Ritorno al Barocco: Fontana, Leoncillo, Melotti

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RITORNO AL BAROCCO Fontana

Leoncillo

Melotti

a cura di Andrea Bacchi

RITORNO AL BAROCCO Fontana

Leoncillo

a cura di Andrea Bacchi

Melotti



RITORNO AL BAROCCO Fontana

Leoncillo

a cura di Andrea Bacchi

Melotti


Ringraziamenti Marco Fabio Apolloni Giacomo e Pietro Capuani Fondazione Fausto Melotti Galleria dello Scudo Paolo Alberto Lamberti Giovanni Martino Enrico Mascelloni Elisa Montecchi Stefano Pierguidi Milena Ugolini

INDICE

Traduzioni Erika Milburn Impaginazione Lisa Esposito - Cooperativa Sociale Relè - Trento Fotografie

5 Prefazione Matteo Lampertico

Paolo Vandrasch Daniele de Lonti Daniele Molajoli

9 Brezza Barocca Andrea Bacchi 65 Le opere Roberto Cobianchi

© 2021 Christian Marinotti Edizioni s.r.l., Milano ISBN 978-88-8273-181-6 I diritti di traduzione, di adattamento totale o parziale, di riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonchè di memorizzazione elettronica e di trasmissione in rete, sono riservati per tutti i Paesi. ___________________________________________________________________________ Christian Marinotti Edizioni S.r.l. Via Alberto da Giussano, 8 - 20145 Milano Tel. 02.481.34.34 - 02.481.32.78 www.marinotti.com e-mail: edizioni@marinotti.com

Il presente volume è stato pubblicato in occasione della mostra “Ritorno al barocco: Fontana, Leoncillo, Melotti”, ML Fine Art - Matteo Lampertico, Milano

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Testo inglese

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Bibliografia


PREFAZIONE Matteo Lampertico


Nel settembre del 2019, in occasione della Biennale dell’Antiquariato di Firenze, ho sperimentato per la prima volta un accostamento fra due sculture in ceramica di Fausto Melotti ed una tela di Gian Battista Tiepolo. Il risultato è stato talmente convincente che mi sono chiesto se si sia trattato solo di una fortunata coincidenza, oppure se effettivamente esista un preciso nesso stilistico fra questi due artisti. Da quel momento questo interrogativo non ha smesso di incuriosirmi, tanto che ho voluto ampliare la mia ricerca ad altri due protagonisti della scultura italiana del XX secolo: Lucio Fontana e Leoncillo Leonardi. Rileggendo gli scritti di Fontana, mi sono accorto che il termine barocco ricorre molte volte, sia nelle dichiarazioni di poetica, sia nel più importante testo teorico, ovvero nel Manifesto tecnico dello Spazialismo. Questo aspetto era stato già evidenziato dalla critica a partire da Enrico Crispolti, che ha intitolato uno dei suoi studi Carriera “barocca” di Fontana, ed è poi stato ripreso ampiamente dagli studiosi dell’artista italo-argentino. Eppure, per quanto ciò possa sembrare incredibile, nessuno si era mai cimentato finora in una ricerca approfondita, per capire innanzitutto che cosa intenda Fontana quando parla di Barocco e, in secondo luogo, se esista non solo una generica affinità di gusto, ma anche una precisa rispondenza con le opere del passato. Anche negli studi su Leoncillo – primo tra tutti Roberto Longhi – si fa spesso riferimento all’arte barocca senza tuttavia approfondire la questione. Per questo motivo ho deciso di commissionare ad Andrea Bacchi - grande conoscitore della scultura italiana del XVII e del XVIII secolo – uno studio specifico sull’argomento, in cui la questione venisse affrontata finalmente in modo sistematico e il più possibile approfondito. Credo che la ricerca abbia apportato dei risultati significativi, che possono costituire un punto di partenza per gli studi futuri sull’argomento. In occasione della pubblicazione di questo volume, ho allestito nella mia galleria di Milano una mostra dedicata alla produzione ceramica di questi tre artisti. Un catalogo delle opere esposte, curato da Roberto Cobianchi, accompagna il saggio di Bacchi; una traduzione in inglese dei testi chiude il volume.

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Penso che questa sia l’occasione propizia non solo per ammirare alcune sculture davvero eccezionali, poco conosciute dal pubblico, ma anche per riflettere sulla questione dal vivo, in presenza delle opere. D’altra parte non ho mai concepito la mia galleria solo come uno spazio commerciale, ma piuttosto come un luogo di incontro e di confronto, in cui sperimentare e proporre nuove idee, nella convinzione che la conoscenza sia un contributo fondamentale per capire e per apprezzare le opere d’arte del passato.

BREZZA BAROCCA Andrea Bacchi

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Lucio Fontana (1899-1968) in un’intervista del 1963 affermava: «per un certo tempo ho fatto una scultura a colori, che si suol dire, impropriamente, barocca. Volevo far entrare la luce nella scultura. Cercavo insomma una nuova dimensione»1. Impropriamente o no, per quelle sculture a colori di Fontana degli anni Trenta e Quaranta così come per quelle quasi contemporanee di Leoncillo Leonardi (1915-1968) e per quelle di Fausto Melotti (1901-1986), il termine barocco è stato speso ripetutamente già a partire proprio dal quarto decennio del secolo ed è di fatto entrato in modo quasi automatico in tutti i numerosissimi studi (soprattutto italiani) che si sono occupati di questo straordinario momento della scultura novecentesca2. Si ricordino ad esempio titoli icastici come Lucio Fontana: metafore barocche (mostra di Verona del 2002) e Barocco e barocchetto: materia e colore nella scultura di Lucio Fontana e Leoncillo Leonardi (mostra di Umbertide del 2018). In quei capolavori di Fontana, Leoncillo e Melotti la ceramica veniva sottratta alla sua più consueta funzione, ovvero l’impiego nel campo delle arti decorative, per divenire materiale principe di una scultura del tutto innovativa, talvolta anche monumentale, con una autorevolezza poetica che non aveva precedenti se non nella stagione rinascimentale di Luca della Robbia e dei suoi seguaci3, artisti peraltro completamente al di fuori del quadrante culturale cui facevano riferimento i nostri tre scultori. Qui si presenta dunque un nucleo assai significativo di sculture che testimoniano un capitolo di cui, soprattutto in campo internazionale, solo recentemente si inizia a riconoscere l’importanza che gli compete nella storia dell’arte del Novecento: quattro opere di Fontana che si scalano dal 1936 al 1958 si accompagnano a cinque di Melotti, tutte eseguite negli anni intorno al 1950, e a ben sei di Leoncillo che danno conto dei suoi svolgimenti dal 1939 alla metà degli anni Quaranta. Alcuni mesi orsono Matteo Lampertico mi ha chiesto se, da studioso della scultura barocca, volevo cimentarmi con questi artisti per capire cioè se vi fossero delle effettive connessioni stilistiche con le opere di quell’epoca e quali potevano essere più in generale i legami di queste sculture con l’arte barocca. Ho accolto con entusiasmo (e qualche timore) l’invito, apprezzando profondamente le opere di questi maestri, e avendovi anch’io sempre sentito una qualche affinità con l’universo figurativo del Sei e Settecento. Uno sguardo più attento a questi ma-

1 Rossi 1963, p. 47. 2 Il crescente interesse critico per l’opera di questi tre artisti, e in particolare l’attenzione rivolta alla loro produzione in ceramica, ha prodotto una bibliografia quasi incontrollabile, della quale non si può dare conto in questa sede; tuttavia alcuni rimandi di carattere generale sono necessari a cominciare da Fergonzi 1986 e Scultura e ceramica 1989. Nello specifico si vedano: su Fontana Crispolti 2006 [2015], Lucio Fontana 1991 e Campiglio 2014; su Leoncillo, di cui è in preparazione un catalogo generale, Leoncillo 2002 e Leoncillo 2018; su Melotti Celant 1994a e Fausto Melotti 2003. 3 Già Longhi (1954 [1984], p. 72), a proposito di Leoncillo, sottolineava la scarsa fortuna della ceramica nella tradizione artistica italiana.

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teriali, alla loro storia critica e alle stesse dichiarazioni d’intenti dei loro autori ha riservato per me delle sorprese inattese: la conferma, certo, del cosciente richiamo a quella che Roberto Longhi, già nel 1914, al di là di qualunque contestualizzazione storica, indicava come una «fastidiosa brezza barocca che dura da Bernini a Rosso»4; ma anche il riconoscimento di una sostanziale assenza di riferimenti precisi tanto all’indiscusso padre della scultura barocca, Gian Lorenzo Bernini appunto, quanto ad altri maestri del XVII secolo, quali Alessandro Algardi o Francesco Mochi. Sempre Longhi, nel 1913, a proposito della pittura futurista aveva scritto:

Nell’intervista sopra riportata del 1963, come si è visto, Fontana sembrava quasi prendere le distanze da quella qualifica di “barocco” che fin dagli anni Trenta veniva “impropriamente”, a suo dire, assegnata alla sua opera in ceramica. È vero, però, che lo stesso Fontana, nel 1946, sarebbe stato il principale ispiratore per i giovani allievi dell’Accademia di Buenos Aires autori del Manifesto Blanco, nel quale si affermava che «Lo spazio viene rappresentato con ampiezza ogni volta maggiore durante diversi secoli. I barocchi fanno un salto in questo senso: lo rappresentano con una grandiosità non ancora superata e aggiungono alla plastica la nozione del tempo. Le figure sembrano abbandonare il piano e continuare nello spazio i movimenti raffigurati»8. Cinque anni più tardi, nel Manifesto tecnico dello spazialismo, lo stesso Fontana scriveva, riprendendo quasi letteralmente quanto già scritto nel Manifesto Blanco:

«il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento […] Al cerchio, succede l’ellisse […] Ora venendo dopo i cubisti […] i nuovi pittori si propongono di conservare la cristallizzazione cubistica della forma, e imprimerle moto […] Ne risulta […] la profonda legittimità della nuova tendenza, e la sua superiorità sul cubismo»5.

«È necessaria la superazione della pittura, della scultura, della poesia. Si esige ora un›arte basata sulla necessità di questa nuova visione. Il barocco ci ha diretti in questo senso, lo rappresenta come grandiosità ancora non superata ove si unisce alla plastica la nozione del tempo, le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati»9.

Del resto già Heinrich Wölfflin, nel 1908, aveva scritto: «Non si misconoscerà che il nostro tempo sia affine al Barocco italiano»6. Lo stesso Longhi, molti anni più tardi, nel 1949, avrebbe poi parlato suggestivamente di «patetico barocchetto spoletino» a proposito dell’opera dell’amato Leoncillo7, ma si trattava ancora una volta di un barocco come eterna categoria dello spirito e della visione. È ben noto come uno degli elementi cardine del Ritorno all’ordine in Italia, già a partire dal secondo decennio del Novecento, sia stato il programmatico richiamo ai modelli della pittura del Tre e Quattrocento da parte di Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Felice Casorati e altri ancora. Nel caso di alcuni di loro, dallo stesso Carrà ad Arturo Martini, già da tempo la critica ha rinvenuto nelle loro opere rimandi puntuali anche alla scultura antica (dall’etrusca alla romana), così come a quella del Medio Evo e del Rinascimento (si pensi ad esempio agli studi di Flavio Fergonzi su Martini). Da quella stessa linea di ricerca si è inteso ripartire qui, con l’obiettivo, cioè, di stabilire se simili nessi, espliciti ed inequivocabili, fossero rintracciabili anche nelle opere dei tre artisti protagonisti di questa mostra. Non si poteva, allora, non ascoltare prima di tutto la voce stessa di tali protagonisti, a partire da Fontana, l’unico fra i tre ad aver avuto precise ambizioni teoriche, e non a caso, quindi, l’unico ad aver chiamato in causa esplicitamente il Barocco in più scritti pensati per una circolazione pubblica (e scalati in un ampio arco temporale). Sempre a proposito di Fontana, più che non per Melotti e Leoncillo, e inoltre in anni precedenti, la critica ha speso più volte l’aggettivo o il sostantivo “barocco”. Da un punto di vista storiografico, insomma, il peso di Fontana nella discussione intorno al tema del ritorno al Barocco è senz’altro preponderante.

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Fontana era potentemente evocativo in questi brani, ma non indicava con precisione modelli e genealogie artistiche alle quali intendeva rifarsi. Certo è naturale, in rapporto proprio al concetto di Spazialismo, pensare a quello berniniano di Bel composto, con quella compenetrazione di architettura con pittura e scultura che Fontana intendeva riproporre in chiave contemporanea. Nel 1950 Guido Ballo avrebbe colto bene questo rapporto sottotraccia di filiazione tra il Bel composto e lo Spazialismo: 4 Longhi 1914 [1961], p. 133. 5 Longhi 1913 [1961], p. 48. Ezio Raimondi, citando e discutendo Longhi, ha significativamente intitolato Il cerchio e l’ellisse un capitolo del suo suggestivo saggio Barocco moderno (Raimondi 2003, pp. 70-96), al quale si rimanda anche per una più ampia contestualizzazione del pensiero del giovane Longhi in rapporto a Wölfflin e alla Scuola di Vienna. 6 Wölfflin [1908], 1928, p. 129. 7 Longhi 1949 [1984], p. 69.

«E perché un anno fa, in una sua mostra al Naviglio, non esponeva ceramiche, ma creava un ambiente spaziale: le forme si richiamavano in una luminosità diffusa […] Poteva sembrare scenografia: era una grande ceramica, dove le forme libere si richiamavano tra loro in sordina, con un effetto suggestivo, e lo spazio diventava quasi palpabile, aderendo alle forme. Eravamo dunque alle estreme conseguenze del mito barocco»10.

Dal punto di vista della storia critica in senso stretto, quel concetto era stato elaborato già nelle prime biografie berniniane del 1682 e 1713 (Filippo Baldinucci e Domenico Bernini). È curioso notare che la prima edizione moderna italiana della biografia di Baldinucci sarebbe stata pubblicata nel 1948, a cura di Sergio Samek Ludovici, per i tipi delle edizioni del Milione, facenti capo all’omonima galleria

8 La citazione è tratta dalla traduzione in italiano dello stesso Fontana, cfr. Fontana 1946 [1970], pp. 119-120; cfr. anche Crispolti 2002, p. XLI. 9 Fontana 1951 [1970]. 10 Per la citazione di Ballo si veda Pancotto 1991, p. 25.

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1. Narciso Tomé, Transparente, 1729-1732, Toledo, Cattedrale

milanese dove Fontana e Melotti avevano tenuto diverse mostre importanti (e quelle edizioni pubblicarono quasi esclusivamente cataloghi delle esposizioni ivi tenute)11. Nel suo testo del 1951, peraltro, Fontana sembrerebbe avesse in mente soprattutto i gruppi plastici di traboccante energia, privi di qualunque argine architettonico-compositivo, diffusi in tutto il pieno Barocco europeo. Paradigma di un’intera stagione di grandi macchine sempre più complesse e spazialmente libere, era ovviamente la Cattedra di san Pietro di Bernini, ma vengono alla mente anche le sue infinite riprese, a partire dal Transparente della Cattedrale di Toledo [Fig. 1], espressione massima di quel Barocco ispanico poi diffusosi, soprattutto nella sua variante detta churrigueresca, anche nel Nuovo Mondo: non si dimentichi che Fontana era cresciuto a Buenos Aires, e doveva aver nel suo DNA visivo esempi di quel linguaggio. Non si possono, naturalmente, proporre delle vere e proprie fonti figurative sei settecentesche per il Fontana dello Spazialismo [Fig. 2], e d’altronde, come già detto, si capisce bene che per lo stesso scultore quel termine, “barocco” aveva assunto connotazioni ampie prive di ogni riferimento cronologico specifico. A maglie altrettanto larghe, in fondo, erano anche gli agganci al Barocco

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2. Lucio Fontana, Ambiente spaziale, 1949, Milano, Galleria del Naviglio

11 Baldinucci 1682 [1948]; il tema del Bel composto sarebbe stato oggetto di uno studio monografico da parte di Irving Lavin solo nel 1980.

proposti per primi dagli autori di recensioni e interventi militanti sulle sculture di Fontana esposte in varie mostre milanesi degli anni Trenta, alcune di queste monografiche. È stato scritto che già nel dicembre del 1931, Raffaello Giolli, critico d’arte specialista soprattutto dell’architettura razionalista, avrebbe chiamato in causa il Barocco a proposito delle opere viste alla mostra tenutasi alla Galleria Il Milione

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che si sarebbe chiusa nel gennaio successivo12; in realtà però l’autore, pur menzionando Michelangelo e Bernini, non menzionava mai il Barocco. Veniva allora sottolineata soprattutto la forte, drammatica matericità delle creazioni dello scultore, sentite come antitetiche rispetto alla compiutezza della forma classica; ed è altresì significativo che tra i pezzi esposti fossero alcune delle più antiche terrecotte policrome di Fontana13. Il poeta, giornalista e ingegnere Leonardo Sinisgalli nel 1934 dichiarava che scrivendo «di barocco a proposito di lui [Fontana] abbiamo inteso riferirci a quella che fu la crisi di un’epoca nel pieno possesso di un’espressione che non trovava più resistenze», senza cioè chiamare in causa artisti o opere precise. Era importante, per l’autore, sottolineare il carattere aperto, libero, delle recenti creazioni dell’artista: «Lo sforzo di Lucio Fontana è quello di rompere la forma chiusa della sua scultura. Fontana non sa immaginare una statua senza pensare al suo intorno d’aria, di luce»14. Nel 1940, poi, in un breve testo monografico dedicato alla grafica di Fontana, Duilio Morosini parlava del «barocco di certe ceramiche». Ma soprattutto nel 1944, al tempo in cui Fontana era rientrato a Buenos Aires, l’argentino Ricardo Ratti individuava un «barocco subcosciente de Fontana», suggerendo un confronto con El Greco: si trattava, insomma, quasi di una corrente carsica, e quel Barocco era più che mai uno stile sottratto alla storia, tanto che vi rientrava un visionario artista tardomanierista quale il Theotokopoulos15. Lisa Ponti, in un articolo del 1948 apparso su «Domus», scriveva addirittura: «Ora Fontana lo si dice barocco: un po’ è barocco perché tale è la ceramica stessa, che è, in fondo, il barocco della scultura; un po’ per la tentazione di impreziosire cui porta il maneggiare una materia capace di tanti valori»16. In un articolo della stessa autrice pubblicato nel numero precedente di quella rivista, il grande artista veniva associato proprio agli altri due protagonisti di questa mostra (e ad un quarto, Agenore Fabbri), sotto il minimo comun denominatore del Barocco: «e di questa cristi [la crisi della scultura] vediamo approfittare i nostri scultori-ceramisti, da Fontana capostipite, a Leoncillo, a Melotti, a Fabbri che irrompono con la loro “scultura a fuoco”, scultura con colore, volumi colorati. Questo intervento vivace della ceramica è, per certi aspetti, un po’ come una fioritura barocca, provvisoria, estrosa, in reazione sia alla scultura classica, esausta, sia a quel deserto che hanno creato appunto i primi esperimenti astratti»17.

La Ponti, forse, associava al Barocco la ceramica in quanto policroma, e quindi intrinsecamente fusione di pittura e scultura, tema sul quale si ritornerà. E la vedeva anche in contrapposizione alla scultura del Novecento e a quella astratta (Melotti, però, non si sarebbe riconosciuto in quel giudizio sprezzante verso quest’ultima). Ed è bene rimarcare subito come si trattasse, in fondo, quasi di un fraintendimento: nes-

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3. Massimiliano Soldani Benzi, Pietà, 1745 circa, Los Angeles, Los Angeles County Museum

12 Braun 2019, pp. 31 e 217, nota 11. 13 Giolli 1931; Crispolti 2006 [2015], I, pp. 145146, catt. 31 SC 20-21; II, p. 1000. 14 Sinisgalli 1934. 15 Si veda Crispolti 2002, p. XLII. 16 Ponti 1948b, p. 37. 17 Ponti 1948c, p. 35.

sun grande maestro della plastica di età barocca, né di quella romana (da Bernini ad Algardi fino a Camillo Rusconi), né della maggior parte delle altre scuole italiane (dal veneziano Giusto Le Court al genovese Filippo Parodi) si cimentò mai con la ceramica policroma. Neanche nel contesto napoletano ci sono eccezioni significative in tal senso. E si deve fare un’ulteriore precisazione: la fabbrica di porcellane di Capodimonte, fondata nel 1743 dai Borbone, solo molto più tardi, ormai in età Neoclassica, produsse pezzi che per dimensioni o impegno potevano essere visti quasi come sculture, laddove l’unica manifattura italiana che già alla metà del XVIII secolo licenziava grandi invenzioni, anche policrome, era quella di Doccia, fondata

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4. Antonio Maria Maragliano, San Pasquale Baylon in adorazione del Santissimo Sacramento (particolare), 1710 - 1713, Genova, Santissima Annunziata del Vastato

5. Scultore napoletano del XVIII secolo, Scarabattola Bordoni (particolare), Bologna, collezione privata

in Toscana da Carlo Ginori. Da questa, come noto, uscirono soprattutto porcellane bianche (a partire dalle monumentali copie dall’Antico del 1745 circa, ancora oggi al Museo di Sesto Fiorentino), ma anche eccezionali pezzi policromi come la Pietà da un modello di Massimiliano Soldani Benzi oggi al Los Angeles County Museum [Fig. 3]18. Si tratta, in questo caso, di un capolavoro ancora pienamente nello spirito del Barocco, anche per quella sfavillante policromia, ma si deve tenere presente che sono oggi noti pochissimi pezzi simili a questo, e sarebbe oltremodo improbabile ipotizzarne una conoscenza da parte di Fontana, Melotti o Leoncillo negli anni Trenta, o anche Cinquanta. Ammesso e non concesso che gli stessi avrebbero apprezzato una porcellana come questa (né, del resto, è possibile istituire confronti visivi pregnanti). Fontana nel 1939, a proposito del suo passaggio a Sèvres, sembrava prendere le distanze proprio dalla porcellana settecentesca: «Portai nei laboratori che avevano servito le tavole di tutti i Luigi di Francia un minotauro al guinzaglio che dava cornate ai cestini di porcellana e alle allegorie di biscotto».19

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18 Fabbrica della bellezza 2017, pp. 31 e 126. 19 Campiglio 1994, p. 37.

6. Fausto Melotti, L’Angelo dell’Apocalisse, 1948, Milano, collezione privata

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È vero, però, che la policromia è un elemento costante di tanta produzione plastica di età barocca: non certo di quella più celebre, romana, ma di quella in legno, dai capolavori di Antonio Maria Maragliano a Genova [Fig. 4], fino a quelli di Giacomo Colombo e Niccolò Fumo a Napoli. E, a Venezia, si devono almeno ricordare anche i telamoni in marmo bianco e nero del colossale Monumento Pesaro in Santa Maria Gloriosa dei Frari, manifesto del Barocco veneziano, opera celeberrima.20 Lo sguardo potrebbe forse allargarsi anche ad altre invenzioni notissime della scultura policroma, ovvero le affollate scene dei Sacri Monti lombardi, da Varallo ad Orta, realizzate in terracotta dal Cinquecento, che furono riscoperte criticamente a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, e per le quali peraltro sarebbe avventuroso istituire un rapporto con le sperimentazioni di Fontana e Melotti degli anni Trenta. Un discorso a parte, infine, meriterebbero i presepi napoletani del Settecento, anch’essi realizzati in terracotta policroma, che ebbero sempre grande notorietà, e che ebbero senz’altro un ruolo nell’imporre nell’immaginario collettivo l’idea di una scultura barocca costantemente a colori (e in più polimaterica) [Fig. 5]. Ma ancora una volta si deve escludere, per l’evidenza dello stile, che siffatti pezzi intercettassero la curiosità dei Nostri; possono, tutt’al più, rintracciarsi sottili affinità elettive [Fig. 6]. Uno dei primi, invece, a chiamare in causa il Barocco vero e proprio, ovvero quello stile nato nella scultura romana intorno al 1620, era Leonardo Borgese, il quale nel 1939, avvertiva «in qualche modo uno spirito berniniano» nell’opera di Fontana, e parlava anche di Umberto Boccioni21. È significativo che Giolli, Morosini e Borgese avessero tutti legami più o meno stretti con la carismatica figura di Edoardo Persico, che nel 1935 aveva scritto un testo su Fontana22. Il richiamo a Boccioni ci fa tornare alla mente la “brezza barocca” di Longhi. Quest’ultimo, infatti, aveva forgiato quell’espressione a proposito proprio di Boccioni, avviandone per primo una straordinaria celebrazione in chiave di movimento e energia dinamica23. Ed in tal senso si deve citare qui, subito, una lettera di Fontana di diversi anni dopo, datata 2 novembre 1949: «Dall’uomo nero 1929 il problema di fare dell’arte istintivamente si chiarisce in me, né pittura né scultura, non linee delimitate nello spazio, ma continuità dello spazio nella materia. Perciò niente M. Rosso, ma piuttosto dinamismo plastico di Boccioni, perciò macchie assolute di colore sulle forme per abolire il senso della plasticità e della materia, niente di concluso in quel senso»24.

Fontana, cioè, sosteneva di essersi rifatto già a partire dal 1929 a Boccioni, in chiave di «dinamismo plastico», e quindi, per dirla con Longhi, riallacciandosi a quella vena che aveva dietro anche la tradizione che andava da Bernini a Medardo

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7. Scipione, Il Cardinale Decano, 1930, Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale

20 La scultura policroma di età barocca aveva già conosciuto fortuna e riprese nell’Ottocento, si veda Bacchi 2018, pp. 14-16. 21 Crispolti 2002, p. XLII. 22 Persico 2016, pp. 11371141. 23 Simonato 2018, pp. 246247. 24 Lucio Fontana 1999, p. 249.

8. Leoncillo Leonardi, Arpia, 1939, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

Rosso (laddove, invece, Fontana voleva negare quell’influenza di Rosso sulla propria opera che pare invece evidente, soprattutto, come si dirà, negli anni Trenta). Ma è con un articolo fondamentale di Enrico Crispolti, Carriera “barocca” di Fontana, uscito nel 1959 su «Il Verri», ovvero una rivista di cultura diretta dal filosofo Luciano Anceschi (a sua volta impegnato nel processo di rivalutazione del Barocco), che l’immagine di un Fontana barocco divenne moneta corrente25, anche perché un nucleo di Concetti spaziali del 1954-1957 (composizioni, quindi, astratte) sono stati successivamente catalogati dallo stesso Crispolti con il nome complessivo di Barocchi26. Nonostante tutto questo ampio dibattito svoltosi tra gli anni Trenta e Cinquanta, solo molto più tardi sono stati tentati dei confronti puntuali con fonti figurative seicentesche, senza peraltro che fossero mai argomentati filologicamente. Lo stesso Crispolti, infatti, illustrava un suo testo pubblicato nel già citato Lucio Fontana: metafore barocche (2002) accostando un modelletto (tra l’altro oggi ritenuto non autografo) relativo alla Fontana dei Quattro Fiumi di Bernini con una ceramica del 1935-36 (Uva, foglia di vite e melone), proponendo una pura suggestione visiva,

25 L’articolo del 1959 venne ripubblicato già nel 1963, e più di recente nel 2004, in una raccolta di testi per la quale è stato proposto ancora una volta il titolo complessivo di Carriera “barocca” di Fontana, ad attestare il successo di questa formula critica, cfr. Crispolti 1959 [2004], pp. 24-30. 26 Crispolti 2006 [2015], I, pp. 318-339.

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sulla base di un comune carattere bozzettistico dei due pezzi, senza cioè neanche menzionare tale terracotta seicentesca nel testo27. L’etichetta di barocco è impiegata dalla critica del tempo anche per sottolineare la strenua opposizione di certe tendenze figurative al monumentalismo retorico auspicato dall’arte ufficiale del Ventennio. Alla piena espressione del Ritorno all’ordine in Italia, ovvero la pittura e la scultura severa del movimento Novecento, risponde polemicamente la materia ribollente di quella dei maestri della Scuola Romana, Mario Mafai e Scipione, ed in quest’ultimo, come noto, il richiamo alla Roma seicentesca di Piazza San Pietro e Piazza Navona, è esplicito nei suoi cardinali [Fig. 7]. Al candore dello Stadio dei Marmi e dell’Eur si oppone il “barocchetto” della borgata Garbatella [Figg. 9-10]. E così si comprende bene come Longhi, quando parlava di «dolente barocchetto spoletino» a proposito di Leoncillo, indicato come un «espressionista della scuola romana», avesse in mente tutto questo, quest’orizzonte culturale (e i risvolti politici ad esso sottesi), ma non specificatamente la scultura di Bernini e dei suoi contemporanei28. Anche per Leoncillo, però, sono stati individuati possibili prestiti dalla plastica del Seicento: la Madre romana uccisa dai tedeschi [Fig. 11] è stata avvicinata alla Ludovica Albertoni di Bernini, e l’Arpia [Fig. 8] alla «trance estatica della Santa Teresa»29. Anche per le figure femminili di Melotti è stata evocata la Santa Teresa, tanto per la loro «espressione ora aggraziata ora estatica»30 quanto per le pieghe dei panneggi, invocate persino per le scultore di Leoncillo già da Toti Scialoja nel 194631. Nessuno di questi confronti appare realmente pregnante, né dal punto di vista dell’invenzione, compositivo, né da quello squisitamente stilistico; sembrerebbero anzi confronti dettati da quella che, dopo tanti anni di evocati rapporti con il Barocco, era divenuta quasi una precisa necessità, quella cioè di dare concretezza storica ad un discorso critico che agli occhi degli stessi studiosi rischiava forse di trasformarsi in un topos generico. Non si vuole negare che in alcune di queste opere vi sia qualche rimando compositivo a grandi modelli secenteschi, come nella già citata Madre romana uccisa dai tedeschi di Leoncillo (1944), magari ispirata alla Santa Cecilia di Maderno32 o anche allo Stanislao Kostka di Legros (ma in fondo più vicina, forse, all’Anna Magnani crivellata dagli spari dei Nazisti di Roma città aperta di Roberto Rossellini, dell’anno successivo [Fig. 12]) o ancora nelle tre raffigurazioni di Dafne di Melotti (1933), dove il riferimento al marmo berniniano nel modo in cui le gambe della fanciulla si stanno trasformando in un tronco sembra innegabile33; d’altronde in quest’ultimo caso era lo stesso tema iconografico, così supremamente segnato dal capolavoro di Gian Lorenzo alla Galleria Borghese, ad imporre un dialogo con quel modello. Insomma, si può parlare di un Novecento barocco per la scultura italiana a partire dagli anni Trenta? Certamente sì, bisogna solo stare attenti a distinguere

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9. Roma, Stadio dei Marmi

27 Crispolti 2002, pp. XLIIXLIII. 28 Longhii 1949 [1984], pp. 68-69. 29 Mascelloni 1990, p. 13. 30 Carboni 2003, p. 13. 31 Commellato 2003, p. 42; l’articolo comparso sulla rivista «Mercurio» è stato ripubblicato in Toti Scialoja 2015, p. 129. 32 Ferrari 1960, p. 8.

10. Roma, Quartiere della Garbatella

33 Fausto Melotti 2003, pp. 94-95, catt. 3-6.

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11. Leoncillo Leonardi, Madre romana uccisa dai tedeschi, 1944, collezione privata

12. Anna Magnani nel film Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1945

quei rari prestiti dal repertorio figurativo del Sei-Settecento (anzi, quasi solo del Settecento, come vedremo), dal riconoscimento dell’appartenenza dei capolavori di Fontana, Leoncillo e Melotti ad una precisa categoria dello spirito, un eterno Barocco sempre risorgente dopo un’epoca di misura e canone, o in simultaneo contrasto con essa. In fondo anche il Barocco propriamente detto aveva fatto seguito al Rinascimento (secondo la contrapposizione classica istituita da Wöllflin); quello del XX secolo non può che essere letto in rapporto dialettico con il movimento Novecento (al pari di altre tendenze di fronda degli stessi anni, come quella del Chiarismo che recuperava in questa chiave la tradizione impressionista). Non vogliamo però soltanto connotare questo Barocco di Fontana e degli altri sulla falsariga di una fortunata formula di Frank Wedekind del 1917, nella quale, quasi provocatoriamente, si affermava: «il Kitsch è il gotico o il barocco del nostro tempo»34. Quanto, piuttosto, riconoscere che è esistito un Barocco del Novecento, del quale i Nostri sono stati protagonisti. Nel suo brillante e spregiudicato Baroque baroque: the culture of excess (1994), che declina sontuosamente la folgorante formula di Wedekind, mescolando materiali della cultura alta a quelli della cultura

popolare, Stepen Calloway riproduce e accosta dipinti di Alessandro Magnasco (un pittore che ritroveremo più avanti) a fotogrammi dei balletti di Vaslav Nijinsky, fino a una infinità di foto di dive del cinema e di moda35. Tra queste riproduciamo un costruitissimo scatto di Cecil Beaton, apparso su «Vogue» nel 1948, memore dei dipinti ‘neobarocchi’ di Franz Xavier Winterhalter, che si accosta perfettamente alle sofisticate, eleganti donne in ceramica del Melotti degli anni intorno al 1950 [Figg. 13-15]. E la stessa assonanza si riconosce bene tra altre figure simili del ceramista milanese e terrecotte di donne in abito elegante modellate da un contemporaneo di Winterhalter, un vero e proprio Barocco dell’Ottocento, ovvero Jean-Baptiste Carpeaux [Figg. 16-17]. Si può insomma parlare di un Barocco metastorico che attraversa le epoche e i generi, a partire dal fregio dell’Altare di Pergamo per arrivare fino al Novecento (e magari, chissà, fino al XXI secolo), senza cercare di ancorarlo forzatamente a quello, propriamente detto, del Seicento. E però, allo stesso tempo, si può anche cercare di contestualizzare meglio le coordinate culturali in cui inscrivere il Barocco della ceramica italiana tra gli anni Trenta e Cinquanta.

34 Kitsch, il testo dell’autore scritto per il teatro in cui si trova il passo riportato, sarebbe stato pubblicato, postumo, nel 1918, cfr. Calinescu 1987, p. 225.

35 Calloway 1994, pp. 21, 40, 148.

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13. Cecil Beaton, Abiti da sera di Charles James (da Vogue America 1948)

La nascita di questa fortunata ipotesi critica si può ben datare, come si è visto, proprio ai primi anni Trenta, in leggero anticipo sulla mostra che segnò l’esordio del Fontana ceramista, tenutasi nel 1938, sempre alla Galleria Il Milione. Esiste ovviamente una continuità precisa tra le opere dello scultore che suscitarono in Giolli e Sinisgalli quei giudizi e i capolavori in ceramica per i quali sempre più spesso, dopo, venne speso l’aggettivo barocco: si tratta del gusto spiccatamente bozzettistico tanto delle terrecotte dei primi anni Trenta quanto poi delle sculture in ceramica successive. Era quella, credo, la cifra stilistica più evidentemente in contrasto con certa retorica o magniloquenza della scultura ufficiale contemporanea, e a quello si riferiva il critico quando scriveva che «lo sforzo di Lucio Fontana è quello di rompere la forma chiusa della sua scultura. Fontana non sa immaginare una statua senza pensare al suo in-

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14-15. Fausto Melotti, Senza titolo, 1950 circa, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico

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18. Adolfo Wildt, Vir temporis acti, 1914-1919, Milano, Galleria d’Arte Moderna

16. Jean-Baptiste Carpeaux, Impression de Amélie de Montfort, 18671869 circa, New York, Metropolitan Museum of Art

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17. Fausto Melotti, Senza titolo, 1949 circa, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico

19. Lucio Fontana, El auriga, 1928, ubicazione ignota

torno d’aria, di luce». È notevole che un artista che si era formato con Adolfo Wildt [Figg. 18-19], straordinario virtuoso che licenziava marmi di accecante e perfetta levigatezza, passasse presto, prima di tutto grazie all’impiego della terracotta come medium espressivo, a quelle forme aperte, in costante dialogo con l’aria e la luce, attraverso le quali si recuperava l’eredità di Medardo Rosso, altro barocco sui generis [Figg. 20-21]. Questo mi sembra un nodo essenziale, e non credo sia un caso che proprio all’inizio del Novecento può farsi risalire la nascita dell’interesse per i bozzetti in terracotta di età barocca: non modelli e modelletti ben rifiniti come quelli, ad esempio, avidamente collezionati già nel Sei e Settecento (si pensi soprattutto alla collezione Farsetti di Venezia), ma i veri e propri bozzetti apprezzati proprio per la loro qualità, appunto, bozzettistica. Nel 1905 veniva acquistato a Roma, dai coniugi Brandgee di Brooklyn, il più importante nucleo di bozzetti di Bernini, provenienti verosimilmente dalla bottega del maestro, capolavori che certo sarebbero piaciuti ai Nostri [Figg. 21, 25]. Nel 1912 quelle stesse terrecotte sarebbero state riprodotte e discusse nel primo libro moderno americano dedicato a Bernini, a conferma evi-

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20. Medardo Rosso, Conversazione in giardino, 1896-1897, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

dente del crescente interesse per quel tipo di manufatti36. Interesse culminato con il classico studio di Albert Erich Brinckmann, in ben quattro volumi, Barock-Bozzetti, del 1923-1925, nel quale veniva riprodotta una quantità impressionante di terrecotte, spesso appena abbozzate37. Il terreno per il pieno apprezzamento di questo tipo di linguaggio era stato evidentemente preparato anche dal successo internazionale del già citato Rosso. Fontana, in particolare, continuò a lungo la sua attività come modellatore, e ancora nella Donna che si spoglia del 1947, ad esempio, si espresse in quelle forme bozzettistiche che si prestano ad un confronto con i capolavori berniniani di due secoli prima [Figg. 22, 25, 27]. Il 1922, inoltre, è una data fondamentale per la storia della riscoperta critica del Barocco: in quell’anno si tenne una imponente mostra nelle sale di Palazzo Pitti dedicata alla pittura (con la completa esclusione della scultura) del Sei e Settecento. L’enorme risonanza dell’evento si accompagnò a quella vera e propria polemica che vide coinvolti, con scritti usciti sulle pagine di «Valori plastici», artisti e intellettuali quali Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Lionello Venturi e Emilio Cecchi; a quel dibattito si lega la nascita di una tendenza neoseicentesca riconoscibile nell’opera, ad esempio, di Felice Carena38. Come già notato da Crispolti, le opere degli anni Trenta di Fon-

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21. Lucio Fontana, Donne sul sofà, 1934, Roma, collezione Argan

36 Norton 1914. 37 Brinckmann 1923-1925 (solo i primi 2 volumi erano dedicati alle terrecotte italiane; il terzo a quelle francesi e dei Paesi Bassi, il quarto alle tedesche). 38 Mazzocca 1975; Novecento sedotto 2010.

tana che sollecitarono e sollecitano un confronto con il Barocco, non avevano nulla a che fare con questa tendenza39, ma è chiaro come i tempi fossero maturi per un confronto, declinabile in tante forme diverse, con il linguaggio dell’arte dei secoli XVII e XVIII. Come detto, infatti, la mostra di Palazzo Pitti copriva un arco cronologico molto ampio, e vi erano rappresentati tanti pittori del Settecento veneto, quali Giambattista Tiepolo e Francesco Guardi; lo stile inquieto e guizzante di quest’ultimo non poteva non essere apprezzato da Fontana, e sarebbe stato anche alla base dell’evoluzione di un maestro quale Filippo de Pisis (per il quale il riferimento a Guardi è evidente [Figg. 28-29]), mentre Melotti, a sua volta, di Tiepolo avrebbe ripreso nelle ceramiche degli anni Cinquanta precise scelte cromatiche (il rosa Tiepolo, per l’appunto) [Figg. 3235]. Ma sull’immaginario visivo di Fontana, nello specifico, poté agire la straordinaria

39 Crispolti 2002, p. XLIII.

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22. Gian Lorenzo Bernini, Angelo inginocchiato, 1672, Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum

23. Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 circa, Possagno, Gipsoteca

fortuna conosciuta in quegli anni da un maestro che proprio allora veniva riscoperto, il genovese Alessandro Magnasco. Sebbene quasi mai citato a proposito della produzione barocca di Fontana, mi sembra che in realtà siano proprio i dipinti di questo maestro a presentare significative tangenze con le ceramiche dell’artista, a partire da quelle degli anni Trenta, ma anche con quelle successive [Figg. 36-37]. Magnasco, a partire dal 1920, fu oggetto di una fortuna, anche mercantile, davvero sorprendente, tanto che venne fondata una Magnasco-Society per promuovere la conoscenza dell’artista attraverso mostre monografiche. La prima di queste si tenne a Düsseldorf, proprio nel 1920, e in quello stesso anno un’altra se ne aprì a Milano, e fece subito un certo clamore se Carrà, nel contesto di quel dibattito di cui si è detto, la recensiva nel 1921. La rivalutazione critica di Magnasco si accompagnava a quella di El Greco, e i due pittori venivano accomunati sotto un medesimo denominatore, quali pittori visionari, scorretti, fortemente espressivi, dalle forme nervose e bozzettistiche: le cifre cioè caratterizzanti le terrecotte e poi le ceramiche di Fontana. Il successo di Magnasco, d’altronde, continuò negli anni successivi, con mostre tenute a Londra (1930) e Parigi

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24. Lucio Fontana, Il duca Gian Galeazzo Visconti, 1952, Milano, Museo della Veneranda Fabbrica del Duomo

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25. Gian Lorenzo Bernini, Santo con libro, 1650 circa, Roma, Museo di Roma

26. Antonio Canova, Le tre Grazie, 1812 circa, Bassano del Grappa, Museo Civico

(1935).40 Non è un caso che già Scialoja nel 1946 chiamasse in causa Magnasco a proposito di Leoncillo41. Un’assonanza con il linguaggio franto, spigoloso e tormentato di quel pittore si riconosce in tanta produzione ceramica di Fontana, fino ancora agli anni Cinquanta, come dimostra ad esempio il Cristo del 1949 [Figg. 38-39], che per altri versi fa tornare in mente un capolavoro di un grande pittore del Seicento, Rembrandt, che pur non venendo in genere classificato come un esponente del Barocco, dipingeva con una libertà e una sensualità che sarebbero poi molto piaciute al Novecento.42 Quando partecipò al concorso indetto nel 1950 per la quinta porta in bronzo del Duomo di Milano (nel 1952 la competizione si restrinse a pochi concorrenti, tra cui Luciano Minguzzi, che si aggiudicò la vittoria ex aequo con Fontana, e poi realizzò l’opera) l’artista adottò un linguaggio nel quale si coglie bene l’eco della scultura tardobarocca settecentesca, soprattutto mitteleuropea. Viene in mente in particolare il

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40 Geddo 1996, pp. 41-42; Mazzocca 1975, p. 875. 41 Ripubblicato in Toti Scialoja 2015, p. 128. 42 È utile ricordare qui come già Lorenzo Fiorucci (Barocco e Barocchetto 2018, p. 26) abbia suggerito quasi una filiazione diretta tra opere come il Taglio rosso di Leoncillo (1962), la Figura con carne di Francis Bacon (1954), il Bue squartato di Guttuso (1939) e infine l’altro Bue squartato di Chaim Soutine (1928): alla radice della fortuna di questo tema era, ovviamente, il Bue squartato di Rembrandt al Louvre.

27. Lucio Fontana, Donna che si spoglia, 1947, ubicazione ignota

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28. Francesco Guardi, Il rio dei Mendicanti al convento dei Domenicani, 1760 circa, Bergamo, Accademia Carrara

29. Filippo de Pisis, Canale a Venezia, 1931, Firenze, Museo del Novecento

nome di Johann Georg Pinsel, scultore attivo nella seconda metà del XVIII secolo all’estremità orientale dell’Europa, nei territori dell’odierna Polonia e Ucraina, il cui linguaggio profondamente anticlassico, quasi neomanierista e neogotico allo stesso tempo, incontrava il gusto contemporaneo: egli venne infatti riscoperto nello stesso momento di Magnasco (o anche di El Greco), a partire dal primo Novecento [Figg. 40-41].43 E di fronte ai modelli in gesso approntati da Fontana per quell’importante concorso tornano in mente ancora i bozzetti di Bernini [Figg. 22, 24-25, 42-43]. D’altronde si deve anche ricordare come proprio in quel momento venisse avviato il recupero critico delle terrecotte di Antonio Canova [Figg. 23, 26], giudicate un’espressione più autentica del genio del maestro rispetto ai levigatissimi marmi, sentiti allora come fredde traduzioni d’accademia (naturalmente quelle posizioni sono state ampiamente superate dagli studi successivi, a partire già da quelli di Hugh Honour, che pure ha studiato così a fondo il processo creativo di Canova attraverso quelle stesse terrecotte). Magnasco, lo si è detto, era il pittore maggiormente rappresentativo del Settecento lombardo-genovese: Fontana poteva averlo visto e conosciuto attraverso quella mostra milanese ma anche nel corso dei suoi soggiorni in Liguria. Al 1935, infatti, risale l’inizio dell’attività dello scultore in veste di ceramista, quella cioè per cui più spesso sarebbe stato speso l’aggettivo barocco da parte della critica. In quell’anno

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30. Filippo de Pisis, Natura morta marina, 1929, collezione privata

43 Pinsel 2012.

31. Lucio Fontana, Vongola e corallo, 1936, Milano, collezione privata

Fontana conobbe Tullio Mazzotti, detto d’Albisola, grande protagonista della rinascita di questa tecnica in chiave contemporanea: a tal proposito basti ricordare come nel 1938 egli avrebbe sollecitato Filippo Tommaso Marinetti a pubblicare, insieme a lui, il documento programmatico Ceramica e aeroceramica. Manifesto futurista. Si deve peraltro fare subito una precisazione: Fontana non amava essere definito come semplice ceramista. In un articolo pubblicato l’anno dopo la presentazione al pubblico delle sue prime opere di quella nuova stagione, avvenuta come si è detto nel 1938, l’artista scriveva: «Io sono uno scultore e non un ceramista. Non ho mai girato al tornio un piatto né dipinto un vaso. Ho in uggia merletti e sfumature […] Aborro i mistici della tecnica. Con la tecnica prodigiosa dei Sèvres e Copenaghen si arriva a soddisfare il gusto delle signore e dei collezionisti. È una specie d’estasi delle cose fragili e del mezzo tono. Io cerco altro».44 Se, come vedremo, in alcune sue opere Melotti si sarebbe avvicinato ad un sofisticato gusto decorativo apprezzando proprio quei mezzi toni così aborriti da Fontana (nel 1979 Alberto Arbasino avrebbe chiosato, da par suo, le ceramiche di Melotti così: «[…] vibrazione, sventolio, ala, palpebra, clavicembalo e “sorriso degli Dèi”»)45, quest’ultimo rimarcava sempre l’intima struttura plastica delle sue ceramiche. Concludendo: «I critici dicevano ceramica. Io dicevo scultura»46. La già citata recensione di Giolli del 1931 si intitolava

44 Campiglio 1994, p. 36. 45 La citazione è tratta da un articolo uscito su “La Repubblica” il 14 giugno 1979, ripubblicato solo parzialmente in Arbasino 2014, p. 322.

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32. Giovan Battista Tiepolo, Scipione l’Africano libera Massiva, 1720 circa, collezione privata

sintomaticamente È scultura?. In quel caso, per la verità, il critico era stato spiazzato da terrecotte nelle quali Fontana aveva improvvisamente reciso ogni legame con il linguaggio del suo maestro Adolfo Wildt, mentre diversa era la questione posta dalle ceramiche della seconda metà di quel decennio: il suo inesausto, inquieto sperimentalismo aveva già portato più volte l’artista a forzare le regole e i canoni della scultura, in declinazioni profondamente diverse. Nel 1935, come si sa, sempre al Milione si era tenuta la prima mostra di scultura astratta in Italia, dove Fontana aveva esposto opere in ferro e in cemento armato, quasi sulla scia di Alexander Calder47, incredibilmente lontane da quelle in ceramica policroma di appena pochi anni successive: si passava, cioè, da un linguaggio geometrico e cerebrale ad uno che, proprio al suo confronto, non poteva non qualificarsi come barocco. E, sia detto per inciso, non si dimentichi che lo stesso Fontana avrebbe poi finito per abbandonare praticamente del tutto la plastica, per traslare nella pittura e nello spazio quella stessa ricchezza di ricerca: per lui la ceramica era sempre stata uno tra i tanti possibili mezzi espressivi, mai una tecnica con la quale perseguire fini decorativi. Ora, è vero che anche Arturo Martini non pensasse la ceramica come una ripresa di quei «merletti e sfumature» che Fontana aveva «in uggia», ma è anche vero che il sommo scultore trevigiano aveva preceduto Fontana (così come Melotti e Leoncillo) nelle sue sperimentazioni con quella tecnica (in seguito, alla metà degli anni Trenta, sembra che Melotti cuocesse nel proprio forno le ceramiche tanto di Fontana quanto di Martini);48 nelle opere esposte alla Galleria Pesaro di Milano nel 1927 [Fig. 44], però, Martini non aveva mai affrontato la scala monumentale che da subito affascina tanto Fontana quanto gli altri. Nelle

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46 Campiglio 1994, p. 37. 47 Braun 2019, p. 34. 48 Campiglio 1994, p. 35.

33. Fausto Melotti, Senza titolo, 1951-1952 circa, Milano, collezione privata

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34. Giovan Battista Tiepolo, Scipione l’Africano libera Massiva (particolare), 1720 circa, collezione privata

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35. Fausto Melotti, Cartoccio, 1950 circa, Milano, collezione privata

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36. Lucio Fontana, Seppia 1937, collezione privata

37. Alessandro Magnasco, Sant’Antonio predica ai pesci, 1730-1740 circa, Pisa, Museo Civico

sue ceramiche Martini è scultore a tutto tondo, ma sempre «a passo ridotto», per dirla con Longhi, non persegue la stessa ambizione sottesa alle sue eccezionali terrecotte refrattarie, quasi il medium stesso gli suggerisse una finalità intimamente decorativa, si direbbe d’arredo, da interno borghese, di quei pezzi. Lo stesso Fontana, per la verità, aveva esplorato anche le potenzialità del formato piccolo, in quelle visionarie nature morte in ceramica che possono far tornare alla mente, semmai, i dipinti di de

Pisis, proprio per quella qualità neosettecentesca di una pittura guizzante di improvvise accensioni cromatiche [Figg. 30-31]. Ed egli così le rievocava: «alghe, farfalle, fiori, coccodrilli, aragoste, tutto un acquario pietrificato e lucente. La materia era attraente; potevo modellare un fondo sottomarino, una statua o un mazzo di capelli e imprimere un colore vergine e compatto che il fuoco amalgamava. Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore». È questa fascinazione per

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38. Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Bue scuoiato, 1655, Parigi, Louvre

il colore e la lucentezza che il fuoco scatena ed esalta, oltre alla vocazione talvolta monumentale, a distinguere nettamente le ceramiche di Fontana da quelle di Martini, e a proiettare le prime verso il futuro, fino all’Informale. L’affermazione di Fontana nell’articolo del 1939, «Io sono uno scultore, e non un ceramista», si carica di un valore quasi profetico se letto in rapporto con quelle che saranno le incursioni nello stesso campo del gigante dell’arte del Novecento, Pablo Picasso. Molti anni dopo, infatti, precisamente nel 1948, Gio Ponti avrebbe pubblicato su «Domus» un articolo nel quale, dando conto di una visita di

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39. Lucio Fontana, Cristo, 1949, Roma, collezione privata

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una compagine di ceramisti italiani a Picasso, allora trasferitosi nel sud della Francia, a Vallauris, descriveva a caldo quella che era la recentissima fascinazione del maestro per la tecnica della ceramica, sottolineando proprio come in Italia, già da tempo alcuni scultori, primi fra tutti appunto Fontana e Leoncillo, avevano aperto la strada in tal senso. Nelle foto di apertura di quell’articolo comparivano Agenore Fabbri e Tullio d’Albisola, ma non lo stesso Fontana. Pochi anni dopo, nel 1950, Guido Ballo, dando voce a Fontana che conosceva bene, avrebbe polemizzato contro quello che era già divenuto un luogo comune, ovvero la convinzione che fosse stato il grande spagnolo a rivitalizzare per primo, nel Novecento, la tecnica della ceramica49. Alla fine dell’anno dopo, nel dicembre 1951, Fontana avrebbe peraltro scritto il testo introduttivo ad una mostra milanese proprio delle ceramiche di Picasso, definendosi egli stesso ceramista, con uno scarto notevole rispetto all’affermazione perentoria del 193950, e rievocando un precedente incontro con il grande spagnolo: «Ricordo con commozione la visita fatta a Pablo Picasso in compagnia di parecchi ceramisti italiani». Verrebbe automatico identificare quella visita con l’episodio immortalato nelle foto di “Domus” del 1948, ma rimane sorprendente l’assenza di Fontana da quelle foto. Ad ogni modo in quel testo del 1951 si leggeva: «Devo confessare che a ritroso io mi sentii di fronte a questa sua potenza, io ceramista, ancor più amante di quest’arte che mi ha impegnato fin da fanciullo»51. Picasso, da parte sua, forse non avrebbe mai sottoscritto in toto la precedente e celebre dichiarazione d’intenti («sono uno scultore e non un ceramista») dell’artista italo-argentino: egli, cioè, avrebbe proprio prodotto, servendosi della manifattura di Vallauris, vasi e piatti [Fig. 45], cioè quegli oggetti d’uso da sempre realizzati in ceramica. Se Fontana lottava strenuamente per sottrarre quasi quel medium alla sua tradizionale funzione, Picasso l’avrebbe esaltata in altra chiave, senza mai negarla. Si trattava di un nodo centrale per chiunque si accostasse alla ceramica. La posizione di Melotti, ad esempio, era un’altra ancora: in una intervista del 1984 poi pubblicata nel 1992 da Antonia Mulas, egli sosteneva, implicitamente, di aver abbracciato la ceramica proprio per sfruttarne le sue potenzialità decorative e funzionali, producendo cioè su larga scala vasi, piatti, o oggetti comunque di piccole dimensioni: «Visto che la scultura non mi dava il pane, e poi non mi piaceva fare i debiti […] mi sono messo a fare delle ceramiche. Ho inventato una specie di ceramica che è piaciuta molto e che mi ha dato dei soldi, per cui ho potuto vivere tranquillo […] Dopo, a un certo momento, si sono accorti che anche come scultore non ero male e ho piantato la ceramica […] un poeta può fare delle bellissime pubblicità ma in fondo si vergogna di fare solo quello, e così mi vergognavo. Ma quando ho visto le ceramiche di Picasso

40. Johann Georg Pinsel, Sant’Anna, 1760 circa, Monaco, Bayerische Nationalmuseum

41. Lucio Fontana, Madonna, 1960, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana (la foto riproduce l’opera quando si trovava ancora a Cimiano presso il Centro di Istruzione Professionale)

49 Pancotto 1991, p. 25. 50 Fontana 2016, p. 24. 51 Fontana 1951, p. 24.

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43. Lucio Fontana, Tre Papi (modello per le porte del Duomo di Milano), 1952, Milano, Museo della Veneranda Fabbrica del Duomo 42. Gian Lorenzo Bernini, Quattro personaggi della famiglia Cornaro, 1647-1649 circa, Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum

ho pensato che non era il caso di vergognarmi perché le mie non erano più brutte delle sue!»52.

Non è un caso che Melotti confrontasse le proprie ceramiche con quelle di Picasso [Fig. 46]: si trattava di pezzi che appartenevano in qualche modo allo stesso genere, laddove quelle di Fontana erano davvero un’altra cosa. Melotti, che fin dalla fine degli anni Venti aveva stretto un profondo e duraturo rapporto di amicizia con Fontana, condividendo con lui il primo maestro, Wildt, aveva cominciato a lavorare sistematicamente con la ceramica alla metà degli anni Quaranta. All’inizio di quell’esperienza si collocano una serie di piccole sculture, alcune delle quali non tanto diverse dai celebri Teatrini in terracotta; se ne ricorda qui uno in particolare, la Lettera a Fontana del 1944 [Fig. 48], nella quale l’artista pagava quasi un tributo di riconoscenza all’amico che per primo aveva cominciato a lavorare con quel medium (si ricordi che le carriere dei due artisti furono per tanti

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52 Mulas 1992, pp. 30-31.

versi quasi parallele: sempre nel 1935, e sempre al Milione, anche Melotti aveva esposto le sue prime sculture astratte). Dello stesso anno, il 1944, è la Storia di Arlecchino [Fig. 47], e in entrambe quelle ceramiche mi sembra di sentire un’affinità con i dipinti surrealisti di Alberto Savinio (affinità che è possibile riconoscere anche con certe sculture giovanili di Leoncillo). D’altronde se si intende barocco in senso ampio, come a volte facevano i critici dell’epoca, ovvero come principio opposto al classico, si comprende bene come il linguaggio surrealista potesse essere ricondotto a quel minimo comune denominatore, e in questo senso credo che anche la pittura di Max Ernst, il quale aveva esposto al Milione nel 1931, possa aver influenzato il Melotti della Storia di Arlecchino. Del tutto diverse sarebbero state le ceramiche degli anni successivi, vasi, piatti, coppe o anche quei cartocci che erano sempre prima di tutto oggetti d’uso, che incontrarono quel gran favore commerciale rievocato tanti anni dopo dall’autore, il quale, lo si è visto, voleva prendere le distanze da un’attività che sosteneva di aver portato avanti solo per ragioni economiche. Già nel 1974, in un’intervista rilasciata ad Harper’s Bazar, aveva infatti dichiara-

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to: «Io non amo molto la ceramica»53. A differenza di Fontana, insomma, Melotti sentiva una profonda distanza tra il mestiere di scultore e quello di ceramista: se il primo, affermando di essere uno scultore e non un ceramista, rivendicava a questo materiale uno status equiparabile a quello del marmo o del bronzo, il secondo non sarebbe mai arrivato a fare questo salto, anche perché, lo si è detto, egli aveva accettato, si può dire, il tradizionale ruolo della ceramica. E questo discorso rimane valido anche tenendo conto del fatto che lo stesso Fontana avrebbe prodotto piatti e oggetti decorativi, in particolare dagli anni Cinquanta, verso i quali esprimeva le proprie riserve Garibaldo Marussi, il quale recensendo una mostra dell’artista del 1950 (Milano, Il Milione) scrisse: «Le opere che Fontana oggi presenta sono quasi tutte dei piatti, dei grandi piatti, da appendere al muro, per ravvivare il tono di un ambiente […] son troppo carichi, talvolta troppo pastosi […] sovrabbondanza […] turgore […] tumefazione […] costituiscono il pericolo verso il quale corre Fontana oggi»54. È naturale concludere, alla luce di quanto detto fin qui, che Marussi trovava quel Fontana un po’ troppo barocco. In merito a questo nodo critico (ceramica come scultura versus ceramica di piatti e vasi) la posizione di Leoncillo era sostanzialmente la stessa di Fontana. Già nel 1947 Gio Ponti, in un articolo pubblicato in una rivista svizzera (in tedesco, inglese e francese), dedicato prima di tutto alle bellissime Cariatidi di una balaustra del 1945 circa, scriveva: «Now, face to face with his powerful work we see how true this is. And we see that what might separate sculpture from ceramic and relegate the latter to the level of learned infancy and the standard of a vain decorative toy, has been left far behind»55.

L’assioma di Leoncillo al quale Gio Ponti si riferiva qui, sarebbe stato citato di nuovo dallo stesso Gio Ponti nell’articolo sopra citato del 1948 relativo alla visita a Picasso a Vallauris: «La scultura senza colore non è scultura, è architettura»56. Il grande maestro del design italiano era stato colui che aveva lanciato sulla ribalta internazionale il nome di Leoncillo nel 1940 invitandolo alla Triennale di Milano dove egli vinse la medaglia d’oro per le arti applicate. Lo scultore spoletino aveva esordito nel 1939 come ceramista, e in quell’anno aveva modellato i busti raffiguranti Le quattro stagioni (Roma, Palazzo Merulana, Collezione Cerasi), in cui anche il tema iconografico rimandava a lontani precedenti seicenteschi, certamente visti attraverso la lente della scultura ottocentesca, a partire dal già citato Carpeaux [Figg. 49-50]: d’altronde Longhi, in quella «fastidiosa brezza barocca che dura da Bernini a Rosso» inseriva significativamente anche il nome del francese57. Leoncillo, a differenza di Melotti, non avrebbe mai rinnegato quell’attività, alla quale anzi rimase fedele per tutta la sua carriera: Leoncillo non lavora mai né

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53 Carboni 2003, p. 12. 54 Pancotto 1991, pp. 2225. 55 Ponti 1947, p. 217.

44. Arturo Martini, Presepio, 1926-1927, Genova, Galleria d’Arte Moderna

56 Ponti 1948a p. 25. 57 Longhi 1914 [1961], p. 133.

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il marmo né il bronzo, e ben diversamente da Fontana, non vive un percorso che lo porta dalla scultura alla pittura (per non dire dello Spazialismo); egli è orgogliosamente uno scultore in ceramica. Questo non toglie che Leoncillo, proprio come Fontana, ma soprattutto Melotti, realizzasse oggetti d’uso, senza anzi fermarsi a piatti e vasi, ma producendo sorprendenti servizi di tazzine da caffè (alla pari dello stesso Melotti), quasi a rimarcare l’unicità di quei pezzi pensati in genere come oggetti seriali di poco valore. Ma si tratta di una parte in fondo minoritaria dell’opera di Leoncillo, e quindi per lui il discorso deve rimanere molto diverso rispetto a quello fatto per Melotti. Va da sé, è ovvio, che anche i già citati vasi e cartocci di quest’ultimo sono oggi caparbiamente (e giustamente) catalogati nelle monografie uno a uno, come pezzi unici (quali sono), quasi a contraddire le affermazioni dell’autore che non voleva riconoscersi in quella produzione sentita come più commerciale rispetto alle sculture astratte. Ora, per quanto riguarda Leoncillo, è stato prima di tutto Longhi ad associarlo al concetto di barocco, e quanto scritto dal grande studioso è stato in seguito ripetuto senza sostanziali aggiustamenti di tiro. E per lo storico di Alba Leoncillo non era barocco per le sue forme aperte, o per le potenzialità “spazialiste” delle sue terrecotte, raramente monumentali, quanto piuttosto per il suo contrapporsi tanto all’arte di regime, e cioè al Novecento, quanto per le accensioni cromatiche, quell’essere cioè la sua scultura, sempre una scultura-pittura. Ed è evidente che Leoncillo si potesse riconoscere in quel tipo di lettura. Con Leoncillo, però, si deve di nuovo affrontare la questione Picasso, ma questa volta in tutt’altra declinazione. Fin dalla seconda metà degli anni Quaranta le ceramiche di Leoncillo tradiscono una forte influenza della sintassi cubista, che in sé, evidentemente non è facilmente associabile alla categoria del barocco. Lo scultore non avrebbe mai rinnegato quel rapporto, rifiutando quasi l’esegesi di Longhi che tendeva a ridimensionarlo, almeno all’altezza cronologica del 1954, l’anno in cui pubblicò il suo breve ma pregnante saggio monografico sull’artista: «Già nel gruppo, o diciamo sagoma dei Minatori, è meno traccia del diverbio fra la sintassi di estrazione cubista e la riconoscibilità necessaria al soggetto dimesso. Leoncillo insiste a dire che ancora vi occhieggino i celebri Suonatori di Picasso; ma io non riesco a rammentarmene di fronte alla nuova umiltà dell’impegno umano […]»; anche a proposito del Bombardamento notturno del 1954 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna) Longhi chiosava: «detto anche Guernichetta per il ricordo, ma puramente tematico, del celebre dipinto picassiano»58. Si noti, tra l’altro, come a dieci anni di distanza dalla Madre romana uccisa, Leoncillo continuasse ad affrontare soggetti legati al tema della guerra vista dalla parte delle vittime innocenti (sempre Longhi parlava di «una pietà intera che sa accollarsi e trascinare con sé la sua pena di spazio, di esistenza e di sciagura»): vivissimo era

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45. Pablo Picasso, Le quattro stagioni, 1950, Faenza, Museo Internazionale della Ceramica

58 Longhi 1954 [1984], pp. 72, 74.

46. Fausto Melotti, Vaso, 1950-1951, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico

ancora l’impegno morale, etico di Leoncillo. Passando in rassegna tutta la produzione dell’artista, anche quella della stagione dell’informale, di per sé priva di un esplicito contenuto narrativo, rimane sempre costante questa temperatura; fanno forse eccezione le creazioni dei primissimi anni Quaranta, in particolare i Trofei [Figg. 54-55], qui in mostra accanto ai loro bozzetti, felicissime riletture delle panoplie barocche (memori, a loro volta, di quelle della Roma imperiale), per le quali Leoncillo sembra recuperasse motivi dell’immaginario di Gio Ponti, magari anche attraverso la lente del surrealista Savinio [Figg. 51-53]. Longhi, nel 1954, aveva sotto gli occhi un arco importante della produzione di Leoncillo, dai suoi esordi più espressionisti legati alla Scuola Romana di Scipione e Mafai, ma anche alla pittura di impegno civile di Renato Guttuso, fino alla svolta cubista che, pace Longhi, aveva segnato profondamente l’arte del maestro. Lo stesso Guttuso avrebbe recensito a caldo quel testo del 1954, discutendo, in un dialogo

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47. Fausto Melotti, Storia di Arlecchino, 1944, Milano, collezione privata

a distanza con Longhi, del concetto di realismo nell’opera di Leoncillo59. Recentemente si è voluto sciogliere il senso delle parole del pittore romano, che si sarebbe permesso «di fare le bucce al Longhi, che secondo lui continuava a scambiare per realismo il populismo dei pitocchetti del Seicento»60, ma in realtà è difficile leggere nel testo dello storico di Alba quest’implicazione, e non sembra neanche che quella fosse l’interpretazione che ne aveva dato lo stesso Guttuso. Nella formula «dolente barocchetto spoletino» erano condensati vari spunti critici: l’avversione a un linguaggio trionfalista e anche la scelta di una posizione defilata, tra Umbertide e Spoleto, dell’artista, così come il rifiuto di cerebrali formule astratte. Ma sottilmente o sotterraneamente barocca sarebbe stata anche la scultura successiva di Leoncillo, quella oggi di maggiore successo, ovvero la fase informale. Per questa mi sembra straordi-

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48. Fausto Melotti, Lettera a Fontana, 1944, collezione privata

59 Guttuso 2013, pp. 380384. 60 Del Puppo 2019, pp. 126127.

nariamente calzante un passaggio di Massimo Carboni relativo, peraltro, a Melotti: «[…] quell’imperiosa presenza che potrebbe dirsi tra il Barocco e l’informale della materia associata al colore»61. Sebbene Leoncillo, formatosi a Roma e radicatosi in Umbria, occupi una posizione diversa rispetto al duo milanese Fontana-Melotti, i

61 Carbone 2003, p. 12.

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49. Jean-Baptiste Carpeaux, Busto di Amélie de Montfort, 1867-1869 circa, Parigi, Petit Palais

50. Leoncillo Leonardi, Autunno, 1939, Roma, Palazzo Merulana, Collezione Cerasi

legami fra questi tre artisti furono senz’altro stretti. Lo confermano i rapporti di cui si è già detto con Gio Ponti, tanto di Leoncillo quanto di Fontana, e poi la simultanea presenza di Leoncillo e Fontana, con due vere e proprie personali, alla Biennale del 195462. L’ininterrotta attività di Leoncillo in veste di scultore-ceramista differenzia profondamente l’artista spoletino dai suoi colleghi, che in momenti diversi abban-

donarono quella tecnica; Fontana, lo sappiamo bene, lo fece per seguire quel suo personalissimo e complesso percorso che, seppur spiazzante ad uno sguardo superficiale, si rivela invece, oggi, di una coerenza rara nel panorama del Novecento italiano. Melotti, da parte sua, esplicitò un’altra delle ragioni che avevano sempre reso conflittuale il suo rapporto con la ceramica:

62 Del Puppo 2019, pp. 119126.

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«Per me la ceramica è un pasticcio. È una cosa anfibia e sotto sotto c’è sempre un piccolo imbroglio, perché non puoi mai sapere esattamente quello che fai. C’è un super-regista che è il fuoco, che ti monta sulle spalle e alla fine dirige lui le operazioni. Per quanto tu faccia alla fine una virgola ce la mette lui e questo ad un artista darà sempre fastidio. Almeno a me dà fastidio che ci sia qualcuno che mette le virgole a quello che dico o che scrivo»63.

Melotti non ce ne voglia, ma proviamo anche noi a mettere qualche virgola a quanto egli aveva detto nel corso di quell’intervista del 1974. Fontana oggi è più noto internazionalmente soprattutto per gli ormai iconici Tagli e Buchi; Melotti voleva essere ricordato come scultore astratto: entrambi, secondo tempi e modi diversi, muovevano verso un linguaggio meno materico, più concettuale. La fondamentale, recente mostra monografica che il Metropolitan Museum di New York ha dedicato a Fontana nel 2019 ha reso giustizia a tutta l’arco della carriera di Fontana, compresa quindi la sua attività come scultore in ceramica. Se Melotti insisteva a sminuire, paradossalmente, capolavori incantevoli come le Figure femminili qui in mostra, era anche perché queste, accese da una fantasia capricciosa, dovevano apparirgli tanto più lontane da quel rigore geometrico che era l’altra faccia della sua personalità d’artista, sviluppata nella scultura astratta. Ed egli attribuiva al fuoco la responsabilità di un’accensione sfrenata (barocca?) antitetica a quella serietà che egli sentiva intrinseca alla sua ricerca d’astrattista della prima ora, più alta e seria (classica?). Quella stessa eterna dicotomia, ancora e sempre wölffliniana, tra barocco e classico, si legge anche facilmente, tra le righe, di un altro passo chiave di quel testo longhiano più volte citato: «[…] provarsi a chiedere a questi altri [gli scultori italiani contemporanei] di che si tratti; e saranno i più presuntuosi non sensi: arrivare al ciottolo – volumi puri – senso del blocco – cubo – sfera – ovo – germe – ghiandola – monumento. Significativo che le risposte, salvo la diversa striatura terminologica, giungano quasi identiche da parti delle più varie accademie: il fumista Brancusi o Moore, l’astrattista di lusso, risponderanno, su per giù, come Dazzi o Messina»64.

Questa stroncatura senza appello dell’astrattismo, nella quale potevano certo rientrare anche le opere alle quali Melotti teneva di più, serviva per introdurre l’apprezzamento per la scultura di Leoncillo: «non puri i volumi, ma investiti e grondanti di tono dall’interno e dall’esterno». Pur al netto di tutti i distinguo fatti fin qui, un’intima essenza barocca della scultura in ceramica di questi artisti mi sembra confermata, quasi avallata, da una semplice considerazione: ad apprezzarla in questa chiave era stato colui che, come pochi altri, ha contribuito a riscoprire e rivalutare il Baroc-

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51. Alberto Savinio, Monument, 1929, collezione privata

63 Carboni 2003, p. 12. 64 Longhi 1949 [1984], p. 68.

co. Pare verosimile, allora, che Longhi, grande estimatore del Leoncillo barocchetto, guardasse con maggior diffidenza al Leoncillo informale [Fig. 56]. Si spiegherebbe anche così l’esclusione dell’artista umbro dalla selezione degli scultori destinati a figurare nella serie dei Maestri della scultura per quanto riguarda il Novecento: quanto quella scelta fosse sorprendente lo si evince dal tono della lettera del 1968 con cui Francesco Arcangeli comunicava la notizia allo stesso Leoncillo, riportando

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52. Giovanni Battista Piranesi, Trofeo di Ottaviano Augusto, 1753

53. Tomaso Buzzi (su progetto di Gio Ponti), Disegno del centro di un Trionfo da tavola per le Ambasciate d’Italia, da eseguire in porcellana bianca e oro («Domus», I (1928), n. 11)

per esteso il testo di una missiva a lui indirizzata da Franco Russoli, condirettore della collana: «Carissimo, ti mando il pezzo di Raimondi [Giuseppe] che spero non ti farà dispiacere. Inoltre Russoli mi scrive “Per Leoncillo – che ho visto a Venezia – credo anch’io che sia un artista che ha dato con piena dedizione poetica il suo ‘messaggio’ […] Per i ‘Maestri della Scultura’, Fabbri non avrà un fascicolo monografico, perché soltanto Rosso, Boccioni, Martini, Manzù, Marini sono entrati in lista, data la limitazione dei fascicoli. Però ci saranno numeri supplementari e compendiari, dove anche Leoncillo avrà la sua parte […]”. Vedi non c’è male del tutto […] tuo Momi»65.

In quel volume «supplementare e compendiario», pubblicato l’anno dopo, sarebbe stata riprodotta una ceramica di Leoncillo raffigurante il celebre tema della 60

65 Fiorucci 2019, p. 242.

54-55. Leoncillo Leonardi, Due Trofei, 1941, Milano, collezione privata

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Madre romana fucilata dai tedeschi (1944), un’opera cioè particolarmente rappresentativa del Leoncillo più caro a Longhi: erano trascorsi quasi quindici anni dalla svolta in senso Informale dell’artista, che in ossequio alle idiosincrasie dello studioso d’Alba, veniva consegnato alla storia come un “dolente barocchetto”.

56. Leoncillo Leonardi, San Sebastiano, 1961, Milano, ML Fine Art – Matteo Lampertico

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LE OPERE Roberto Cobianchi


Lucio Fontana

Vongola e corallo, 1936 Ceramica policroma, 17 x 31 x 23 cm Provenienza Milano, Galleria del Milione Milano, collezione privata «Fondi di mare, fondi d’anima: le ceramiche di Lucio Fontana conservano impresso il dramma di onde remote e quello di una mano viva; l’uomo e le acque vi hanno lasciato riflessi di colori a testimonianza della loro storia»1. Così l’architetto Ernesto Nathan Rogers apriva la sua recensione alla mostra delle ceramiche di Lucio Fontana tenutasi nell’aprile del 1938 alla Galleria del Milione di Milano2, riproducendo anche quest’opera con il titolo «Elementi marini». Intitolata «Moule et corail, gris et noir/Shell and Coral; gray with black reflections», la scultura figura invece nella monografia bilingue che Erich. E. Baumbach dedicò a Fontana, e che vide la luce a Milano nello stesso anno3. Come è stato osservato, fu proprio Baumbach a riconoscere alle ceramiche di Fontana «la stessa spinta innovatrice che fino ad allora era stata riconosciuta solamente alla sua opera scultorea e ai suoi disegni»4. Vongola e corallo fu modellata e invetriata nella prima fase di sperimentale incontro tra Fontana e la ceramica, ad Albisola, a fianco dello straordinario «vasaro» futurista Tullio d’Albisola (Tullio Mazzotti) e “offerta alle fiamme” nei forni della Manifattura fondata dal padre di questi Giuseppe. Tullio d’Albisola e Fontana si erano conosciuti, come ricorda il primo, grazie al critico d’arte Edoardo Persico, prematuramente scomparso non ancora trentenne nel 1936, che deve avere suggerito anche l’idea di una collaborazione tra i due: «Lucio Fontana mi è stato presentato da Edoardo Persico, proprio a Genova, sullo scalone di Palazzo Ducale durante la Mostra di Plastica murale nel ’34 […] Io accettai con entusiasmo l’idea d’una edizione ceramica di pezzi unici direttamente modellati dallo scultore dei cavalli matti. Ma Fontana non venne nei nostri forni che dopo la partenza del suo e mio grande amico, nel ’36. Da allora cento meravigliosi monotipi riflessati e a smalti preziosi portano la sua firma legata alle sigle semplici del vecchio vasaro d’Albisola, e altrettanti, in mirabili sculture greificate, con la famosa corona della Reale manifattura di Sèvres (1937)»5.

1 Rogers 1938 (l’articolo è ora riprodotto in Campiglio 2014, tavv. 5-9). L’opera è catalogata in Crispolti 2006 [2015], I, p. 165, n. 36 SC 6. 2 Principali esposizioni successive: Milano, Palazzo della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, La scultura colorata. Il colore del vero, 21 giugno - 6 settembre 2001; Bologna, Galleria d’Arte Moderna, La natura della natura morta da Manet ai nostri giorni, 1 dicembre 2001 – 24 febbraio 2002; Genova, Palazzo Ducale, Fontana. Luce e colore, 22 ottobre 2008 - 15 febbraio 2009; Parigi, Galerie Karsten Greve, Lucio Fontana. Scultura/Sculpture, «Io sono uno scultore e non un ceramista», 31 marzo – 23 giugno 2012; New York, Metropolitan Museum of Art, Lucio Fontana: On the Threshold, 23 gennaio – 14 aprile 2019 e Bilbao, Guggenheim Museum, Lucio Fontana: En el umbral, 17 maggio–29 settembre 2019. 3 Baumbach 1938, p. 53 (la monografia è riprodotta in Campiglio 2014, tavv. 1065). 4 Pancotto 1991, pp. 13-53.

Nell’estate e autunno del 1937, infatti, Fontata si era recato a lavorare presso la Manifattura di Sèvres, dove scoprì un nuovo materiale, il grès, con il quale modellerà

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5 d’Albisola 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 68-74).

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capolavori policromi quali il monumentale Torso Italico. Qualche anno più tardi, in una celebre dichiarazione programmatica del suo intendere la ceramica in quanto scultore e non ceramista, anche Fontana ricorderà i suoi inizi ad Albisola: «Soltanto nel 1936 iniziai nella fabbrica Mazzotti di Albisola una vera e propria attività in questo campo [ceramica] con una cinquantina di pezzi: alghe, farfalle, fiori, coccodrilli, aragoste, tutto un acquario pietrificato e lucente. La materia era attraente; potevo modellare un fondo sottomarino, una statua o un mazzo di capelli e imprimere un colore vergine e compatto che il fuoco amalgamava. Il fuoco era una specie di intermediario: perpetuava la forma e il colore»6.

La stupefacente qualità della cromia e delle iridescenze di Vongola e corallo, così come quella dei pezzi compagni del magico fondale marino di cui fa parte – quali Corallo e conchiglia nero e verde o Polipo e corallo – continua a sedurci come una sognante immersione «dans le Poème de la Mer, infusé d’astres, et lactescent, devorant les azures verts», da cui però emergiamo richiamati con prepotenza alla realtà dalla «maniera rude e antiaccademica con la quale la mano plasmò la terra»7; la mano priva di finzioni dello scultore Fontana che ha in «uggia merletti e sfumature»8.

6 Fontana 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 7576). Si veda inoltre Campiglio 1994. 7 Rogers 1938 (riprodotto in Campiglio 2014, tavv. 5-9). 8 Fontana 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 75-76).

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Lucio Fontana

Cristo, 1949 Ceramica riflessata, 58 x 26.5 x 8.5 cm Firma e data sotto la base: L. F. 49 Provenienza Roma, collezione privata Questo eccezionale Cristo in ceramica riflessata venne presentato da Lucio Fontana alla Biennale di Venezia del 1950, e contestualmente pubblicato nel catalogo dell’esposizione con quella stessa data1; in realtà il pezzo era stato realizzato l’anno precedente, come dimostra l’indicazione autografa apposta sotto la base2. All’importante appuntamento internazionale in laguna Fontana si era proposto con un gruppo di ceramiche, «piatteria e Cristi»3, la cui forza di «autentica scultura», anche a dispetto delle ripetute prese di posizione del suo autore – celeberrima quella del 1939: «io sono uno scultore e non un ceramista»4 – fu tuttavia messa in luce già da Attilio Podestà nel recensire la mostra: «Dei tre nomi di punta [della scultura italiana della «generazione di mezzo»], Fontana, Mirko e Fazzini, solo il primo è presente alla Biennale ed è anche a se stesso presente, con pezzi di autentica scultura: malgrado il buon Fontana vada ripetendo che queste sue ceramiche sono fatte per gioco, essendo ormai morta la scultura, secondo il significato che alla parola si è fino ad oggi inteso dare»5.

Dopo l’allontanamento dai forni di Albisola, a seguito del ritorno in Argentina nel 1940, dove all’attività artistica si era affiancata anche quella di docente, con il rientro in Italia nella primavera del 1947 Fontana ritorna immediatamente a plasmare, cuocere e smaltare nuove straordinarie opere ad Albissola Marina; più precisamente «Lo scultore abita a Pozzo Garitta (uno stupendo cortiletto in cui sorgevano secoli fa le prime fornaci di ceramica albisolesi), in uno stanzone arredato con gusto squisito»6: lo studio-abitazione che egli manterrà fino alla fine degli anni Cinquanta. Si tratta di un decennio cruciale in cui Fontana alterna soggetti figurativi come il nostro Cristo, certo più immediatamente accessibili al pubblico, ma non per questo di minor impegno per l’artista, con opere spazialiste, in una dicotomia di cui egli sente talvolta il peso: «se posso domani taglio la corda per Pozzo Garitta […] speriamo di sistemarci fino a settembre. Producendo tonnellate di ceramiche che in fondo rendono più dei buchi, che purtroppo io amo ancora tanto!!»7. È poi dallo scorcio degli anni Quaranta che lo scultore si apre veramente alle po-

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1 Biennale 1950, p. 175, tav. 49. 2 Oltre che nel catalogo delle Biennale, l’opera è riprodotta in Podestà 1950, p. 123; Cairola 1981, p. 205, Tav. XVII; Crispolti 2006 [2015], I, no. 49 SC 18, p. 218. Registrazione presso la Fondazione Lucio Fontana di Milano con il numero 420/3. 3 Da una lettera di Fontana all’architetto Mario Bardini del 7 luglio 1955, in Lucio Fontana 1999, p. 138. Alla Biennale del 1950, infatti, Fontana espose, oltre la nostro Cristo, due Gran piatti con battaglia. 4 Fontana 1939 (riprodotto in Campiglio 2014, Tavv. 7576). Si veda inoltre Campiglio 1994, pp. 34-41. 5 Podestà 1950, p. 123. 6 Fabiani 1961 (citato in Pancotto 1991, p. 33). 7 Da una lettera di Fontana all’architetto Mario Bardini del 7 luglio 1955, in Lucio Fontana 1999, p. 138.


tenzialità espressive dei lustri e dei riflessi metallici a terzo fuoco, che aveva sì già occasionalmente utilizzato nei tardi anni Trenta, nell’iniziale produzione condotta nelle fornaci di Giuseppe Mazzotti (la MGA Mazzotti Giuseppe Albisola) – si vedano ad esempio la Vittoria, il Cervo o il Gallo –, ma che ora prende vigore grazie anche all’apporto tecnico altamente specializzato del cognato di Tullio d’Albisola, Giuseppe Baldantoni8. Nel marzo del 1949, scrivendo allo scultore Pablo Edelstein, che gli era stato allievo all’Accademia di Altamira, la scuola che aveva fondato a Buenos Aires nel 1946, Fontana rivela anche il proprio interesse per questa tecnica e la soddisfazione per i risultati ottenuti: «E il suo forno di ceramica come va? […] fa ceramiche riflessate? Qui io ne ho fatte di meravigliose, le interessano?»9 E di queste ceramiche «meravigliose» fa parte il nostro Cristo. Sono proprio i riflessi a caratterizzare la superficie di molti capolavori, a partire dalla Via Crucis del 194710; quella Via Crucis-corallo11, come ebbe a definirla Gio Ponti, a cui il Cristo non solo si apparenta formalmente, ma si affianca come uno dei più precoci e intensi vertici di questa produzione, nascendo da una medesima tensione drammatica di forma-luce-colore: una forma brulicante e “barocca”, sconvolta da violacei bagliori che la percorrono inarrestabili, in cui il pallido corpo di Cristo, appeso alla concrescenza di una croce vestita a lutto, si materializza, e si scioglie al contempo, come un ectoplasma. Nel 1962, nell’introduzione al catalogo della mostra dedicata dalla galleria Pater di Milano alle ceramiche di Fontana, Marco Valsecchi ricorda con nostalgico piacere il maestro

Il Cristo non ha avuto precedenti passaggi di proprietà, rimanendo gelosamente custodito dalla famiglia del primo collezionista che lo acquistò all’esposizione veneziana del 1950. Come testimonia l’etichetta ancora incollata sotto la base, il Cristo era posto in vendita a Lire 300,000.

«[…] al suo rientro in patria, ad Albisola, accanto ai forni di Tullio Mazzotti. Le dita agili a far prillare la creta umida, il pollice deciso a segnare le fosse, gli antri, anzi a dissodare la dura resistenza delle superfici: figure danzanti nella freschezza del corpo nudo, gladiatori combattenti, arlecchini vorticosi, e i crocefissi, che non so come si apparentavano a certi acquasantini barocchi che si tenevano a capo del letto: altaroli portatili, contorti e gonfi di volute per un trionfo dell’innocente imagerie domestica»12.

Con la sua presenza e il suo lavoro ad Albisola, Fontana contribuì inoltre ad alimentare la vita culturale di una cittadina che in pochi anni divenne uno dei più propositivi centri artistici dell’Italia del Nord, frequentata abitualmente da molti altri artisti che si volevano confrontare con la ceramica, quali Aligi Sassu, Agenore Fabbri, Asger Jorn, Giuseppe Capogrossi. Non è un caso dunque che già il 18 ottobre del 1952 il consiglio comunale di Albissola Marina avesse deliberato il conferimento della cittadinanza onoraria allo «scultore Lucio Fontana»13.

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8 Bochicchio 2018a, pp. 81-84. 9 Da una lettera di Fontana a Pablo Edelstein del 25 marzo 1949, in Lucio Fontana 1999, pp.107-110, a p. 108. 10 Crispolti 2007. 11 Campiglio 2005, p. 128. 12 Valsecchi 1962 (citato in Pancotto 1991, p. 33). 13 Bochicchio 2018b, p. 28 e nota 2 p. 58.

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Lucio Fontana

Corrida, 1950-55 circa Ceramica policroma, 38 x 73 x 8 cm Firma in basso a sinistra: l. fontana Provenienza Canada, collezione privata Collezione privata (courtesy Galleria dello Scudo, Verona) Questa Corrida è esemplare della produzione ceramica più alta di Lucio Fontana negli anni Cinquanta, in una fase, tuttavia, in cui alle tematiche figurative cominciano ad aggiungersi le sperimentazioni spazialiste1. Il soggetto del rilievo, già amato da Picasso, fu, insieme a quello della battaglia, tra i prediletti anche da Fontana, che lo sviluppò soprattutto in gran piatti dai bordi che talvolta «si spampanano alle estremità come in tanti lobi di foglie o in tanti petali»2, come ebbe a descriverli, con un giudizio pieno di riserve, Garibaldo Marussi recensendo la mostra che la galleria milanese Il Milione dedicò nel 1950 alle ceramiche di Fontana; riserve critiche che tuttavia rimasero isolate, a fronte di un’accoglienza pressoché entusiastica e costante per questa produzione dell’artista. Un significativo esempio di confronto è il gran piatto Corrida di collezione privata con riflessi in oro a terzo fuoco, eseguito nel 1950 nella manifattura La Fenice di Albisola Capo3. Nel formato rettangolare, fortemente orizzontale e privo di ogni richiamo funzionale, il rilievo si mette in dialogo con le iniziali trasposizioni tridimensionali dei Concetti spaziali, in cui l’argilla viene ripetutamente bucata o graffita4. Qui, diversamente, la materia malleabile viene rialzata nella cresta della plaza de toros, graffiata con guizzi nervosi per dar vita al matador – agile danzatore – e al toro e, qua e là, colpita da veloci “svirgolate”. Ma è la policromia a completare magistralmente queste forme così compendiarie, ad accenderle di un significato profondamente drammatico, che ci fa ritornare alla mente le parole di Death in the Aftrenoon (1932) di Ernest Hemingway: «Bullfighting is the only art in which the artist is in danger of death and in which the degree of brilliance in the performance is left to the fighter’s honour».

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1 L’opera, registrata con il n. 1737/ 37 presso la Fondazione Lucio Fontana di Milano, è stata esposta a New York, Andrea Rosen Gallery, Sterling Ruby / Lucio Fontana, 10 settembre – 22 ottobre 2011. 2 Pancotto 1991, pp. 22-25. 3 Riprodotto in Lucio Fontana 2018, pp. 84-85. 4 Prossime alla nostra Corrida, per qualità stilistiche e formato, sono le due Corride comparse sul mercato in anni recenti: Finarte 906, Arte moderna e contemporanea, opere grafiche, disegni, dipinti, Milano 21 giugno 1994, lotto 292; Christie’s 2424, Arte moderna e contemporanea, Milano 26 maggio 2003, lotto 258.

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Lucio Fontana

Corrida, 1952 Bronzo in due parti, 80 x 133 cm Firma e data in basso a sinistra: l. Fontana/52 Provenienza Trivero, collezione privata Collezione privata Al tema della corrida Lucio Fontana dedicò, nel corso degli anni Cinquanta, numerose ceramiche, principalmente piatti e alcune targhe, una delle quali è esposta in questa mostra. Questa Corrida, di scala quasi monumentale, è però eccezionale in quanto fusa in bronzo1. Dopo le sculture funerarie degli anni Trenta, che hanno il loro vertice nel Redentore del Monumento Castellotti, e prima del ciclo spazialista delle Nature (1959-60), la trasmutazione in metallo della creta modellata è una “alchimia” davvero rara nell’opera dello scultore: fanno eccezione i Cavalli che seguono la vittoria del 19362 – bozzetto di presentazione per un gruppo colossale e celebrativo realizzato in gesso per il Salone della Vittoria alla VI Triennale di Milano –, e pochi altri esempi tra cui una Corrida in piombo colorato, risolta con grafismi di superficie, dal forte carattere di sperimentazione tecnica3; al contrario, il nostro bronzo mantiene tutta l’immediatezza della plastica più libera e virtuosistica di Fontana, e l’incresparsi frastagliato della materia è portato qui all’estremo: un pezzo si distacca per galleggiare libero nello spazio. La dispersione delle parti caratterizza talune ceramiche di questi anni, come l’elegantissima Madonna con il Bambino e angeli del 19564, composta da due elementi, per culminare a livello monumentale nell’altorilievo in refrattario dipinto e invetriato che decora la facciata della chiesa dell’Assunta ai Piani di Celle Ligure (1956-1958), nel quale Paolo Campiglio ha puntualmente riconosciuto «un episodio di scultura sacra analogo alle figurazioni eseguite sui piatti in ceramica, in una dimensione architettonica [… in cui] le figure […] prendono vita dal contrasto tra la materia dinamica e magmatica della scultura e la superficie piana della facciata»5. Se anche la Corrida bronzea non può prescindere dalla parete di fondo, per prendere vita e rendere giustizia al dinamismo interno che la anima, la “scheggia” isolata è pura astrazione avulsa da ogni responsabilità narrativa, tuttavia indispensabile al compimento spaziale dell’opera.

1 Crispolti 2006 [2015], I, p. 298, n. 52 SC 17. 2 Si veda la scheda di Paolo Campiglio in Lucio Fontana 2017, p. 20. 3 Crispolti 2006 [2015], I, p. 298, n. 52 SC 19. 4 Asta Christie’s 324, Arte moderna e Contemporanea, Milano 27-28 maggio 2014, lotto 11. L’opera è registrata presso la Fondazione Lucio Fontana di Milano con il n. 1900/250. 5 Campiglio 2017, p. 11.

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Leoncillo Leonardi

Sirena, 1939

Ceramica policroma, 62 x 25 x 23 cm Firma in basso a destra: Leoncillo Provenienza Roma, collezione Amerigo Terenzi Roma, collezione Apolloni (courtesy Galleria del Laocoonte) Con l’Arpia e l’Ermafrodito la Sirena1 compone uno straordinario gruppo noto come i Mostri, «tre fantasiosi capricci splendidamente cotti, policromati e invetriati»2, come ebbe a definirli Ercole Maselli, esposti nel 1940 alla Triennale di Milano, dove Leoncillo era stato invitato da Gio Ponti, e ancora nel 1943 a Roma – pochi mesi prima dell’occupazione nazista della città – alla Galleria dello Zodiaco, appena fondata dall’esuberante e bellissima Linda Chittaro3. Di questa mostra collettiva intitolata Giovani artisti italiani (Donnini, Leoncillo, Purificato, Scialoja, Turcato, Valenti, Vedova), il pittore Virgilio Guzzi colse all’istante non solo la bellezza e l’originalità dei pezzi di Leoncillo, ma anche la loro siderale distanza dalle qualità decorative connaturate alla ceramica: «Con una mostra di giovanissimi si chiude quest’anno alla Galleria dello Zodiaco l’importante stagione artistica. Alcuni, come Scialoja, Purificato, Vedova, Valenti, erano già noti, altri come Leoncillo, Donnini e Turcato ci si scoprono oggi invece per la prima volta. Dei quali tre inediti occorre dire subito che il Leoncillo è quello che si rivela ai nostri occhi come un artista già fatto e originale. Queste sue ceramiche bisogna anzi senz’altro definirle magnifiche: e non certo solo per lo splendore raro degli smalti, ma per l’originalità della invenzione, la vitalità della deformazione espressionistica e barocca. E una mitologia che nelle mani di questo plasticatore e pittore umbro funziona benissimo; e fa pensare a un sentimento poetico che potrebb’essere l’equivalente di certi stati d’animo e fantasie di Scipione. La Sirena, e specialmente l’Arpia, dove quei rossi attingono una intensità sensuale fortissima, e quindi un valore lirico dei più rari, sono opere da non potersi certo giudicare come prodotti di arte decorativa. Fatto è che noi ci troviamo di fronte a un artista nuovo. Lo spiritoso (e patetico) ceramista è soprattutto un poeta che potrà riserbarci le più belle sorprese»4.

Nel 1939, a pochi anni dal trasferimento a Roma che era avvenuto nel 1935, Leoncillo si era spostato a Umbertide, cuore della produzione ceramica umbra, con l’intenzione di perfezionarsi sul piano tecnico e utilizzare i forni della manifattura Rometti,

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1 In generale su quest’opera si veda il commento critico di Enrico Mascelloni in Leoncillo 2018, pp. 40-45. 2 Maselli 1943 (citato da Appella 2002, p. 118). 3 Principali esposizioni successive: Spoleto, Chiostri di San Nicolò, Leoncillo. Esposizione antologica, 8 luglio – 8 settembre 1969; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Leoncillo 1915-1968, 19 settembre – 28 ottobre 1979; Roma, Galleria W. Apolloni – Spazio Babuino 136 – Galleria del Laocoonte, Leoncillo. Le Carte e le Ceramiche, 29 ottobre 2018 – 28 febbraio 2019. 4 Guzzi 1943 (citato da Appella 2002, p. 117)

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dove dal 1929 al 1934 era stata direttore artistico Corrado Cagli; è in questi forni che vennero cotti anche i Mostri. La Sirena è un capolavoro che prende vita dalla naturale, eppure sofferta e sensuale, capacità dell’artista di modellare la creta con accenti fortemente espressivi, capaci di travalicare il rimando al mito, compagno della pressoché contemporanee – e pure straordinarie – esperienze di tanti altri protagonisti dell’avanguardia artistica romana degli anni Trenta, a cominciare da Cagli e Mirko Basaldella, per riallacciare fili sottili di un percorso che, come è stato precocemente e da più parti sottolineato, lega Medardo Rosso a Scipione5. E se i volumi della Sirena sono tutt’altro che puri, bensì «investiti e grondanti di tono dall’interno e dall’esterno»6 – per citare Roberto Longhi – , e lo sarebbero a prescindere dallo specifico tecnico, la sintesi colore-luce pertinente alla ceramica rende la figura palpitante e tragicamente viva. Appartenuta ad un influente esponente del PCI, nonché intellettuale di chiari orientamenti artistici quale fu Amerigo Terenzi – che subito dopo la liberazione di Roma nel 1944 fece parte del comitato organizzatore della mostra, voluta dal quotidiano l’Unità, L’arte contro la barbarie. Artisti romani contro l’oppressione nazi-fascista, a cui Leoncillo partecipò con le due versione della Madre romana uccisa dai tedeschi, che gli valsero il primo premio ex-aequo per la scultura – la Sirena è l’unico pezzo della «trilogia» a non figurare in un museo pubblico: l’Arpia, già nella collezione di Cesare Brandi, e l’Ermafrodito sono infatti conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

5 Per l’importanza della Scuola romana sull’opera giovanile di Leoncillo si veda Ruiz de Infante 2002. 6 Dalla lettera inviata da Roberto Longhi il 10 giugno 1949 a Corrado Del Conte in occasione della mostra di Leoncillo alla galleria Il Fiore di Firenze, e pubblicata successivamente in apertura della monografia del 1954 (Longhi 1949 [1984], p. 68).

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Leoncillo Leonardi

Due Trofei (bozzetti), 1940 Ceramica policroma, cm 46 X 14 X 17 cadauno Provenienza Roma, collezione Cipriano Efisio Oppo Roma, collezione privata Queste due “creature leoncilliane” sono i bozzetti preparatori per i Trofei monumentali previsti come decorazione del Palazzo della Civiltà italiana all’E.U.R., una commissione giunta a Leoncillo sul finire del 1940 per il tramite di Cipriano Efisio Oppo che, in qualità di vice presidente dell’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma, era coinvolto in prima persona anche nella scelta delle opere d’arte da collocare negli edifici dell’Esposizione universale programmata per il 1942 (E 42)1. Eseguiti a Umbertide, dove Leoncillo viveva dal 1939, i bozzetti – a circa un terzo del vero – erano stati approvati già da nove mesi, stando alle parole dello scultore stesso che li ricorda in una sua lettera del Luglio 1941, nella quale lamenta con Oppo l’inspiegabile e reiterato rinvio della firma del contratto2. L’ambizioso progetto dell’E 42, vagheggiato fin dal 1935 con la candidatura di Roma a sede dell’Esposizione, aveva cominciato a vacillare dopo l’entrata in guerra dell’Italia, ma i sogni di gloria del neonato impero tardarono a svanire, e anche per Loncillo ci fu il tempo per siglare il contratto per i due Trofei, il 24 novembre 1941, e consegnare le opere finite3. I bozzetti dei Trofei entrarono in possesso di Oppo, che custodiva anche altri capolavori della fase iniziale di Leoncillo, e dei quali si era certo “innamorato” quando li vide esposti, tra l’aprile e il giugno del 1940, alla VII Triennale di Milano: i quattro busti femminili raffiguranti Le stagioni (1939). Rimasti uniti nella loro vicenda collezionistica, i due bozzetti possono qui essere accostati per la prima volta alle opere finite, consentendoci di valutar appieno come la fantasia dello scultore avesse, sin dall’inizio e senza esitazioni, intrapreso una strada antiaccademica, fortemente immaginativa ed espressiva. Al tema ispirato alla gloria della Roma dei Cesari, sicuramente auspicato da Oppo, Leoncillo rispose infatti con quella libertà estrema, carica di ironia e ribellione, che solo la sua “scultura con colore” ha avuto e continua ad avere.

1 Principali esposizioni: Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Leoncillo 1915-1968, 19 settembre – 28 ottobre 1979; Verona, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Palazzo Forti, Le scuole romane sviluppi e continuità 19271988, 9 aprile – 15 giugno 1988; Bologna, Galleria d’Arte Moderna, Scultura e ceramica in Italia nel Novecento, 3 ottobre – 26 novembre 1989; Roma, Galleria Arco Farnese, Leoncillo mostra antologica, Roma, aprile 1990; Parigi, Pavillon des Arts, Ecole Romaine, 1925-1945, 24 ottobre 1997 – 25 gennaio 1998; Matera, Chiese rupestri Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci – Sasso Barisano, Leoncillo. Opere dal 1938 al 1968, 6 luglio - 30 settembre 2002. 2 Benzi 1986, p. 185 3 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 368.

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Leoncillo Leonardi Due Trofei, 1941 Ceramica policroma e lustri, 130 x 36 x 36 cm Firma e data sulla base: Leoncillo ‘41 Provenienza Milano, collezione privata Questa eccezionale coppia di Trofei, nata per fregiare l’interno di un edificio pubblico, il Palazzo della Civiltà italiana a Roma, è da annoverare per virtuosismo tecnico, qualità cromatiche e fantasia inventiva tra i capolavori di Leoncillo. Le due opere erano state richieste allo scultore – sul finire del 1940 – da un suo illustre ammiratore, un personaggio che seppe unire all’attività artistica di pittore, e a quella di critico militante, l’impegno politico come deputato e, soprattutto, l’infaticabile azione di promotore culturale in ruoli direttivi del Sindacato Nazionale Fascista delle Belle Arti: Cipriano Efisio Oppo. Dal 1936 Oppo fu inoltre fortemente impegnato, in qualità di vice presidente dell’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma, nell’organizzazione dei concorsi artistici e delle iniziative correlate alla preparazione dell’Esposizione universale prevista per il 1942 (E 42). È in questo competitivo contesto che si profilò anche la commissione a Leoncillo dei Trofei destinati al più celebre degli edifici dell’E.U.R, quello finanziato dal senatore Giovanni Agnelli, sulle cui quattro identiche facciate campeggia in caratteri capitali la frase di Mussolini: «un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori»1. Da Umbertide, dove si era ormai trasferito dal 1939 per lavorare avvalendosi dei forni della manifattura Ceramiche Rometti, il 2 aprile del 1941 Leoncillo manifesta al suo committente l’incapacità di portare a termine l’opera secondo il piano previsto, nonostante si trovasse già in una fase avanzata di lavorazione: «Eccellenza, ho lavorato quaranta giorni ai due “Trofei”; sono ormai ultimati, pronti alla lavorazione ceramica, ma molti scrupoli proprio oggi mi prendono, mi impediscono di continuare il mio lavoro. Così grandi mi sembrano estranei alla mia particolare ispirazione, mi sembrano aver tradito la seduzione del tema. Perdonatemi è tutta colpa mia. Sento di farli più piccoli o riunire le invenzioni dei due in uno solo, intensissimo. Vi scrivo per chiedervi la vostra simpatia, per sapere che comunque attendete li mio lavoro purché bello. Questo siate certo. Farò una cosa bellissima. Per questo ora non posso andare avanti, perché non posso rinunciare a questa opera più bella che mi è accanto. Attendo con ansia una vostra risposta. Per il prezzo, che dovrà

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1 Sulle vicende della decorazione interna del Palazzo, che oltre ai Trofei di Leoncillo doveva contenere altre opere mai realizzate (due balaustre in porfido con rilievi eseguite rispettivamente da Bruno Giuliarelli e Edgardo Mannucci, e una targa in marmo di Renato Rosatelli ), si veda la scheda di V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, pp. 368-370.

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naturalmente mutare, non occorre alcun accordo, non mi interessa. Alla consegna starò assolutamente alle condizioni che il vostro giusto consiglio vorrà porre. Devotissimo Leoncillo Leonardi»2.

La risposta di Oppo non lascia però margini di discussione: come da accordi preventivi i due Trofei dovevano essere di «metri 1.60 ciascuno»3. Nonostante l’Italia fosse entrata in guerra ormai da più di un anno, quando l’11 luglio Leoncillo si rivolse nuovamente a Oppo con parole accorate, la commissione non era stata ritirata, sebbene ritardata da lungaggini che parevano allo scultore permeate di “promesse bugiarde”: «Eccellenza […] son qui a Umbertide sfiduciato e stanco e con una povertà che non mi dà neppure la libertà necessaria a procurarmi i mezzi per eseguire le mie ceramiche. È del lavoro per l’E.U.R che volevo parlarle: Pregarla di farmi eseguire questo lavoro di cui pure sono stati accettati i bozzetti per i quali ho speso tempo e fatica. Nove mesi sono passati dall’accettazione, e il contratto mi è stato rimandato da un giorno all’altro, da una settimana all’altra, da un mese all’altro. Tante volte dietro invito dell’Ufficio statistico son venuto all’E.U.R. per definire le tante cose che furono definite; tante sollecitazioni feci e con ogni tono, e sempre mi fu risposto con promesse, ma tutte ugualmente bugiarde. Si che alla fine non mi resta nell’animo che la sensazione di essere stato continuamente burlato e quella della mia umiliazione e della mia impotenza ad ottenere ciò che mi è dovuto e che non mi viene mai contestato ma in effetti negato. Per quanto non riesca a spiegarmi il perché di tutto questo, sono tuttavia sicuro che Lei non ne sa nulla […] Ora non mi resta che la speranza che Lei voglia comprendermi e aiutarmi. Mi consola il pensiero della stima e dell’affetto che Lei mi ha tante volte dimostrato, in questo momento di debolezza e di esasperazione»4.

Il contratto sarà approvato e reso esecutivo il 24 novembre 19415, ma il naufragio dell’E 42 decretò anche il temporaneo l’oblio dei due Trofei, che nel 1945 vennero riacquistati da Leoncillo stesso, che li presentò al pubblico romano alla Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Galassi, l’esposizione che ebbe luogo nel marzo-aprile 1946 alla Studio d’Arte Palma di Pietro Maria Bardi. Visti insieme alla sua Balaustra di cariatidi 6 (una delle quali è presente in mostra), e alle opere degli altri artisti e artigiani che il poliedrico pittore e mosaicista Galassi aveva riunito a lavorare nello studio allestito in un’ala di Villa Poniatowsky a Roma7, anche i Trofei devono essersi rivelati per quello che erano veramente: non magniloquenti simboli di “gloria imperitura” bensì frutti maturi di un rinato e ironico “effimero barocco”, superbi complementi d’arredo degni di una moderna Versailles. Leoncillo credeva fortemente nel valore e nella bellezza di queste opere, a cui aveva

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2 Mazzarella 1990, p. 14. 3 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 369. 4 Benzi 1986, p. 185. 5 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 368. 6 Si veda la scheda di una delle Cariatidi in questo catalogo. 7 Cassani 2012.

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dedicato una lunga gestazione, al punto da scegliere di completarle non a Umbertide, bensì a Gualdo Tadino presso la Società Ceramica Luca della Robbia, per arricchirne il già ricco cromatismo di sontuosi lustri d’oro a terzo fuoco da lui mai impiegati in precedenza; al netto delle insoddisfazioni espresse nella lettera a Oppo dell’aprile 1941, ne risultò senza dubbio «una cosa bellissima», al punto che qualche anno più tardi lo scultore ritornò sul tema, modellando e invetriando un nuovo Trofeo monumentale per la decorazione di un bar a Roma, pubblicato nel 1948 da Gio Ponti sulla rivista Domus. Con il consueto acume critico Ponti seppe cogliere la natura personalissima anche di questo lavoro: «La decorazione di un bar a Roma è stata l’occasione di questo gran “Trofeo” di Leoncillo, vera creatura leoncilliana, esempio di quella “scultura con colore” che egli preconizza, e dalla idea fantastica che gli è prediletta – quella degli alberi vestiti di armature e drappi, fatti quasi personaggi drammatici. L’idea persiste anche nei pannelli (un po’ infiltrata – vedi la testa scultorea e la colonna – di quel tanto di fantasia dechirichiana che appartiene ormai più alla nostra epoca che a de Chirico stesso)»8.

Tolta la «fantasia dechirichiana», queste parole possono puntualmente essere riferite anche ai Trofei per l’E 42, e quell’«idea fantastica […] degli alberi vestiti di armature e drappi» deve essere piaciuta enormemente all’architetto – deve anzi averlo lusingato – visto che per il Trionfo da tavola per le Ambasciate d’Italia, commissionato dal governo italiano nel 1929 e realizzato in porcellana bianca e oro dalla manifattura Richard Ginori, egli stesso aveva per primo voluto un Trofeo (disegnato da Tomaso Buzzi) in forma di tronco rivestito di lorica, elmo, scudo e armi; un pezzo squisito di cui Leoncillo deve essersi ricordato con affetto, vista la reciproca stima amichevole che legava i due9. Non sembra dunque casuale che Leoncillo abbia poggiato, come già aveva fatto Buzzi, i suoi due Trofei su una base sinuosamente sagomata, assente nei bozzetti, a cui poi “appiccica” un cartiglio ansato con la scritta «Trofeo», “musealizzando” ironicamente le pencolanti panoplie come si farebbe con un pezzo da collezione. Veramente con questi Trofei «Leoncillo crea degli oggetti tesi a insinuare il dubbio della collocazione»10, e con il dubbio un inatteso e seducente senso di spaesamento. 8 Ponti 1948, p. 27. Su questo Trofeo si veda la scheda di Enrico Mascelloni in Leoncillo 1990, p. 51. 9 Il disegno preparatorio di Buzzi per il Trofeo è qui riprodotto nel saggio di Andrea Bacchi. Sul rapporto tra Ponti e Leoncillo si veda Fiorucci 2019, pp. 225-228. 10 Mazzarella 1990, p. 15.

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Leoncillo Leonardi

Cariatide bifronte, 1945 circa. Ceramica policroma a terzo fuoco, 82 x 18 x 18 cm Provenienza Roma, collezione Umberto Carpi de Resmini Roma, Galleria Carlo Virgilio & C. Questa Cariatide bifronte fa parte di una serie di elementi per una balaustra, presentata da Leoncillo alla Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Galassi. L’esposizione, tenutasi a Roma nel marzo-aprile 1946 alla Studio d’Arte Palma di Pietro Maria Bardi, e accolta calorosamente da Gio Ponti1, mostrava i lavori realizzati dagli artisti e dagli artigiani che il poliedrico pittore e mosaicista Enrico Galassi aveva riunito nello studio allestito in un’ala di Villa Poniatowsky a Roma, affinché si dedicassero alla creazione di complementi per l’arredo di dimore signorili2. Alla fugace esperienza dello Studio di Villa Giulia parteciparono, tra gli altri, Consagra, Mirko, Afro, Tamburi, Scardia, Montanarini, Gentilini, Maccari e Pietro Cascella. Sedotta dalla «grande processione trionfale e dannata di cariatidi», Lisa Ponti, in un suo articolo su Stile, la rivista che il padre Gio aveva inizialmente fondato con il titolo Lo stile nella casa e nell’arredamento (1941-43), ha trovato parole pregnanti per descriverne la totale assenza di decorativismo di queste stupefacenti creature di Leoncillo, che si rivelano appunto: «[…] dei viluppi vivi e trepidanti, uscitigli dalle mani, inermi, pronti a ritirarsi: si muovono ciecamente e dolorosamente come degli organi interni, e sono così umidi, brillanti, ricchi, colorati, iridescenti. E poi su alcune delle loro facce si sorprendono tratti improvvisamente spirituali – come nelle figure delle nuvole –; son facce velate e vivide, con tracce di dolore, come se fossero dei San Sebastiani […] E le braccia e i panneggi hanno ombre e profondità come nella pittura, e diffondono paura, muovono l’aria»3.

Oltre a una fotografia d’insieme, e a numerosi dettagli, l’articolo di Lisa Ponti porta in chiusura una dettagliata, e per noi assai preziosa, descrizione della balaustra nel suo insieme, rivelando una varietà di soluzioni formali di cui la Cariatide bifronte è soltanto una possibilità: «La balaustra è composta di 2 elementi a 4 figure, uno come caposcala e l’altro come termine, di 2 a 3 figure nei due angoli della rampa e, negli intervalli, di altri a 2 figure voltati alternativamente in modo da mostrare l’una e l’altra faccia. Nei due elementi a 4

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1 Ponti 1946a. Entusiastico fu l’apprezzamento che Toti Scialoja riservò espressamente alla balaustra di Leoncillo nella sua recensione alla mostra, dal titolo Mirko e Leoncillo in una mostra di arti applicate, comparsa prontamente nel 1946 sulla rivista «Mercurio» (ora in Toti Scialoja 2015, pp. 126131). 2 Su Galassi e lo Studio di Villa Giulia si veda Cassani 2012. 3 Ponti 1946b, pp. 27-28.


figure predominano, in uno il viola, e nell’altro il verde caldo; in quelli a 3 figure in uno il rosso aranciato e nell’altro il bruno rosso, e in quelli a 2 il verde azzurro. In tal modo la scala è architettata plasticamente e cromaticamente secondo la sua funzionalità. L’oro che è in tutti gli elementi li collega fra loro. Anche l’invenzione di aver fatto i gruppi a 4 figure con 4 sole gambe, e quelli a 3 con 3, e quelli a 2 con 2, è servita a far differenziare gli elementi secondo la loro funzionalità architettonica senza ingrandire troppo i più ricchi rispetto agli altri»4.

Nel 1947 anche Gio Ponti, grande ammiratore dell’opera di Leoncillo, si soffermò sulla balaustra, ritenendola l’esito migliore dell’artista fino a quel momento: «This balustrade, for example, was made to rise from the profoundest depths of Leoncillo’s being, up to today it is his major work by the force of his immaginative energy wich makes us think of the greatest periods of court art»5. Il richiamo alle celebri Cariatidi dell’Eretteo6 si complica nella doppia faccia della sinuosa figura di Leoncillo, quasi identica nella postura e nei gesti, ma da un lato le gambe leggermente accavallate sono coperte nella parte bassa dal drappo, mentre dall’altra una rimane scoperta. È però la maestria di Leoncillo nell’uso del colore a trasfigurare questa creatura, così che la magica pelle lattea, marezzata di iridescenze violacee, si accende a contrasto col drappo cobalto scintillante di dorature a terzo fuoco. Nell’insieme la balaustra non trovò un utilizzo, finendo per essere smembrata e una Cariatide bifronte figura, ad esempio, tra gli elementi ornamentali che affollano una delle vetrine del bar dell’elegante transatlantico Conte Grande, rinnovato, dopo essere stato preda bellica degli americani tra il 1943 e il 1945, da Gio Ponti e Nino Zoncada7. Quattro di queste Cariatidi bifronti, che ancora reggono sul capo un tratto dell’architrave/corrimano, sono oggi esposte alla Galleria d’Arte Moderna Giovanni Carandente in Palazzo Collicola a Spoleto, mentre un’altra è entrata a far parte della collezione di Claudio e Elena Cerasi8. Un ulteriore esemplare, già presentato alla mostra di Matera del 20029 e pervenuto ad una collezione privata di Umbertide, è stato esposto alla mostra dedicata dal Fa.Mo. Museo Rometti di Umbertide a Lucio Fontana e Leoncillo nel settembre-ottobre 201810. Nello Studio di Villa Giulia si realizzarono «pezzi di eccezione» nei quali Gio Ponti riconobbe «come la dignità dell’antico, al pari della vitalità del moderno, non sia questione di tempo. Quando un oggetto è fatto, fuori dai calcoli immediati di prezzo e di lavoro, per valere nel tempo, noi possiamo dire che è già antico, fuori cioè dal tempo che viviamo, e ciò è il privilegio della sola arte»11. In sintonia con questo spirito creativo, anche la balaustra fu concepita come un sontuoso complemento d’arredo e realizzata avvalendosi – eccezionalmente nella pratica di Leoncillo –, almeno per le figure a due sole facce come la nostra, di uno stampo. L’artista è però intervenuto su

4 Ivi, p. 29. 5 Ponti 1947, pp. 216-219. 6 Ferrari 1960, p. 7. In generale per il richiamo di Leoncillo alla scultura antica si veda Corgnati 2019, con un rimando alle Cariatidi a p. 42. 7 Una fotografia storica della vetrina con la Cariatide bifronte di Leoncillo è pubblicata da Giuseppe Appella in Leoncillo 2002, p. 130. 8 Apolloni 2018, pp. 12-13. Fagiolo dell’Arco 2016, p. 121. 9 Leoncillo 2002, p. 42, cat. 12, (Courtesy Galleria d’arte Maggiore, Bologna). 10 Barocco e Barocchetto 2018, pp. 60-61. 11 Ponti 1946a, p. 22.

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ogni figura con evidenti ritocchi e varianti prima della cottura e della successiva stesura dei colori, così che non solo la policromia di ogni pezzo è differente, ma anche il modellato. La balaustra presentata alla mostra del 1946 poteva essere estesa a seconda dell’utilizzo specifico, e delle richieste di un potenziale cliente, come testimonia l’esistenza di alcune Cariatidi bifronti in biscotto, pronte per ricevere l’invetriatura, una delle quali fa ora parte della collezione Marignoli di Spoleto12.

12 Due esemplari in terracotta sono rispettivamente comparsi alle seguenti vendite: Christie’s 16799, First Open/ Online, Londra 4-11 aprile 2019, Lotto 59 (https:// onlineonly.christies.com/s/ first-open-online/leoncillo-1915-1968-59/68254); Christie’s 19255, First Open: Post-War & Contemporary Art Online, Londra 14-27 ottobre 2020, lotto 31 (https:// onlineonly.christies.com/s/ first-open-post-war-contemporar y-art-online/leoncillo-1915-1968-31/102271). Altre due terrecotte figuravano come unico lotto all’asta Sotheby’s 340, Arte contemporanea, Milano, 26-27 novembre 2019, lotto 147 (https:// w w w. s o t h e b y s . c o m / e n / auctions/ecatalogue/2019/ arte-contemporanea-mi0340/ lot.147.html).

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Fausto Melotti

1. Senza titolo, 1949 circa

Ceramica policroma, 53 × 22.5 × 18 cm Provenienza Collezione privata 2.

Senza Titolo, 1950 circa

Ceramica policroma, 81 × 25 × 27 cm Firma sulla la base: Melotti Provenienza Milano, collezione privata 3.

Senza titolo, 1951 circa

Ceramica policroma, 42 x 11,5 x 10 cm Firma all’interno: Melotti Provenienza Collezione privata 4.

Senza titolo, 1951-52 circa

Ceramica policroma, 62 × 16 × 16 cm Firma sotto la base: Melotti Provenienza Milano, collezione privata 5.

Senza titolo, 1950 circa

Firma sotto la base: Melotti Ceramica smaltata, 75 x 25 x 27 cm Provenienza Milano, collezione privata

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Le cinque figure femminili qui riunite sono sorelle “poco più giovani” della fanciulla che tiene delicatamente nella mano sinistra due uccellini, databile al 19481, e di tante altre che Melotti modellò da quel momento in avanti, sostanzialmente per un decennio, prima di tuffarsi nuovamente in quell’esperienza astratta, già avviata negli anni Trenta, che egli riteneva rendesse davvero giustizia al suo essere scultore. Questi suoi elegantissimi «cartocci leggeri» furono prontamente ospitati nel 1948 da Gio Ponti sulla rivista Domus, con il rammarico di non poter rendere giustizia, nel bianco e nero delle riproduzioni, all’eccezionale qualità dell’invetriatura policroma: «Finché non ci saranno possibili riproduzioni a colori non potremo dare una documentazione soddisfacente dei pezzi di Fausto Melotti, che sono – come questa figura con l’uccellino in mano – quasi cartocci leggeri e vuoti di ceramica intrisa degli smalti più inattesi. Melotti – al quale dedicheremo un servizio nei prossimi numeri – in questi ultimi anni, firmandosi “Sette Punti”, è stato l’autore di una produzione ceramica veramente sorprendente che, dai divertimenti delle collane smaltate, e poi delle famose tazzine da caffè e degli “animali sbagliati”, arriva alle bellissime coppe frangiate, ai pezzi fantastici – come questa figura leggera, fresca di invenzione – e ai pezzi di scultura […], cui Melotti tiene assai. Questa ceramica che sa così “scherzare col fuoco” fa stupire per i suoi esiti»2.

Sebbene Melotti, «astrattista della prima ora»3, avesse consacrato alla ceramica oltre vent’anni di attività, presentando i propri lavori in sedi di assoluto prestigio a cominciare dalle biennali veneziane del 1948 e del 1950, dagli anni Sessanta volle ricondurre questa produzione alla necessità di provvedere alla famiglia: «Ho inventato una specie di ceramica che è piaciuta molto e che mi ha dato dei soldi, per cui ho potuto vivere tranquillo. Dopo, a un certo momento si sono accorti che anche come scultore non ero male e ho piantato la ceramica»4. A fronte di reiterate affermazioni di questo tenore, alla ceramica di Melotti è stato attribuito da subito un valore autonomo e vitale, al quale gli approfondimenti critici più recenti hanno riconosciuto una complessità semantica che travalica di gran lunga la fatidica “leggerezza” melottiana5. Rispetto ad opere più antiche quali la Dafne del 1933, dall’ascendenza martiniana, nelle nostre più tarde figure femminili – senza titolo e senza alcun riferimento narrativo – assistiamo, come ha osservato Germano Celant, ad una sostanziale «densificazione dell’impalpabile» che, ben oltre le ragioni di sostentamento economico, «[…] si deve legare al turbamento sensoriale di un idealista – a cui una tragedia storica [la guerra] ha distrutto lo studio quanto le utopie – che intende riappropriarsi delle sue illusioni e dei suoi sogni non più ideali, ma individuali.»6. Dalle proporzioni manieriste, le teste piccole e le braccia esili, queste creature, vestite di sfoglie sottili tagliate e piegata con apparente noncuranza, attingono in modo assolutamente personale al mondo mitico dell’antichità, e come nuove statuette di

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1 Fausto Melotti 2003, p. 97, fig. 9. 2 Ponti 1948a, p. 29. 3 Camini 1950, p. 40. 4 Mulas 1992, p. 31. 5 Carbone 2003. 6 Celant 1994b, I, p. XIV.

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Tanagra variano infinitamente i loro gesti e il loro passi di danza seguendo armonie sorvegliatissime. Altrimenti, la cromia, manipolata dal sortilegio del fuoco, ne accresce il senso di astratta sublimità; e anche noi ci interroghiamo oggi sulla provenienza e il riapparire di questi magici esseri «[…] vaganti, come frammenti affioranti, disancorati da non si sa quale profondità, isolati e viaggianti in quella che Melotti chiama la “terra di nessuno”»7. La più antica figura presentata in mostra8 (1), si apparenta ancora, nei toni fortemente espressivi dell’invetriatura, a La Follia9 del 1948, che Melotti espose in quell’anno alla XXIV Biennale di Venezia, o ancora di più alle due Cariatidi realizzate nel 1950 per la nave Conte Verde10; è dunque in questo intervallo cronologico che se ne dovrà collocare la realizzazione, nella fase iniziale di un percorso che troverà nel tema della figura femminile uno dei favoriti dallo scultore. Altre due delle nostre ceramiche, una presumibilmente del 195011 (2) e l’altra leggermente più tarda12 (4), presentano invece una policromia giocata sui toni chiari del bianco lunare che trasmuta nel rosa screziato di grigio, celeste e viola, caratteristica di molte di queste opere, a cominciare dalla già citata fanciulla che nella mano sinistra tiene due uccellini. Nel contrasto tra il busto bianco-iridato e il nero dell’abito “lavico” e fasciante, l’esemplare di dimensioni più ridotte del nostro gruppo13 (3) si apparenta invece ad un limitato numero di figure eseguite nei primi anni Cinquanta14. Da ultima, a completare la panoramica su questa specifica produzione di Melotti, primeggia un’altera figura dalla rara smaltatura con effetto metallico (5)15, un altro capolavoro di questo scultore-ceramista ripetutamente definito “mago” «per la enigmatica origine delle sue figure che […] sembrano scaturire dal fuoco»16.

7 Camini 1950, p. 40. 8 Certificato su fotografia no. 1949 14 dell’Archivio Fausto Melotti di Milano. 9 Celant 1994a, I, no. 1948 1, p. 75. 10 Ivi, I, no. 1950 3 e 1950 4, p. 82. 11 Ivi, I, no. 1950 10, p. 84; Fausto Melotti 2003, no. 33, p. 106. 12 Ivi, I, no. 1951–1952 6, p. 89; Fausto Melotti 2003, no. 28, p. 105. 13 Certificato su fotografia no. 1951 10 della Fondazione Fausto Melotti di Milano. 14 Si veda ad esempio Celant 1994a, I, no. 1953 1, p. 93. 15 Ivi, I, no. 1950 9, p. 105; Fausto Melotti 2003, no. 29, p. 105. 16 Ponti 1950, p. 41.

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TESTO INGLESE


BAROQUE BREEZE Andrea Bacchi


In an interview of 1963, Lucio Fontana (1899-1968) stated: «for a while I made a sort of coloured sculpture that is usually described, improperly, as Baroque. I wanted to bring light into sculpture. In short, I was looking for a new dimension»1. Improperly or otherwise, the term Baroque has been repeatedly applied to Fontana’s coloured sculptures of the 1930s and 1940s, as well as to the almost contemporary works of Leoncillo Leonardi (1915-1968) and Fausto Melotti (19011986), starting already from the fourth decade of the century. Use of the term has become almost automatic in all the numerous studies (mainly Italian) that have dealt with this extraordinary period in 20th century sculpture2. We could mention, for example, representative titles like Lucio Fontana: metafore barocche (exhibition in Verona of 2002) and Barocco e barocchetto: materia e colore nella scultura di Lucio Fontana e Leoncillo Leonardi (exhibition in Umbertide of 2018). In these masterpieces by Fontana, Leoncillo and Melotti, ceramic was deprived of its more habitual function, in other words its use in the decorative arts, to become the principal medium for an entirely new type of sculpture, sometimes monumental, with a poetic authority that had no precedents outside the Renaissance and the works of Luca della Robbia and his followers3, though the latter were completely extraneous to the cultural context of our three sculptors and did not influence them in any way. Here we present an important group of sculptures representative of a phase that, especially in the international context, has only recently begun to receive the recognition it deserves in the history of 20th-century art: four works by Fontana covering the period between 1936 and 1958 together with five by Melotti, all executed in the years around 1950, and as many as six by Leoncillo, representative of his works between 1939 and the mid-1940s. A few months ago, Matteo Lampertico asked me if, as a scholar of Baroque sculpture, I might like to research these artists to determine if there were any genuine stylistic links with the works of that period, and, more generally, how these sculptures might be connected with Baroque art. I accepted this invitation with enthusiasm (and trepidation) as I have a profound appreciation for the works of these masters, and have in some way always felt that they presented affinities with the figurative universe of 1 Rossi 1963,p. 47. 2 The growing critical interest in the works of these three artists, and in particular the attention paid to their ceramic production, has produced an almost unmanageable bibliography that cannot be adequately described here; however, some references of a general nature are needed, starting with Fergonzi 1986 and Scultura e ceramica 1989. More specifically see: on Fontana Crispolti 2006 [2015], Lucio Fontana 1991 and Campiglio 2014; on Leoncillo, for whom a general catalogue is under preparation, Leoncillo 2002 and Leoncillo 2018; on Melotti Celant 1994a and Fausto Melotti 2003. 3 Longhi (1954 [1984], p. 72), with reference to Leoncillo, had already stressed the relative unpopularity of ceramics in the Italian artistic tradition.

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the 17th and 18th centuries. A more attentive examination of these materials, their critical history and the declarations of intent of the artists who made them reserved unexpected surprises for me: of course, there was the confirmation of the deliberate allusion to what Roberto Longhi, as early as 1914, disregarding any historical contextualization, described as a «tiresome Baroque breeze that lasts from Bernini to Rosso»4; but also, ultimately, the recognition of the absence of specific references both to the undisputed father of Baroque sculpture, Gian Lorenzo Bernini, and to other masters of the 17th century, such as Alessandro Algardi or Francesco Mochi. It was again Longhi, in 1913, who wrote with reference to Futurist painting: «the problem of Futurism with respect to Cubism is that of the Baroque with respect to the Renaissance. The Baroque merely sets in motion the mass of the Renaissance [...] The circle is succeeded by the ellipse [...] Now, coming after the Cubists [...] the new painters aim to maintain the Cubist crystallization of form, and to give it motion [...] The result is [...] the profound legitimacy of this new movement, and its superiority over Cubism»5.

with respect to Fontana, to a greater extent than Melotti or Leoncillo, and in earlier years. From a historiographical point of view, in short, Fontana’s influence on the debate over the return to the Baroque is without doubt preponderant. In the aforementioned interview of 1963, as we have seen, Fontana seems almost to deliberately distance himself from the label of “Baroque” that had been applied to his ceramic production since the 1930s, in his opinion “improperly”. However, it is also true that Fontana himself, in 1946, appears to have been the prime inspiration for the young students of the Buenos Aires Academy of Fine Arts who had authored the Manifesto Blanco, which stated that: «Space is represented with increasing amplitude over several centuries. Baroque artists make a leap forwards in this respect: they represent it with a grandeur that has not yet been surpassed and imbue sculpture with the notion of time. The figures seem to abandon the flat plane and continue the movements depicted in space»8. Five years later, in the Manifesto tecnico dello spazialismo, Fontana himself wrote, repeating almost to the letter what had already been written in the Manifesto Blanco:

Indeed, Heinrich Wölfflin had written, already in 1908: «There can be no doubt that our time resembles the Italian Baroque»6. Longhi himself, many years later, in 1949, spoke strikingly of a «mournful Barocchetto from Spoleto» with regard to his beloved Leoncillo7, but once again the Baroque was seen as an eternal category of the spirit and of vision.

«We need to move beyond painting, sculpture, poetry. We now need an art based on the necessity of this new vision. The Baroque has guided us in this direction, it represents space with a grandeur that has not yet been surpassed, in which the notion of time is added to sculpture, the figures appear to abandon the flat plane and to continue the movements represented in space»9.

It is well known that one of the key aspects of the Return to Order in Italy, starting already from the second decade of the 20th century, was the programmatic allusion to the models of painting of the 14th and 15th centuries on the part of Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Felice Casorati and others. In the case of some of these artists, from Carrà himself to Arturo Martini, critics have for some time also identified specific references to ancient sculpture (from Etruscan to Roman) in their works, alongside those to the Middle Ages and Renaissance (I am thinking particularly of Flavio Fergonzi’s studies on Martini). This same line of research formed my own starting point here, with the objective of establishing if similar links, explicit and unmistakeable, can also be identified in the works of the three artists showcased in this exhibition. As such, a necessary premise was to listen to the voices of our protagonists, starting with Fontana, the only one of the three who had obvious theoretical ambitions and not coincidentally, then, the only one who referred explicitly to the Baroque in various writings intended for public circulation (and written over a long timespan). Again, critics have on various occasions employed the adjective or noun “Baroque”

These passages by Fontana are powerfully evocative, but he does not specify exactly which models and artistic genealogies he intended to imitate. Certainly, it is natural, in relation specifically to the concept of Spatialism, to think of Bernini’s Bel Composto, with that intermingling of architecture, painting and sculpture that Fontana aimed to repropose in a contemporary key. In 1950, Guido Ballo effectively captured this underlying descendance of Spatialism from the Bel Composto:

4 Longhi 1914 [1961], p. 133.

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«And because a year ago, in an exhibition he held at the Naviglio, he did not exhibit ceramic pieces, but created a spatial environment: the forms called to one another in a diffuse luminosity [...] It might have seemed like a stage set: it was a large ceramic work in which the free forms called to each other mutely, to striking effect, and the space became almost palpable, adhering to the forms. We had thus attained the ultimate consequences of the myth of the Baroque»10.

From the point of view of historical criticism in the strict sense, this concept had already been developed in the earliest biographies of Bernini of 1682 and 1713 (Filippo Baldinucci and

5 Longhi 1913 [1961], p. 48. Ezio Raimondi, quoting and discussing Longhi, significantly gave a chapter of his striking essay Barocco moderno the title Il cerchio e l’ellisse (Raimondi 2003, pp. 70-96), to which we also refer for a broader contextualization of the thought of the young Longhi in relation to Wölfflin and the Vienna School.

8 The original quotation is drawn from Fontana’s own Italian translation, cfr. Fontana 1946 [1970], pp. 119-120; cfr. also Crispolti 2002, p. XLI.

6 Wölfflin [1908], 1928, p. 129.

9 Fontana 1951 [1970].

7 Longhi 1949 [1984], p. 69.

10 For the quotation from Ballo see Pancotto 1991, p. 25.

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Domenico Bernini). It is curious to note that the first modern Italian edition of Baldinucci’s biography was published in 1948, in an edition by Sergio Samek Ludovici, published by the Edizioni del Milione, belonging to the Milanese gallery of the same name where Fontana and Melotti had held several important exhibitions (and whose other publications were almost exclusively catalogues of the exhibitions held there)11. Moreover, in his text of 1951, Fontana appears to have had in mind above all the sculptural groups of explosive energy, lacking any architectural or compositional boundaries, widespread throughout the European High Baroque. The paradigm for an entire phase of large creations, increasingly complex and spatially free, was of course Bernini’s Throne of St Peter, but we could also think of its countless imitations, starting from the Transparente in the Cathedral of Toledo [Fig. 1], the highest expression of that Spanish Baroque that later spread through the New World as well, especially in the variant known as Churrigueresca: we should not forget that Fontana grew up in Buenos Aires, and must have had examples of this style in his visual DNA. Naturally, it is impossible to suggest genuine 17th- and 18th-century figurative sources for the Spatialist Fontana [Fig.2], and in any case, as we have said, it is evident that for the sculptor himself the term “Baroque” had taken on broad connotations lacking any specific chronological reference point. Ultimately, the ties to the Baroque first proposed by the authors of militant reviews and essays on the sculptures by Fontana displayed at various exhibitions in Milan during the 1930s, including some solo shows, were equally loose. It has been written that already in December 1931, Raffaello Giolli, a militant art critic specializing mainly in Rationalist architecture, mentioned the Baroque with reference to the works he had seen at the exhibition held at the Galleria Il Milione, due to close in the following January12; in fact, however, the author never mentioned the Baroque, although he did allude to Michelangelo and Bernini. The strong, dramatic materiality of the sculptor’s creations was underlined, seen as antithetical to the purity of the classical form; also significant is the fact that the pieces on display included some of Fontana’s earliest polychrome terracotta works13. The poet, journalist and engineer Leonardo Sinisgalli stated in 1934 that, by writing «of the Baroque with reference to him [Fontana], our intention was to refer to the crisis of a time period in full possession of an expression that no longer met with resistance», in other words without calling upon any specific artists or works. For the author, it was important to stress the open, free nature of the artist’s recent creations: «Lucio Fontana strives to crack open the closed form of his sculpture. Fontana cannot imagine a statue without considering its surroundings of air, of light»14. Later, in 1940, in a short monographic text devoted to Fontana’s drawings, Duilio Morosini spoke of the «Baroque of some ceramics». But, above all, in 1944, at the time when Fontana had returned to Buenos Aires, the Argentine Ricardo Ratti identified in Fontana a

«subconscious Baroque», suggesting a parallel with El Greco: in other words, this was almost a subterranean current, and the Baroque was more than ever a style that escaped history, to the extent that a visionary late Mannerist artist like Theotokopoulos could be included within it15. Lisa Ponti, in an article of 1948 published in Domus, went so far as to write: «Now Fontana is described as Baroque: he is a little Baroque, because such is the nature of ceramic itself, which is, at heart, the Baroque of sculpture; to some extent because of the temptation to embellishment entailed by manipulating a material capable of so many interpretations»16. In an article by the same author published in the previous issue of the magazine, the great artist was associated precisely with the other two protagonists of that exhibition (and a fourth, Agenore Fabbri), under the shared banner of the Baroque:

11 Baldinucci 1682 [1948]; the theme of the Bel Composto was the subject of a monographic study by Irving Lavin only in 1980.

15 See Crispolti 2002, p. XLII.

12 Braun 2019, pp. 31 and 217, note 11.

16 Ponti 1948b, p. 37.

13 Giolli 1931; Crispolti 2006 [2015], I, pp. 145-146, cat. nos 31 SC 20-21; II, p. 1000.

17 Ponti 1948c, p. 35.

14 Sinisgalli 1934.

18 Fabbrica della bellezza 2017, pp. 31 and 126.

«and we see our ceramicist-sculptors taking advantage of this crisis [the crisis of sculpture], from their progenitor Fontana to Leoncillo, Melotti and Fabbri, who burst in with their “fired sculpture”, a sculpture with colour, coloured volumes. This lively intervention of ceramic is, in some respects, a little like a Baroque flourishing, provisional, fanciful, a reaction both to classical sculpture, now exhausted, and to that desert created by the first abstract experiments»17.

Ponti, perhaps, associated ceramic with the Baroque for its polychromy, which intrinsically made it a fusion of painting and sculpture, an issue to which we will return below. She also viewed it in opposition to the sculpture of the Novecento movement and to abstract sculpture (Melotti, however, did not recognize himself in this scornful judgement of the latter). It is worth noting at once that, at heart, we are dealing almost with a misunderstanding: no great sculptor of the Baroque era, nor of the Roman school (from Bernini to Algardi to Camillo Rusconi), nor of the majority of the other Italian schools (from the Venetian Giusto Le Court to the Genoese Filippo Parodi) ever worked in polychrome ceramic. Even in the Neapolitan context there are no significant exceptions to this rule. And we must make a further distinction: the Capodimonte porcelain manufactory, established in 1743 by the Bourbon monarchs, only produced pieces that, for their size or complexity, could in some sense be interpreted as sculptures much later, in what was by then the Neoclassical period; the only Italian manufactory to produce large inventions, including some polychrome pieces, as early as the mid-18th century, was that at Doccia, founded in Tuscany by Carlo Ginori. The latter, as is known, mainly made white porcelain (starting with the monumental copies of ancient sculptures of around 1745, still in the Museum at Sesto Fiorentino today), alongside exceptional polychrome pieces, such as the Pietà after a model by Massimiliano Soldani Benzi now in the Los Angeles County Museum [Fig. 3]18. In this case, we are dealing with a

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masterpiece that is still fully Baroque in spirit, in part thanks to its resplendent polychromy, but it should be remembered that only a handful of similar pieces are known today, and it is extremely unlikely that Fontana, Melotti or Leoncillo knew of them in the 1930s, or even in the 1950s. That is assuming that they might have appreciated a porcelain piece such as this (nor can we establish any telling visual parallels). In 1939, Fontana, speaking of his time at Sèvres, seemed to distance himself specifically from 18th-century porcelain: «I brought into the workshops that once served the tables of all the King Louis of France a minotaur on a leash that gored the porcelain baskets and allegories in biscuit with its horns».19 Nonetheless, it is true that polychromy is a constant feature of many Baroque sculptures: certainly not the most famous, Roman sculptures, but of those in wood, from the masterpieces of Antonio Maria Maragliano in Genova [Fig. 4], to those of Giacomo Colombo and Niccolò Fumo in Naples. And, in Venice, we should mention at least the telamons in black and white marbles of the colossal Pesaro Monument in Santa Maria Gloriosa dei Frari, a manifesto of the Venetian Baroque and a work of enormous renown.20 We could even broaden our gaze to other extremely well-known inventions of polychrome sculpture, in other words the crowded scenes of the Lombard Sacred Mountains, from Varallo to Orta, executed in terracotta starting from the 16th century and rediscovered by critics from the 1950s onwards, for which it would in any case be bold to suggest a connection with the experiments of Fontana and Melotti in the 1930s. Finally, the Neapolitan nativity scenes of the 18th century, also made of polychrome terracotta, merit a separate discussion; they certainly played a part in establishing in the collective imaginary the idea of a Baroque sculpture that was always coloured (and in a variety of materials; [Fig. 5]. Yet once again, for obvious stylistic reasons, we must rule out the idea that such pieces aroused the curiosity of our sculptors; at most, we might be able to identify subtle elective affinities [Fig. 6]. One of the first to refer to the Baroque proper, in other words the style that originated in Roman sculpture in around 1620, was Leonardo Borgese, who in 1939, identified «a sort of Berninian spirit» in the works of Fontana, and also mentioned Umberto Boccioni21. Significantly, Giolli, Morosini and Borgese all had more or less close ties to the charismatic figure of Edoardo Persico, who had written a text on Fontana in 1935 22. The mention of Boccioni brings to mind Longhi’s “Baroque breeze”. The latter, indeed, had coined this expression precisely with reference to Boccioni, and was the first to launch an extraordinary celebration of this artist in terms of movement and dynamic energy23. In this context, we should immediately quote a letter from Fontana dated several years afterwards, of 2 November 1949:

«Since the Black Man of 1929, the problem of making art has becoming instinctually clear to me, neither painting nor sculpture, not lines delimited in space, but the continuity of matter in space. For this reason, no M. Rosso, but rather the plastic dynamism of Boccioni, and thus absolute splashes of colour on the forms to abolish the sense of plasticity and materiality, nothing definitive in this sense»24.

In other words, Fontana claimed to have imitated Boccioni already in 1929, along the lines of “plastic dynamism” and thus, to use Longhi’s words, connected himself to that vein also underlain by the tradition running from Bernini to Medardo Rosso (despite Fontana’s attempts to deny the influence of Rosso on his own works, it nonetheless seems evident, above all, as we will see, in the 1930s). But it was thanks to a fundamental article by Enrico Crispolti, Carriera “barocca” di Fontana, published in 1959 in Il Verri, a cultural magazine directed by the philosopher Luciano Anceschi (also engaged in the process of re-evaluating the Baroque), that the image of a Baroque Fontana became commonplace25, in part because a group of Spatial Concepts of 1954-1957 (and thus of abstract compositions) were subsequently catalogued by Crispolti himself under the collective name of Baroques26. Despite this whole wide-ranging debate between the 1930s and 1950s, detailed comparisons with 17th-century figurative sources were attempted only much later, and without any philological backing. Crispolti himself, indeed, illustrated a text that he published in the aforementioned Lucio Fontana: metafore barocche (2002) with side-by-side reproductions of a small model (no longer considered original) for the Fountain of the Four Rivers by Bernini and a ceramic piece of 1935-36 (Grapes, Vine Leaf and Melon), making a purely visual suggestion, based on the shared nature of the two pieces as sketch models, in other words without even mentioning the 17th-century terracotta in the text27. The label Baroque is also used by the critics of the time to stress the strong contrast between some figurative trends and the rhetorical and monumental style pursued in the official art of the Fascist era. The full expression of the Return to Order in Italy, in other words the severe painting and sculpture of the Novecento movement, was polemically countered by the seething matter of the masters of the Roman School, Mario Mafai and Scipione, and in the latter, as is known, the allusion to the 17th-century Rome of Piazza San Pietro and Piazza Navona is explicit in his Cardinals [Fig. 7]. Opposing the candour of the Stadio dei Marmi and of the EUR district is the “Barocchetto” of the Garbatella district [Figs 9-10]. It is thus clear to see why Longhi, when he spoke of a «mournful Barocchetto artist» with reference to Leoncillo, described as an «expressionist of the Roman school» had all this in mind, this cultural context (and its underlying political implications),

19 Campiglio 1994, p. 37. 20 The polychrome sculpture of the Baroque period had already been appreciated and copied in the 19th century, see Bacchi 2018, pp. 14-16.

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24 Lucio Fontana 1999, p. 249.

21 Crispolti 2002, p. XLII.

25 The article of 1959 was reprinted already in 1963, and more recently in 2004, in a collection of texts for which the overall title of Carriera “barocca” di Fontana, was once again proposed, an indication of the popularity of this critical formula, cfr. Crispolti 1959 [2004], pp. 24-30.

22 Persico 2016, pp. 1137-1141.

26 Crispolti 2006 [2015], I, pp. 318-339.

23 Simonato 2018, pp. 246-247.

27 Crispolti 2002, pp. XLII-XLIII.

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but not specifically the sculpture of Bernini and his contemporaries28. For Leoncillo, too, however, various possible borrowings from 17th-century sculpture have been identified: the Roman Mother Killed by the Germans [Fig. 11] has been compared to Bernini’s Ludovica Albertoni, and the Harpy [Fig. 8] to the «ecstatic trance of the St Teresa»29. For Melotti’s female figures, too, the St Teresa has been evoked, both for their «expression, now graceful, now ecstatic»30 and for the folds of the draperies, also referenced for Leoncillo’s sculptures by Toti Scialoja already in 194631. None of these comparisons appears truly meaningful, either from the point of view of the invention and composition, or from a purely stylistic viewpoint; rather, these appear to be comparisons dictated by what, after so many years of evoking connections to the Baroque, had become almost a necessity: in other words to give historical concreteness to a critical discourse that in the eyes of the scholars themselves was perhaps in danger of becoming a generic topos. This is not to deny that in some of these works there might be some compositional allusion to important 17th-century models, as in the aforementioned Roman Mother Killed by the Germans by Leoncillo [Fig. 11] (1944), perhaps inspired by Maderno’s St Cecilia32 or by Legros’ Blessed Stanislas Kostka (but ultimately closer, perhaps, to Anna Magnani falling under a hail of Nazi bullets in Roberto Rossellini’s Roma città aperta of the following year) [Fig. 12] or again in Melotti’s three depictions of Daphne (1933), where the reference to Bernini’s marble, in the way in which the girl’s legs transform into a tree trunk, seems undeniable33; furthermore, in this latter case the iconographical theme itself, shaped by Gian Lorenzo’s masterpiece in the Galleria Borghese, made a dialogue with this model unavoidable. In short, can we speak of a 20th-century Baroque in Italian sculpture starting from the 1930s? Certainly, but we must take care to distinguish these rare borrowings from the figurative repertoire of the 17th and 18th centuries (more accurately, almost exclusively of the 18th century as we shall see), from a recognition that masterpieces by Fontana, Leoncillo and Melotti belong to a specific category of the spirit, an eternal Baroque that always reappears after a time of measure and canonical creations, or that contrasts with it simultaneously. Ultimately, the true Baroque had itself followed the Renaissance (in accordance with the classic opposition established by Wöllflin); that of the 20th century must necessarily be read in a dialectical relationship with the Novecento movement (alongside other fringe trends of the same years, like Chiarismo, which recovered the Impressionist tradition in the same spirit). However, we do not simply wish to describe this Baroque of Fontana and the others in the terms of a well-received formula coined by Frank 28 Longhii 1949 [1984], pp. 68-69. 29 Mascelloni 1990, p. 13. 30 Carboni 2003, p. 13.

Wedekind in 1917, which stated, almost provocatively, that «Kitsch is the Gothic or the Baroque of our time»34. Rather, we should acknowledge that there was a 20th-century Baroque, of which our sculptors were protagonists. In his brilliant and open-minded Baroque baroque: the culture of excess (1994), sumptuously reinterpreting Wedekind’s brilliant formulation, mixing materials from high culture with those of popular culture, Stephen Calloway reproduces and compares paintings by Alessandro Magnasco (a painter to whom we will return later) to stills showing the ballets of Vaslav Nijinsky, and countless photographs of cinema and fashion stars35. Of these, we show a highly constructed photograph by Cecil Beaton [Fig. 13], published in Vogue in 1948, reminiscent of Franz Xavier Winterhalter’s “Neo-Baroque” paintings, and that forms a perfect companion to the sophisticated, elegant ceramic women created by Melotti in the years around 1950 [Figs 14-15]. The same assonance can be identified among other similar figures by the Milanese ceramicist and the terracottas of women in stylish garments modelled by a contemporary of Winterhalter, a genuine 19th-century Baroque artist, Jean-Baptiste Carpeaux [Fig. 16]. In short, we can speak of a metahistorical Baroque that runs through different periods and genres, starting from the frieze on the Altar of Pergamon and enduring until the 20th century (and, who knows, perhaps the 21st as well), without necessarily attempting to anchor it to the Baroque proper of the 17th century. Yet, at the same time, we can also attempt to better contextualize the cultural reference points within which to insert the Baroque of Italian ceramics between the 1930s and 1950s. The birth of this felicitous critical hypothesis can be dated, as we have seen, to the early 1930s themselves, briefly anticipating the exhibition that marked Fontana’s debut as a ceramicist, held in 1938, again at the Galleria Il Milione. There is obviously continuity between those works by the sculptor that led Giolli and Sinisgalli to pronounce these judgements and the masterpieces in ceramic to which the adjective Baroque was increasingly applied: this is the marked character of both the terracotta pieces of the early 1930s and of the later ceramic sculptures as sketch models. I believe that this was the stylistic trait most evidently in contrast with the rhetoric or bombast of contemporary official sculpture, and that this was what the critic was referring to when he wrote that: «Lucio Fontana strives to break the closed form of his sculpture. Fontana cannot imagine a statue without considering its surroundings of air, of light». It is remarkable that an artist who had trained under Adolfo Wildt [Figs 18-19], an extraordinary virtuoso who executed marbles of a blinding and perfect polish, quickly moved on, thanks above all to the use of terracotta as his expressive medium, to those open forms, in constant dialogue with air and light, through which he took up the legacy of Medardo Rosso, another Baroque artist sui generis [Figs 20-21]. This seems to me a fundamental point, and I do not believe that it is an accident that the start of the interest in Baroque terracotta models can be dated precisely to the start of the 20th century: not the well-finished models, both large and small, like those, for example, that were eagerly collected already

31 Commellato 2003, p. 42; the article published in the magazine Mercurio was reprinted in Toti Scialoja 2015, p. 129.

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32 Ferrari 1960, p. 8.

34 Kitsch, the text by the author written for the theatre in which the passage quoted appears, was published posthumously in 1918, cfr. Calinescu 1987, p. 225.

33 Fausto Melotti 2003, pp. 94-95, cat. nos 3-6.

35 Calloway 1994, pp. 21, 40, 148.

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in the 17th and 18th centuries (I am thinking above all of the Farsetti collection in Venice), but the true bozzetti appreciated precisely because they were bozzetti. In 1905, in Rome, the Brandgees of Brooklyn purchased the most important group of models by Bernini, in all likelihood from the master’s workshop, masterpieces that our sculptors would certainly have appreciated [Figs 22, 25]. In 1912, these same terracottas were reproduced and discussed in the first modern American book dedicated to Bernini, an obvious confirmation of the increasing interest in artefacts of this type36. This interest peaked with Albert Erich Brinckmann’s classic studies, in as many as four volumes, Barock-Bozzetti, of 1923-1925, which reproduced an impressive number of terracottas, often barely roughed out37. The ground had clearly also been laid for the full appreciation of this style by the international success of the aforementioned Rosso. Fontana, specifically, continued his work as a modeller for a long time and still expressed himself – in Woman Undressing of 1947, for example – in those model-like forms that lend themselves to a comparison with Bernini’s masterpieces of two centuries earlier [Figs 22, 25, 27]. The year 1922 is also a fundamental date in the history of the critical rediscovery of the Baroque: in that year an imposing exhibition was held in the rooms of Palazzo Pitti devoted to the painting (but completely excluding sculpture) of the 17th and 18th centuries. The enormous publicity given to this event was accompanied by a genuine polemic that saw the involvement, with writings published in the pages of Valori plastici, of artists and intellectuals such as Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Lionello Venturi and Emilio Cecchi; connected to this debate was the emergence of a neo-17th-century style that can be seen in the works, for example, of Felice Carena38. As already noted by Crispolti, Fontana’s works of the 1930s that elicited and still elicit a comparison to the Baroque had nothing to do with this style39, but it is clear that the time was ripe for a revival, interpretable in many different ways, of the language of art of the 17th and 18th centuries. As we have seen, the Palazzo Pitti exhibition covered a very broad time-span, and many painters of the Venetian 18th century were represented, including Giambattista Tiepolo and Francesco Guardi; Fontana could not have failed to appreciate the restless and nervy style of the latter, which was also a fundamental influence on the evolution of a master of the calibre of Filippo de Pisis (in whom the reference to Guardi is obvious) [Figs 28-29], whilst Melotti, in his turn, replicated specific chromatic choices made by Tiepolo in his ceramics of the 1950s (Tiepolo pink, in particular; [Figs 32-35]). More specifically, the extraordinary popularity in these years of a master who was then being rediscovered, the Genoese Alessandro Magnasco, had an influence on Fontana’s visual imaginary. Though he is hardly ever mentioned in connection with Fontana’s Baroque production, it seems to me that it is in fact the paintings by this master that present significant points of contact with the artist’s ceramics, starting from those of the 1930s, but 36 Norton 1914. 37 Brinckmann 1923-1925 (only the first 2 volumes were devoted to Italian terracottas; the third to those of France and the Netherlands, the fourth to those of Germany).

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also those of later years [Figs 36-37]. Magnasco, from 1920 onwards, attained a truly remarkable popularity, including on the art market, to the extent that a Magnasco Society was established to promote understanding of the master through monographic exhibitions. The first of these was held in Düsseldorf, in 1920, and another opened in Milan in that same year and immediately made headlines: Carrà reviewed it in 1921 in the context of the debate alluded to above. The critical re-evaluation of Magnasco ran parallel to that of El Greco, and the two painters were grouped together under a single common denominator as visionary, irregular, highly expressive painters of nervy and sketch-like forms: in other words, the same stylistic features that characterize the terracottas and later the ceramics of Fontana. Magnasco’s popularity continued in subsequent years, with exhibitions held in London (1930) and Paris (1935).40 It is no coincidence that in 1946 Scialoja already mentioned Magnasco with reference to Leoncillo41. An assonance with the broken, edgy and tormented style of the painter can be seen in many of Fontana’s ceramics, right up to the 1950s, as demonstrated, for example, by the Christ of 1949 [Fig. 39], which in other ways calls to mind a masterpiece by a great painter of the 17th century, Rembrandt, who, though not usually classified as a Baroque artist, painted with a degree of freedom and sensuality that later became very popular among the artists of the 20th century [Fig. 38].42 When he participated in the competition held in 1950 for the fifth bronze door of Milan Cathedral (in 1952 the competition was narrowed down to a handful of participants, including Luciano Minguzzi, who was proclaimed joint winner with Fontana, and later executed the work) the artist adopted a style with clear reminiscences of late Baroque 18th-century sculpture, especially that of central Europe. In particular, it brings to mind the name of Johann Georg Pinsel, a sculptor active in the second half of the 18th century on the eastern edge of Europe, in the present-day Poland and Ukraine, whose profoundly anti-classical style, almost neo-Mannerist and neo-Gothic at the same time, was in keeping with contemporary taste: indeed, he was rediscovered at the same time as Magnasco (or El Greco), starting in the early 20th century [Figs 40-41].43 Faced with the plaster models created by Fontana for that important competition we are again reminded of Bernini’s bozzetti [Figs 22, 24-25, 42-43]. Moreover, we should also remember that at that precise moment the critical recovery of Antonio Canova’s terracottas was also beginning [Figs 23, 26], judged to be a more authentic expression of the master’s genius than his highly polished marbles, which at the time were felt to be cold academic imitations (naturally these positions were amply superseded by later studies, starting already with those by Hugh Honour, who also undertook an in-depth analysis of Canova’s creative process through those same terracottas). Magnasco, as we have said, was the most representative painter of the Lombard and 40 Geddo 1996, pp. 41-42; Mazzocca 1975, p. 875. 41 Reprinted in Toti Scialoja 2015, p. 128.

38 Mazzocca 1975; Novecento sedotto 2010.

42 It is worth recalling here that Lorenzo Fiorucci (Barocco e Barocchetto 2018, p. 26) had already suggested almost a direct filiation between works such as Red Cut by Leoncillo (1962), the Figure with meat by Francis Bacon (1954), the Slaughtered Ox by Guttuso (1939) and finally the other Slaughtered Ox by Chaim Soutine (1928): underlying the popularity of this theme, of course, is the Slaughtered Ox by Rembrandt in the Louvre.

39 Crispolti 2002, p. XLIII.

43 Pinsel 2012.

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Genoese 18th century: Fontana may have seen and become familiar with his works thanks to the Milanese exhibition, but also during his stays in Liguria. The start of the sculptor’s work as a ceramicist, in other words that for which the adjective Baroque was most often used by critics, dates to 1935. In that year Fontana met Tullio Mazzotti, called d’Albisola, a major protagonist of the revival of this technique in a contemporary key: in this context suffice it to recall that in 1938 he encouraged Filippo Tommaso Marinetti to publish, with him, the programmatic document Ceramica e aeroceramica. Manifesto futurista. However, we should immediately make a distinction: Fontana did not wish to be described as a simple ceramicist. In an article published the year after the first works of this new period were presented to the public, which as we have said was 1938, the artist wrote: «I am a sculptor, not a ceramicist. I have never thrown a plate on a wheel or painted a vase. I detest lacy details and delicate nuances […] I abhor the mystics of technique. The marvellous technical skill of Sèvres and Copenhagen serves to satisfy the taste of ladies and collectors. It is a sort of ecstasy aroused by fragile objects and half tones. I am seeking something else».44 Whilst, as we shall see, in some of his works Melotti came close to a sophisticated decorative style thanks to an appreciation of precisely those half tones so hated by Fontana (in 1979 Alberto Arbasino, in his typical style, described Melotti’s ceramics as follows: «[…] vibration, fluttering, wing, eyelid, harpsichord and “smile of the Gods”»)45, the latter always stressed the intimate plastic structure of his ceramics, concluding: «Critics said ceramics. I said sculpture»46. Giolli’s aforementioned review of 1931 had the telling title È scultura?. In that case, truth be told, the critic had been disconcerted by terracottas in which Fontana had abruptly cut all ties with the language of his teacher Adolfo Wildt, whilst the question posed by the ceramics of the second half of that decade was a different one: his inexhaustible, restless experimentalism had already led the artist on several occasions to break the rules and conventions of sculpture, in profoundly different ways. In 1935, as is known, and again at Il Milione, the first exhibition of abstract sculpture in Italy took place, at which Fontana presented works in iron and reinforced concrete, almost following in the footsteps of Alexander Calder47, incredibly distant from those in polychrome ceramic created just a few years later: in other words, he moved from a geometrical, intellectual style to one that, in comparison, could only be described as Baroque. And, let it be said in passing, it should not be forgotten that Fontana himself eventually abandoned sculpture almost completely, transferring the same richness of research into painting and space: for him ceramics had always been one of the many possible expressive media, never a technique with which to pursue decorative ends. It is true that Arturo Martini also never thought of ceramics as a revival of those «lacy details and delicate nuances» that Fontana «detested», but it is also true that the great

sculptor from Treviso had preceded Fontana (and Melotti and Leoncillo) in his experiments with this technique (later, in the mid-1930s, it seems that Melotti fired the ceramics of both Fontana and Martini in his own kiln);48 however, in the works displayed at the Galleria Pesaro in Milan in 1927 [Fig. 44], Martini never worked on the monumental scale that attracted both Fontana and the others from the outset. In his ceramics, Martini is a well-rounded sculptor, but always «at a slow pace» to use Longhi’s expression; he does not pursue the same ambition that underlies his exceptional refractory terracottas, almost as if the medium itself suggested to him an intimately decorative purpose for these pieces, as an ornament for a middle-class home. Fontana, himself, in truth, had also explored the potential of the small format in those visionary ceramic still lives that might remind us, if anything, of the paintings of de Pisis, precisely thanks to the neo-18th-century quality of a painting style alive with sudden flashes of colour [Figs. 30-31]. He described them thus: «seaweed, butterflies, flowers, crocodiles, lobsters – a complete petrified and gleaming aquarium. The material was appealing; I could shape a seabed, a statue or a tangle of hair and impress upon it a pure and compact colour that was amalgamated by heat. Heat was a sort of intermediary, making the form and the colour permanent». It is this fascination with colour and sheen, triggered and exalted by heat, alongside an occasional vocation for monumentality, that makes Fontana’s ceramics clearly distinct from those of Martini, projecting the former into the future, towards the Informal movement. Fontana’s statement in the article of 1939, «I am a sculptor, not a ceramicist» takes on an almost prophetic meaning when read alongside the incursions into the same field of the giant of 20th-century art, Pablo Picasso. Many years later, and specifically in 1948, Gio Ponti published an article in Domus in which, describing the visit of a group of Italian ceramicists to Picasso, who was living in the south of France, at Vallauris, he offered an instant snapshot of the master’s very recent fascination with the ceramic technique, stressing that precisely in Italy, various sculptors, and first of all Fontana and Leoncillo, had long paved the way for this development. The photograph printed at the start of this article showed Agenore Fabbri and Tullio d’Albisola, but not Fontana. A few years later, in 1950, Guido Ballo, giving voice to Fontana, whom he knew well, attacked what had already become a commonplace, in other words the belief that it was the great Spanish artist who had been the first to revitalize the ceramic technique in the 20th century49. At the end of the following year, in December 1951, Fontana wrote the introductory text for a Milanese exhibition of Picasso’s ceramics, describing himself as a ceramicist, a significant shift from his peremptory statement of 193950, and recollecting a previous meeting with the great Spaniard: «I remember with profound emotion the visit made to Pablo Picasso in the company of several Italian ceramicists». It is tempting to identify this visit as the event immortalized in the photos in Domus of 1948, but Fontana’s absence from these photographs remains surprising. In any case, in that

44 Campiglio 1994, p. 36.

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45 The quotation is drawn from an article published in La Repubblica on 14 June 1979, reprinted only partially in Arbasino 2014, p. 322.

48 Campiglio 1994, p. 35.

46 Campiglio 1994, p. 37.

49 Pancotto 1991, p. 25.

47 Braun 2019, p. 34.

50 Fontana 2016, p. 24.

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text of 1951 we read: «I must confess that, looking back, I felt, before his power, as a ceramicist myself, yet more enamoured of this art that has kept me occupied since I was a boy»51. Picasso, for his part, would perhaps never have fully subscribed to the Italo-Argentinian artist’s earlier, famous declaration of intent («I am a sculptor, not a ceramicist»): in other words, he would certainly have made vases and plates, those practical items that have always been made from ceramic, making use of the Vallauris manufactory [Fig. 45]. Whereas Fontana fought strenuously almost to deprive this medium of its traditional function, Picasso would have glorified it in a different way, without ever negating it. This was a central issue for anyone working in ceramics. For example, Melotti took yet another position: in an interview of 1984 later published in 1992 by Antonia Mulas, he claimed, implicitly, to have embraced ceramics precisely to exploit its ornamental and functional potential, in other words by producing vases, plates, and other objects of small size on a large scale: «Since I wasn’t able to make a living from sculpture and I didn’t like going into debt [...] I began to make ceramics. I invented a sort of ceramics that was very popular and that provided me with money, allowing me to live comfortably [...] Later, at a certain point, people realized that I wasn’t bad as a sculptor either and I gave up ceramics [...] a poet can write wonderful advertisements but at heart is ashamed to do that alone, and so I was ashamed. But when I saw Picasso’s ceramics, I thought there was no need for me to be ashamed, because mine were no uglier than his!»52.

It is no coincidence that Melotti compared his own ceramics with those of Picasso [Fig. 46]: these were pieces that in some ways belonged to the same genre, whereas those by Fontana were truly something different. Melotti, who from the end of the 1920s had developed a close and lasting friendship with Fontana, whose first teacher, Wildt, he shared, had begun to work systematically in ceramic in the mid-1940s. At the start of this experience we find a series of small sculptures, some of which are not so different from the famous terracotta Little Theatres; here we should mention one in particular, the Letter to Fontana of 1944 [Fig. 48], in which the artist almost paid a tribute of gratitude to the friend who had been the first to start working in this medium (it is worth remembering that the careers of the two artists in many ways ran roughly parallel: again in 1935, and again at Il Milione, Melotti too had displayed his first abstract sculptures). Dating to the same year, 1944, is the Story of Harlequin [Fig. 47], and in both these ceramics I seem to sense an affinity with the surrealist paintings of Alberto Savinio (an affinity that can also be seen with some youthful sculptures by Leoncillo). Indeed, if we interpret the Baroque more broadly, as the critics of the time sometimes did, in other words as a principle antithetical to classicism, it is easy to understand how the surrealist style could be brought back to this common denominator, and in

this sense I think that the painting of Max Ernst, who had displayed at Il Milione in 1931, may also have influenced the Melotti of the Story of Harlequin. The ceramics of the following years were completely different: vases, plates, cups and also those cartocci that were always and above all practical objects, which met with that significant commercial success recalled many years later by the artist who, as we have seen, attempted to distance himself from an activity that he claims to have undertaken for purely economic reasons. Already in 1974, in an interview given to Harper’s Bazar, he had stated «I am not particularly fond of ceramics»53. Unlike Fontana, then, Melotti saw a profound difference between the work of a sculptor and that of a ceramicist: whilst the former, in stating that he was a sculptor and not a ceramicist, claimed for this material a status equivalent to that of marble or bronze, the latter never made this leap in part because, as we have said, he had accepted what we might describe as the traditional role of ceramics. This point remains valid even taking into consideration the fact that Fontana himself made plates and decorative objects, in particular from the 1950s onwards, about which Garibaldo Marussi expressed some reservations; reviewing an exhibition by the artist in 1950 (Milan, Il Milione) he wrote: «The works that Fontana presents today are almost all plates, large plates to be hung on the wall to enliven the atmosphere of a room [...] they are overloaded, sometimes overly mellow [...] overabundance [...] turgidity [...] tumefaction [...] are the danger that Fontana runs today»54. It is natural to conclude, in the light of what we have said so far, that Marussi found this Fontana to be a little too Baroque. As concerns this critical issue (ceramics as sculpture versus ceramics as plates and vases) Leoncillo’s position was essentially identical to that of Fontana. Already in 1947, Gio Ponti, in an article published in a Swiss magazine (in German, English and French), devoted mainly to the fine Caryatids for a balustrade of about 1945, wrote: «Now, face to face with his powerful work we see how true this is. And we see that what might separate sculpture from ceramic and relegate the latter to the level of learned infancy and the standard of a vain decorative toy, has been left far behind»55.

Leoncillo’s axiom, to which Gio Ponti referred here, was quoted again by the same author in the aforementioned article of 1948 on the visit to Picasso at Vallauris: «Sculpture without colour is not sculpture, it is architecture»56. The great master of Italian design was responsible for launching Leoncillo on the international stage in 1940 by inviting him to the Milan Triennale, where he won the gold medal for the applied arts. The sculptor from Spoleto had made his debut in 1939 as a ceramicist, and in this same year had modelled the busts representing The Four

53 Carboni 2003, p. 12. 54 Pancotto 1991, pp. 22-25.

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51 Fontana 1951, p. 24.

55 Ponti 1947, p. 217.

52 Mulas 1992, pp. 30-31.

56 Ponti 1948a p. 25.

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Seasons (Rome, Palazzo Merulana, Cerasi collection), in which the iconographical theme, too, alluded to distant 17th-century precedents, certainly viewed through the lens of 19th-century sculpture, starting from the aforementioned Carpeaux [Figs 49-50]: indeed, Longhi, in that «tiresome Baroque breeze that lasts from Bernini to Rosso» tellingly included the name of the Frenchman57. Leoncillo, unlike Melotti, never repudiated this work, to which he remained faithful throughout his career: Leoncillo never worked in either marble or bronze and, very unlike Fontana, he did not follow a path that led from sculpture to painting (not to mention Spatialism); he is a proud sculptor in ceramics. Nonetheless, Leoncillo, just like Fontana, and above all like Melotti, made practical objects; indeed, he did not stop at plates and vases, but created astonishing coffee services (like Melotti), almost as if to underline the unique nature of these pieces, generally considered to be serially produced objects of little value. But ultimately this is a minor part of Leoncillo’s oeuvre, and so for him the discussion must remain very different to that proposed for Melotti. Obviously, it goes without saying that the latter’s aforementioned vases and cartocci are also now obstinately (and rightly) catalogued singly in the monographs, as unique pieces (as they are), almost as if to contradict the statements of the artist, who did not wish to see himself in this production, viewed as more commercial than his abstract sculptures. Now, as concerns Leoncillo, it was above all Longhi who associated him with the concept of Baroque, and the writings of the great scholar were subsequently repeated without any significant corrections. For Longhi, Leoncillo was not Baroque for his open forms, or for the “Spatialist” potential of his terracottas, which are rarely monumental, but rather for his opposition both to the art of the Fascist regime, and thus to the Novecento movement, and for his flashes of colour, in other words the fact that his sculpture was always painted sculpture. It is obvious that Leoncillo might identify with such a reading. With Leoncillo, though, we must return to the issue of Picasso, but this time in a completely different vein. From the second half of the 1940s, Leoncillo’s ceramics betray the strong influence of Cubist language, in itself not easily associated with the category of Baroque. The sculptor never denied this rapport, almost rejecting Longhi’s interpretation, which tended to downplay it, at least in 1954, the year in which he published his brief but rich monographic essay on the artist: «Already in the group, or should we say the outline of the Miners, there is less trace of the distinction between the syntax derived from Cubism and the recognizability necessary for the humble subject. Leoncillo insists on saying that Picasso’s famous Musicians still peep out of them; but I am unable to recall them when faced with the new humility of human endeavour […]»; again, with reference to the Night Bombing of 1954 (Rome, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), Longhi glossed: «also known as the Guernichetta or Little Guernica for its allusions, albeit purely thematic, to Picasso’s famous painting»58. Among other things, it is worth noting that ten years after the Roman Mother, Leoncillo continued to tackle subjects linked to the theme of war as seen

through the eyes of its innocent victims (Longhi himself spoke of a «complete pity that can take on and drag with it its agony of space, of existence and of catastrophe»): Leoncillo’s moral and ethical engagement was still very much alive. If we consider the artist’s entire oeuvre, including that belonging to his informal period, in itself lacking an explicit narrative content, this atmosphere remains constant; possible exceptions are his creations of the very early 1940s, in particular the Trophies [Figs 54-55], on display here next to their models, felicitous re-readings of the Baroque panoplies (in turn alluding to those of imperial Rome) for which Leoncillo seems to have revived motifs from the imaginary of Gio Ponti, perhaps in part through the lens of the surrealist Savinio [Figs 51-53]. Longhi, in 1954, had before his eyes an important span of Leoncillo’s production, from his more expressionist debuts linked to the Roman School of Scipione and Mafai, but also the civically engaged painting of Renato Guttuso, up to the Cubist turn that, pace Longhi, had had a profound impact on the master’s art. Guttuso himself penned an instant review of that text of 1954, debating the concept of realism in the works of Leoncillo in a long-distance dialogue with Longhi59. Recently, attempts have been made to decipher the meaning of the Roman painter, who had dared to «nitpick over Longhi, who in his view continued to mistake the populism of the 17th-century paintings of beggars for realism»60, but in fact it is difficult to read this implication into Longhi’s text, nor does this seem to have been Guttuso’s interpretation of it. The formula «mournful Barocchetto from Spoleto» encapsulated several critical intuitions: the aversion to a triumphalist style and the artist’s choice of an out of the way location, between Umbertide and Spoleto, alongside the rejection of abstract intellectual formulas. But Leoncillo’s later sculpture, that which is now most popular, in other words his informal phase, was also subtly or implicitly Baroque. For this reason, I find a passage by Massimo Carboni on Melotti particularly apt: «[...] that imperious presence that could be described as lying between the Baroque and the material informal associated with colour»61. Though Leoncillo, who had trained in Rome and settled in Umbria, occupies a position that differs from the Milanese duo Fontana-Melotti, the links between these three artists were evidently close. This is confirmed by the aforementioned ties to Gio Ponti of both Leoncillo and Fontana, and later the simultaneous presence of Leoncillo and Fontana, with two genuine solo exhibitions, at the Biennale of 195462. Leoncillo’s uninterrupted work as a sculptor-ceramicist profoundly distinguishes the Spoletine artist from his colleagues, who at different points abandoned the technique; Fontana, as we know, did so to pursue his own highly personal and complex path that, though disconcerting at a superficial glance, now reveals itself to be unusually coherent in the context of the Italian 20th century. Melotti, for his part, explained another one of the reasons that had always made his relationship with ceramics a conflictual one:

59 Guttuso 2013, pp. 380-384. 60 Del Puppo 2019, pp. 126-127.

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57 Longhi 1914 [1961], p. 133.

61 Carbone 2003, p. 12.

58 Longhi 1954 [1984], pp. 72, 74.

62 Del Puppo 2019, pp. 119-126.

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«For me, ceramic is a mess. It is an amphibious thing and beneath it all there is always some small deception, because you can never know exactly what you are doing. There is a supreme controller, heat, which builds up behind you and ends up directing operations. Whatever you do, he puts a comma in there at the end, and this will always be annoying to an artist. At least, it annoys me if there’s someone putting commas in what I say or write»63.

Hoping that Melotti will not take it the wrong way, we will also try to put some commas in what he had said in this interview of 1974. Fontana is better known internationally today above all for the now iconic Cuts and Holes; Melotti wished to be remembered as an abstract sculptor: both, at different times and in different ways, were moving towards a less material, more conceptual style. The fundamental recent monographic exhibition that the Metropolitan Museum in New York devoted to Fontana in 2019 did justice to his entire career, thus including his work as a sculptor in ceramic. If Melotti insisted on downplaying, paradoxically, enchanting masterpieces such as the female figures on display here, it was in part because these, enlivened by a capricious imagination, must have seemed to him all the further from that geometrical rigour that was the other face of his artistic personality, developed in abstract sculpture. And he ascribed to heat the responsibility for an unhindered flight (Baroque?) antithetical to that serious nature that he considered an intrinsic part of his research as an early abstract artist, loftier and more serious (classical?). That same eternal dichotomy, again and always that of Wölfflin, between the Baroque and the classical, can also easily be read, between the lines, in another key passage of that text by Longhi that we have mentioned several times:

Umbrian artist from the selection of sculptors destined to figure in the series Maestri della scultura for the 20th century: how surprising this choice was can be discerned from the tone of the 1968 letter with which Francesco Arcangeli communicated this news to Leoncillo himself, quoting in full the text of a missive sent to him by Franco Russoli, the co-director of the series: «My dear friend, I am sending you the piece by Raimondi [Giuseppe] which I hope will not upset you. Russoli also writes to me ‘As concerns Leoncillo – whom I saw in Venice– I also believe that he is an artist who has delivered his ‘message’ with full poetic dedication […] For the ‘Masters of Sculpture’, Fabbri will not have a monographic issue as only Rosso, Boccioni, Martini, Manzù, Marini are included on the list, given the limited number of issues. However, there will be supplementary and compendiary issues, where Leoncillo will also have his part […]’. As you see it’s not all bad […] your Momi»65.

In this «supplementary and compendiary» volume, published the following year, a ceramic piece by Leoncillo was reproduced depicting the famous theme of the Roman Mother Killed by the Germans (1944), in other words, a particularly representative work by the Leoncillo dearest to Longhi: almost fifteen years had passed since the Informal turn taken by the artist, who, in deference to Longhi’s idiosyncrasies, went down in history as the exponent of a “mournful Barocchetto”.

«try to ask those others [contemporary Italian sculptors] what we are dealing with; and we will get the most pretentious nonsense: to attain the pebble – pure volumes – sense of the block – cube – sphere – egg – sprout – gland – monument. It is telling that the responses, regardless of the differing terminological tone, come back almost identical from the most varied academies: the attention-seeking Brancusi or Moore, the luxury abstractionist, will reply, roughly, in the same terms as Dazzi or Messina»64.

This absolute condemnation of abstractionism, which could certainly include Melotti’s favourite works, served to introduce an appreciation of Leoncillo’s sculpture: «the volumes are not pure, but replete and dripping with tone from inside and outside». Leaving aside all the distinctions made above, an intimate Baroque essence in this artist’s ceramic sculpture seems to be to be confirmed, endorsed almost, by a simple consideration: it was appreciated as such by the person who, like few others, contributed to the rediscovery and re-evaluation of the Baroque. It seems plausible, then, that Longhi, a great admirer of the Barocchetto artist Leoncillo, viewed the informal Leoncillo with greater diffidence [Fig. 56]. This would also explain the exclusion of the 63 Carboni 2003, p. 12. 64 Longhi 1949 [1984], p. 68.

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65 Fiorucci 2019, p. 242.

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ART WORKS Roberto Cobianchi


Lucio Fontana

Clam and Coral, 1936 Polychrome ceramic, 17 x 31 x 23 cm Provenance Milan, Galleria del Milione Milan, private collection «Depths of the sea, depths of the soul: Lucio Fontana’s ceramics preserve impressed upon them the drama of faraway waves and that of a living hand; the man and the waters have left coloured reflections upon them as a witness to their history»1. Thus the architect Ernesto Nathan Rogers began his review of the exhibition of Lucio Fontana’s ceramics held in April 1938 at the Galleria del Milione in Milan2, reproducing this work too with the title «Marine Elements». The sculpture appears with the title «Moule et corail, gris et noir/Shell and Coral; gray with black reflections» in the bilingual monograph that Erich. E. Baumbach devoted to Fontana and that was published in Milan in the same year3. As has been noted, it was Baumbach himself who first saw in Fontana’s ceramics «the same drive towards innovation that has hitherto only been acknowledged in his sculptural works and his drawings»4. Clam and Coral was modelled and glazed in the first phase of the experimental encounter between Fontana and ceramics, at Albisola, working side by side with the extraordinary Futurist «potter» Tullio d’Albisola (Tullio Mazzotti) and “offered up to the flames” in the kilns of the manufactory founded by the latter’s father Giuseppe. Tullio d’Albisola and Fontana had met, as the former recalls, thanks to the art critic Edoardo Persico, who died prematurely in 1936, before his thirtieth birthday, and who must also have suggested the idea that the two collaborate: «Lucio Fontana was introduced to me by Edoardo Persico, in Genoa, on the monumental staircase of Palazzo Ducale during the Exhibition of wall sculpture of ’34… I enthusiastically accepted the idea of a ceramic version of unique pieces directly modelled by the sculptor of the mad horses. But Fontana only came to our kilns after the departure of his and my dear friend, in ’36. Since then, a hundred marvellous unique pieces with reflective and precious glazes bear his signature alongside the simple marks of the old potter of Albisola, and as

many, in wonderful vitrified sculptures, the famous crown of the Royal porcelain factory of Sèvres (1937)»5. Indeed, in the summer and autumn of 1937, Fontana had gone to work at the Sèvres manufactory, where he discovered a new material, grès, with which he later modelled polychrome masterpieces such as the monumental Italic Torso. Some years later, in a famous programmatic declaration of his understanding of ceramics as a sculptor and not a ceramicist, Fontana also recalled his beginnings at Albisola: «It was not until 1936 that I began my real work in this field [ceramics] at the Mazzotti factory in Albisola with about fifty pieces: seaweed, butterflies, flowers, crocodiles, lobsters – a complete petrified and gleaming aquarium. The material was appealing; I could shape a seabed, a statue or a tangle of hair and impress upon it a pure and compact colour that was amalgamated by heat. Heat was a sort of intermediary, making the form and the colour permanent»6. The astounding quality of the colours and iridescences of Clam and Coral, like that of its companion pieces in the magical seabed to which it belongs – like Coral and Black-and-Green Seashell or Octopus and Coral – continue to enchant us today like a dreamy dive «dans le Poème de la Mer, infusé d’astres, et lactescent, devorant les azures verts», from which we resurface, imperiously summoned back to reality by the «rough and anti-academic way in which the hand shaped the earth»7; the guileless hand of the sculptor Fontana who «detests lacy details and delicate nuances»8.

1 Rogers 1938 (the article is now reproduced in Campiglio 2014, Plts 5-9). The work is catalogued in Crispolti 2006 [2015], I, p. 165, no. 36 SC 6.

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2 Major subsequent exhibitions: Milan, Palazzo della Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, La scultura colorata. Il colore del vero, 21 June - 6 September 2001; Bologna, Galleria d’Arte Moderna, La natura della natura morta da Manet ai nostri giorni, 1 December 2001 – 24 February 2002; Genova, Palazzo Ducale, Fontana. Luce e colore, 22 October 2008 - 15 February 2009; Paris, Galerie Karsten Greve, Lucio Fontana. Scultura/Sculpture, «Io sono uno scultore e non un ceramista», 31 March – 23 June 2012; New York, Metropolitan Museum of Art, Lucio Fontana: On the Threshold, 23 January – 14 April 2019 and Bilbao, Guggenheim Museum, Lucio Fontana: En el umbral, 17 May–29 September 2019.

5

3 Baumbach 1938, p. 53 (the monograph is reproduced in Campiglio 2014, Plts 10-65).

7 Rogers 1938 (reproduced in Campiglio 2014, Plts 5-9).

4 Pancotto 1991, pp. 13-53.

8 Fontana 1939 (reproduced in Campiglio 2014, Plts 75-76).

d’Albisola

1939 (reproduced in Campiglio 2014, Plts 68-74).

6 Fontana 1939 (reproduced in Campiglio 2014, Plts 75-76). See also Campiglio 1994.

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Lucio Fontana

Christ, 1949 Ceramic with reflective glaze, 58 x 26.5 x 8.5 cm Signed and dated under the base: L. F. 49 Provenance Rome, private collection This exceptional Christ in ceramic with a reflective glaze was presented by Lucio Fontana at the 1950 Venice Biennale, and published contextually in the exhibition catalogue dated the same year1; in reality, the piece had been executed during the previous year, as demonstrated by the autograph date on the underside of the base2. Fontana participated in this important international event in Venice with a set of ceramic pieces, «crockery and Christs»3, whose force as «true sculpture», despite the stance often reiterated by the artist – most famously in 1939: «I am a sculptor, not a ceramicist»4 – was nonetheless remarked already by Attilio Podestà in his review of the exhibition: «Of the three major names [in Italian sculpture of the «middle generation»], Fontana, Mirko and Fazzini, only the first is present at the Biennale and is also present to himself, with pieces of true sculpture: even though the good Fontana continues to repeat that he has made these ceramics as a diversion, since sculpture is now dead according to the meaning given to this work until the present»5. After leaving the kilns of Albisola on his return to Argentina in 1940, where he taught as well as working as an artist, when he came back to Italy in the spring of 1947 Fontana immediately resumed modelling, firing and glazing new and extraordinary works at Albissola Marina; more specifically: «The sculptor lives at Pozzo Garitta (a marvellous little courtyard where the first ceramic kilns in Albisola stood centuries ago), in a large room furnished in exquisite taste»6: the studio-residence that he was to maintain until the end of the 1950s. This is a key decade, in which Fontana alternates between figurative subjects like our Christ, certainly more immediately accessible to the public but not for this reason requiring less effort from the artist, and Spatialist works, in a dichotomy whose weight he sometimes felt: «if I can, I will leave for Pozzo Garitta to-

morrow […] hoping to settle down until September. Producing tons of ceramics that are ultimately more profitable than my holes, of which I am unfortunately still so fond!!»7. It was from the 1940s onwards that the sculptor truly opened up to the expressive potential of the glazes and reflective metallic effects added during the third firing; he had certainly made occasional use of these in the late 1930s, in the early production fired in the kilns of Giuseppe Mazzotti (MGA Mazzotti Giuseppe Albisola) – see for example the Victory, the Stag or the Cockerel –, but that now took on new vigour thanks in part to the highly specialized technical assistance of Tullio d’Albisola’s brother-in-law, Giuseppe Baldantoni8. In March 1949, writing to the sculptor Pablo Edelstein, who had been his student at the Altamira Academy, the school that he had founded in Buenos Aires in 1946, Fontana also reveals his interest in this technique and his satisfaction at the results obtained: «How is your ceramic kiln going? [...] Do you make ceramics with reflective glazes? I have made some marvellous ones here, are you interested?»9 One of these «marvellous» ceramics is our Christ. Many masterpieces are characterized precisely by this reflective surface, starting from the Via Crucis of 194710; the coral-Via Crucis11, as it was described by Gio Ponti, to which the Christ is related not just formally, but as one of the most precocious and intense high points of this production, born out of an identical dramatic tension between form, light and colour: a teeming “Baroque” form, subverted by purplish gleams that traverse it unstoppably, in which the pale body of Christ, hanging from the concrescence of a cross in mourning garb, takes material form and simultaneously dissolves like ectoplasm. In 1962, in the introduction to the catalogue of the exhibition dedicated by the Pater gallery of Milan to Fontana’s ceramics, Marco Valsecchi recollects the master with nostalgic pleasure: «…on returning to his home country, to Albisola, next to the kilns of Tullio Mazzotti. His agile fingers rapidly rotating the damp clay, the decisive thumb marking the ditches, the caverns, or more accurately undoing the hard resistance of the surfaces: dancing figures in the freshness of the naked body, gladiators in combat, dizzying Harlequins, and the crucifixes that, I am not sure how, resemble certain Baroque holy water containers kept at the head of the bed: portable altars, contorted and swollen with volutes to form a triumph of the innocent domestic imagerie»12. Thanks to his presence and his work at Albisola, Fontana also helped to support cultural life in a small town that in the space of a few years became one of northern Italy’s most lively artistic centres, frequented habitually by many other artists who wished to try their hands at ceramics, including Aligi Sassu, Agenore Fabbri, Asger Jorn, Giuseppe Capogrossi. It is thus no coincidence

1 Biennale 1950, p. 175, Plt. 49. 2 As well as in the catalogue of the Biennale, the work is reproduced in Podestà 1950, p. 123; Cairola 1981, p. 205, Plt. XVII; Crispolti 2006 [2015], I, no. 49 SC 18, p. 218. Registered at the Lucio Fontana Foundation of Milan as number 420/3. 3 From a letter from Fontana to the architect Mario Bardini of 7 July 1955, in Lucio Fontana 1999, p. 138. At the 1950 Biennale, Fontana exhibited, in addition to our Christ, two large plates with battles.

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7 From a letter from Fontana to the architect Mario Bardini of 7 July 1955, in Lucio Fontana 1999, p. 138. 8 Bochicchio 2018a, pp. 81-84. 9 From a letter from Fontana to Pablo Edelstein of 25 March 1949, in Lucio Fontana 1999, pp.107-110, a p. 108.

4 Fontana 1939 (reproduced in Campiglio 2014, Plts 75-76). See also Campiglio 1994, pp. 34-41.

10 Crispolti 2007.

5 Podestà 1950, p. 123.

11 Campiglio 2005, p. 128.

6 Fabiani 1961 (quoted in Pancotto 1991, p. 33).

12 Valsecchi 1962 (quoted in Pancotto 1991, p. 33).

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that, already on 18 October 1952, the town council of Albissola Marina decided to make the «sculptor Lucio Fontana» an honorary citizen13. The Christ has never changed hands and has been jealously kept by the family of the first collector who purchased it at the Venetian exhibition of 1950. The selling price, as stated by the lable still glued at the base of the piece, was 300,000 Liras

Lucio Fontana

Bullfight, ca. 1950-55 Polychrome ceramic, 38 x 73 x 8 cm Signature on the bottom left: l. fontana Provenance Canada, private collection Private collection (courtesy of Galleria dello Scudo, Verona) This Bullfight exemplifies Lucio Fontana’s finest ceramic production of the 1950s, though it belongs to a period in which figurative themes begin to be accompanied by Spatialist experiments1. The subject of the relief, already favoured by Picasso, was, together with that of the battle, also among those preferred by Fontana, who developed it principally in large plates whose edges sometimes «open out at the extremities as if in so many lobes of leaves or so many petals»2, as they were described, in a judgement full of reservations, by Garibaldo Marussi in his review of the exhibition that the Milanese gallery Il Milione dedicated in 1950 to Fontana’s ceramics; however, these critical reservations remained an isolated instance within a reception that was generally enthusiastic and constant for this aspect of the artist’s production. A significant parallel is the large plate with a Bullfight in a private collection with flecks of gold added during a third firing, executed in 1950 at the La Fenice manufactory at Albisola Capo3. However, in its rectangular format, strongly horizontal and lacking any hint of a functional purpose, the relief establishes a dialogue with the initial three-dimensional transpositions of the Spatial Concepts, in which the clay is repeatedly pierced or scratched4. Here, by contrast, the malleable material is raised at the top of the plaza de toros, scratched with abrupt, nervy movements to give life to the matador – an agile dancer– and to the bull, and, here and there, struck with quick “swipes”. The masterful final touch is given to these very concisely rendered forms by the polychromy, which illuminates them with a profoundly dramatic meaning that calls to mind Ernest Hemingway’s words in Death in the Afternoon (1932): «Bullfighting is the only art in which the artist is in danger of death and in which the degree of brilliance in the performance is left to the fighter’s honour».

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Lucio Fontana

Leoncillo Leonardi

Bronze in two parts, 80 x 133 cm Signature and date on the bottom left: l. Fontana/52

Polychrome ceramic, 62 x 25 x 23 cm Signed: Leoncillo

Provenance Trivero, private collection Private collection

Provenance Rome, Amerigo Terenzi collection Rome, Apolloni collection (courtesy Galleria del Laocoonte)

During the 1950s, Lucio Fontana devoted numerous ceramics to the topic of bullfighting, principally plates and some plaques, one of which is on display in this exhibition. However, this Bullfight, almost monumental in its scale, is exceptional because it is cast in bronze1. After the funerary sculptures of the 1930s, which reached their peak with the Redeemer for the Castellotti Monument, and before the Spatialist cycle of the Natures (1959-60), the transmutation into metal of modelled clay is a truly rare “alchemy” in the sculptor’s oeuvre: an exception are the Horses Following Victory of 19362 – a presentation model for a colossal celebratory group made in plaster for the Salone della Vittoria at the VI Milan Triennale –, and a few other pieces, including a Bullfight in painted lead, finished with surface scratches, strongly characterized as a technical experiment3; by contrast, our bronze maintains all the immediacy of Fontana’s most free and virtuoso sculpture, and the jagged creasing of the surface is taken to an extreme: one piece detaches itself to float freely in space. This separation of the parts characterized some ceramics of these years, like the very elegant Madonna and Child with Angels of 19564, made up of two elements, and culminating on a monumental level with the high relief in painted and glazed refractory clay that decorates the façade of the church of the Assunta at Piani di Celle Ligure (1956-1958), in which Paolo Campiglio has rightly recognized «an instance of sacred sculpture analogous to the figurations executed on ceramic plates, in an architectural dimension […in which] the figures [...] draw life from the contrast between the dynamic and magmatic matter of the sculpture and the flat surface of the façade»5. Whilst the bronze Bullfight is similarly unable to do without the back wall to come to life and do justice to the internal dynamism that animates it, the isolated “chip” is pure abstraction, devoid of any narrative responsibility and yet essential to the spatial completeness of the work.

Together with the Harpy and the Hermaphrodite, the Siren1 makes up an extraordinary group known as the Monsters, «three imaginative caprices, splendidly fired, multicoloured and glazed»2, as they were described by Ercole Maselli, exhibited in 1940 at the Milan Triennale, to which Leoncillo had been invited by Gio Ponti, and then again in 1943 in Rome– a few months before the Nazi occupation of the city– at the Galleria dello Zodiaco, founded shortly beforehand by the exuberant and beautiful Linda Chittaro3. At this collective exhibition entitled Giovani artisti italiani (Donnini, Leoncillo, Purificato, Scialoja, Turcato, Valenti, Vedova), the painter Virgilio Guzzi immediately saw not just the beauty and originality of Leoncillo’s pieces, but also that they were light years away from the decorative qualities inherent in ceramics: «A very important time for art ends this year at the Galleria dello Zodiaco with an exhibition by some very young artists. Some, like Scialoja, Purificato, Vedova, Valenti, were already known, others, like Leoncillo, Donnini and Turcato are revealing themselves to us today for the first time. Of the three unknown artists, we should immediately say that Leoncillo is the one who appears to our eyes as an artist who is already mature and original. His ceramics should without doubt be described as magnificent: and certainly not just for the rare splendour of the glazes, but for the originality of the invention, the vitality of their expressionist and Baroque contortions. And for a mythology that in the hands of this Umbrian modeller and painter works extremely well, and leads us to think of a poetic sentiment that might be the equivalent of certain states of mind and fantasies of Scipione. The Siren, and especially the Harpy, where those red tones attain a strong sensual intensity, and thus a lyrical quality of extreme rarity, are works that can certainly not be judged as products of the decorative arts. The fact is that we find ourselves in front of a new artist. The witty (and mournful) ceramicist is above all a poet who may reserve the most welcome of surprises for us»4.

Bullfight, 1952

Siren, 1939

1 In general on this work see the critical comment by Enrico Mascelloni in Leoncillo 2018, pp. 40-45. 2 Maselli 1943 (quoted from Appella 2002, p. 118). 3 Major subsequent exhibitions: Spoleto, Chiostri di San Nicolò, Leoncillo. Esposizione antologica, 8 July – 8 September 1969; Rome, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Leoncillo 1915-1968, 19 September – 28 October 1979; Rome, Galleria W. Apolloni – Spazio Babuino 136 – Galleria del Laocoonte, Leoncillo. Le Carte e le Ceramiche, 29 October 2018 – 28 February 2019. 4 Guzzi 1943 (quoted from Appella 2002, p. 117)

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In 1939, a few years after his move to Rome in 1935, Leoncillo had moved to Umbertide, the epicentre of Umbria’s ceramic production, intending to perfect his technique and make use of the kilns of the Rometti manufactory, whose artistic director between 1929 and 1934 had been Corrado Cagli; it is in these kilns that the Monsters too were fired. The Siren is a masterpiece that draws life from the artist’s natural, yet simultaneously hard won and sensual, ability to shape the clay with strongly expressive accents, capable of superseding the reference to myth, companion to the almost contemporary – and also extraordinary – experiences of so many protagonists of the Roman artistic avant garde of the 1930s, starting with Cagli and Mirko Basaldella, gathering up the subtle threads of an approach that, as was precociously stressed by various critics, runs from Medardo Rosso to Scipione5. Whilst the volumes of the Siren are anything but pure, but rather «replete and dripping with tone from inside and outside»6 – to quote Roberto Longhi – , and would have been so regardless of the specific technique, the combination of colour and light typical of ceramics renders the figure pulsating and tragically alive. Formerly owned by an influential member of the PCI (Italian Communist Party), who was also an intellectual with clear artistic leanings, Amerigo Terenzi – a member immediately after the liberation of Rome in 1944 of the committee that organized the exhibition L’arte contro la barbarie. Artisti romani contro l’oppressione nazi-fascista, a brainchild of the newspaper l’Unità, in which Leoncillo participated with the two versions of the Roman Mother Killed by the Germans, for which he won the joint first prize for sculpture – the Siren is the only piece in the «trilogy» not to belong to a public museum: the Harpy, formerly in the collection of Cesare Brandi, and the Hermaphrodite are now in the Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Rome.

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Leoncillo Leonardi

Two Trophies (models), 1940 Polychrome ceramic, 46 X 14 X 17 cm each Provenance Rome, Cipriano Efisio Oppo collection Rome, private collection These two “Leoncillian creations” are the preparatory models for the monumental Trophies intended to decorate the Palazzo della Civiltà italiana at E.U.R., commissioned from Leoncillo in late 1940 through the offices of Cipriano Efisio Oppo who, as the vice president of the Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma, was also personally involved in selecting the art works to be placed in the buildings for the Universal Exposition planned for 1942 (E 42)1. Executed at Umbertide, where Leoncillo had been living since 1939, the models – about a third of the size of the definitive pieces – had been approved nine months earlier if we are to believe the words of the sculptor, who mentioned them in a letter of July 1941 in which he complained to Oppo of the inexplicable and repeated postponement of the signature of the contract2. The ambitious project for E 42, dreamt of from 1935 when Rome announced its candidature to host the exhibition, had begun to waver after Italy’s entry into the war. However, the dreams of glory of the new-born empire took a long time to dissipate, and for Leoncillo too there was time to sign the contract for the two Trophies on 24 November 1941, and to deliver the finished works3. Oppo came into possession of the models for the Trophies and also owned other masterpieces of Leoncillo’s early phase, of which he had certainly become “enamoured” when he saw them on display at the VII Milan Triennale between April and June of 1940: the four female busts representing the Seasons (1939). Kept together in their collecting history, the two models can be seen here for the first time with the finished works, allowing us to fully appreciate that the sculptor”s imagination had from the outset, and without hesitation, taken an anti-academic path, highly imaginative and expressive. Leoncillo responded to the theme inspired by the glory of imperial Rome, certainly suggested by Oppo, with that extreme freedom, full of irony and rebellion, that only his “sculpture with colour” had and continues to have.

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Leoncillo Leonardi

Two Trophies, 1941 Polychrome ceramic and glazes, 130 x 36 x 36 cm Signed and dated on the base: Leoncillo ‘41 Provenance Milan, private collection This exceptional pair of Trophies, created to decorate the interior of a public building, the Palazzo della Civiltà italiana in Rome, should be counted among Leoncillo’s masterpieces for their virtuoso technique, chromatic qualities and inventive fantasy. The sculptor was asked to make the two works– in late 1940 – by an illustrious admirer, an individual who succeeded in combining his artistic work as a painter and that as a militant critic with political engagement as a member of parliament and, above all, a tireless effort to promote culture in his directorial roles at the Sindacato Nazionale Fascista delle Belle Arti: Cipriano Efisio Oppo. From 1936, Oppo was also heavily involved, as the vice president of the Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma, in the organization of artistic competitions and initiatives connected to the preparation of the Universal Exposition planned for 1942 (E 42). It was in this competitive context that the commission from Leoncillo of the Trophies took shape, destined for the most famous of the buildings in Rome’s E.U.R district, that funded by the senator Giovanni Agnelli, on whose four identical façades we read in capital letters Mussolini’s saying: «A people of poets, artists, heroes, / saints, thinkers, scientists, / navigators, transmigrants»1. From Umbertide, to which he had moved in 1939 so he could work at the kilns of the Ceramiche Rometti manufactory, on 2 April 1941 Leoncillo informed his client that he was unable to complete this project in accordance with the plan agreed, though work was already at an advanced stage: «Your Excellency, I have worked for forty days on the two “Trophies”; they are now ready for completion, ready to be worked up in ceramic, but just today I have been overcome by a multitude of scruples, preventing me from continuing my work. Large as they are, they seem extraneous to my particular inspiration, they seem to me to have betrayed the appeal of the topic. Forgive me, it is all my fault. I think I should make them smaller, or combine the inventions of the two into one very intense work. I write to ask for your sympathy, to know that you are nonetheless awaiting my work, as long as it is beautiful. You can be certain of this. I will make something very beautiful. For this reason, I can’t at present carry on, because I cannot give up on this more beautiful work that is near me. I eagerly await your reply. As concerns the price, which will must naturally

change, no agreement is necessary, I don’t care. On delivery I will accept whatever conditions your sage counsel will wish to apply. Your devoted Leoncillo Leonardi»2. However, Oppo’s reply left no room for argument: in accordance with the preliminary agreement, the two Trophies were to measure «1.60 metres each»3. Though Italy had entered the war over a year earlier, when on 11 July Leoncillo turned once again to Oppo with heartfelt words, the commission had not been withdrawn, through it had been held up by delays that seemed to the sculptor to be replete with «untruthful promises»: «Your Excellency, […] I am here at Umbertide, discouraged and tired, and in a state of poverty that does not even leave me the requisite freedom to procure the means for executing my ceramics. It is about the work for E.U.R that I wish to talk to you: to beg you to have me execute this work for which the models, on which I expended time and energy, have been accepted. Nine months have passed since their acceptance, and my contact has been put off from day to day, from week to week, from month to month. I have come so many times to E.U.R. on invitation from the Statistical Office to define the many things that were defined; I have issued so many reminders and in every tone of voice, and each time I was answered with promises, but all equally untruthful. So that, in the end, nothing is left in my soul than the feeling of having been constantly taken for a ride, and that of my humiliation and my inability to obtain my dues, and which are never contested but are in effect denied. Though I can find no explanation for all this, I am nonetheless certain that you know nothing of it […] All that remains to me now is the hope that you will understand me and help me. I am comforted by the thought of the esteem and affection that you have shown to me so many times, at this moment of weakness and exasperation»4. The contract was approved and rendered executive on 24 November 19415, but the cancellation of E 42 also led to the temporary oblivion of the two Trophies, which in 1945 were bought back by Leoncillo himself, who presented them to the Roman audience at the Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Galassi, the exhibition held in March-April 1946 at the Studio d’Arte Palma di Pietro Maria Bardi. Seen alongside his Balustrade of the Caryatids6 (one of which is present in the exhibition), and the works of the other artists and artisans gathered by the multi-faceted painter and mosaicist Galassi in the studio established in a wing of Villa Poniatowsky in Rome7, the Trophies must also have revealed themselves for what they really were: not bombastic symbols of “undying glory” but the mature fruits of a reborn and ironic “ephemeral Baroque”, superb furnishings worthy of a modern Versailles.

2 Mazzarella 1990, p. 14. 3 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 369. 4 Benzi 1986, p. 185. 5 V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, p. 368.

1 On the events surrounding the interior decoration of the Palazzo, which alongside the Trophies by Leoncillo was to contain other works that were never executed (two balustrades in porphyry with reliefs executed respectively by Bruno Giuliarelli and Edgardo Mannucci, and a marble plaque by Renato Rosatelli), see the entry by V. M. [Vincenzo Mazzarella] in E 42 1987, pp. 368-370.

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6 See the entry on one of the Caryatids in this catalogue. 7 Cassani 2012.

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Leoncillo believed strongly in the value and beauty of these works, to which he had devoted a long gestation, to the point that he chose to complete them, not at Umbertide, but at Gualdo Tadino at the Società Ceramica Luca della Robbia, to enrich their already rich palette with sumptuous gold highlights added during the third firing, which he had never used previously; despite the dissatisfaction expressed in his letter to Oppo of April 1941, the result was undoubtedly «a beautiful thing», so much so that a few years later the sculptor returned to the theme, modelling and glazing a new monumental Trophy to decorate a bar in Rome, published in 1948 by Gio Ponti in the magazine Domus. With his habitual critical acumen, Ponti also captured the highly personal nature of this piece: «The decoration of a bar in Rome has been the opportunity for the creation of this great “Trophy” by Leoncillo, a true Leoncillian creation, and an example of that “sculpture with colour” that he preaches, and of the fantastical idea of which he is so fond – that of the trees covered in armour and draperies, turned almost into theatrical characters. The same idea persists in the panels (subtly pervaded – see the sculptural head and the column – with that pinch of De Chirican fantasy that now belongs more to our time than to De Chirico himself)»8. Leaving aside the De Chirican fantasy, these words could also be used to describe the Trophies for E 42, and that «fantastical idea […] of the trees covered in armour and draperies» must have appealed greatly to the architect – and indeed, flattered him – since for the Trionfo da tavola per le Ambasciate d’Italia commissioned by the Italian government in 1929 and executed in white porcelain and gold by the Richard Ginori manufactory, he himself had previously commissioned a Trophy (drawn by Tomaso Buzzi) in the form of a tree trunk covered in a breastplate, helmet, shield and weapons; an exquisite piece that Leoncillo must have remembered affectionately, given the mutual friendly esteem that bound the two9. It therefore does not seem coincidental that Leoncillo placed his two Trophies on a base of sinuous outline, as Ponti had previously done, absent in the models, to which he then “attached” a handled cartouche with the legend «Trophy», thus ironically “musealizing” these teetering panoplies as one might do with a collector’s item. Truly with these Trophies «Leoncillo creates objects that aim to insinuate doubt over where to place them»10, and with this doubt an unexpected and pleasant sense of disorientation.

Leoncillo Leonardi

8 Ponti 1948, p. 27. On this Trophy see the entry by Enrico Mascelloni in Leoncillo 1990, p. 51.

1 Ponti 1946a. Enthusiastic was the praise that Toti Scialoja reserved expressly for Leoncillo’s balustrade in his review of the exhibition entitled Mirko e Leoncillo in una mostra di arti applicate, promptly published in 1946 in the magazine Mercurio (now in Toti Scialoja 2015, pp. 126-131).

9 Buzzi’s preparatory drawing for the Trophy is reproduced here in the essay by Andrea Bacchi. On the relationship between Ponti and Leoncillo see Fiorucci 2019, pp. 225-228. 10 Mazzarella 1990, p. 15.

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Two-Faced Caryatid, ca. 1945. Thrice fired polychrome ceramic, 82 x 18 x 18 cm Provenance Rome, Umberto Carpi de Resmini collection Rome, Galleria Carlo Virgilio & C. This Two-Faced Caryatid is one of a series of pieces for a balustrade, presented by Leoncillo at the Mostra dei capidopera dello Studio di Villa Giulia di Enrico Galassi. The exhibition, held in Rome in March-April 1946 at the Studio d’Arte Palma di Pietro Maria Bardi, and warmly received by Gio Ponti1, displayed the works made by the artists and artisans gathered by the multi-faceted painter and mosaicist Enrico Galassi in the studio established in a wing of Villa Poniatowsky in Rome so that they could devote themselves to creating decorative pieces to furnish aristocratic residences2. The participants in this short-lived experience of the Studio at Villa Giulia included, among others, Consagra, Mirko, Afro, Tamburi, Scardia, Montanarini, Gentilini, Maccari and Pietro Cascella. Enchanted by the «great triumphal and damned procession of caryatids», Lisa Ponti, in an article in Stile, the magazine that her father Gio had originally established with the name of Lo stile nella casa e nell’arredamento (1941-43), found weighty words to describe the absolute lack of ornamentalism of these astounding creations by Leoncillo, which reveal themselves to be: «... living and quivering tangles, which have left his hands, helpless, ready to retreat: they move blindly and painfully like internal organs and are so damp, brilliant, rich, coloured, iridescent. Then, on some of their faces we are surprised by suddenly spiritual features – like the figures created by clouds -: these are veiled and vivid faces that bear traces of pain, as if they were St Sebastians... And their arms and draperies have shadows and depths as in painting, and they spread fear, they move the air»3. Alongside a group photograph and numerous details, Lisa Ponti’s article ends with a detailed description of the whole balustrade that is of importance to us, revealing a variety of formal solutions of which the Two-Faced Caryatid is just one possibility: The balustrade is composed of 2 elements consisting of 4 figures each, one at the head of the staircase and the other at its end, of 2 consisting of 3 figures in the two corners of the flight of stairs, and, in between, others consisting of 2 figures facing in opposite directions so as to show both faces. In the two elements with 4 figures, the dominant colour is violet in one and a warm

2 On Galassi and the Studio at Villa Giulia see Cassani 2012. 3 Ponti 1946b, pp. 27-28.

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green in the other; in those with 3 figures, an orangey red in one and a reddish brown in the other; and in those with 2 figures blue green. In this way, the staircase is designed, in its sculpture and colour, in accordance with its function. The gold present in all the elements links them to each other. The invention, with groups consisting of 4 figures with just 4 legs, those of 3 with 3, and those of 2 with 2, serves to differentiate between the elements depending on their architectural function without making the richer ones excessively large compared to the others»4. In 1947 Gio Ponti, a great admirer of Leoncillo’s work, also discussed this balustrade, considered the artist’s finest creation up until that point: «This balustrade, for example, was made to rise from the profoundest depths of Leoncillo’s being, up to today it is his major work thanks to the force of his imaginative energy which makes us think of the greatest periods of court art»5. The allusion to the famous Caryatids of the Erechtheion6 is complicated by the two faces of Leoncillo’s sinuous figure, almost identical in their posture and gestures, though on one side the slightly crossed legs are covered on the lower part by the drapery, whilst on the other one leg remains bare. However, it is Leoncillo’s masterful use of colour that transfigures this creature, so that her magical milk-white skin, marbled with violet iridescences, lights up in contrast to the cobalt drapery shimmering with gilding added in the third firing. The balustrade as a whole never found a purpose and was eventually dismembered: one TwoFaced Caryatid, for example, figures among the ornaments packed into one of the glass display cases in the elegant trans-Atlantic liner Conte Grande, renovated, after being captured during the war by the Americans between 1943 and 1945, by Gio Ponti and Nino Zoncada7. Four of these Two-Faced Caryatids, still carrying a length of the architrave-handrail on their head, are on display today in the Galleria d’Arte Moderna Giovanni Carandente in Palazzo Collicola at Spoleto, whilst another is in the Claudio and Elena Cerasi collection8. Another piece, previously presented at the exhibition in Matera of 20029 and now in a private collection in Umbertide, was displayed at the exhibition dedicated by the Fa.Mo. Museo Rometti in Umbertide to Lucio Fontana and Leoncillo in September-October 201810. The Studio at Villa Giulia saw the creation of «exceptional pieces» in which Gio Ponti recognized that «the dignity of antiquity, like the vitality of modernity, is not a question of time. When an object is made, regardless of immediate calculations about price and labour, to endure in time, we can say that it is already ancient, in other words outside the time in which we live, and this is the

privilege of art alone»11. In keeping with this creative spirit, the balustrade was also conceived as a sumptuous ornament and executed using a mould – exceptionally in Leoncillo’s work –, at least for the figures with just two faces like ours. However, the artist subsequently worked on each figure, adding obvious retouches and variations before firing and the subsequent application of the pigments, so that both the polychromy and the modelling of each piece differs. The balustrade presented at the exhibition of 1946 could be extended depending on its specific purpose and the requests of the potential client, as evidenced by the existence of some Two-Faced Caryatids in biscuit, ready for glazing, one of which now belongs to the Marignoli collection in Spoleto12.

4 Ibid., p. 29. 5 Ponti 1947, pp. 216-219. 6 Ferrari 1960, p. 7. In general for Leoncillo’s allusions to ancient sculpture see Corgnati 2019, with a reference to the Caryatids on p. 42. 7 A historic photograph of the display case with Leoncillo’s Two-Faced Caryatid is published by Giuseppe Appella in Leoncillo 2002, p. 130. 8 Apolloni 2018, pp. 12-13. Fagiolo

dell’Arco

2016, p. 121.

9 Leoncillo 2002, p. 42, cat. no. 12, (Courtesy of the Galleria d’Arte Maggiore, Bologna). 10 Barocco e Barocchetto 2018, pp. 60-61.

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147


Fausto Melotti

5.

1.

Enamelled ceramic, 75 x 25 x 27 cm Signed under the base: Melotti

Untitled, ca. 1949 Polychrome ceramic, 53 × 22.5 × 18 cm Provenance Private collection

2.

Untitled, ca. 1950 Polychrome ceramic, 81 × 25 × 27 cm Signed on the base: Melotti Provenance Milan, private collection

3.

Untitled, ca. 1951 Polychrome ceramic, 42 x 11.5 x 10 cm Signed on the inside: Melotti Provenance Private collection

4.

Untitled, ca. 1951-52 Polychrome ceramic, 62 × 16 × 16 cm Signed under the base: Melotti Provenance Milan, private collection

148

Untitled, ca. 1950

Provenance Milan, private collection The five female figures collected here are the “slightly younger” sisters of the girl who delicately holds two little birds in her left hand, dating to 19481, and of the many others that Melotti modelled from then on, effectively for a decade, before once again plunging into that abstract work already begun in the 1930s and that he believed did true justice to his nature as a sculptor. These extremely elegant «delicate paper creations» were soon given space in the magazine Domus in 1948 by Gio Ponti, who expressed regret that he was unable to do justice, in the black and white of the reproductions, to the exceptional quality of their polychrome glaze: «Until colour reproductions become possible, we will be unable to provide a satisfactory representation of the works of Fausto Melotti, which – like this figure with a little bird in her hand – almost resemble delicate and hollow paper creations in ceramic, imbued with the most unexpected glazes. In recent years, Melotti – to whom we will devote an article in the next few issues – and who signs himself “Sette Punti”, has been responsible for a truly astounding ceramic production that goes from diversions in the form of enamelled necklaces and then of his famous coffee cups and “misshapen animals” to the beautiful flanged bowls and fantastical pieces – like this airy figure, fresh in its invention – and the sculptural pieces […], of which Melotti is so fond. This style of ceramics, which so successfully “plays with fire”, is astounding in its outcomes»2. Melotti, «a pioneering abstractionist»3, had devoted over twenty years of work to ceramics, presenting his pieces in highly prestigious venues, starting from the Venice Biennales of 1948 and 1950. Nonetheless, from the 1960s onwards he attempted to present this production as stemming from a need to provide for his family: «I invented a sort of ceramics that was very popular and that provided me with money, allowing me to live comfortably. Later, at a certain point, people realized that I wasn’t bad as a sculptor either and I gave up ceramics»4. Despite repeated assertions in this vein, Melotti’s ceramics were always seen as possessing an independent and vital quality, and more recent critical studies have identified in these works a semantic complexity that goes far beyond Melotti’s hallmark “delicacy”5.

1 Fausto Melotti 2003, p. 97, Fig. 9. 2 Ponti 1948a, p. 29. 3 Camini 1950, p. 40. 4 Mulas 1992, p. 31. 5 Carbone 2003.

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Compared to earlier works like the Daphne of 1933, Martinian in its inspiration, in our later female figures – untitled and lacking any narrative reference – we see, as Germano Celant has observed, an effective «solidification of the impalpable», that, aside from any need for economic sustenance, «[…] should be connected to the turmoil of the senses felt by an idealist – whose studio and whose utopias have been destroyed by a historic tragedy [the war] – who wishes to retake possession of his illusions and his dreams, no longer ideal but individual»6. Mannerist in their proportions, with small heads and slender arms, these creatures, dressed in fine slips of clay cut and folded with apparent nonchalance, draw in an absolutely personal way on the mythical world of antiquity, and, like new Tanagra figurines, present an infinite variety of gestures and dance steps, in tune with well-controlled harmonies. Equally, the colours, manipulated by the witchcraft of heat, heighten the sense of abstract sublimity; and today we too ask ourselves about the provenance and reappearance of these magical beings «[…] wandering, like floating fragments, unmoored from who knows what depths, alone and travelling through what Melotti calls the “no-man’s land”»7. The earliest figure presented at this exhibition8 (1), in the highly expressive tones of its glaze, still resembles Folly9 of 1948, which Melotti exhibited in that year at the XXIV Venice Biennale, and to an even greater extent the two Caryatids executed in 1950 for the Conte Verde liner10; it is thus to this chronological interval that we must attribute its creation, at the early stages of a journey that will find in the theme of the female figure one of the sculptor’s favourite topics. By contrast, another two of our ceramics, one presumably of 195011 (2) and the other slightly later12 (4), present a polychromy playing on the light tones of a lunar white that shades into the pink veined with grey, light blue and violet characteristic of many of these works, starting with the aforementioned girl holding two little birds in her left hand. In the contrast between the iridescent white bust and the black of the “lava-like” enveloping garment, the smallest piece in our group13 (3) shows similarities to a limited number of figures executed in the early 1950s14. Finally, completing our overview of this specific aspect of Melotti’s production, pride of place goes to a haughty figure with a rare metallic glaze (5)15, another masterpiece by this sculptor-ceramicist repeatedly described as a “wizard” «for the enigmatic origin of his figures that [...] seem to spring from the fire»16.

6 Celant 1994b, I, p. XIV. 7 Camini 1950, p. 40. 8 Certified on photograph no. 1949 14 of the Fausto Melotti Archive in Milan. 9 Celant 1994a, I, no. 1948 1, p. 75. 10 Ibid., I, no. 1950 3 and 1950 4, p. 82. 11 Ibid., I, no. 1950 10, p. 84; Fausto Melotti 2003, no. 33, p. 106. 12 Ibid., I, no. 1951–1952 6, p. 89; Fausto Melotti 2003, no. 28, p. 105. 13 Certified on photograph no. 1951 10 of the Fausto Melotti Foundation in Milan.

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14 See for example Celant 1994a, I, no. 1953 1, p. 93. 15 Ibid., I, no. 1950 9, p. 105; Fausto Melotti 2003, no. 29, p. 105. 16 Ponti 1950, p. 41.

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Rossi 1963 Bruno Rossi, L’astronauta dell’arte. Dialogo con Lucio Fontana, in «Settimo giorno», XVI, 22 gennaio 1963, pp. 47-51. Ruiz de Infante 2002 Josune Ruiz de Infante, La scultura di Leoncillo negli anni Trenta: i contatti con la Scuola romana, in «Faenza: bollettino del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza», LXXXVIII (2002), pp. 133-151. Scultura e ceramica 1989 Scultura e ceramica in Italia nel Novecento, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna) a cura di Pier Giovanni Castagnoli – Fabrizio D’Amico, Milano1989. Toti Scialoja 2015 Toti Scialoja critico d’arte scritti in “Mercurio”, 1944-1948, I, a cura di Antonio Tarasco, Roma 2015. Simonato 2018 Lucia Simonato, Bernini scultore. Il difficile dialogo con la modernità, Milano 2018. Sinisgalli 1934 Leonardo Sinisgalli, La scultura di Lucio Fontana, in «L’Italia letteraria», 24 novembre 1934. Valsecchi 1962 Marco Valsecchi, Ceramiche di Lucio Fontana, catalogo della mostra (Galleria Pater, febbraio 1962), Milano 1962. Wölfflin 1908 [1928] Heinrich Wölfflin, Rinascimento e barocco, [München 1908] Firenze 1928.

Ponti 1948c Lisa Ponti, Biennale dopo la guerra, in «Domus», 1948, n. 228, pp. 34-38. Ponti 1950 Lisa Ponti, Il mago Melotti, in «Domus», 1950, n. 252/53, p. 41. Raimondi 2003 Ezio Raimondi, Barocco moderno. Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, Milano 2003. Rogers 1938 Ernesto N. Rogers, Lucio Fontana e le sue ceramiche, in «Natura», XI, agosto 1938.

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Finito di stampare Tipografia Esperia - Lavis (TN)



Nel settembre del 2019, in occasione della Biennale dell’Antiquariato di Firenze, ho sperimentato per la prima volta un accostamento fra due sculture in ceramica di Fausto Melotti ed una tela di Gian Battista Tiepolo. Il risultato è stato talmente convincente che mi sono chiesto se si sia trattato solo di una fortunata coincidenza, oppure se effettivamente esista un preciso nesso stilistico fra questi due artisti. Da quel momento questo interrogativo non ha smesso di incuriosirmi, tanto che ho voluto ampliare la mia ricerca ad altri due protagonisti della scultura italiana del XX secolo: Lucio Fontana e Leoncillo Leonardi. Rileggendo gli scritti di Fontana, mi sono accorto che il termine barocco ricorre molte volte, sia nelle dichiarazioni di poetica, sia nel più importante testo teorico, ovvero nel Manifesto tecnico dello Spazialismo. Eppure, per quanto ciò possa sembrare incredibile, nessuno si era mai cimentato finora in una ricerca approfondita, per capire innanzitutto che cosa intenda Bacchi Fontana quando parla di Barocco e, in secondo luogo, se esista non solo una generica affinità di gusto, ma anche una precisa rispondenza con le opere del passato. Anche negli studi su Leoncillo – a cominciare da Roberto Longhi – si fa spesso riferimento all’arte barocca senza tuttavia approfondire la questione. Per questo motivo ho deciso di commissionare ad Andrea Bacchi - grande conoscitore della scultura italiana del XVII e del XVIII secolo – uno studio specifico sull’argomento, in cui la questione venisse affrontata finalmente in modo sistematico e il più possibile approfondito.

RITORNO AL BAROCCO Fontana

Leoncillo

a cura di Andrea

Melotti

Matteo Lampertico

ISBN 978-88-8273-181-6

€ 25,00


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