, Milano, Matteo Lampertico (foto Giuseppe e Luciano Malcangi)
SOMMARIO
6 Prefazione di Matteo Lampertico
7 Pedro Fernández: due nuove tavole per un retablo spagnolo di Marco Tanzi
40 Tavole
Catalogo a cura di Marco TanziPREFAZIONE
Ci sono artisti che più di altri attraggono gli interessi della critica. E’ questo il caso dello Pseu do-Bramantino, un pittore attivo in diverse città italiane (Cremona, Roma, Napoli) nei primi due decenni del Cinquecento e a lungo al centro di un serrato dibattito critico. Per alcuni decenni alcuni degli storici dell’arte italiani più brillanti (Longhi, Bologna, Zeri, Previtali, Romano) hanno cercato di ricostruire il suo profilo su basi stilistiche finché un fortunato ritrovamento documentario, avvenuto nel 1984, ha consentito di identificarlo con il pittore spagnolo Pedro Fernández, nativo di Murcia. A parte la sua origine a lungo misteriosa, quello che aveva sollecitato l’interesse di molti studiosi era la curiosa e per molti versi inedita combinazione di diversi elementi culturali: da una lato egli esibisce una straordinaria perizia prospettica, tanto da essere considerato un allievo diretto del Bramantino, dall’altro rivela una personalità non facilmente incasellabile in nessuna scuola, perché caratterizzata da forzature espressionistiche e semplificazioni stereometriche che non sono riconducibili alla cultura artistica rinascimentale italiana. La scoperta documentaria, che ha finalmente stabilito la sua origine spagnola, se da un lato ha chiarito la singolarità del linguaggio di questo artista, dall’altro ha aperto nuove e inedite prospettive di ricerca, orientando gli studi verso la patria dell’artista dove è documentato nel 1521, quando viene incaricato di realizzare ben tre polittici, di cui l’unico superstite è quello di Girona, già identificato come opera sua da Gianni Romano nel 1966. Forse perché reduce da un viaggio in Catalogna qualche anno fa, non mi è stato difficile riconoscere nelle tavole che qui presento per la prima volta due inediti spagnoli dell’artista, confortato in questo dal parere di Marco Tanzi a cui spetta una ap profondita analisi delle tavole e una appassionata cronistoria della riscoperta del pittore. Spero che il rinvenimento di questo ulteriore tassello contribuisca a incrementare il puzzle di conoscenza che la critica ha raccolto faticosamente in molti decenni, a dimostrazione del ruolo che il mer cato svolge nel progresso degli studi. Aggiungo solo, ad ulteriore riprova di ciò, che le tavole ritorneranno in Spagna nell’ottobre di quest’anno, per essere esposte al Prado in occasione della mostra La scoperta del Rinascimento: artisti spagnoli a Napoli nel primo Cinquecento
Matteo LamperticoPEDRO FERNÁNDEZ: DUE NUOVE TAVOLE PER UN RETABLO SPAGNOLO Marco Tanzi
Questo contributo presenta due tavole inedite [figg. alle pp. 4-5, 28-29] del pittore murciano Pedro Fernández, uno dei protagonisti dei primi vent’anni del Cinquecento in varie zone d’Italia, tra i centri nevralgici per l’evolversi del nuovo linguaggio del pieno Rinascimento nella penisola: Milano, Napo li, Roma. Sono due opere affascinanti, con caratteri stilistici intriganti e tutt’altro che ovvi alla luce della produzione precedente, eseguite dopo il ritorno in patria dell’artista, documentato per la prima volta a Girona, in Catalogna nel 1519, dove rimarrà almeno fino al 1523.
Considerato il ruolo del pittore nell’arte italiana dei grandi cambiamenti, tra il 1499 della caduta di Ludovico il Moro a Milano e il 1519 del primo documento catalano; girovago ma sempre nel punto giusto al momento giusto nelle capitali del rinnovamento, capace di far sue e di diffondere alla luce di un linguaggio del tutto peculiare le novità di Bramante, Bramantino e Leonardo, Raffaello e Miche langelo nelle varie zone toccate dal suo peregrinare; credo che valga la pena di riprendere i fili di un discorso interrotto abbastanza bruscamente, ormai, da un quarto di secolo.
L’intervento è strutturato in quattro capitoli o stanze: la prima prende in esame, tra memorialistica e nostalgia, la fortuna critica del pittore negli anni Ottanta del Novecento, dopo che nel secolo scorso era stato oggetto di studi ed entusiasmi da parte dei principali storici dell’arte e conoscitori italiani, oltre che dell’austriaco Wilhelm Suida, che va a buon diritto ritenuto una sorta di padre spirituale delle ricerche su quello che, fino al 1984, era chiamato con nome convenzionale Pseudo Bramantino, proprio per le indelebili affinità stilistiche con il genio milanese.
Il secondo affondo presenta uno stacco cronologico consistente rispetto all’inizio delle vicende dell’ar tista: si salta in buona sostanza tutto il soggiorno italiano, sul quale gli studi si sono assestati alla fine del Novecento, e ci si occupa del primo periodo, relativamente breve, tra il 1519 e il 1523, del suo ritorno in Spagna, quando i documenti registrano Fernández a Girona (pintor, natural de la ciutat de Múrcia, habitador de Gerona), Qui esegue, in collaborazione con due pittori locali, tre retabli per la città e il territorio: di questi complessi pittorici solo uno è arrivato fino a noi, quello senza dubbio di committenza più prestigiosa, realizzato per Narcis Simón prevere de capitol de la ysglesia de la seu, ovvero per l’altare dedicato a Sant’Elena nella cattedrale e messo in opera nel maggio del 1521 [fig. a p. 11; figg. 1-7]. Dopo la stanza gironina si prosegue con il riesame di alcuni documenti, per altro già noti alla storiografia spagnola, che, dopo quasi un ventennio di silenzio dal soggiorno catalano, registrano un pittore che si chiama Pedro Fernández a Saragozza, capoluogo dell’Aragona. Si ten terà di capire, giocando su vari tavoli, se si tratta dello stesso personaggio o di un caso di omonimia, considerata la diffusione davvero capillare, in Spagna, di questo nome. Il quarto movimento e il focus ecfrastico di questo intervento, si occupa nel dettaglio delle nuove tavo le, con il consueto corpo a corpo stilistico e critico sulle due opere, con una lettura che tenti di preci sarne meglio la cronologia e i dati sensibili per provare a suggerire una possibile ubizione originaria.
I. Se si eccettua la scoperta e la pubblicazione da parte di Odette D’Albo nel 2017 dell’Adora zione dei pastori nel Bomann Museum di Celle [fig. 10], in Bassa Sassonia – una redazione con molte varianti della tavola giovanile nella collezione della Duquesa de Villahermosa a Pedrola, presso Saragozza [fig. 9] –, sono davvero molti anni che non si parla più di Pedro Fernández da Murcia, il “mio” Pseudo Bramantino.1
Gli avevo dedicato molto impegno e qualche intemperanza in gioventù e anche oltre, giusto fino ai quarant’anni, in quel 1997 in cui avevo allestito a Castelleone una mostra fotografica di tutto il materiale allora noto e riproposto nell’originale per la seconda volta (la prima era stata alla mostra cremonese dei Campi nel 1985) il montaggio del Polittico di Bressanoro [figg. alle pp. 17, 25; figg. 13, 16], il suo saluto all’Italia, poco prima di tornare nella terra d’origine.2
Un quarto di secolo di silenzio è davvero tanto, troppo, per un pittore che era andato ben oltre il fatidico, warholiano, quarto d’ora di notorietà.
Mi scuso da subito per l’autoreferenzialità: nel gruppo dei suiveur dello Pseudo Bramantino, tra quelli che furono in qualche modo presenti “in diretta” al ritrovamento del suo vero nome di Pedro (in catalano Pere) Fernández e al battesimo, officiante il bravo e simpaticissimo Pere Freixas i Camps, c’ero anch’io. Con Fausta Navarro e Riccardo Naldi formavamo il gruppo dei “piccoli fan” – era già un po’ più grandicello un altro della compagnia, Pierluigi Leone De Castris –: i grandi erano Ferdinando Bologna, Francesco Abbate, Gianni Romano, Sandro Ballarin, gli amatori Giovanni Previtali, Luciano Bellosi, la compagine spagnola, guidata dal carismatico José Milicua, l’allievo spagnolo di Roberto Longhi, con i catalani Mª Margarita Cuyás, Joan Sureda i Pons e, appunto, Pere Freixas, il quale nel 1984 aveva ritrovato e pubblicato il contratto per il Retablo di Sant’ Elena nella cattedrale di Girona facendo emergere il nome di Pedro Fernández e cancellando definitivamente quello convenzionale diventato ormai obsoleto.
«Con lo Pseudo Bramantino a un certo punto dei primi anni Ottanta si riunì l’Italia...: sotto la guida di alcuni ‘padri nobili’ la mia generazione, da Napoli a Milano, da Cremona a Pisa, per arrivare fino a Girona, si occupò entusiasticamente di questo pittore spagnolo attivo in Italia nel primo Cinquecento […]. In quegli anni tutti ci sentimmo in dovere di portare un contributo a questo intrigante artista che aveva tutte le stigmate per essere amato: Lombardia e Meridione, Roma e Spagna, gli Amadeiti e i circoli filofrancesi. Con lo Pseudo Bramantino ci si divertì molto, si giocò e si litigò, si studiò e ci si schierò».3
Spero mi siano consentite le lunghe autocitazioni: ci si può leggere un clima, un’età, una passio ne; una mania, persino.
«Pseudo Bramantino, Anonimo Bramantinesco, Alunno del Bramantino, Seguace del Bramantino, Pittore lombardo-napoletano; poi Pietro Ispano, Pietro Frangione,
Pedro Fernández, Adorazione dei pastori Pedrola, collezione della Marchesa di Villahermosa, (Fotoestudio Guillermo, Saragozza)Pietro Sardo: sono tanti i nomi con cui, prima del ritrovamento del documento per il Polittico di sant’Elena nella cattedrale di Girona, veniva convenzionalmente chia mato il pittore di Murcia Pedro Fernández. Nel corso di quasi un secolo la sua vi cenda ha appassionato diverse generazioni di studiosi (da Suida a Longhi, da Bo logna a Zeri, da Abbate a Romano) che ne hanno via via ricostruito lo sceltissimo catalogo, in un percorso che ha toccato estremi geografici molto lontani, sempre nei loro momenti più fervidi. Dalla vivacissima Milano di Leonardo e Bramantino alla Cremona quadrata ed archeologizzante di fine Quattrocento; dalla nuova Na poli di Ferdinando il Cattolico “tra Mediterraneo, Spagna e Lombardia” alla Roma “città aperta” che non è ancora e soltanto quella di Raffaello e Michelangelo. Poi torna verso il Nord, in un giro molto fitto di commissioni Amadeite, a Castelleone, in mezzo alle brume padane da rischiarare con giochi luministici allucinati; in un clima tanto diverso dalla Milano del 1500. Poi a casa, in Spagna, a Girona, a Flaçà, a Llançà e chi sa dove ancora; forse ancora più straniero che in Italia. Niente estremi di nascita e morte, poche date e non sempre certe: tra il 1503 ed il 1512 dovrebbe essere a Napoli, con qualche intermezzo a Roma: ma pri ma? Certo, lo stile dice Milano, la Milano degli ultimi anni del Quattrocento così come l’hanno delineata Gianni Romano e Sandro Ballarin; la Milano del 1500 dove, con Leonardo e Bramantino alle spalle, si arrivava alla maniera moderna tra teoremi prospettici e la comprensione dei moti dell’animo, insieme a Zenale, a Boltraffio, al Solario, al Maestro della Pala Sforzesca [che Carlo Cairati per primo, e da diversi anni, ha riconosciuto in Giovanni Angelo Mirofoli da Seregno], al napoletano Francesco Galli. Già, Milano, ma non solo: il suo passaggio viene avvertito, sensibilmente, anche a Cremona. Da Napoli a Roma, dove è effettivamente documentato nel 1514; ma anche prima vi aveva lasciato tracce riconoscibili, tra il 1512 e il 1514 nel giovane Beccafumi e in Cola dell’Amatrice. Nell’Urbe si lega a famiglie importanti, gli Orsini, i Sa velli; ma si lega soprattutto ai seguaci del beato Amedeo Menez de Sylva, alla congregazione che fa capo al convento di San Pietro in Montorio. Notizie di lui un po’ confuse arrivano a Napoli, dove non si sono dimenticati dello splendore vertiginoso delle sue ‘cone’ e pensano che si sia fatto eremita, estremizzando forse il fatto che Pedro è operoso in romitori amadeiti sperduti per il Lazio. Sulla strada del beato Amedeo – la data verosimile è intorno al 1517 – il pittore risale al Nord, a Bressanoro, tra Cremona e Milano; ed il suo passaggio viene registrato con prontezza dalla generazione più inquieta dei padani, dal cremonese Altobello al vercellese Eusebio Ferrari.
Pedro Fernández, Retablo di Sant’Elena, 1521, Girona, Cattedrale (foto Josep Maria Oliveras, Girona)Nel 1519 è già documentato in Spagna, ma altre tracce, e molto nitide, del suo stile si scorgono anche in Sardegna nella Veronica di un raffinato stendardo nella Cattedrale di Sassari e, a date più avanzate, nel cosiddetto Maestro di Ozieri; ci si chiede allora se la notizia napoletana del Pietro ‘sardo’ non sia da leggersi come il riflesso – ancora una volta ingigantito dalla tradizione orale – di un brevissimo soggiorno del Fernández nell’isola (sulla eventuale origine sarda dell’artista e sulla possibilità tutt’altro che remota che si verificasse una certa confusione fra Spagna e Sardegna va detto, con la Navarro, che quest’ultima, “d’altronde, rientrava a tutti gli effetti nell’orbita politico-culturale spagnola e specificamente catalana”).
In Catalogna, a Girona, a distanza di pochi giorni, tra il 17 e il 29 novembre, gli vengono commissionati ben tre retabli: quello per la chiesa di Flaçà, quello di Sant’Elena per la cattedrale di Girona e quello per la parrocchiale di Llançà. Mette
in opera il retablo per la Cattedrale nel maggio del 1521; due anni dopo quello per la chiesa di Flaçà, 1523. Poi non abbiamo più sue notizie».4
Forse! Fu proprio il convegno gironí del novembre 1987, L’expansiò del Renaixement a Catalunya, a segnare l’apice della fortuna degli studi sull’artista: il mio catalogo, pubblicato dieci anni dopo, usciva ormai fuori tempo massimo: era un libro utile per fare buona divulgazione, bene illustrata nell’apparato iconografico, dell’intervento di Ballarin a Girona. Il testo di quella conferenza magi strale, conoscendo le tempistiche di Sandro, ci mise ancora un pochino a vedere la luce e diventò, con qualche aggiustamento, un capitolo del suo monumentale Leonardo a Milano del 2010.5 L’ho riletto in questi giorni e mi ha provocato una sorta di straniante transfert, come una telecronaca fedele di quei giorni e di quelle discussioni; in più – le coincidenze non esistono – da YouTube (https://www.youtube.com/watch?v=GIgt1VZhvxo) emerge inaspettato come dalle nebbie degli anni o dalla lampada di Aladino, non cercato, un filmato nebbioso e saltellante (come i Super8 per le feste di compleanno di una volta) dell’indimenticabile intervento di Gianni sulla Milano tra il 1490 e il 1510: una performance entrata nel suo repertorio che avevo potuto seguire in più redazioni dal 1978 in avanti, e che continua, per me, a essere la conferenza più affascinante che abbia mai ascoltato.6 C’è Pere Freixas con i suoi baffoni neri neri e, in uno spezzone del filmato, compaio anch’io a trent’anni, barba e capelli scurissimi, magro, irriconoscibile. Tutto molto strano, emozioni contraddittorie e difficili da spiegare. Spero che perdonerete la lunga chiacchierata così intima e personale, ma sono come sfiorato da una lieve vertigine tornando dopo così tanto tempo sui miei passi, come una pellicola che si riavvolge troppo in fretta inquadrando in una sorta di vortice cose, persone, storie frequentate e vissute con passione vera per un segmento lungo, spensierato e formativo della propria gioventù e che poi, tra disimpegno e disamore, prese di distanza e amarezze – la vita, insomma –, è come sparito dai radar.
Così, ora, tanti ricordi riappaiono nitidi nella memoria, ed è grazie al ritrovamento di due nuovi dipinti di Pedro Fernández, di un momento della sua attività, poi, pochissimo coperto da opere: quello, per la massima parte ancora misterioso, del ritorno in Spagna.
II. L’Annunciazione e la Presentazione al tempio [figg. alle pp. 4-5, 28-29], ora riemerse e passate attraverso le cure amorose di Carlotta Beccaria, non hanno bisogno di particolare impegno per essere identificate nella loro autografia quanto di essere lette alla luce di uno sguardo rinnovato, che non gioca più tra Milano, Napoli e Roma. È una storia del tutto nuova quella che si apre con questi due dipinti, perché rappresenta la ripartenza spagnola dopo gli anni catalani di Girona. Stimolano lo sguardo su un terreno nella massima parte vergine, non ancora dissodato, sul quale, in tutto questo tempo, nessuno si è ancora impegnato con quell’accanimento critico e filologico che aveva invece accompagnato il lungo soggiorno italiano del pittore.
Se si contano gli anni, il periodo spagnolo rischia, a stare bene attenti e con tutte le cautele del caso, di essere ancora più lungo di quello italiano, dall’arrivo a Girona nel 1519 – è ancora da chiarire se sia lui il Pedro lo Magister ricordato in un documento di quell’anno in città – per poi passare, se è lui, a Saragozza, in Aragona, dove un Pedro Fernández tiene bottega negli anni Quaranta ed è documentato per almeno un lavoro prestigioso. In questa congiuntura spagnola, più che di buchi, nella biografia dell’artista, dovremmo parlare di voragini. Salto dunque a piè pari, come anticipato, il periodo italiano, per il quale rimando al catalogo del 1997 e al grande saggio di Ballarin, e cerco di immergermi nella realtà spagnola, partendo proprio da Girona e dintorni, grazie ai documenti scoperti negli anni Ottanta del secolo scorso da Pere Freixas.7
Il 17 novembre 1519 il parroco di Sant Cebrià [Cipriano] di Flaçà si accorda con il pittore di Girona Gabriel Pou e Pedro (si capisce che il nostro è arrivato da poco proprio perché nello stes so documento il nome è riportato sia in castigliano, Pedro, che in catalano, Pere) Fernández da Murcia: insieme redigono il contratto per la realizzazione del retaule de Sant Cebrià de Flaçà, un piccolo borgo a una quindicina di chilometri da Girona. Si rimarca che la qualità dell’opera do vrà essere simile a quella del perduto retablo di Sant’Eugenio del fiammingo Pere de Fontaines, morto l’anno prima, per Cervià de Ter, un pochino più a nord. La commissione è dettagliatissima sia per l’iconografia che per i materiali da utilizzare, i pagamenti e i tempi di esecuzione, ovvero tre anni. Nella predella Pou e Fernández avrebbero dovuto dipingere nove immagini a figura intera: in mezzo il tabernacolo con la Pietà con a destra la Vergine e a sinistra San Giovanni Evangelista e, credo sopra ogni immagine di santo, quella di un angelo con gli strumenti della Passione. Una teoria di santi affiancava il tabernacolo: agli estremi del bancal San Paolo e San Pietro; sulla destra il Battista e San Sebastiano vestito; sulla sinistra la Maddalena vestita e San Michele. Al centro del polittico era l’elemento principale con San Cipriano di Antiochia a
figura intera, sovrastato da un altro pannello con lo Crucifix acompanyat del que es acostumat; ai lati del santo dieci storie della sua vita, cinque per parte, in verticale: quelle che riguardano il suo complesso rapporto con Satana, tra magia ed esoterismo, e la successiva conversione.8 Seguono le consuete raccomandazioni sull’uso dell’oro – una profusione d’oro – e dei colori, sui pagamenti e la tempistica. L’opera è andata perduta. Due giorni dopo, il 19 novembre 1519, Narcis Simon, priore del capitolo della cattedrale di Girona, affida a Pera Arnandis di Murcia e ad Antonio Norri di Girona l’esecuzione del Retablo di Sant’Elena [figg. 1-7] per l’altare dedicato alla santa nella seu, il principale tempio della città. Sarà portato a termine nel maggio di due anni dopo, come testimonia la scritta Maig 1521 [figg. 2-4] vergata sui pannelli a decorazioni monocrome del retablo, e fortunatamente è giunto fino a noi, diventando la pietra angolare per gli studi sul pittore, consegnandoci finalmente la sua identità precisa. Pubblicato da Chandler Rathfon Post con l’attribuzione a un Allievo del Ma estro di San Felix, il retablo di Girona ha rappresentato la vera e propria chiave di volta per la risoluzione dei problemi più interessanti relativi allo Pseudo Bramantino.9 Spetta infatti a Gianni Romano nel 1966 e poi nel 1971 il merito di averlo inserito nel catalogo dell’anonimo maestro, quale opera estrema della sua produzione.10 L’ipotesi dello studioso –formulata in anni in cui non si parlava ancora di Pietro Sardo o Pietro Ispano – che lo Pseudo Bramantino potesse essere uno spagnolo emerge già dai dati formali della Cona della Visita zione di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli [fig. a p. 14; figg. 28, 30, 32] che, secondo Romano, «non mostra affatto caratteri stilistici prevalentemente e coerentemente milanesi, ma piut tosto rivela una contraddittoria mescolanza di formalismi geometrici e preziosi frammenti di vero meglio adatta a un ispano-fiammingo». Il documento riscoperto da Pere Freixas ne rappresenta la conferma inequivocabile e ci consegna un saldo termine ante quem per poter datare, con il pas saggio in Spagna, le ultime opere eseguite in Italia, in primo luogo il Polittico di Bressanoro che si conferma sul 1517-1518 e, probabilmente, anche la Deposizione in St. Edward a Guildford, nel Surrey [fig. 20], pubblicata da Fausta Navarro.11 Il contratto per il retablo è, come sempre, molto preciso e minuzioso: vengono specificati i soggetti di tutti i pannelli, vengono stabilite quali parti della carpenteria, che si deve al marengone Antonio Mateu (sul quale torno brevemente in nota), devono essere in oro e quali in azzurro, viene inoltre commissionata una copertina in tela con Sant’Elena e Costantino (perduta); il termine di paragone è il retablo di Sant’Onofrio che si trova nel monastero dei Frati Minori.12 Non sto a ripercorrere la descrizione fornita nel documento, rimandando agli studi precedenti e alla visione diretta dell’opera. È un retablo dalle dimensioni piuttosto contenute (250 x 215 cm) che non era in origine collocato in una cappella ma in uno spazio murario sul retro dell’altare maggiore: in seguito è stato spostato in vari altari della seu per poi essere collocato nel museo della cattedrale. Se nel mio catalogo del 1997 avevo dedicato una schedina puramente anagrafica al dipinto, l’anno successivo Joaquim Garri
Pedro Fernández, Cristo morto sul sepolcro (dal Polittico di Bressanoro), Cremona, Museo Civico (© Archivio Fotografico Museo Civico “Ala Ponzone”, Cremona)ga i Riera affrontava di petto il retablo in un’ampia ed esaustiva scheda-saggio nella quale ogni problema veniva attentamente considerato e sviscerato.13 Passano altri dieci giorni e il 29 novembre 1519 è la parrocchia di San Vincenzo a Llançà a commissionare agli stessi Norri e Fernández un retablo per l’altare maggiore della chiesa del paese, sulla costa a una settantina di chilometri da Girona e a una quindicina dall’attuale con fine con la Francia. Vincenzo, diacono e martire, secondo la tradizione più attendibile nasce a Huesca, alle propaggini dei Pirenei, ma anche Valencia e Saragozza ne rivendicano i natali, ed è per questo che è particolarmente venerato in questa ampia area della Spagna di nordest. Dal contratto si capisce che è un polittico dalla carpenteria analoga a quella degli altri due, che si differenzia soltanto per la presenza nel campo centrale di un intaglio ligneo, verosimilmente un bassorilievo dorato con l’immagine a figura intera del santo; l’insieme è da realizzare entro due anni. In analogia con il retablo di Flaçà i pittori dovranno eseguire una predella di nove elementi con al centro la Pietà e ai due lati rispettivamente la Madonna e San Giovanni Evangelista; quindi, tre apostoli per parte non ancora scelti (aquells apòstols que per dits obres e confrare la seran nominats). Gli scomparti della pala vera e propria saranno sette, con al centro la talla li gnea di San Vincenzo sovrastato, come a Flaçà e a Girona dalla Crocifissione. In una profusione d’oro graffito e lavorato – una carpenteria iper-luccicante – e di azzurro prezioso saranno ornati l’elemento centrale e i sei pannelli laterali, tre per parte, con le storie della vita del diacono; dorati abbondantemente anche il tabernacolo e la predella. In questo caso, più che l’attenzione specifica per l’iconografia dei vari scomparti c’è come l’ossessione della committenza per l’or fi e il bon atzur: dev’essere un’opera memorabile per il suo splendore, unica nel suo genere: la quan tità e la bontà di questi due materiali viene più volte ripetuta (E los campes faran de bon atzur, scalats de dit or). Sembra che la realizzazione di questo retablo rappresenti un grande evento per il villaggio di pescatori che vogliono in qualche modo avere un’opera all’altezza di quelle del capoluogo, tanto che ai pittori non viene richiesto di adeguarsi, secondo le consuetudini, a un modello, ma E tot aço faran e fer prometen e se obliguen com dalt es dit, be e degudament de bon art per e perfeccio que de bons mestres sapian e com mylor podian fer. Seguono le altre indicazioni relative al pagamento e la notizia che ai due pittori sarà data una casa in loco per tutto il tempo dei lavori, ovvero fino al 29 novembre 1521. Anche questa impresa è perduta. A questo punto vorrei soffermarmi brevemente sul lustro documentato di Pedro/Pere a Girona, 1519-1523, perché le carte d’archivio e il Retablo di Sant’Elena sembrano offrire nuovi spunti di riflessione in più di una direzione. Si affaccia innanzi tutto un nuovo aspetto della pratica opera tiva del pittore, inedito rispetto all’attività italiana, ovvero la collaborazione con artisti locali dei quali tuttavia non siamo in grado di ricostruire le personalità stilistiche perché non conosciamo loro opere. Gabriel Pou è testimoniato per quasi mezzo secolo, dal 1495 al 1543, ma sembra che gli si possa riferire soltanto la modesta tavola con San Cristoforo del Museu d’Art di Girona,
elemento superstite di un retablo dedicato al santo eseguito nel 1504-1505, già nella piccola cappella addossata alle mura a nord della città.14 Un dipinto in linea con certa tradizione pitto rica catalana piuttosto corriva, tanto che si stenta a immaginare il suo sgangherato autore alle prese con Fernández e con i suoi complicatissimi teoremi prospettici e volumetrici. Nulla sap piamo invece di Antonio Norri, ma conviene subito dire che il grado non sempre sostenutissimo delle tavole del Retablo di Sant’Elena rispetto alle opere italiane immediatamente precedenti del murciano sembra almeno in parte confortare il dato documentario. Pur non volendo “fare le mani” a tutti i costi si ha l’impressione che Fernández abbia consentito al suo collaboratore di posare qua e là il pennello sulle tavole: l’impianto prospettico e formale dei dipinti sembra infatti, al solito, impeccabile, mentre la stesura si dimostra a volte non omogenea sul versante qualitativo, con scuri bituminosi e leggere sgrammaticature. Come ebbe a dire Riccardo Naldi, «Al di là dell’indelebile ‘marchio di fabbrica’ Pseudo Bramantino, l’opera catalana, rispetto a quelle italiane, ha un carattere più rapido e corsivo nel trattamento della stesura pittorica».15 Si ha l’impressione che il murciano Fernández, doppiamente straniero in Catalogna, si sia servito di artisti locali come Pou e Norri come una sorta di passepartout per ottenere importanti commissioni nella nuova zona di operazioni, ma riservando loro – almeno nel caso a noi noto di Girona –una parte marginale dell’impresa.
Rimandando ancora a Naldi «Pedro sviluppa qui pienamente le premesse della parte alta della pala di Bressanoro, portando alle estreme conseguenze i risultati del Suardi più stereometrico del secondo decennio del Cinquecento. La riduzione del dato naturale in parallelepipedi, coni, cilindri, cui si mescolano precise citazioni dalle stampe di Dürer e Luca di Leida, tocca i vertici di un’astrazione geniale quanto disperata, in una sorta di ‘cubismo’ ante litteram che rappresenta la cifra estrema del pittore, ormai pienamente coinvolto nella ‘crisi’ manieristica».16
Vale la pena di ragionare sul fatto che nel giro di soli dieci giorni il pittore ottiene tre commissioni di notevole rilievo; certo, come “garantito” dalla compresenza di pittori locali, ma il segnale più evidente è che la sua statura viene immediatamente riconosciuta e acquista subito un ruolo di assoluto prestigio nelle gerarchie locali. Credo che il suo arrivo, a questo punto, in attesa di nuovi ritrovamenti documentari, si possa datare nella prima parte del 1519; quasi che la città cercasse un sostituto di vaglia che prendesse il posto del franco-fiammingo Pere de Fontaines, morto l’anno prima. È piuttosto da osservare la struttura dei retabli perché – oltre a quello che ci è rimasto e, dal Museo della cattedrale sta per tornare, a quanto pare, nella posizione per la quale fu realizzato, con quelli di Flaçà e di Llançà, descritti in maniera così esauriente nei contratti – essi non hanno proprio niente della forma, struttura e carpenteria di quelli italiani, in fondo tradizionalmente in linea con modelli canonici e consolidati sia per quanto riguarda l’area partenopea (Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, San Gregorio Armeno) che l’Italia settentrionale (Santa Maria in
Bressanoro). I tre retabli catalani hanno in pratica la medesima struttura: un bancal piuttosto alto con al centro l’Imago Pietatis affiancata dai dolenti e da una serie di santi a figura intera; il corpo vero e proprio dell’ancona deve avere al centro una tavola in verticale con il santo titolare sovra stato dalla Crocifissione, mentre ai lati andranno più pannelli, secondo i casi, con le storie del santo. Il contratto con Narcis Simon è più dettagliato rispetto agli altri due, con l’elenco puntuale delle storie di Sant’Elena da rappresentare e la loro posizione precisa, con la disposizione che sui due pilastri laterali dovranno essere effigiati San Narciso e San Simone, patroni del commit tente (Narciso è il patrono della città).
Le carte prodotte da Pere Freixas nel convegno del 1987 ricordano che il retaule major di Flaçà fu terminato nel 1523: sarebbe finita qui, se non ci fossero riemerse altre carte, la vicenda di Pedro Fernández, non più, ormai, Pseudo Bramantino.
III. È certo una banalità, ma chiamarsi Pedro Fernández in Spagna equivale, più o meno, in Italia, a essere Mario Rossi o, negli Stati Uniti, a John Smith: un nome molto ma molto comune; avevo dunque pensato a un possibile caso di omonimia nell’inverno del 1998, quando Joaquim Garriga i Riera, in una densa biografia del pittore per la mostra De Flandes a Itàlia, aveva recu perato una serie di carte d’archivio che documentavano la presenza a Saragozza, nella prima metà degli anni Quaranta, di mastre Pedro Hernández pintor habitante en Çaragoça 17 In questi casi le domande sono obbligate e viene naturalmente da chiedersi “a volte ritornano”? Dopo quasi vent’anni di silenzio assoluto? O sarà un altro? Ancora, quanto sappiamo del patrimonio artistico spagnolo e quanti documenti non sono stati letti in giro per gli archivi (quelli non dati alle fiamme nella Guerra Civil) della penisola iberica? Non dimenticando che in Italia, quando si chiamava ancora Pseudo Bramantino, il pittore era tutt’altro che stanziale: viaggiava tantissimo. E con indubbio profitto; non solo personale. Il 29 novembre (ancora una volta, come nel 1519 a Llançà) 1540 due pittori residenti a Sara gozza, Pedro Hernández, appunto, e Tomas Peliegre (Tomás Peliguet), firmano il contratto per l’esecuzione delle ante (puertas) perdute del retablo sull’altare maggiore della chiesa di Santa Maria Maddalena a Saragozza, che avrebbero dovuto essere tal y tan buena como la obra questa pintada en las puertas del retablo del Obispo de Lérida [nella basílica de Nuestra Señora del Pilar], ansi en dibuxo como en acabados colores como en todo lo demás. 18 È un momento particolare per la cultura figurativa del capoluogo dell’Aragona, in cui si assiste al passaggio tra la maniera tradizionale e il manierismo di matrice centroitaliana (el tránsito del moderno al roma no).19 “Questo” Pedro Fernández nell’impresa della Maddalena collabora con Tomás Peliguet, italiano (come si afferma nel primo documento relativo al Retablo de San Miguel de los Navarros il 2 gennaio 1538), uno dei principali pittori attivi all’epoca a Saragozza che, dopo essersi formato a Roma con Polidoro da Caravaggio (su ejercicio fue pintar de blanco y negro como
su maestro Polidoro) e Baldassare Peruzzi, introduce in Aragona, con modi robusti e una qualità non sempre raffinatissima quanto efficace, le formule più tipiche del manierismo centroitaliano. Queste grandi ante saranno suddivise in più compartimenti dei quali non si specificano i soggetti e dovranno essere dipinte a monocromo (pintada de blanco y negro) nella facciata esterna, mentre in quella interna, se ubiere de pintar ansi en las figuras como en todo lo demas que sean de sus colores finas diferenciadas repartidas en los lugares necesarios para que la obra salga muy bien y todas las diademas de los santos y oro frisos y brocados y senbraduras y otros contrafechos todo sea tocado de oro fin. La preoccupazione principale della committenza della Maddalena è che i pittori prendano a modello le ante del retablo realizzato in alabastro da Da mián Forment alla Madonna del Pilar per volontà di Jaime Conchillos, el Obispo de Lerida, che fu vescovo di Gerace nel 1505, di Catania nel 1509 e di Lérida dal 1512. Dai documenti e da quanto ci resta, probabilmente il religioso è il committente più prestigioso della prima metà del secolo in quest’area della penisola iberica, che promuove una serie notevolissima di monumenti tra Saragozza e la città natale di Tarazona. Fernández e Peliguet dovranno seguire con estrema attenzione i desiderata della committenza circa l’adeguamento delle ante a quelle del Pilar tranne che per un particolare, direi, estrema mente significativo. Nella parte esterna, tutta a grisaille, la zona che deve ricoprire il tabernacolo della pala d’altare, proprio nel mezzo de las puertas deve essere trattata come un quadro vero e proprio raffigurante la Crocifissione con la Vergine, San Giovanni Evangelista e la Maddalena secondo l’iconografia tradizionale, con le sue cornici tutte a olio e colori fini e nero e oro sugli archetti e ancora oro fino sui fregi e i diademi a olio. Insomma, un inserto pittorico particolarmen te prezioso che soddisfi la committenza, che ribadisce: Es condición que todas las diademas y oro, frisos y senbraduras de ropas de las ystorias y figuras sobredichas sea repartido el oro en ellas como va en el retablo del Obispo de Lérida en las puertas y que sea oro fino Una commissione tutt’altro che secondaria, che prevede anche dei virtuosismi particolari da parte dei due pittori impegnati: viene da pensare che l’italiano Tomás Peliguet, recente prota gonista della vita artistica di Saragozza, voglia affiancarsi a un anziano protagonista di fama per andare, in qualche modo sul sicuro. Se si trattasse infatti di quel Pedro Fernández ho come l’impressione che anche per lui si tratti di un approdo recente in Aragona: dove fosse stato per tutto questo tempo rimane, per ora, un mistero. I documenti che lo riguardano, in città, iniziano proprio dalla commissione del 1540 per Santa Maria Maddalena; quelli che seguono riguarda no solamente l’ingresso nella sua bottega di giovani apprendisti: il 26 aprile 1541, per sei mesi, Martin de Tapia; il 3 novembre 1542 Juan de Ainzón e il 22 luglio 1544, per quattro anni, Miguel Magallón.20 Jesus Criado Mainar mi segnala un documento inedito, con una menzione di Pedro Fernández in data 28 dicembre 1547, per una questione amministrativa relativa a un debito; mentre 12 novembre 1548 vende una casa.21 Poca roba, ormai: se si trattasse davvero
di quel Pedro Fernández, credo che saremmo alle ultime battute di una carriera che era stata entusiasmante.
Orazio Lovino, che, in contemporanea con il mio lavoro, scheda le due nuove tavole per la mostra Otro Renacimiento. Artistas españoles en Nápoles a comienzos del Cinquecento che si terrà al Prado nel prossimo autunno e che ringrazio per avere voluto condividere alcune sue riflessioni, pensa come me a una data nel terzo decennio del secolo ma tenta di seguire una pista zaragozana che mi affascina ma sulla quale non mi sento del tutto sicuro, nonostante l’indubbia suggestione della proposta. Mi ha suggerito infatti di tenere nella dovuta considerazione il re tablo dedicato ai Santi Pietro e Paolo nella chiesa di San Pablo a Saragozza [fig. 8]. È una pala dalla carpenteria piuttosto tradizionale e per niente complessa (ho anche l’impressione che non sia del tutto originale), con i due Apostoli nel pannello centrale, le loro storie in cinque pannelli, due per lato più la cimasa, e in altre quattro, con le scene del loro martirio, nella predella ai lati della consueta Pietà. Ai lati della tavola che funge da cimasa nella lunetta superiore sono due tavole più piccole inserite al contrario nella cornice con due santi identificati, credo in maniera non del tutto corretta, in San Giovanni Evangelista e Santa Maria Maddalena. Pubblicato dal Post come possibile opera del Maestro di Gotor (così chiamato per una Deposi zione conservata nella parrocchiale di Gotor, non lontana da Saragozza) e più recentemente a Jeronimo Cosida, ma i due riferimenti non sono corretti.22 Il pensiero di Lovino è che il retablo sia stato realizzato in due tempi e da due mani diverse e che una delle due, se non è proprio quella di Pedro Fernández, rientra in una temperie contrassegnata da un influsso diretto o comunque una forte consonanza con i modi del murciano, traendo la convinzione di una sua lunga perma nenza a Saragozza. L’ipotesi è estremamente suggestiva e, a mio avviso, con qualche fonda mento se ci si basa sull’attenta lettura dei documenti d’archivio pubblicati indipendentemente nel 1987 da Jesus Criado Mainar, che ringrazio in maniera particolare per i preziosissimi aiuti da Saragozza, e da M. Carmen Morte García.23 Il 5 dicembre 1556, Lucas Perez de Oliban, mayordomo y procurator de la cofradía de San Pedro y San Pablo de los naturales de Jaca residenti a Saragozza si accorda con il maçonero (manovale) Bernat Perez per la costruzione di un retablo in legno massello nella chiesa di San Pablo, alle spalle dell’altare maggiore, con una serie di disposizioni per le varie parti ornamen tali (candeleros con sus capiteles, alquitrabe, friso, cornixa). La notizia più significativa, però, è che il maçonero […] Primo es ha saber, que los senores tienen los tableros fechos y pintados de dicho retablo; ovvero esistono già dei dipinti finiti che vanno inseriti nel retablo: nessuna traccia, tuttavia, del nome del loro autore. Nell’estate dell’anno seguente, il 16 luglio 1557, i commit tenti ordinano al pittore Juan de Ainzón el dorado y parte de la pintura del retablo dedicato ai due apostoli, con disposizioni estremamente precise relative sia alla doratura che alla messa ad argento e alla policromia della carpenteria. Segue una richiesta piuttosto interessante: Item la Pedro Fernández, Decorazione della cupola e dei pennacchi della cappella Carafa, Napoli, San Domenico Maggiore
(© Archivio dell’arte | Pedicini fotografi, Napoli)pintura desde retablo esta ya fecha y no acabada, y para esto es concierto entre los dichos nom brados que aya el dicho maestro nombrado de azer y repintar y acabar las tablas et ystorias, que son por cuenta las que parescen en el dicho retablo, y estas no como quiera, sino de muy buenas colores finas repintadas en perfeçion, assi corno hotras que comunmente vemos por yglessias et retablos. Y porque no aya falta en la pintura et ystorias, sino que sean en cuenta y en reparos y hor den, se pone en serio las que son y estan puestas en el dicho retablo y ajustadas en el. In pratica nel 1556 si deve eseguire la carpenteria lignea di un retablo dedicato a San Pietro e San Paolo, per il quale esistono già dei dipinti in parte finiti in parte no; nel 1557 si chiama il pittore Juan de Ainzón, quello che il 3 novembre 1542 era entrato nella bottega di Pedro Fernández, per ultimare l’opera: non solo realizzare policromia e doratura delle varie parti architettoniche e ornamentali della carpenteria, ma prendere, rifinire e ridipingere quei dipinti già in mano alla confraternita, non portati a termine dal pittore precedentemente incaricato, che rimane a tutt’oggi anonimo. È naturalmente affascinante pensare che il primo pittore, quello non citato ma che aveva dipinto le tavole ya fecha y no acabada, possa essere stato Pedro Fernández, il “nostro” Pedro Fernández, ma una tale soluzione prospetterebbe a mio avviso diversi problemi, cronologici innanzi tutto, e poi di stile. A meno che i confratelli tenessero nelle loro sedi delle tavole, in parte finite e in parte no, per un retablo da dedicare ai patroni, che datazione è proponibile per i dipinti in San Pablo? Possiamo pensare a un Fernandez Matusalemme che muore in corso d’opera? Tra il 1556 e il 1557 o prima, anche molto prima? Il 4 (o il 24) maggio 1558 Juan de Ainzón è liquidato per il suo intervento È una documentazione, ribadisco, piena di fascino, ma nella quale non vorrei per dermi tra mille dubbi e perplessità, non ultime quelle di carattere stilistico. Non sono in possesso di materiale fotografico professionale del Retablo di San Pablo: riesco a capire che ci sono differenze di mano ma il complesso, almeno per ora, rimane per me un enigma. Nella mia tutt’altro che ca pillare conoscenza della pittura della prima metà del Cinquecento a Saragozza e, più in generale, in Aragona non conosco opere che si avvicinino in maniera significativa allo stile, peculiare come pochi altri, del nostro pittore.
Si torna così all’interrogativo di partenza: il Pedro Fernández documentato a Saragozza dal 1540 al 1548 è quello che abbiamo imparato a conoscere in Italia o un omonimo? Nella voragine che si è aperta nella cronologia del pittore si può comunque collocare un altro dipinto oltre ai due che si sono esaminati e che bene si sistemano nei secondi anni Venti.
Provo un’altra strada per spiegare meglio il mio pensiero sull’attività del pittore in Spagna.
Mi sembra di un certo interesse riprodurre a fronte le due Adorazioni dei pastori, quella della Duquesa di Villahermosa e quell’altra del Bomann Museum [figg. 9-10] in quanto il confronto può risultare utile al nostro discorso rilevando, più che le affinità, le differenze tra i due dipinti.
Riprendo il mio vecchio testo del 1997:
Pedro Fernández Madonna con il Bambino e Santi Polittico di Bressanoro), Castelleone, Parrocchiale (© Adverphoto di Oscar Pegorini, Cremona)La seconda opera del Fernández a Napoli è l’Adorazione dei pastori della Colle zione della Duchessa di Villahermosa a Pedrola, presso Saragozza, d’accordo con la ricostruzione di Ballarin, che vi ha colto i riflessi di una congiuntura milanese sul 1500, in cui i nomi di Bramantino e Zenale si accompagnano a quelli di Boltraffio e Solario. Nella tavoletta Villahermosa sono precise citazioni zenaliane dai Putti della cantoria di Santa Maria di Brera, in parte nella collezione Sormani Andreani Verri di Lurago d’Erba [ora nella Pinacoteca di Brera], alla Pietà di casa d’Atri depositata nel Musée Masséna di Nizza [ora al Louvre], e Ballarin sottolinea il peso che su questa vicenda milanese può avere esercitato un dipinto come la Resurrezione di Cristo con San Leonardo e Santa Lucia del Bode Museum di Berlino [ora Staatliche Museen, Gemäldegalerie], eseguita intorno al 1497 da Boltraffio e Marco d’Oggiono. Più in generale è il rinnovato clima bramantinesco che si respira a Milano a partire dal 1497 a segnare in profondità le esperienze dello spagnolo: Bramantino “è il grande punto di riferimento per Fernández stesso, che non a caso abbiamo continuato a chiamare, appunto, fino a qualche anno fa lo Pseudo Bramantino. Questo si vede come meglio non si potrebbe in questa Natività: nello spingere in avanti le lastre di pietra sconnesse del pavimento del tempio, nell’assestare il piano di fuga sul filo di un assunto, sto per dire, vedutistico – il corridoio prospettico si conclude, incredibile a vedersi a quelle date, su una città archeologica a picco sull’ansa di un fiume, che l’acutezza dello scorcio riduce ad un taglio sottilissimo di luce, di certo una veduta archeologica di Roma, una delle prime, forse la prima, alta su un Tevere abbagliato di luce, immersa in una nebbia azzurrina dietro il maestoso spiovente del verde, di certo il ricordo di un passaggio per l’Urbe, di un preciso evento biografico, di emozioni forti ed indelebili –, nello spalancare il sotto in su delle volte scoperchiate – quale magnifico spettacolo!, luce ed ombra ad inverare il rigore prospettico, anzi quadraturistico, poesia delle rovine già codazziana, ma con quelle perspicuità da fiammingo per gli effetti di luce sui marmi sbrecciati, e quelle finezze di gusto quasi neoclassico nel fregio in ombra con i bucrani e le ghirlande –, infine nell’iterazione così solennemente cadenzata e diminuita dell’archetipo figurale”. A confermare la datazione alta del dipinto che ha suggerito a Ballarin questa pagina di emozionata tensione evocativa è ora emersa la notizia che esso sarebbe stato portato in Spagna da Napoli ad opera di Don Juan d’Aragona conte di Ribagorza; questi, nipote di Ferdinando il Cattolico, visse a Napoli dal 4 giugno 1504 all’8 ottobre 1509, che rappresenterebbe un ante quem assai prezioso per la sua datazione.24
Spero che la mia amica Odette D’Albo non se la prenda se, per il quadro già Solly di Celle, non concordo con la sua ipotesi cronologica precoce, lombarda ma lo spingo più avanti negli anni
e devo rilevare una qualità più corsiva, soprattutto in alcuni brani, che non esclude tuttavia l’au tografia. La tavola Villahermosa è un gioiello raro, letto come solo Sandro Ballarin sa fare, coglien done ogni aspetto: quella tedesca ne riprende l’impianto, lo varia e in qualche modo lo banalizza. Lo splendido apparato architettonico in rovina, “molto Prevedari”, con la carola di angeli musici zenaliani, diventa un’altra cosa, una loggia con qualche incongruenza prospettica e semplifica zione formale che, al piano terreno, è diventata la stalla del presepe, dove occhieggiano il bue e l’asinello. La Sacra Famiglia ha una tenuta più nobile, nonostante il Bambino sovradimensionato, mentre i pastori e gli angeli in terrazza appaiono piuttosto goffi e hanno espressioni sgradevoli, lontani dalla studiata caricaturalità di matrice leonardesca che impronta il pastore calvo che incede verso il Bambino, privi di quelle elegantissime raffinatezze pittoriche del modello ora a Pedrola. C’è poi una concezione molto diversa nella rappresentazione del paesaggio: quello luminosissimo del quadro Villahermosa lo ha appena descritto in maniera così evocativa e poetica Sandro Ballarin; quello della tavola di Celle è assai più ombroso, invadente di vegetazione e con l’incombere, sulla sinistra di monti e rocce, con una fortezza che sembra chiaramente derivata da un’incisione, tra la Visione di Sant’Eustachio (B 57), il Mostro marino (B 71) e il Commiato di Cristo dalla madre (B 92) di Albrecht Dürer, per farci un’idea, da approfondire meglio. Il pensiero di fondo è che la tavola Villahermosa rappresenti un gioiello raro sotto tutti gli aspetti, mentre quella Bomann rientri in una sorta di routine di un pittore che ha stimoli molto minori rispetto al passato e prova a riadattare per una committenza non dello stesso rango di chi aveva richiesto un prototipo così prestigioso. Un simile dipinto potrebbe rappresentare il segmento più avanzato a nostra disposizione della produzione di Pedro Fernández.
A questo punto, però, sorge un altro problema perché ha certamente ragione Odette D’Albo a mettere in contiguità la “sua” tavola con il Riposo durante la fuga in Egitto Kress dell’Austin Arts Center, Trinity College, Hartford [fig. 11], ma viene quasi ovvio pensare che la tavola americana non possa rappresentare una primizia dell’artista quanto piuttosto un’opera molto avanti nel suo catalogo e distaccarsi così, nettamente, dall’altro Riposo, quello sì giovanile, passato sul mercato antiquario negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso e approdato a una collezione privata spagnola.25 Dopo così tanti anni posso finalmente confessare che non riusciva ad andarmi giù la pretesa contemporaneità di questi due dipinti con il medesimo soggetto, che condividevano diversi pareri autorevoli in favore di Francesco Napoletano; di più, il Riposo Kress mi ha sempre provocato una qualche inquietudine, perché, con quella collocazione cronologica, lo vedevo come una sorta di corpo estraneo nel corpus del pittore. Tutto quel rocciame di gomma, finto, da Cinecittà, reso senza la finezza e la grandiosità che si può ancora percepire nelle parti sane della malandatissima tavola di San Gregorio Armeno a Napoli, il fortilizio storto al centro del quadro, in un paesaggio così sommario, dalla tenuta esecutiva assai modesta, la Madonna dal faccione ottuso, la posa troppo disinvolta di San Giuseppe mi davano sinceramente fastidio se paragonate alle raffinatezze pittoriche, antiquarie e fisionomiche dell’altro Riposo ora in mano privata.
IV. E veniamo finalmente alle tavole che hanno dato l’abbrivo a questa carrellata nella memoria, con salti nel tempo e nello spazio che possono anche avere sconcertato il lettore: quello italiano, soprattutto, non sempre abituato alla incredibile varietà tipologica dei retabli iberici. Va poi detto che i disastri e le distruzioni della guerra civile del 1936-1939 hanno provocato ingentissime perdite e smembramenti di queste macchine d’altare particolarmente articolate, oltre a restituire un patrimonio fortemente diminuito. La mostra De Flandes a Itàlia già ricordata, allestita al Museu d’Art di Girona tra il 1988 e il 1999 può essere considerata un buon esempio di campionatura di questi smembramenti. È coinvolgente vedere le immagini in bianco e nero dei principali retabli cinquecenteschi della diocesi gironina prima del 1936 con evidenziati a colori, in percentuale minima rispetto alla presenza originale, i dipinti che sono pervenuti sino a noi, spesso non più nella sede per cui furono eseguiti. Questo materiale fotografico ci testimonia la varietà struttu rale delle carpenterie e le dimensioni, molto spesso monumentali se non gigantesche, di questi complessi il più delle volte misti, con la convivenza tipicamente iberica di elementi di pittura e di scultura (la più penalizzata da questa furia: ricordo – per interesse storico personale – docu mentari con i roghi, sia sui sagrati che nelle chiese stesse, di opere d’arte sacra e di reliquie e le esecuzioni sommarie e spesso efferate di preti e suore, quinte colonne del franchismo.26
Le due nuove tavole facevano ovviamente parte di un retablo del quale, almeno per ora, non conosciamo altri elementi: sono comparse sul mercato antiquario internazionale sul finire dell’an no passato senza alcun dettaglio relativo alla provenienza e un generico riferimento a «Castilian School, 16th Century», alquanto ingiallite a causa dell’invecchiamento delle vernici ma sostan zialmente in ottime condizioni di conservazione. L’accurato intervento di restauro di Carlotta Beccaria ha rivelato una tavolozza smagliante e delicata e una materia estremamente solida, tipica del pittore.
Prima di ogni considerazione diamo qualche numero, a partire dalle dimensioni: Annunciazione [figg. alle pp. 4, 28; figg. 14, 17, 19, 22]
Olio su tavola
superfice dipinta: 87,5 x 71,8 cm senza cornice: 100 x 73,2 cm incorniciata: 121 x 86 cm
Presentazione al tempio [figg. alle pp. 5, 29; figg. 25, 26, 29, 31, 33, 34]
Olio su tavola
superfice dipinta: 87,5 x 70,5 cm senza cornice: 101,7 x 73 cm incorniciata: 121 x 86 cm
La prima riflessione, immediata, è che non sarebbe affatto ovvio presupporre una loro provenien za spagnola se le due tavole non fossero incorniciate con la tipica crestería delle carpenterie ibe riche nella zona superiore, che si distingue nettamente dalla tradizione italiana se solo si esclude la Sardegna.27 Esiste la concreta possibilità che questa parte lignea non sia originaria ma rifatta: credo tuttavia che debba comunque rimandare a modelli ben precisi dell’apparato ornamentale dei retabli spagnoli di questo momento, visto che l’utilizzo di tali motivi cesserà proprio negli anni 1525-1530 circa, come mi conferma Jesús Criado Mainar. Non dimentichiamo che il Regno di Sardegna, istituito nel 1297 da papa Bonifacio VIII, apparteneva alla chiesa e veniva dato in perpetuo ai re d’Aragona in cambio di un giuramento di vassallaggio: fece parte della corona d’Aragona fino al 1713
Non penso tuttavia che le due tavole – nonostante la ben nota citazione della lettera datata 1524 di Pietro Summonte a Marcantonio Michiel attestante un maestro Pietro «che era sardo [...] che poi si fé eremita» quale autore della Cona della Visitazione in Santa Maria delle Grazie a Caponapoli [fig. a p. 14; figg. 28, 30, 32] – siano state eseguite da Pedro Fernández per un retablo eseguito in Sardegna, sebbene le sue tracce si avvertano, sensibilissime, nella raffinata Veronica su una faccia dello stendardo nel Duomo di Sassari che in passato gli era stato riferito.28 Esclusa quindi a priori la Sardegna, devo constatare che anche il Retablo di Sant’Elena, pur appartenendo a evidenza alla stessa mano, non dimostra che in minima parte caratteristiche tanto marcate da poter essere avvicinato cronologicamente alle due nuove tavole. Le quali, prima di tutto, salvo lievissime sgrammaticature – il vaso con il giglio nell’Annunciazione, la lampada pendente dal soffitto nella Presentazione al tempio, che lasciano tuttavia qualche giustificabile perplessità in chi è abituato al rigore prospettico e geometrico quasi maniacale del pittore, come se si trattasse, soprattutto per la lampada, per chi si ricorda il nitore e la perfezione stereometrica assoluta di quella nella Visitazione di Capodimonte [fig. a p. 14], di un corpo estraneo o di un brano pittorico totalmente ripreso, anche perché il cordame che la sorregge è dipinto benissimo, con una lucidità ottica rimarchevole – si mantengono a un grado qualitativo superiore all’altare del 1521: come se Pedro, con un deciso colpo di reni, avesse voluto abbandonare le incertezze della collaborazione con i modesti artisti di Girona e rimettersi in proprio. Un’altra novità immediatamente percepibile è l’ambientazione di entrambi gli episodi evangelici in interni definiti con dovizia di particolari nell’impianto architettonico e la consueta abilità pro spettica: in nessun dipinto italiano esiste una scena che si svolge in un interno: o luminosi, se non abbaglianti en plein air o santi inseriti in maniera volumetricamente monumentale in organismi architettonici aperti e funzionali all’andamento della carpenteria. È ancora una volta il retablo per Narcis Simon a distinguersi perché ben tre episodi sono ambientati in interni (Interrogazione di Giuda; Identificazione della Vera Croce; Morte di Sant’Elena): nessuno, tuttavia, mostra alcuna caratteristica scenica o formale in analogia con l’Annunciazione o la Presentazione al tempio.
Certo, le due nuove tavole, per i soggetti rappresentati, hanno una dimensione più accostante e familiare rispetto ai pannelli “di storia” gironini; l’Annunciazione vede i due protagonisti molto ravvicinati e l’arcangelo è realmente il gemello – risulta persino banale rilevarlo – di quelli della visionaria tavola amadeita [fig. a p. 36; fig. 23] di Palazzo Barberini a Roma (inv. 3574), ma an che del San Giovanni Evangelista nella Deposizione di Guildford. [fig. 20] 29 Facendo passare moltissime – e spesso straordinarie – Annunciazioni spagnole del primo quarto del Cinquecento, tenendo un occhio di maggiore riguardo per i pittori più italianizzanti e filobramanteschi, soprat tutto tra Avila e Toledo – elencare i capolavori di Juan de Borgoña o dei Ferrandos valenciani, del Maestro di Bolea o, poco prima, di Pedro Berruguete, può risultare del tutto pleonastico –, non riesco a imbattermi in un esemplare di così scarna misura ed essenzialità, sviato quasi sem pre da una propensione iperdecorativa piena d’oro e di elementi che possono in qualche modo distrarre – un vaso, un leggio, del mobilio intarsiato, un tappeto, un cartiglio particolarmente arzigogolato, un estofado troppo brillante – l’attenzione sull’episodio in sé. Nella nostra Annunciazione la stanza è semplice, severa; non dico disadorna perché non man ca lo stretto necessario: il letto, il tendaggio rosa del baldacchino, il leggio, il libro, il vaso traballante dei gigli, l’accenno alla volta cassettonata e la porta aperta sul paesaggio. Tutta la concentrazione si focalizza sui due personaggi, che sanno riempire lo spazio con l’ingombro tangibile delle volumetrie solenni tipiche dell’autore. La tavolozza è particolarmente felice nella delicatezza dei colori tenui che danno un’impronta generale di luce rosata, con una varietà di rosa molto studiata: tra il chiaro e l’antico il tendaggio, verso l’avorio con un’idea di viola nella veste dell’angelo, che rende l’idea del panno in quella della Vergine. L’eleganza dei contrasti si coglie con il rosso e l’azzurro dei rispettivi mantelli, con lo sfondo scuro del muro della parete aperto sul verde-azzurrino evanescente del paesaggio. Le ali dell’arcangelo, infine, hanno pen ne di consistenza quasi metallica e scure, tra il rosso nerastro e il porpora violetto, con qualche inserto blu acqua e bianco. Se, come si è già accennato, l’arcangelo è parente stretto di tutti quelli – e non sono pochi – che animano le tavole del Fernández, nondimeno non si può non notare che il nostro appaia come leggermente più atticciato, robusto: credo che sia il riflesso di un approccio a una monumentalità più risentita, che prende le mosse dal Polittico di Bressanoro [figg. alle pp. 17, 25], nel quale si assiste a un nuovo dilatarsi delle forme e all’ampliarsi semplificato dei panneggi che dovrebbe ro rappresentare un portato michelangiolesco. Anche la figura della Vergine, nella sua silente compunzione mostra una fisicità che bene si accorda con le due raffigurazioni di Maria del complesso amadeita cremonese, con una decisa somiglianza fisionomica con quella al centro del registro superiore [figg. 13, 16]. Più nello specifico, poi, mi sembra – a meno che non si tratti di deformazione professionale – che la Madonna subisca lievi fascinazioni di certa pittura cremo nese del secondo decennio del Cinquecento, tra Boccaccio Boccaccino e Altobello Melone, allaPedro Fernández, Andata al Calvario, Napoli, San Domenico Maggiore (© Archivio dell’arte | Pedicini fotografi, Napoli)
stessa stregua di quanto accade, ma è un fattore più immediatamente percepibile dagli studiosi di Cinquecento padano, all’astigiano Gandolfino da Roreto. Se devo essere sincero, lo stile di questa nuova Annunciazione di Pedro Fernández mi sembra rappresentare il seguito più conseguente del Polittico di Bressanoro nella sua asciutta volontà di semplificazione formale. Il problema vero che si frappone è la scarsa omogeneità con il Retablo di Sant’Elena a Girona: come un macigno che non si può spostare, essendo le due nuove tavole eseguite in Spagna. Certo, non possediamo alcun documento che certifichi la loro nazionalità iberica, ma basterebbe anche soltanto la tipica crestería della cornice a garantire inequivocabil mente della loro hispanidad
Pur facendo ricorso il più possibile alla memoria, non mi sembra di ricordare una rappresentazio ne della Presentazione al tempio secondo un taglio prospettico così decentrato e laterale, costrui to, ovvero, lungo una diagonale tanto precisa quanto insolita. Già l’episodio evangelico (Luca 2, 22-38) si è prestato, nel corso dei secoli, a sperimentazioni iconografiche piuttosto consistenti e variabili, anche se i modelli principali rimangono in sostanza due.30 Certo, il Bambino perplesso è il fulcro centrale della composizione, ma è già singolare che la scena si svolga seguendo il secondo modello iconografico riconosciuto, ovvero che non sia la Vergine a porgere il Bambino a Simeone, ma che sia il vecchissimo Simeone, in paramenti sacerdotale, a incedere curvo verso la Madonna tenendolo tra le braccia, con le mani coperte da un velo e guardandolo, in controluce, dal suo bel profilo perduto [figg. 31, 33]. Anna, l’anziana profetessa che dedica la sua vedovanza al Signore, tenta di accarezzare i capelli di Gesù incastrando con gesto non proprio comodo la mano tra la testa e l’aureola; mentre la Vergine – gli occhi vitrei sono quelli di Roy Batty–Rutger Hauer in Blade Runner – prega inginocchiata aspettando di ricevere il figlio. Alle sue spalle l’anziano San Giuseppe [fig. 26] osserva la scena tenendo nella destra il cestino, ma non si vedono le due tortore: forse rispetta l’altra tradizione iconografica secondo la quale mette mano alla borsa per corrispondere un piccolo obolo. Certo è che la sua fisionomia riman da a quelle degli Apostoli al sepolcro della Vergine nell’Assunzione di Pisciarelli [figg. 24, 27]. Un vecchio dai tratti caricati, chiaramente leonardeschi, che ricordano molto da vicino quelli di uno dei profeti nei pennacchi della cappella Carafa in San Domenico Maggiore a Napoli [fig. a p. 22; figg. 34-35], con una curiosa cuffietta rossa in testa si sporge a guardare la scena, chiusa sulla destra dall’altare con le tavole della legge. È un personaggio che a volte si incontra nelle scene della Presentazione al tempio, per esempio, a figura intera, nella grande tavola di Francesco Francia alla Madonna del Monte di Cesena: l’impressione è che possa essere uno scriba.31 Come sempre Fernández si concentra sul gruppo dei personaggi, individuando le pe culiarità di ciascuno, ma mai come in questa tavola si sofferma in maniera così particolareggiata nella definizione di un interno, in questo caso il tempio di Gerusalemme, alla porta di Nicànore, il luogo ove le madri offrivano il sacrificio dopo la nascita del loro primogenito.
L’ambientazione architettonica è piuttosto macchinosa: stranamente non tutto sembra funziona re dal punto di vista prospettico; colonne di marmo rosso screziato sembrano delimitare altri ambienti ombrosi, incrociandosi con arcate interrotte: in questo caso si ripensa all’eccezionale dimensione e acribia bramantesca della giovanile Adorazione dei pastori de la Duquesa de Vil lahermosa al confronto con la costruzione più stentata e approssimativa sulla destra della tavola con il medesimo soggetto del Museo di Celle, di cui si è parlato poc’anzi. Per un pittore, come dire, impregnato di una cultura prospettica di carattere bramantesco quasi spinta a eccessi di pignoleria, l’ambientazione architettonica della Presentazione al tempio riserva non poche per plessità, soprattutto sul fatto che non sembra più essere quello uno dei problemi principali nella costruzione di un dipinto. Bramante e Bramantino sono solo un ricordo, come pure le complesse composizioni di un artista che in gioventù sovente gli accostavo: il pavese Maestro delle Storie di Sant’Agnese, identificato in Ziliolo Mezzano da Stefania Buganza.32 Non vorrei banalizzare troppo la questione, ma anche questa osservazione, insieme alla crestería della cornice, mi sem brano due indizi piuttosto evidenti che siamo in presenza di opere dipinte in Spagna. A differenza dell’Annunciazione, questa seconda tavola è impreziosita da una tavolozza più ricca e squillante: se la Vergine risponde cromaticamente alla raffigurazione precedente, sono da rimarcare alcuni accordi e contrasti particolarmente brillanti, come il rosso e il verde negli abiti di San Giuseppe – che ha una definizione del volto, con quei capelli sparati, la barba ispida e lo sguardo attento, straordinariamente e inaspettatamente naturalistica, ove si considerino le carat teristiche peculiari della fisiognomica del pittore –, o il rosso più aranciato del mantello di Anna accostato all’oro della veste. Simeone è raffigurato come Sommo Sacerdote – il Protovangelo di Giacomo, infatti, lo vede come successore di Zaccaria in tale incarico e per questo indossa i paramenti – con «il pettorale e l’efod, il manto, la tunica damascata, il turbante [in questo caso la mitra] e la cintura […] Fecero l’efod con oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto» (Esodo 28) e, ai colori tipici della liturgia, il pittore aggiunge un espediente tipico del suo repertorio virtuosistico nel passaggio gelido dal rosa al bianco e dall’azzurro al bianco, sempre ghiacciato, nel velo e nella manica di Simeone. Non sono riuscito invece a capire cos’è quella sorta di pettorale di cuoio retto da catenelle che Simeone porta sulla schiena, quasi a fare da contrappeso al pettorale vero e proprio. Sottolineo, infine, la delicatezza chiaroscurale del pro filo perduto del sacerdote e dell’anatomia rilassata del Bambino.
Quando e dove? Dopo tutte queste osservazioni e ricerche non ho una risposta certa: è come trovarsi davanti un muro. Nessuna notizia documentaria, solo un vecchio cartellino sul retro che rimanda a “Antigüedades Rodriguez Jimenez, Madrid”, una galleria antiquaria che, almeno nel 1928, era in Calle del Prado 15.
Il Pedro Fernández che conosciamo per le opere italiane e per il Retablo di Sant’Elena si inabissa a Girona nel 1523; un Pedro Fernández «pintor habitante en Çaragoça» compare nel 1540
nella capitale dell’Aragona per una commissione di rilievo ma non abbiamo nemmeno un’opera che ci riveli il suo stile dopo il retablo appena ricordato: buona parte del terzo e tutto il quarto decennio del secolo appaiono del tutto scoperti. L’Annunciazione e la Presentazione al tempio sono state realizzate in Spagna a date non troppo lontane dal suo prolungato soggiorno in Italia: hanno caratteristiche stilistiche molto più vicine a quelle dei dipinti italiani rispetto a quelle del retablo della seu di Girona, eseguito comunque inequivocabilmente tra la fine del 1519 e il maggio 1521. Un altro fatto curioso è che le due nuove tavole rappresentino una sorta di Bignami dello stile del pittore, recuperando elementi stilistici di tutte le fasi italiane, con in più un interesse per la raffigurazione dell’episodio in un interno assente in Italia e viceversa una minore passione per il dato prospettico (attenzione, è la “minore passione” di un mago della prospettiva: non è che Pedro rimbambisca e appronti apparati approssimativi e senza senso, solo, diciamo così, non si diverte più a stupirci con gli effetti speciali di una volta). Se proprio mi vedessi costretto a ipotizzare una data per le due tavole non mi spingerei oltre il 15251530. Considerando l’attitudine agli spostamenti del pittore in Italia, non riesco a immaginarlo stanziale in una città della Spagna per periodi troppo lunghi. Se è lui – ma sarà lui? – il Fernández di Saragozza, il pittore è al capolinea: si ferma, apre bottega, prende apprendisti, è una vecchia gloria, un venerato maestro.
Pedro Fernández, Visione del Beato Amedeo Menez de Sylva, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini (Archivio A.P.I.C., Cremona)Per questa nuova avventura in compagnia di Pedro Fernández devo ringraziare in primo luogo Jesús Criado Mainar, al quale devo un’infinità di favori e una partecipazione affettuosa al mio lavoro. Grazie poi a Carlotta Beccaria, Alda Luisa Corsini, Odette D’Albo e Orazio Lovino.
1 O. D’Albo, Un’Adorazione dei pastori per Pedro Fernández, in Bramantino e le arti nella Lombardia francese (1499-1525), a cura di M. Natale, Milano 2017, pp. 415-425.
2 M. Tanzi, Pedro Fernández da Murcia, lo Pseudo Bramantino. Un pittore girovago nell’Italia del primo Cinquecento, catalogo della mostra (Castelleone, chiesa della Trinità, 11 ottobre – 30 novembre 1997), Milano 1997, con bibliografia precedente. Per la ricostruzio ne del Polittico di Bressanoro si vedano L. Bertacchi, Pietro Ispano e il Polittico di S. Maria di Bressanoro, in «Arte cristiana», LXXIII, 707, 1985, pp.71-82; M. Gregori, L. Bertacchi, in Campi e la cultura artistica cremonese del Cinquecento, catalogo della mostra (Cremona, Santa Maria della Pietà, 27 aprile 1 settembre 1985), Milano 1985, pp. 76-80.
3 Tanzi, Pedro Fernández cit., p. 3.
4 Ibidem, p. 5.
5 A. Ballarin, Riflessioni sull’esperienza milanese dello Pseudo-Bramantino; Ancóra su Pedro Fernández: scioglimento di alcune riserve Ritorno su Fernández, Francesco Napoletano e Boltraffio, in Leonardo a Milano. Problemi di leonardismo milanese tra Quattrocento e Cin quecento. Giovanni Antonio Boltraffio prima della Pala Casio, Pittura del Rinascimento nell’Italia Settentrionale, 7, con la collaborazione di M. Menegatti, B. M. Savy, I-IV, Milano 2010, I, pp. 46-64, 587-588, 676-702.
6 In questo caso la cito con il titolo del convegno di Girona: G. Romano, L’espansione dell’arte milanese in Italia e in Europa (14901500), conferenza tenuta a Girona durante il Convegno L’expansiò del Renaixement a Catalunya, 5-8 novembre; ma la conferenza, con significative varianti, si è sentita in varie sedi in quegli anni; il titolo era quasi sempre Problemi aperti sul Bramantino. Una versione a stampa, con questo ultimo titolo, la si può trovare in G. Romano, Rinascimento in Lombardia. Foppa, Zenale, Leonardo, Bramantino Milano 2011, pp. 207-231.
7 P. Freixas, Documents per a l’art renaixentista català. La pintura a Girona durant el primier terç del segle XVI, in «Annals de l’Institut d’Estudis Gironins», XXVII, 1984, pp.165-188, qui è trascritto per la prima volta il contratto per il Retablo di Sant’Elena; Idem, El pintor Pere Fernàndez a Girona, in «Annals de l’Institut d’Estudis Gironins», XXXII, 1992-1993, pp. 79-96: in questo contributo sono trascritti i contratti per i tre retabli.
8 Le vicende del santo di Antiochia sono particolarmente curiose e interessanti: si veda Eudocia Augusta, Storia di San Cipriano, a cura di C. Bevegni, Milano 2006.
9 C. R. Post, A History of Spanish Painting, I-XIV, Cambridge (MA), 1930-1966, XII, 1, 1958, pp.158-162.
10 G. Romano, Profilo del Grammorseo, in «Arte antica e moderna», 34-35-36, 1966, p. 126, figg. 44-45; Idem, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo in una città padana, Torino 1970, pp. 31-32, fig. 30-32
11 F. Navarro, Una nuova opera di Pedro Fernández del tempo di Cremona, in «Prospettiva», 42, 1985, pp.62-64
12 Nella scheda in catalogo (Tanzi, Pedro Fernández cit., p. 122, n. 14) affermo come un dato di fatto che «il carpentiere è Antonio Mateu», senza dare nessuna giustificazione bibliografica: confesso di non ricordare da dove mi fosse venuta quella sicurezza., ma ripren dendo in mano il quaderno di quei giorni scopro che proprio l’ultimo appunto è «Antonio Mateu carpentiere». Qualcuno, dunque, l’avrà detto. Si sofferma giustamente sulla questione, cercando di risolvere il busillis J. Garriga i Riera, in De Flandes a Itàlia. El canvi de model en la pintura catalana del segle XVI: el bisbat de Girona, catalogo della mostra (Girona, Museu d’Art, novembre 1998 – aprile 1999), Girona 1998, p. 92, nota 12.
13 Ibidem, pp. 79-92.
14 Freixas, Documents cit., p. 9; A. Sánchez, Sant Cristòfol a Girona. Una capella, un portal i un carrer, Girona 2007.
15 R. Naldi, I rapporti fra Italia meridionale e penisola iberica nel primo Cinquecento attraverso gli ultimi studi: bilancio e prospettive.
1. La pittura, in «Storia dell’arte», 64, 1988, p. 218.
16 R. Naldi, Pseudo Bramantino (Pedro Fernández), in Andrea da Salerno nel Rinascimento meridionale, catalogo della mostra (Padula, Certosa di San Lorenzo, 21 giugno – 31 ottobre 1986) a cura di G. Previtali, Firenze 1986, p. 240
17 J. Criado Mainar, Las artes plásticas del segundo Renacimiento en Aragón. Pintura Y Escultura 1540-1580, Tarazona 1996, pp. 30, 303, 399, 544, 546, 624, con bibliografia precedente.
18 Il contratto è stato pubblicato da M. Abizanda y Broto, Documentos para la Historia Artística y Literaria de Aragón procedentes del Archivo de Protocolos de Zaragoza, I-III, Zaragoza 1915-1917, II, 1915, pp. 53-55 (le varie citazioni nel testo vengono da qui); la dichiarazione che il pittore è italiano è a p. 52.
19 Uso questa espressione in maniera volutamente impropria: il suo significato reale riguarda l’adozione, ai primi del Cinquecento, dei motivi architettonici decorativi “alla romana” nella cultura figurativa aragonese; rimando agli studi di J. Criado Mainar, Las artes plásticas del Primer Renacimiento en Tarazona (Zaragoza). El tránsito del moderno al romano, in «Tvriaso», X, II, 1992, pp. 387-452; J. Criado Mainar, J. Ibáñez Fernández, La introducción del ornato al romano en el Primer Renacimiento aragonés. las decoraciones pictóricas, in «Artigrama», 18, 2003, pp. 293-340.
20 Criado Mainar, Las artes plásticas cit., pp. 30, 302-303, 399, 624, 696-697, doc. 4
21 Ibidem, p. 399, nota 1.
22 Post, A History cit., 13, 1966, pp. 173-184, figg. 68-70; A. I. Bruñén Ibañez, M. L. Calvo Comin, M. B. Senac Rubio, Notas sobre el retablo de San Pedro y Pablo. Precisiones sobre su posible autor Jerónimo Cosida, in Actas del V Coloquio de Arte Aragonés (Alcañiz, 24-26 settembre 1987), Zaragoza 1989, pp. 551-560, figg. 1-4.
23 J. Criado Mainar, El circulo artistico del pintor Jeronimo Cosida, Tarazona 1987, pp. 69-73; M. C. Morte Garcia, Documentos sobre pintores y pintura del siglo XVI en Aragón, , in «Boletín del Museo e Instituto Camón Aznar», XXX, 1987, pp. 214-216, nn. 116, 118.
24 Tanzi, Pedro Fernández cit., p. 13. In questo caso la mia opinione cronologica diverge completamente da quella di Riccardo Naldi, Federico Zeri e la pittura nel Regno di Napoli tra Quattro e Cinquecento. Una linea, in Il mestiere del conoscitore. Federico Zeri, a cura di A. Bacchi, D. Benati, M. Natale, Cinisello Balsamo 2021, pp. 267-270; che vede nel quadro di Celle e in quello di Hartford «il volto più giovanile di Pedro Fernández,, ancora fresco di Spagna, attivo a Milano [...] giusto allo scadere del Quattrocento».
25 Ballarin, Riflessioni cit., pp. 51-52; Idem, Ancóra su Pedro cit., p. 587; per le immagini a colori dei due Riposi si veda Idem, Leo nardo a Milano cit., II, tavv. CIC, CCII; in bianco e nero, a fronte: III, figg. 270-271.
26 R. Saavedra Arias, La sorte del patrimonio artistico spagnolo durante la Guerra Civile (1936-1939): ideologia, politica e trascen denza del problema, in «Spagna Anno Zero» La guerra come soluzione, «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 7, 2011, edizione digitale http://www.studistorici.com/2011/07/29/saavedra_numero_7/
27 Da Wikipedia: «Por crestería (del latín crista “cresta”, penacho) se pueden entender dos elementos arquitectónicos diferentes:
- Como elemento decorativo.
- Como parte de una construcción fortificada.
Conjunto de motivos ornamentales y adornos, principalmente del tipo vegetal o geométrico, repetidos en serie, habitualmente de estructura calada, que coronan la parte alta de un edificio o una techumbre. Fue utilizado sobre todo en la arquitectura gótica y renacentista, pero también en la barroca o la modernista»
28 Tanzi, Pedro Fernández cit., p. 40, fig, 21.
29 Devo confessare che, fin dagli esordi del mio insegnamento universitario a Lecce, nel 1995, la prima immagine della prima lezione di ogni anno accademico è proprio quella della Visione del beato Amedeo Menez de Sylva già a Montorio Romano: come una sorta di passepartout metodologico dei multiformi aspetti della disciplina, stile, iconografia, contesto, modelli, centro e periferia, testo e immagine, arte e devozione, eccetera eccetera. La si veda in Tanzi, Pedro Fernández cit., pp. 78-79, 119, n. 7.
30 Nella prima versione la Vergine tende il Bambino al vecchio Simeone, che si prepara a riceverlo con le mani velate; nella seconda Simeone lo ha già tra le braccia, come lo raffigura Giotto agli Scrovegni. Gli altri elementi della scena sono comuni: dietro a Maria c’è Giuseppe e compare in secondo piano la profetessa Anna. Un’innovazione compare alla metà del XII secolo in una vetrata di Chartres, poiché dietro alla Vergine, ci sono tre figure femminili, di cui una porta le tortore e due i ceri accesi. Infatti, dal XII-XIII secolo uno dei pre senti può avere una candela in mano, ma sarà dal XIV secolo in poi che questa immagine entrerà nell’iconografia canonica, comprensiva così della festa della Candelora. Spesso partecipa alla scena anche il Sommo Sacerdote che, a partire dal XIV secolo, viene a coincidere con la figura di Simeone, quando questi è raffigurato con la mitria o la tiara. La profetessa Anna, una vedova ottantaquattrenne che viveva nel Tempio, è presente in entrambe le varianti, più frequentemente nell’iconografia italiana che in quella nordica. Il Bambino sta in piedi o disteso sopra l’altare per significare che con la sua nascita è stato marchiato dal carattere di vittima espiatoria e predestinata al sacrificio. Talvolta la Vergine e Simeone lo sollevano sopra l’altare. Giuseppe non è che una comparsa: tiene in una mano, nascosta tra le pieghe del mantello, un cesto di paglia o una gabbia di ferro con le due tortore. Talvolta offre una piccola somma di denaro e lo si vede mentre apre i cordoni della borsa per estrarre l’obolo. L’arte del Rinascimento non introduce innovazioni, se non che è Maria stessa a portare le tortore.
31 Tale impressione è confortata da Alda Luisa Corsini in una e-mail del 4 giugno 2022: «Il personaggio è uno scriba, fariseo, rap presentato con la fisiognomica del tempo: naso aquilino, mento prominente, bruttezza evidente. Ho notato che nei quadri antichi i farisei e gli scribi si distinguono da tratti di bruttezza marcata che sta a significare l’atteggiamento malevolo, l’invidia verso Gesù. Nel caso del tuo dipinto lo scriba è invidioso dell’annuncio di Anna e Simeone sulla identificazione del Cristo Messia ecc. Portano cuffie aderenti perché gli scribi patiscono il freddo in ambienti pieni di spifferi, mal riscaldati: la moda non è certo quella del tempo di Gesù e risente dei tempi coevi al pittore, penso. Sul colore del copricapo c’è stato un momento che per distinguerli dai cristiani gli ebrei dovevano portare il copricapo giallo (rotella), che se ne erano lamentati e avevano chiesto che fosse di colore rosso, e che tale colore era stato loro accordato ma che poi era stato vietato perché molto simile a quello cardinalizio (vedi M. Moretti, «Glauci coloris». Gli ebrei nell’iconografia sacra di età moderna, in «Roma moderna e contemporanea», XIX, 2011, 1, pp. 29-64). Potrebbe, tra l’altro, essere il sacerdote deputato a raccogliere le offerte: in particolare l’oblazione in denaro offerta per il “riscatto” di un figlio primogenito pidyon haben: riscatto del figlio); nella tradizione rabbinica, cinque shekel d’argento per il riscatto del primogenito israelita». Per la pala cesenate del Francia si veda E. Negro, N. Roio, Francesco Francia e la sua scuola, Modena 1998, pp. 193-195, n. 68.a.
32 S. Buganza, Per il Maestro delle storie di Sant’Agnese: una nuova pala e un possibile nome, in «Nuovi Studi», VIII, 10, 2003, pp. 61-83; sull’artista rimando al datato M. Tanzi, Da Vincenzo Foppa al Maestro delle Storie di Sant’Agnese, in Pittura a Pavia dal Romanico al Settecento, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo 1988, pp. 74-86, 209-226.
15. Pedro Fernández, Madonna di Loreto (particolare), Moricone, Convento della Beata Maria Colomba (su concessione del Ministero della Cultura – Vittoriano e Palazzo Venezia, Roma)
16. Pedro Fernández, Sacra Famiglia (particolare / dal Polittico di Bressanoro), Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone” (© Archivio Fotografico Museo Civico “Ala Ponzone”, Cremona)
17. Pedro Fernández, Annunciazione (particolare), Milano, Matteo Lampertico (foto Giuseppe e Luciano Malcangi)Finito di stampare Settembre 2022 da Arti Grafiche Meroni, Lissone (MB)