Jannis Kounellis: gli anni sessanta
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Jannis Kounellis: gli anni sessanta
Sommario
Volume pubblicato in occasione della mostra Jannis Kounellis: gli anni Sessanta presso ML Fine Art, Milano, 23 marzo – 27 maggio 2022 in collaborazione con Rizziero Di Sabatino crediti fotografici © Paolo Vandrasch, Milano © Giorgio Benni, Roma © Jannis Kounellis Estate progetto grafico studio olga si ringrazia Archivio Kounellis, Roma Daniel Buaron Michelle Coudray Fabio De Vincentiis Laura Falchi Paolo Lamberti Roberto Profeta Damiano Kounellis Milena Ugolini Damiano Urbani L’Editore è a disposizione degli eventuali aventi diritto sul materiale iconografico con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti.
Prefazione Matteo Lampertico
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Dentro e fuori dal quadro: Jannis Kounellis, 1958-1964 Francesco Guzzetti
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Opere in mostra
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Apparati
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Alcuni artisti sperimentano un lungo periodo di formazione prima di mettere a punto un linguaggio personale. Altri vivono un inizio folgorante. È questo il caso di Jannis Kounellis. Nato nel 1936 in Grecia, l’artista ha compiuto da poco vent’anni quando concepisce la serie degli Alfabeti, opere di grandi dimensioni dipinte di bianco su cui campeggiano grandi lettere tracciate in nero. Nel testo introduttivo al catalogo che accompagna la mostra, Francesco Guzzetti discute in modo esauriente la genesi e il significato di tali opere, esposte per la prima volta nella mostra della Tartaruga del 1960. Da parte mia, mi voglio limitare ad alcune semplici osservazioni che giustificano la scelta della mostra che ho concepito insieme a Rizziero Di Sabatino. Ogni volta che mi sono trovato davanti a queste opere di Kounellis ne sono rimasto affascinato e nello stesso tempo perplesso. La composizione, i colori e la dimensione delle lettere possono cambiare, ma l’effetto complessivo è di una forza e di un’energia dirompenti. Eppure si tratta di dipinti eseguiti con una tecnica persino rudimentale e con un procedimento meccanico. Ciò che li rende davvero unici non è solo l’aspetto estetico, quanto quello concettuale, e proprio da questo punto di vista Kounellis si afferma come uno dei protagonisti dell’arte del secondo dopoguerra. Il linguaggio, o meglio la comunicazione, è fatto di segni e simboli convenzionali (lettere, numeri, frecce, ecc.), ma questi elementi vanno collegati gli uni agli altri secondo una sequenza logica. Kounellis invece li dispone in modo apparentemente casuale, a volte in una fila ordinata e a volte in ordine sparso. Così facendo tali segni acquistano un’energia ed un’evidenza nuove. Potremmo dire addirittura che si riappropriano della loro libertà, svincolati come sono dalla loro funzione semantica. Si tratta di una riflessione sugli elementi che costituiscono il linguaggio e anche sulla loro valenza estetica ed espressiva. È probabile – come ci spiega Francesco Guzzetti nel catalogo – che questa scelta così radicale di Kounellis si giustifichi alla luce del dibattito culturale di quegli anni. Oltre agli esempi citati, potremmo ricordare anche quello di Gastone Novelli, attivo a Roma negli stessi anni, le cui opere riflettono in modo poetico proprio sui limiti del linguaggio razionale. Ma indipendentemente da tutto, l’approccio di Kounellis segna un punto di non ritorno. È un nuovo modo di concepire l’arte, uno stratagemma per coinvolgere e far riflettere lo spettatore, per costituire una nuova dinamica relazione fra artista e pubblico. In questo modo l’arte si riappropria di una dimensione sociale e politica, esce dallo studio dell’artista per entrare nel dibattito della società. Non dimentichiamo che da lì a pochi anni Kounellis concepisce la celebre mostra del 1969 della galleria Attico dove vengono esposti non dei dipinti ma dei cavalli veri. Per questo motivo ho voluto dedicare una mostra e un catalogo solo ai primi anni Sessanta. Si tratta di opere ancora legate al formato del dipinto, non sono ancora installazioni come quelle degli anni a seguire. Pur con mezzi tradizionali, lasciano intravedere una nuova dimensione, svincolata dai fini estetici o autobiografici che avevano animato la stagione dell’Astrattismo prima e quella dell’Informale poi. In queste opere si percepisce già un punto di vista completamente nuovo sulla funzione dell’arte. Per questo motivo ho chiesto ad un giovane storico dell’arte come Francesco Guzzetti di approfondire lo studio di questa fase cruciale e non ancora indagata del percorso artistico di Kounellis. Ne è uscito un vero e proprio studio monografico, che credo costituirà un punto di partenza imprescindibile per chi vorrà affrontare l’argomento in futuro. Matteo Lampertico
Jannis Kounellis esegue lo “happening” nel suo studio, Roma, 1960, Fotografo sconosciuto. pagina successiva Jannis Kounellis, Senza titolo, 1963, smalti acrilici su tela, 194 x 199.7 cm (dettaglio).
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Francesco Guzzetti
Dentro e fuori dal quadro: Jannis Kounellis, 1958-1964
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01. Jannis Kounellis, Galleria l’Attico, Roma, 1967 photo: © Claudio Abate / Archivio Claudio Abate
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Il lavoro di Jannis Kounellis è sospeso tra mediazione e immediatezza. Non è mai un assioma, una dichiarazione di verità assoluta: “Non mi interessa fare delle affermazioni”, disse l’artista in una conversazione con Germano Celant nel 1974, sostenendo di proporre una verità “più aperta”, che “rappresenta una condizione culturale e sociale, in cui si riflette la struttura di un paese e di una storia”1. Ogni elemento delle sue opere esiste di per sé, nel suo darsi presente, e al contempo evoca una dimensione altra, rimanda a un significato ulteriore, indefinito. È come se l’artista si ponesse contemporaneamente dentro e fuori la realtà, la vivesse osservandola, e ce ne restituisse una presenza che è anche rappresentazione, nel tentativo inesausto di instaurare un rapporto, una relazione con l’osservatore e con il mondo. La formula dell’arte di Kounellis è un condensato di disponibilità e possibilità. I due termini ricorrono costantemente, fin dalle prime testimonianze del pensiero dell’artista, spesso in associazione a un terzo, liberazione. Il concetto di disponibilità richiama l’atteggiamento del darsi della realtà all’esperienza, del consegnarsi dell’opera alla sua fruizione. Intendendo l’oggetto della propria indagine in termini di disponibilità, l’artista si pone come colui che rivela qualcosa che è presente nella realtà e lo avvicina all’esperienza. La possibilità attiene alla varietà di relazioni che si può costituire sul piano della vita e del mondo. In questo senso, Kounellis dimostra di cercare un’apertura, un rapporto, che superi i confini tradizionali dell’arte, al fine di concepire l’opera come una condizione di libertà. Discutendo del proprio lavoro recente con Carla Lonzi nel 1966, l’artista fu indotto a riannodare i fili della propria ricerca a partire dalle sue composizioni iniziali di lettere e numeri, oggi note come Alfabeti. Il fondo bianco, ricorrente nelle sue opere, veniva presentato in termini di disponibilità: “il bianco è per me molto importante perché ha quella grande disponibilità, no?”2. Significativamente, la risposta di Kounellis alla domanda di Lonzi circa le sue opere iniziali fu inclusa soltanto nella trascrizione della conversazione su “Marcatrè”. Quando apparve per la prima volta, sul secondo fascicolo di “Catalogo”, la rivista della Galleria La Tartaruga di Roma di Plinio De Martiis, l’intervista non riportava quel passaggio.3 Probabilmente, non era interesse né dell’artista né del gallerista di includere un excursus su quel periodo, ormai ritenuto concluso. L’intervista uscì in un momento di transizione nel lavoro di Kounellis, caratterizzato soprattutto, negli tra 1965 e 1967, dal ciclo delle cosiddette Rose. Alla Galleria L’Attico di Roma, all’interno di in una mostra in due tempi nel marzo-aprile 1967, l’artista presentò grandi tele, sulle quali silhouette monumentali di fiori e foglie – ritagliate in stoffe di colore nero o bianco – erano fissate con dei bottoni automatici a pressione. Era un punto di non ritorno nella pratica di Kounellis (fig. 01). Le rose dipinte a smalto o attaccate con i bottoni alle tele dimostrano il raggiungimento dell’equilibrio tra la logica percettiva e strutturale del quadro e il tentativo di superarne la bidimensionalità attraverso lo stimolo di una fruizione partecipata da parte dello spettatore: “Nella realtà”, spiegava Kounellis a Lonzi, “la rosa non è mai nera, come dire, se metti un colore verde a una foglia è un colore naturalistico, ma se a questa foglia metti, per esempio, alluminio allora, mentre la struttura è di una foglia, l’alluminio cambia automaticamente l’ordine, no? Penso di non dare allo spettatore un oggetto già fatto, ma di farlo funzionare con la sua fantasia”4. Lo sforzo richiesto allo spettatore è la tensione alla liberazione. Se la tela bianca è campo di disponibilità, l’inversione di formato e colore tra la rosa reale e la sua sagoma è una delle possibilità offerte dall’artista per innescare l’immaginazione dello spettatore e, così facendo, liberarne la fantasia attraverso la realtà dell’immagine. Con la serie 9
delle Rose, terminata sulle soglie della stagione dell’Arte povera, l’artista portò a maturazione la sua consapevolezza della problematica della costituzione dell’immagine a confronto con la realtà. Di lì a pochi anni, avrebbe presentato il problema ricorrendo al fortunato binomio dell’alternativa tra struttura e sensibilità5. L’analisi delle prime istanze della pratica artistica di Kounellis non è semplice come appare e richiede cautela: “La relazione”, ammoniva l’artista in dialogo con Celant, “è un campo vasto, perché non è detto che si svolga dentro un quadro, può essere svolta dal quadro verso altri. II dipinto rimane quindi uno spazio ipotetico”6. Ripensare il segno L’avvio dell’attività artistica di Kounellis è noto. Arrivato in Italia dalla Grecia da pochi anni e iscritto all’Accademia di Belle Arti di Roma, l’artista realizzò nel 1958 alcune tavole su cui dipinse delle parole come “Olio”, “Barbiere” o “Tabacchi”, che replicavano le insegne di negozi, nate con l’intenzione di “vivere la via […] tutta la via, negozio per negozio”7 (fig. 02). Nel ricordo dell’artista, quelle insegne anticiparono lo spirito dei lavori con le lettere e i numeri: “Sono le insegne della strada in cui vivevo. Le rifacevo e rappresentavano l’oggettività ambientale. Erano dipinte e non stampate. Era il fascino di una pittura cittadina, ma è anche una pittura non rappresentativa né gestuale. Ho scritto olio, vino, tabacchi, a volte l’ho cancellato e riscritto, lo spazio era lo stesso delle lettere, pero era come vedere un ambiente unico, un ambiente cristallizzato”8. Ad esse seguirono i primi lavori con lettere, realizzati su fogli di carta da pacco ritagliati in formato medio-piccolo, con le lettere applicate con degli stencil metallici, del tipo di quelli usati per le scritture commerciali e le spedizioni9 (fig. 03). Il ripensamento della pittura attraverso l’appropriazione e il trasferimento diretto di elementi della realtà nel campo del quadro era un tema di indagine da poco in agenda in Italia. Vi si poteva avvertire anche l’eco delle ricerche americane allora ascrivibili alla tendenza del New Dada, cui erano associate le figure di Jasper Johns e, soprattutto, Robert Rauschenberg. L’artista poté verosimilmente vederne alcuni dipinti dal vero già nel 1958, in occasione del lungo viaggio tra Sud e Nord America compiuto con la moglie Efi, che lo portò anche a New York10. In un’intervista, Mario Diacono, che conobbe Kounellis agli albori del suo lavoro, rievocò la circostanza di quel viaggio e il ricordo dell’artista della visione di opere di Johns o Rauschenberg alla galleria niuiorchese di Leo Castelli11. All’approdo in America, Kounellis era comunque già avvertito sulle evoluzioni recenti dell’arte. Certamente, il magistero di Toti Scialoja all’Accademia aveva contato in questo senso. Insieme alla moglie Gabriella Drudi, traduttrice dall’inglese, Scialoja era aggiornato sulle ultime tendenze della scena artistica di New York, con cui intratteneva molteplici contatti, e introdusse i suoi allievi, tra i quali Kounellis, a quel mondo12. Pur con alcune riserve, le riflessioni di Scialoja rivelano comunque la conoscenza puntuale del lavoro di Johns e Rauschenberg13. La mostra dei Transfer Drawings di quest’ultimo, svoltasi alla Galleria La Tartaruga nel 1959, poteva offrire una prospettiva ulteriore di riflessione a un artista come Kounellis14. Le pratiche di disegno indiretto, mediato, attraverso le quali Rauschenberg sovvertì il primato del gesto tradizionalmente associato a quel medium, non erano lontane dalla sua ricerca intorno all’oggettività del segno. Sono noti alcuni lavori su carta, datati al 1959, in cui l’artista impiegò tecniche similari di trasferimento di immagini e scritte (fig. 04). È il caso in particolare di un disegno, firmato e datato al verso, nel quale Kounellis ricalcò molteplici dettagli di pagine di giornale.15 D’altro canto, non si dimentichi che le insegne “Bar” o “Tabacchi” del 1958 10
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02. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1958 Pittura su legno, 64.8 x 210 x 1.3 cm Collezione privata. Fotografia: l’autore 03. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1959 Acrilico e matita su carta, 20 x 36 cm Collezione privata 04. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1959 Inchiostro da stampa e timbri su carta 36.5 x 53 cm, Collezione privata
erano accompagnate da un altro lavoro, composto da bottiglie allineate su una tavola di compensato, che era una sorta di condensato in tre dimensioni del grado di realtà esposto in quelle scritte16. Eppure, spostando l’attenzione alla fase successiva, se si osservano gli Alfabeti di Kounellis più propriamente intesi del periodo 1960-62, non si può non riscontrare una radicale differenza rispetto alle pratiche neodadaiste. Le lettere, i numeri, i segnali campeggiano sulle superfici bianche. Impressi attraverso degli stencil realizzati dall’artista stesso ritagliando le forme nel cartone, essi conservano intatta l’oggettività delle scritture commerciali evocate già nelle carte del 1958-59. Al contempo, la bidimensionalità della superficie conferisce a queste composizioni una natura di segni squisitamente pittorici. Come ha spiegato Dieter Schwarz, il processo di realizzazione di queste opere è estremamente preciso e sorvegliato. L’artista usava fissare tele o lenzuola al muro dello studio, oppure ricorreva a fogli di formato standard 70 x 100, spesso montati su supporti in stoffa poi intelaiati (tav. 1). Nel caso delle opere su tela, l’artista preparava il fondo bianco con pitture acriliche o vernici applicate con un rullo, come ad esempio la vernice americana Kem-Tone. I materiali impiegati per la realizzazione dei segni erano molteplici, il più delle volte si trattava di vernici, come la Duco, utilizzate per la pittura dei muri17. In assenza di un’indagine sistematica sui lavori di quel periodo, non è neppure da escludere l’uso dello smalto Ripolin, impiegato negli stessi anni a Roma da Mario Schifano18. In ogni caso, si trattava di materiali allora in voga tra gli artisti. Come tali, alcuni di essi apparvero in un testo fondamentale per comprendere quella stagione dell’arte italiana, concepito dal poeta e critico Cesare Vivaldi – ligure di nascita, ma romano di attività – in forma di Dizionario di nuovi simboli e di nuovi termini usati nella critica d’arte moderna. Con questo titolo, il critico pubblicò un elenco di lemmi nell’“Almanacco Letterario Bompiani 1960”, uscito alla fine dell’anno precedente. Tra le voci, figurano sia “Duco”, sia “Ripolin”, indicati rispettivamente come la vernice industriale e il tipo di smalto maggiormente impiegati dai nuovi pittori19. La prosa di Vivaldi registrò a più riprese l’emergenza di una nuova generazione artistica nel passaggio tra anni Cinquanta e Sessanta, individuando spesso temi e moventi avvertiti con grande intensità dai giovani artisti. Tra tutti gli stimoli e i riferimenti di quel periodo, due aspetti emergono con particolare interesse: il confronto con l’arte americana e il ruolo di Toti Scialoja. Alla voce “Neo-Dadaismo” nel dizionario dell’arte del proprio tempo, Vivaldi incluse tre artisti – Johns, Rauschenberg e Cy Twombly – e specificò che la nuova tendenza si presentava “come una diretta continuazione della Pittura d’Azione americana. Twombly, difatti, ha potuto scrivere che l’azione “deve di volta in volta provare la realizzazione dell’esistenza” e che quindi essa è “la sensazione primaria””20. Indagando una congiuntura che unisse le ultime tendenze e l’Action Painting di Jackson Pollock e dell’Espressionismo Astratto americano, Vivaldi propose una chiave di lettura del tutto coerente con il lavoro di Kounellis. È noto il suo amore per Pollock, la folgorazione avuta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma quando, nel 1958, vi inaugurò la prima importante retrospettiva europea dedicata al pittore americano21. Vivaldi non approfondì mai veramente l’ipotesi di continuità tra le due stagioni dell’arte americana del dopoguerra. Anzi, se si guarda alla situazione italiana, la frase del dizionario relativa al neo-dadaismo sembra contraddire il superamento dell’Action Painting nelle ultime tendenze, ribadito dallo stesso Vivaldi nel testo di presentazione di alcuni giovani artisti alla Tartaruga nel febbraio 1959. Scriveva infatti in quella breve introduzione: “Alla cieca 11
natura, all’incomprensibile, non si oppone, americanamente, il diagramma del proprio io, ma un oggetto costruito e insieme “naturale”, un quadro”22. In verità, la contraddizione si risolve osservando la scrupolosa attenzione con la quale Vivaldi distinse Pollock dalla generica Action Painting, e la prima generazione dell’Espressionismo Astratto dai suoi epigoni. In questo senso, la nuova fronda degli artisti romani prese le distanze dalle derivazioni decorative di quella vicenda, per ritrovare ragioni autentiche nel “furore” e nel “limpido lirismo” di Pollock23. Per di più, nel dizionario dei termini della nuova critica d’arte, Vivaldi introdusse una distinzione ulteriore, tra “Pittura di gesto” e “Pittura di azione”, separando l’artista americano dalla seconda, in favore della prima. Alla voce “Gesto” si legge: “La Pittura di Gesto viene da molti confusa con la Pittura d’Azione. In realtà il senso delle due espressioni non è identico, poiché la concentrazione estrema nell’atto di fare è, nella Pittura di Gesto, soprattutto ricerca dell’essenzialità e della purezza del gesto pittorico. Come il Pollock del periodo più alto. Nessun torbido vitalismo quindi, nessun fare e poi cancellare e poi rifare (come nella Pittura d’Azione dell’americano De Kooning), ma estrema castità e nitore. Il gesto unico ed irripetibile: come anche lo Zenismo insegna”24. La dimensione primaria del segno degli Alfabeti sembra aggiornare il precipitato dell’essenzialità della “Pittura di Gesto” con la quale Vivaldi preferì identificare il lavoro di Pollock. Al contempo, lo sguardo di Kounellis sul maestro americano era profondamente individuale e distinto dal contesto dell’arte romana di quegli anni. Della vasta serie di opere ascrivibili al triennio 1960-62, Kounellis espose in quel momento pressoché esclusivamente lavori di grande formato, come nel caso della personale del 1960 alla Galleria La Tartaruga25 (fig. 05). Anche le fotografie dello studio dell’artista, realizzate in quel periodo, verosimilmente in accordo con la sua visione, mostrano in larga parte quella tipologia di opere (fig. 06). La forza propulsiva dei segni dispiegati su superfici di grandi dimensioni assumeva una spazialità diversa, ispirata innanzitutto da Pollock. Nell’intervista con Celant del 1974, l’artista inquadrò in maniera molto chiara il ruolo di Pollock nell’elaborazione degli Alfabeti: “I quadri con le lettere si rifanno a una tradizione che non e soltanto italiana, ma americana. A me gli americani piacciono per la loro concezione dello spazio. Cosi amavo Pollock per la sua grandissima invenzione dello spazio”26. La spazialità implicata nei quadri del maestro americano era dunque la matrice dell’interesse di Kounellis per una pittura che si misurasse con il grande formato. Anche nelle carte di piccole dimensioni, il risalto e la presenza delle lettere non è mai proporzionato al formato ridotto. I segni sono volutamente ingranditi, perentori, indipendentemente dalla grandezza della superficie su cui sono disposti. Pur risolte in sé stesse, quelle carte potrebbero altrettanto bene costituire dei frammenti di una sequenza continua. Ogni lavoro di quella stagione dell’artista supera dunque la pittura intesa nel formato del quadro da cavalletto, e si fa, sulla scia di Pollock, “metafora del muro”, secondo una felice intuizione di Mario Diacono, confermata dall’artista in una conversazione con l’amico di una vita: “Pollock non fa più un quadro da cavalletto, dunque c’è una dimensione completamente diversa. Quando Pollock dice: sono all’interno del quadro e non fuori, parla appunto della fine del mondo tonale, la sua è una partecipazione e di fatto rompe con il quadro… rappresentativo… da cavalletto… e si trova di fronte ad un’altra realtà, questa realtà… Questa epoca era per tutti noi una grandissima scoperta e se ben ricordi allora, all’inizio, i quadri che facevo con le lettere… erano dipinti sulle pareti… con Kentong [sic; Kem-Tone]… e avevano un’adesione… con il muro. [La tela] era una metafora del muro”27. La valenza strutturale che il segno assu12
05. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1959 Pittura acrilica su tela, 200 x 200 cm © The Estate of Jannis Kounellis/SIAE Roma, 2022 Courtesy Sammlung Goetz, Munich Photo: Wilfried Petzi 06. Lo studio di Jannis Kounellis, Roma, 1960 photo: © Claudio Abate / Archivio Claudio Abate 07. Jannis Kounellis nel suo studio con Plinio De Martiis, Roma, 1962, Photo: Mario Dondero 08. Toti Scialoja, Battute, 1959, Tecnica mista su carta, 47 x 34 cm Collezione privata
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meva all’interno di quadro-parete era anche la ragione della fascinazione per la pittura di un altro Americano, Franz Kline, i cui radicali lavori in bianco e nero erano ben noti a Scialoja e Gabriella Drudi, ed erano stati esposti alla Tartaruga nel 195828: “Erano quasi dei timbri, le lettere le avevo disegnate personalmente e sulla tela le riempivo di nero. La stesura avveniva a muro, ed era chiaro che avevo visto Kline, perche mi interessava una sua disposizione dello spazio. Non era una lettura compositiva, ma un succedersi di episodi, in cui lo spazio era libero, molto più grande di quanto era il quadro. Ecco la ragione di quei tipi di lettere così precise. Dovevano essere stampate per creare una dimensione libera dello spazio”29 (fig. 07). La particolarità della lettura dell’arte americana da parte di Kounellis non risiedeva esclusivamente nella percezione della possibilità che il quadro si facesse metafora di una parete. Il rifiuto della componente gestuale dell’Action Painting, di quel “diagramma dell’io” di cui scriveva Vivaldi, non portò comunque l’artista di origine greca ad allinearsi alle tendenze allora circolanti nella nuova generazione che stava emergendo a Roma. Infatti, se gli Alfabeti schivano la dimensione autobiografica della pittura, al contempo rifiutano anche la dimensione di quadro-oggetto, cui invece, seguendo la presentazione datane da Vivaldi, sembravano guardare molti artisti romani vicini a Kounellis. Come ha osservato Dieter Schwarz, su questo aspetto si misura la distanza dell’artista dai riferimenti neodadaisti di Johns o Rauschenberg, e si ritrova invece l’eco di Toti Scialoja, il cui pensiero ha avuto, per la generazione di Kounellis, un ruolo di assoluta centralità30. Nel confronto con i modelli americani, Scialoja mostrò un grado altamente sofisticato di lettura delle possibilità di esistenza del quadro al di fuori dello sfogo e del monumentalismo nei quali l’Espressionismo Astratto rischiava di sfociare. Il concetto di impronta, su cui Scialoja impostò la propria pratica negli anni Cinquanta, riassumeva una visione precisa del rapporto tra l’artista, l’immagine e il mondo. Imprimendo ripetutamente un segno sulla tela, l’artista volle incorporare il tempo entro le coordinate spaziali di una superficie. L’impronta “servì alla celebrazione della vita attraverso il ritmo”31. L’interrogazione costante di Scialoja sul proprio ruolo di fronte alla tela bianca mirava al cuore del problema dell’immagine: “In che senso, oggi, non posso più “comporre”? Nel senso che non posso più considerare la tela come rappresentazione di uno spazio immaginario, proiezione prestabilita di un mondo misurabile e regolabile “a distanza”. La tela non è più, in questo senso, un fuori di sé e un avanti a sé. Il nostro corpo non si proietta più come metro ideale di equilibrio con le sue leggi di simmetria, proporzioni, ecc.”32. L’impronta è l’esito di una continuità tra l’azione dell’uomo e l’immagine, è il nucleo temporale del “ritmo” con cui l’artista scandisce lo spazio: “Il gesto crea un’impronta. Le impronte si ripetono una sull’altra e una accanto all’altra finché la superficie divenga la naturale “visione senza punto di vista”; l’atto semplice. Allora il processo della vita è divenuto ritmo. […] un’impronta, spontaneamente, non può non essere elementare e unica – di volta in volta – ridotta a pura essenza (fin dal primo momento, l’impronta è tutta intera l’immagine)”33 (fig. 08). Depurando il segno dall’associazione vitalistica e quasi spirituale delle opere di Scialoja, Kounellis ne portò l’ipotesi dell’impronta come ritmo alle estreme conseguenze. I suoi segni scandiscono una superficie in continua espansione, ricreando quella spazialità infinita rintracciata nelle opere di Pollock e proponendo una valida possibilità di “visione senza punto di vista”. Al contempo, la riduzione del segno ne valorizza la natura originaria, primigenia. Mario Diacono, in una più ampia ricognizione sulla geografia romana dei propri incontri a cavallo tra un decennio 13
e l’altro, accennò così a una possibile risonanza tra gli Alfabeti di Kounellis e Scialoja: “E pure legata in qualche modo al metodo di Scialoja era la processualità delle lettere “impresse” da Kounellis sulla tela nel ’59 – una socializzazione delle impronte “mistiche” di Toti, in un certo senso”34. L’ambiguità sostanziale delle impronte di Scialoja, sospese tra segno e gesto, immagine e tempo, si decanta nella grammatica di Kounellis. Le tele di quest’ultimo non dichiarano il proprio perimetro, o la propria superficie, come oggetto; anzi, per ritornare alla visione di Scialoja, sembrano mostrarsi nella loro natura di “cosa”, perché “una cosa è a contatto con l’umano, esprime non appena la si considera, racconta, trasmette”35. Elaborazione intorno al segno, privato del proprio significato e filtrato attraverso molteplici stimoli di natura pittorica, l’arte di Kounellis in quegli anni non si risolse, pertanto, solo nella pittura, ma in una ricerca di espressione e di contatto, che procedette parallela alla metabolizzazione degli stimoli visivi. Relazioni: dalla scrittura all’immagine Figura multiforme di scrittore, poeta, critico, Mario Diacono conobbe Kounellis alla fine degli anni Cinquanta. Nel 1961, il primo – e unico – fascicolo dei quaderni della Galleria La Tartaruga ospitava una sequenza di tre testi. Cesare Vivaldi firmò una presentazione dell’arte di Cy Twombly, mentre Diacono fu l’autore di un contributo su Kounellis, redatto in occasione della personale dell’anno precedente, e della traduzione di un estratto di Finnegans Wake di James Joyce. In un gioco di specchi, i tre testi erano profondamente legati tra loro. Twombly e Kounellis rappresentavano le due modalità alternative di ripensare il segno. Esistono alcuni lavori di quest'ultimo, databili intorno al 1959-1960, che sembrano rispondere direttamente alla pittura dell’Americano, che dal 1957 risiedeva pressoché stabilmente a Roma, ed ebbe due importanti personali alla Tartaruga nel 1958 e nel 196036 (fig. 09). Le lettere e i numeri impressi a stencil sembrano emergere e imporsi sopra la trama di segni a matita e colature di colore, tipici della pittura di Twombly, come se il più giovane artista volesse affrontare il pittore d’oltreoceano sul suo terreno e riaffermare una propria identità. In effetti, basta confrontare la grafica degli inviti alle mostre di Kounellis e Twombly alla Tartaruga in quegli anni, per rendersi conto della divergenza nel modo di intendere il segno da parte dei due artisti (fig. 10-12). Lo slancio poetico di Twombly, riconosciutogli da Vivaldi nel fascicolo della Tartaruga, era pur sempre una forma di delicata e ironica rarefazione di un motivo profondamente autobiografico, in cui il gesto dell’Espressionismo Astratto conservava la propria forza, perdendo al contempo ogni carica (melo)drammatica37. Il segno di Kounellis, al contrario, nasceva dall’appropriazione di un repertorio grafico comune, fatto deragliare dal piano dell’uso e ricondotto a una dimensione ulteriore, evocativa. Nel suo articolo, Mario Diacono istituì un confronto preciso tra i due artisti: “Se Twombly porta la pulsazione psichica dell’indistinto e del coatto, il flusso ero-neurotico della coscienza, ed ora il microcosmo del monologo interiore, ad una identità assoluta di gesto e segno, Kounellis consegue analoga precisione di rapporti risalendo da una originaria esperienza anonima collettiva di ideografia geometrica monumentale ad una impressione tipografica del ritmo e del tempo interno su una superficie fisica irrilevante, ma trasposta a spazialità di pura funzione: il foglio su cui un ragazzo fa i compiti di scuola, e l’ingegnere i suoi progetti. La scrittura industriale collettiva segnaletica stradale; simboli direzionali aritmetici culturali (la svastica guerriera di Wotan, mistica di Budda, razziatrice di Hitler); il cerchio, il quadrato, la scacchiera; i divieti e i passi tran14
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09. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1960 Tecnica mista su carta incollata su tela 160 x 190 cm, Miami, The Margulies Collection at the Warehouse 10. – 11. Invito alla mostra personale di Kounellis Roma, Galleria La Tartaruga, 1960 12. Invito alla mostra personale di Cy Twombly Roma, Galleria La Tartaruga, 1960 13. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1959-60 Pittura acrilica su tela, 115 x 160 cm Collezione privata 14. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1959-60 Pittura acrilica su tela, 120 x 160 cm Collezione privata
15. Jannis Kounellis, 1960, Fotografia di Plinio De Martiis, © Su Concessione del Ministero della Cultura, Archivio di Stato di Latina, Fondo galleria d’arte “La Tartaruga”, 74 [91].
sitabili”38. I concetti di “ritmo” e “tempo”, cari alla nozione di impronta, così come l’aveva elaborata Scialoja a fine anni Cinquanta, sono ricondotti al piano della “impronta tipografica”. I segni di Kounellis appartengono a un alfabeto familiare e straniante al contempo, fatto di pochi grafemi ricorrenti. Talvolta, si è tentati di individuare delle serie all’interno del gruppo più vasto di opere, in base ai segni impiegati e alla loro composizione. Il Senza titolo su tela del 1961 (tav. 5) sembrerebbe gemello di due dipinti di formato analogo, riferiti al 1959-60, che mostrano raggruppamenti dello stesso repertorio di segni – una Z, due S rovesciate a specchio, alcune frecce, di cui una con due punte – con la sola differenza che gli altri due quadri presentano una freccia in più39 (fig. 13-14). La lettura offerta da Diacono non si limitava però a tracciare un confronto con Twombly. I segni di Kounellis mostravano un’ambiguità intrinseca, che si poteva risolvere solo con il ricorso all’area semantica della scrittura, della conversazione, della parola. Ogni lettera, numero o segnale, sembra non presentare altro che sé stesso, ma al contempo, contro quel bianco come zona di “disponibilità”, si apre a un significato ulteriore, mai risolto, solo evocato. Anzi, è proprio in virtù della sua nuda presenza, che il segno, combinato secondo logiche estranee alla comunicazione ordinaria, rimanda ad altro: “Racconto realistico cioè racconto metafisico”, scriveva Diacono, sottolineando la coincidenza di opposti, “movimento di idee e moto fisico negato, camminamento psichico, integrazione nervosa, riproduzione del vero visionaria”40. Ogni binomio è un’endiadi, oppure un ossimoro, tra stasi e moto, realtà e metafisica, vero e visionario, così che i segni di Kounellis mostrano “il senso iperreale delle “cose” […], degli ideogrammi che fanno o presentano vicende decisamente dello spirito […]; ma negatrici di illustrazione, fini al se stesso della loro nudità simbolica, vuote di senso magico o sacro ma sempre presenti al colloquio inconscio”41. E chissà che non vi fosse anche una memoria di Scialoja nel ricorso al termine, volutamente generico, di “cosa”. Nello scarto, nel deragliamento di senso, nello straniamento, si ritrova il nucleo di “espressione”, in virtù del quale gli Alfabeti di Kounellis si situano al contempo dentro e al di fuori delle logiche del quadro, lavori di innegabile matrice pittorica, ma sottratti all’univocità e all’esclusività dell’approccio visuale alla pittura (fig. 15). La natura linguistica del segno sarebbe stata ribadita più volte da Kounellis stesso, il quale fece spesso ricorso a un lessico legato alla parola, alla scrittura e alla lettura, per spiegare i suoi Alfabeti. Interrogato su quelle opere da Carla Lonzi nell’intervista già ricordata del 1966, l’artista spiegò il significato del fondo bianco in questi termini: “il bianco è per me molto importante perché ha quella grande disponibilità, no? Fare come una specie di pagina enorme che continua, assorbe delle esperienze”42. L’allineamento della superficie del quadro alla pagina era un segnale importante, che fu ulteriormente articolato: “Prima le lettere avevano una lunghezza sempre uguale perché non volevo assorbire l’occhio su una questione proprio formale, ma su una cosa che si dice … Volevo dire un discorso, anche con poche lettere, in maniera ermetica, come uno che deve scrivere delle cose e dopo, magari, le lettere non somigliano a quel discorso, diventano un’altra cosa rileggendole in maniera logica”43. Certo, al 1966 Kounellis era in una fase ulteriore della propria carriera, e si può pensare che il nuovo clima orientasse la sua lettura retrospettiva di quella stagione. Tuttavia, la natura linguistica del segno, come parola e scrittura, era una componente del tutto omogenea alla nascita di quei quadri. Lo attestò Mario Diacono nel suo testo del 1961, e ancora di più nella scelta di includere, in quel bollettino della Tartaruga, un 15
suo saggio di traduzione di Finnegans Wake44. Esempio estremo di applicazione del flusso di coscienza e di sperimentazione letteraria e linguistica, frutto di complesse e continue revisioni da parte dell’autore, l’ultimo romanzo di James Joyce è pressoché intraducibile, affermando la totale aderenza tra il segno linguistico e il contenuto: “Pareva che Ulysses”, scrisse Umberto Eco nel 1962, “avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia”45. La fusione deliberata delle parole in nuovi lemmi, con radicali inversioni semantiche, e l’uso estremo della punteggiatura, sottratta ad ogni funzione logica e talvolta impiegata come strumento visuale più che linguistico, potevano rappresentare, nel contesto di un bollettino di galleria, un potente commento all’ermetismo dell’alfabeto di Kounellis. Non a caso, nell’ottobre 1966, in occasione dell’esposizione di un gruppo di carte presso lo Studio d’Arte Arco d’Alibert a Roma, Diacono pubblicò insieme all’artista un libro46. Della mostra, si sa che vi furono presentate , tra le altre opere su carta, “rose e garofani neri su fondi di carte incollate in varie tonalità di bianco-grigio”47. Il libro, invece, conteneva le riproduzioni di dettagli degli Alfabeti, intervallate da componimenti di Diacono, instaurando così una corrispondenza tra le opere dell’artista e l’impaginazione grafica della poesia visiva, che evoca significati non solo e non tanto nella sequenza logica di lettere, lessemi e segni ortografici, ma soprattutto nella disposizione e nelle caratteristiche tipografiche di ciascun segno sulla pagina (fig. 16). Il volume fu prodotto in 1000 copie, di cui 30 numerate a mano e accompagnate da un disegno originale, ad esempio, di una rosa48. L’avvertimento che quelle opere potessero essere viste come ripetizione di moduli astratti, il rischio che venissero identificati in uno “stile” – per usare un termine più volte impiegato dall’artista – indusse Kounellis a interrompere la serie degli Alfabeti. In verità, già nel 1961, e soprattutto nel 1962, un elemento di novità venne introdotto nelle composizioni con lettere e numeri, cioè il colore (fig. 17). La cronologia del catalogo dell’artista in quegli anni non è facilmente ricostruibile. Nel 1964, almeno un lavoro con le lettere a colori venne esposto alla Galleria La Tartaruga, in occasione della seconda personale dell’artista in quella sede. Nel testo di accompagnamento pubblicato nel catalogo della mostra, Cesare Vivaldi accennò a un lasso di tempo di circa due anni tra le opere in bianco e nero, collocate intorno al 1960, e quelle con i medesimi motivi tipografici a colori49. In verità, Kounellis non abbandonò mai del tutto il colore. Anche nel periodo in cui le opere erano in prevalenza bianche e nere, alcuni lavori, come quelli “in risposta” a Twombly del 1959-60, mostravano una tavolozza più ricca. In assenza di dichiarazioni coeve dell’artista, si può supporre che la scelta sistematica del colore fosse dovuta al mutare del contesto artistico nei primi anni Sessanta. Come notava già Vivaldi nel 1964, i quadri con le lettere colorate colpiscono per “una cromia estremamente delicata, quasi esangue: non rossi fuoco, blu intensi, verdi smeraldo, ma gialli citrini, celesti un po’ spenti, arancioni, terre”50. La scelta di tinte pastello, che avrebbero caratterizzato la pittura di Kounellis per il triennio 1962-64, si può interpretare come una risposta a un clima “pop” che si andava diffondendo in quegli anni, e che sempre più spesso veniva associato al lavoro dei giovani artisti. La serie dei quadri e delle carte con i segni colorati durò poco, e sfociò 16
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16. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1960, Pittura acrilica e matita su carta, 233 x 310 cm, Collezione privata 17. Jannis Kounellis, Senza titolo, 1961, Olio su lino 134 x 160,2 cm, Courtesy Collezione Maramotti, Reggio Emilia, Ph. Carlo Vannini 18. Jannis Kounellis nel suo studio, 1961 Fotografia di Mario Dondero 19. Veduta della personale di Kounellis, Roma, Galleria La Tartaruga, 1964, Fotografia di Plinio De Martiis © Su Concessione del Ministero della Cultura, Archivio di Stato di Latina, Fondo galleria d’arte “La Tartaruga”, 75 [92]. 20. Jannis Kounellis, Senza titolo (Mare), 1963 Smalto e matita su tela, Collezione privata
in una stagione figurativa inedita per l’artista, apparentemente priva di relazione con quanto realizzato fino a quel momento. Nello stesso torno di tempo, anche altre figure di gravitazione romana, primo fra tutti Mario Schifano, passarono da una fase più “astratta” a una nuova figurazione che poteva indurre a pensare a una versione italiana della Pop art51. Una tale lettura non poteva, tuttavia, valere per Kounellis, il quale anzi volle fuggire quel tipo di associazione. I quadri figurativi, avviati dall’artista alla fine del 1962, non segnavano in realtà un distacco così profondo, come si potrebbe pensare, con la ricerca condotta negli anni precedenti. La valenza di immagine del segno e la natura di impronta, come traccia di realtà visualizzata sulla superficie, rimasero immutate nella sensibilità dell’artista. Già nel periodo degli Alfabeti, il repertorio di segni dell’artista non includeva solo lettere e numeri, ma anche segni grafici, come frecce e sequenze di barre diagonali, prelevate dalla segnaletica stradale (fig. 18). È il caso, ad esempio, di un grande quadro del 1960 appartenente alla collezione Agrati52. Simili prelievi dalla realtà quotidiana non sono da intendere come opere pop. Certo, per Kounellis, così come per molti altri, la problematica cosiddetta della “realtà dell’immagine”, per citare un titolo in voga in quegli anni, era centrale53. Per l’artista, il problema di ripensare la figurazione a partire dai parametri essenziali del quadro e della superficie non si tradusse mai in un confronto con l’appropriazione pura e semplice dell’immagine seriale o meccanica. Il tema dell’icona, così profondamente connesso all’arte pop, venne sempre rigettato dall’artista, che si mostrò invece, nei quadri figurativi, come già negli Alfabeti, legato al tema dell’impronta. L’impronta implica un’immagine che non sia autosufficiente, che non sia oggetto, ma che, al contrario, rechi le tracce di un’esperienza o il rimando a un significato ulteriore. Nella stagione figurativa del 1963-64, l’artista prelevò immagini diagrammatiche, come lo schema delle fasi lunari o la rappresentazione segnaletica del mare con linee curve parallele, e le tradusse in pittura, ricorrendo alle tinte pastello e alla stratificazione delle stesure (fig. 19). Così facendo, Kounellis riaffermò l’ermetismo dei suo Alfabeti a un livello diverso. Quei quadri erano innanzitutto impronte, di cui si mostrava la natura di segni impressi a stencil sulla superficie. Nelle opere più recenti, Kounellis ampliò il proprio ventaglio di strumenti e applicò il colore ad un repertorio di immagini, che non erano più segni linguistici, ma rappresentavano inevitabilmente una realtà (il mare, la luna, l’arcobaleno). Facendo leva sull’immediata riconoscibilità dell’immagine, Kounellis elevò l’impronta a simbolo. Cosa simboleggiano le figure di questi dipinti? Nulla di preciso, nessun rapporto biunivoco, ma un’evocazione più larga, in cui il rapporto tra immagine e realtà non è più filtrato da segni astratti e sottratti alla logica, ma dalla sospensione di un significato specifico (fig. 20). Il fondo bianco, presentato come campo di disponibilità nell’intervista a Lonzi del 1966, è, in questi dipinti, il medium che isola le forme dal loro referente immediato. L’arcobaleno non è più solo immagine di un arcobaleno reale, ma simbolo figurativo riportato all’essenza della sua funzione (tav. 9). Nella conversazione con Celant del 1974, Kounellis fu molto circospetto nell’accogliere la visione della sua pittura dei primi anni come “diario urbano”, presentandola come “un diario per descrivere le cose, perché nel diario ci sono le annotazioni personali, mentre qui annota un’oggettività cittadina. Tuttavia non volevo fare letteratura sul mondo della città, sui cartelli, sulla segnaletica. Era piuttosto un teatro giapponese, al kabuki. In seguito ho fatto il mare e i paesaggi per cancellare tutto questo. Siccome c’era una grossa differenza tra quello che pensavo e quello che gli altri vedevano. Facevano letteratura provinciale sul cartello e la segnaletica. Però il discorso sul mare non era preciso. 17
Usavo una vernice da marinai inglesi e ho fatto disegni presi dall’alto del porto, ma non ho avuto il tempo di precisare”54. Sicuramente, il biennio 1963-64 fu all’insegna della sperimentazione. Kounellis non abbandonò il ricorso alla scrittura. Tuttavia, anziché impiegare singoli segni grafici, ricorse a parole di senso compiuto – i nomi dei giorni o dei mesi – trattandole alla stregua delle immagini (fig. 21). In quel periodo, comparvero per la prima volta dei disegni veri e propri, nei quali Kounellis sembra pensare soluzioni poi tradotte nelle composizioni pittoriche. Le grandi dimensioni di alcuni fogli, come nel caso di un lavoro con i nomi dei giorni, non consentono di definirli studi preparatori veri e propri, anche se ne possono avere l’aspetto55 (fig. 22). Altri disegni, invece, articolano un immaginario esistenziale che, sorprendentemente, riporta certi simboli dei quadri sul piano del ricordo dell’artista. È il caso di una carta del 1963, che sembra corrispondere alle visioni dall’alto del porto, menzionate da Kounellis a Celant nel 1974. In esso, con grande rapidità di tratto, l’artista volle rappresentare un ricordo del nativo Pireo (tav. 8). Il grande arcobaleno che attraversa la parte alta del foglio richiama quello tradotto su tela nello stesso anno. Del resto, un’immagine oggettiva è tale anche nella misura in cui accoglie ogni possibile spunto, compreso il ricordo di vita. L’ambiguità del rapporto, della relazione tra l’immagine e i suoi significati è coerente con gli Alfabeti. I quadri figurativi di questo periodo sono assimilabili a dei messaggi, hanno un contenuto di espressione, tanto quanto le composizioni di lettere e numeri. Semmai, con queste nuove opere l’artista evitò non solo l’autoreferenzialità del quadro-oggetto, ma anche la natura di immediata appropriazione dell’immagine meccanica dell’arte pop, sottraendosi allo stesso tempo al rischio di essere identificato in uno “stile”. Kounellis tornò a più riprese su quel delicato momento di passaggio. Nella conversazione con Carla Lonzi del 1966, descrisse i quadri con i nomi dei mesi o dei giorni e le fasi lunari, come registrazione di un atto essenziale, il più semplice possibile, di vita, non lontano dalle prime opere del 1958 con le insegne dei negozi. Tradurre parole semplici o immagini banali in pittura significava arrivare quasi al punto “quando più non c’è nulla, neanche di vedere […], allora si può arrivare anche al punto così essenziale, ma in maniera non drammatica, anzi gioiosa in senso molto largo della parola … Allora trovare un calendario, così, mentale: ogni settimana c’è una luna e tu dipingi praticamente quella lì che s’ingrandisce, ingrandisce. […] Allora crei un’attività che è inesistente”56. Quei quadri nascevano dalla registrazione di semplici constatazioni della vita quotidiana: “Un giorno c’era lunedì, va bene, dopo, non so, c’era martedì, ma insieme anche la luna piena, allora facevo il quadro della luna piena insieme con il martedì e dopo, non so, esci fuori e vedi una scritta, fai anche la scritta, no? Così apri un’attività da lì che non possibile pensare uno si metta a dipingere”57. Solo così si poteva liberare la sensibilità dello spettatore: “In ogni modo si tratta di non fare che una cosa s’imponga, ma diventi un fatto liberatore per l’altro e lo liberi continuamente come libera te stesso, no? […] dare la possibilità, è come prendere una scatola di fiammiferi e metterla sul tavolo: un quadro che non ha bisogno di essere fatto, è talmente ovvio, ma lo fai per ragioni tue. Io penso a una possibilità sempre meno legata nella struttura della pittura e sempre più libera […], sempre più fantastica, no? E sempre meno costruttivista”58. A distanza di qualche anno, l’artista avrebbe descritto nuovamente quelle opere, insistendo sull’apertura del quadro ad accogliere il tempo, inteso come la scansione del tempo esistenziale: “Questo quadro non è stampato, ma dipinto in una maniera esistenziale: il lunedì ho dipinto “Lunedì”, il martedì ho dipinto “Martedì” e cosi via. L’idea era quasi di un tempo esistenziale. Ho dipinto anche marzo e aprile, nei rispettivi mesi”59. 18
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21. Jannis Kounellis, Senza titolo (Lunedì Martedì Mercoledì), 1963, Olio su tela, 180 x 225 cm Dallas, The Rachofsky Collection Photo by Kevin Todora 22. Jannis Kounellis, Senza titolo (Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì), 1963, Tecnica mista su carta montata su tela, 150 x 207 cm, Collezione privata 23. Jannis Kounellis, Senza titolo (Arcobaleno), 1963 Smalto su tela, 204 x 204 cm, LeWitt Collection, Chester, Connecticut, USA Photo: Cultural Preservation Technologies, Inc. 24. Jannis Kounellis nel suo studio, 1966 Fotografia: Mario Dondero 25. Locandina della mostra personale di Kounellis Roma, Galleria L’Attico, 1967
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Le informazioni ricavabili dalle poche fotografie note e dalle illustrazioni del catalogo non consentono di ricostruire integralmente la mostra alla Tartaruga. La tendenza di Kounellis a ripetere i medesimi motivi figurativi su più tele non facilita il compito. Ad esempio, l’immagine dell’arcobaleno, che forse fu inclusa nella mostra – se la citazione da parte di Vivaldi ne fosse un indizio – fu dipinta in almeno due tele, di dimensioni pressoché similari. Una versione fu acquisita, non si sa in che modo, da Ettore Innocente, artista romano che condivise con Kounellis alcune mostre importanti intorno alla metà degli anni Sessanta. L’altra tela venne acquistata presso il gallerista Mario Pieroni negli anni Ottanta dall’artista americano Sol LeWitt, che era un grande estimatore e amico di Kounellis (fig. 23). Nel quadro, che appartiene ancora oggi alla LeWitt Collection, prevalgono i toni del giallo, e il fondo sembra ripartito in due fasce, con ampio ricorso a colature di smalto60. Le opere esposte alla Tartaruga nel 1964 destarono verosimilmente un certo stupore. Lo stesso testo di Vivaldi nel catalogo sembra accogliere il disorientamento e spiegarlo in termini esclusivamente pittorici. La produzione più recente dell’artista fu presentata come il raggiungimento di una chiarificazione della sua natura di pittore, lo scioglimento di nodi ancora presenti nei quadri con le lettere e i numeri: “Il problema reale, cui l’artista andava lentamente accostandosi, era articolare tutta la superficie del dipinto per mezzo del colore, effondere il proprio empito lirico usando sempre un “traguardo di controllo”, uno schema, un punto d’ancoraggio […]. Il nuovo pilone d’ancoraggio è rappresentato non più dalle rigide lettere e cifre, ma da elementi figurativi molto schematici, del tutto antinaturalistici. All’inizio forse anche più elementare dei vecchi motivi tipografici (quei cartelli zebrati che sono appesi dietro a tanti grossi automezzi), poco a poco il dato figurale è divenuto più ricco: un arcobaleno, la luna nelle sue diverse fasi, il porto del Pireo, il mare”61. La lettura di Vivaldi, pur sottolineando la discontinuità con la fase precedente, colse comunque un aspetto significativo di questi lavori. È innegabile, infatti, che essi presentino una superficie squisitamente pittorica, per tavolozza, stesure, superfici. Tuttavia, sembra, almeno a giudizio di chi scrive, che sia stato proprio il ricorso alla “vera pittura”, per citare le parole con cui Kounellis designò quella fase62, a consentirgli di proseguire sulla strada del superamento, dell’apertura, della fuoriuscita dal perimetro del quadro. Il raggiungimento profondo di questa stagione pare essere la ritrovata unità tra pittura e immagine, dopo l’alternativa tra scrittura e pittura degli Alfabeti. Sondando le ragioni interne del quadro attraverso una traduzione pittorica di immagini oggettive, essenziali, quotidiane, l’artista poté uscirne nuovamente, ripensando quel rapporto tra l’opera e lo spettatore che caratterizza il suo lavoro fin dall’inizio. Il tema profondo di queste opere è dunque, ancora, l’ipotesi di una relazione possibile, dell’apertura alle possibilità infinite di liberazione dell’esperienza del mondo attraverso la concezione del quadro come campo di disponibilità. Conclusioni: performare l’immagine Due strade si aprirono a Kounellis dopo la stagione sperimentale dei quadri figurativi del 1963-64 (fig. 24). Da una parte, vi fu la serie, altissima, delle Rose, avviata già in quegli anni e culminata nella presentazione alla Galleria L’Attico nel 1967 (fig. 25). Dall’altra, l’artista ritornò alla parola, realizzando nel 1964-65 alcuni dipinti, in cui campeggiano delle scritte. Entrambe le strade si sarebbero poi riunite nella dialettica tra struttura e sensibilità indagata a partire dalle opere successive alle Rose. I quadri con le scritte del 1964-65 consentono di gettare luce su un ultimo tratto della ricerca di una prospettiva 19
di relazione e coinvolgimento dello spettatore da parte dell’artista, che si può rintracciare già nelle opere degli anni precedenti. Nei suoi ricordi, la realizzazione dei dipinti con i giorni della settimana, intorno al 1963, si dispiegò in una sorta di rituale quotidiano: “I did a painting every day of the week. Large stripes in different colors. Monday was pink. […] the colors were not symbolic. It just happened that there was a certain color that was right for each day”63. Alla domande di Sharp, se l’esecuzione dei quadri con i giorni avesse preso molto tempo, Kounellis rispose di aver impiegato un anno e mezzo. Fin dalla conversazione con Lonzi del 1966, l’artista prestò crescente attenzione a sottolineare quanto i suoi dipinti degli anni precedenti fossero tentativi di uscire dai limiti del quadro. I quadri con le scritte del 1964-65 erano opere come Bar, Giallo, Notte, Vieni e Petite (fig. 26). In essi, era implicito il coinvolgimento diretto della spettatore. Nelle intenzioni dell’artista, quei dipinti avrebbero dovuto interrogatore l’osservatore, liberandone l’immaginazione: “Penso di non dare allo spettatore un oggetto già fatto, ma di farlo funzionare con la sua fantasia, perciò, a un quadro, sull’alluminio, ho scritto con rosso “giallo”: lui subito immagina il giallo, non glielo offri proprio, lo fai sforzare, lo fai partecipare su una superficie piana, ma con la mente, no?”64. L’esercizio richiesto all’osservatore è dunque sospeso tra coinvolgimento e distanza. La scelta stessa del carattere in cui sono scritte le parole dei quadri del 1965, molto diverso dal maiuscolo commerciale degli anni precedenti, era determinata dal desiderio di instaurare una situazione duplice: “Le lettere che faccio adesso richiamano un periodo molto vecchio, non sono delle lettere attuali, penso che sono di un periodo vicino al 1930. Per riuscire a dire una cosa e a farla restare senza prendere delle esperienze già implicite in quello che si vede oggi. Come una cosa sentita e scritta. […] Quando si dice un nome è un nome, completo, ma non lo voglio scrivere in maniera di fare un nuovo oggetto. La bandiera di J. Johns è bandiera perché prende un tale spazio, è ferma lì dentro… no, io voglio accennare solamente”65. La possibilità di liberare il linguaggio dalla convenzionalità, da qualsiasi funzione normativa, dall’imperativo della realtà – per usare le parole dell’artista – richiese dunque una presa di distanza dall’arte americana, dal quadro-oggetto di Jasper Johns ma anche dal consumo di immagini seriali della pop art, anch’essa evocata nella conversazione con Lonzi. L’apertura di nuovi rapporti non passava più dal solo ermetismo del segno, ma da forme ulteriori di comunicazione con lo spettatore. Un quadro come Petite segna il raggiungimento di un traguardo in questo senso (fig. 27). In esso, per la prima volta, Kounellis raffigurò uno spartito musicale. Si tratta delle prime tre battute del brano Petite fleur di Sidney Bechet, da cui deriva anche il titolo, dipinto in giallo sulla tela66. La lettura della notazione musicale prevedeva anche l’ascolto del brano durante la visione dell’opera. La sinestesia derivante da una simile pratica sarebbe stata esplorata da Kounellis più avanti negli anni. Al 1964, questa modalità di fruizione determinò un’evoluzione nel lavoro di Kounellis. Dallo spettatore-lettore interrotto, catturato tra comprensione logica e inversione di senso, degli ermetici caratteri dei primi Alfabeti, passando per l’osservatore di un’immagine immediatamente riconoscibile, ma spiazzante nella sua banalità – accentuata dall’elaborato trattamento pittorico – dei quadri del 1963, l’artista giunse dunque a pensare uno spettatore-attore, che non sia solo interprete, ma agisca la parola e l’immagine, estendendo la comunicazione aperta nel quadro oltre i suoi limiti, riportandola nel campo infinito delle possibilità. Lo spazio come risorsa di disponibilità trovava qui, forse per la prima volta, il compimento di un processo di liberazione dell’esperienza. 20
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26. Jannis Kounellis, Senza titolo (Giallo), 1965 Olio su tela, 190 x 207 cm, Collezione privata 27. Jannis Kounellis, Senza titolo (Petite), 1964 Olio su tela, 190 x 230 cm, Udo und Anette Brandhorst Sammlung © 2022. Foto Scala, Firenze/bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin 28. Jannis Kounellis esegue lo “happening” nel suo studio, Roma, 1960, Fotografo sconosciuto
La dimensione performativa è l’ultimo elemento messo in campo dai lavori di Kounellis della prima metà degli anni Sessanta. Significativamente, la prima dichiarazione nota dell’artista toccò proprio questo tema. In occasione di una collettiva di otto artisti alla Tartaruga inaugurata il marzo 1964, il mensile “Successo” organizzò una sorta di tavola rotonda con gli espositori, cui si aggiunse Mario Schifano, per fare un bilancio della nuova scena artistica romana. Di ognuno di essi venne offerto un breve ritratto, accompagnato da una dichiarazione sul rispettivo lavoro. Di Kounellis si legge quanto segue: “Jannis Kounellis è greco, ha gli occhi vispi e si lamenta sempre per il freddo. Il suo mare è dolce, tiepido e colorato, sopra vi galleggiano segni neri, frecce, lettere dell’alfabeto. “Quando stavo in Grecia – dice – appena finito un quadro lo mettevo in musica e lo cantavo. Ma allora dipingevo solo quei segni neri che sono un po’ come le note della musica bizantina. Il mare sono riuscito a dipingerlo solo qui, adesso”67. L’accenno alla messa in musica e al canto dei segni dipinti si richiama ad alcune esperienze rievocate dall’artista in altre sedi. In effetti, la parola, oltre che scritta, letta, o genericamente vista, può essere cantata, performata. La scrittura integrata nelle opere di quel periodo poté accogliere dunque anche una componente autenticamente teatrale. La ritualità stessa della rappresentazione di ciascun giorno della settimana nel corso di un anno e mezzo, ricordata nell’intervista con Sharp del 1972 in merito ai quadri del 1963, costituiva uno degli aspetti di “autenticità teatrale”, che Kounellis poté avvertire già allora e sviluppare negli anni a seguire, grazie soprattutto alle collaborazioni con Mario Diacono ed Egisto Macchi per lo spettacolo A(lter)A(ction), ispirato alle lettere di Antonin Artaud, nel 1966, e poi con Carlo Quartucci, a partire da I testimoni del 1968. La nozione stessa di “autenticità teatrale” fu affrontata da Kounellis sulle pagine di “Marcatrè” proprio in relazione allo spettacolo di Quartucci68. Fu nel contesto del vivo interesse per il teatro che l’esperienza performativa ricordata nell’articolo di Guerrini del 1964, ed evocata nel dipinto Petite dello stesso anno, venne ulteriormente indagata e sviscerata dall’artista. La fotografia anonima, che ritrae Kounellis avvolto da una tela di lettere e numeri, nell’atto di realizzare una delle composizioni della serie degli Alfabeti su una superficie apposta al muro del proprio studio, è divenuta ormai una delle immagini più note dell’artista69 (fig. 28). Fu pubblicata forse per la prima volta da Carla Lonzi nel suo libro Autoritratto nel 1969, accompagnata dalla didascalia: “Kounellis durante un suo happening (Galleria La Tartaruga, Roma 1960)”70. Segnata da reminiscenze dadaiste, l’azione fu ricordata a più riprese dall’artista: “The letter paintings,” riporta l’intervista con Sharp nel 1972, “were meant to be sung. I used to sing them all the time. In 1960, for example, I did a continuous performance, first in my studio and then at the Galleria Tartaruga in Rome, in which I stretched upsized canvases coated with Kemtone, a housepaint, over all the walls in the room, and painted letters over them which I sang. The problem in those days was to establish a new kind of painting – something after Informal Art”71. Nelle parole di Kounellis, una tale estensione performativa della creazione e fruizione del quadro fu dunque funzionale a ripensare completamente la pittura dopo l’Informale. Cantare gli Alfabeti, interagire con essi, rientrava in una più ampia interpretazione di quelle opere come “una cosa che si legge”, almeno stando ai ricordi condivisi con Marisa Volpi Orlandini nel 1968: “Anche i quadri con i numeri, i primi che facevo erano una specie di happening, essi diventavano “una cosa che si legge”, un materiale, dovevano indurre ad una specie di rituale di vita, lo stesso che dovrebbe essere indicato dagli allestimenti e dagli oggetti che faccio ora”72. 21
Per quanto la sua sottolineatura potesse essere determinata anche dagli sviluppi più recenti del lavoro di Kounellis e dal suo impegno sul fronte del teatro, l’estensione della parola come azione rappresentò comunque un altro aspetto nella complessa indagine intorno allo statuto dell’immagine e alle sue possibilità di relazione con l’artista, l’osservatore e il mondo, avviata allo scadere degli anni Cinquanta. La precocità della dichiarazione raccolta da Guerrini nel 1964 testimonia, in ogni caso, il radicamento profondo e il significato che l’artista attribuì alla pratica performativa come un possibile canale di comunicazione per uscire fuori dai limiti del perimetro e della superficie del quadro. Che si trattasse di un integrazione verbo-visuale, della manipolazione pittorica dell’immagine quotidiana, della ricerca intorno al tema dell’impronta e della sua elevazione a simbolo, o di una più autentica implicazione performativa, l’investigazione di Kounellis fu fin dall’inizio tesa ad aprire il quadro al mondo, spingendone i limiti più in là rispetto alle convenzioni. Le opere del primo tempo dell’artista costituiscono le prime istanze dell’apertura di un rapporto, di una relazione, di una comunicazione, che sarebbe diventata la ricerca di una dialettica nell’intero tragitto della sua attività: “Continuo a pensare”, confessò l’artista a Mario Diacono nel 1996, “che quell’epoca è stata il vero inizio… di un rapporto… anche di un rapporto con lo spazio… fatto inconsciamente se vuoi, però era un vero rapporto… anche la lettura di queste lettere… anche questo fa parte di un rapporto che ho poi mantenuto…”73 (fig. 29).
Desidero ringraziare: Michelle Coudray, Damiano Kounellis, Damiano Urbani e Elisabetta Campolongo, Archivio Kounellis, Roma; Riccardo Abate, Archivio Claudio Abate, Roma; Flavio Fergonzi; Daniela Lancioni; Carol LeWitt e Janet Passehl, The LeWitt Collection, Chester; Sara Piccinini, Collezione Maramotti, Reggio Emilia; Pacifico D’Ercoli e la famiglia Dondero. Il ringraziamento più sentito, per il confronto costante, il sostegno e l’amicizia, va a Mario Diacono.
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29. Jannis Kounellis nel suo studio, s.d. [1966] Fotografia di Plinio De Martiis © Su Concessione del Ministero della Cultura, Archivio di Stato di Latina, Fondo galleria d’arte “La Tartaruga”, 74 [91].
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Conversazione con Germano Celant, 1974, in Jannis Kounellis, cat. della mostra, a cura di Germano Celant, Rimini, Musei Comunali, 16 luglio – 30 settembre 1983, Milano, Mazzotta, 1983, p. 37. Discorsi: Carla Lonzi e Jannis Kounellis, “Marcatrè”, a. IV, nn. 26-29, dicembre 1966, p. 130. Un villaggio pieno di rose. Un’intervista a Kounellis di Carla Lonzi, “Catalogo”, n. 3, giugno 1966, p.n.n. Discorsi, cit., p. 130. Willoughby Sharp, Structure and Sensibility: An Interview with Jannis Kounellis, “Avalanche”, n. 5, estate 1972, p. 22. Conversazione con Germano Celant, 1974, in Jannis Kounellis, cit., p. 39. Conversazione con Daniela Lancioni, 3 marzo 2011, cit. in Daniela Lancioni, Perché Jannis Kounellis ha consegnato la realtà della vita alla fissità del quadro?, “Ricerche di storia dell’arte”, n. 114, aprile 2015, p. 46. Conversazione con Germano Celant, 1974, in Jannis Kounellis, cit., p. 34. Dieter Schwarz, From the Wall to the Window. Jannis Kounellis’s Letter Pictures, in Jannis Kounellis. Early Works, cat. della mostra, Zurigo, Larkin Erdmann, 2020, p. 53. Il saggio di Schwarz offre una precisa e puntuale ricognizione sulla stagione degli Alfabeti di Kounellis. Il resoconto più preciso del viaggio è nella cronologia del catalogo della mostra organizzata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Venezia nel 2019, cfr. Jannis Kounellis, cat. della mostra, a cura di G. Celant, Milano, Fondazione Prada, 2019, p. 37. Laura Cherubini, Intervista a Mario Diacono, in Roma anni ’60. Al di là della pittura, cat. della mostra, a cura di Maurizio Calvesi, Rosella Siligato, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 20 dicembre 1990 – 15 febbraio 1991, Roma, Carte Segrete, 1990, p. 343. Giorgia Gastaldon, Fonti di arte americana a Roma, 1958-1961: Alcuni casi emblematici, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia”, serie 5, vol. VIII, n. 2, 2016, pp. 547-566, 874-876. Ivi, pp. 563-564. Roma-New York 1948-1964, cat. della mostra, a cura di Germano Celant, Anna Costantini, New York, The Murray and Isabella Rayburn Foundation, 5 novembre 1993 – 10 gennaio 1994, Milano, Charta, 1993, p. 161. Jannis Kounellis. Frammenti di memoria, cat. della mostra, a cura di Carl Haenlein, Hannover, Kestner-Gesellschaft, 5 aprile – 30 giugno 1991, Winterthur, Kunstmuseum Winterthur, 22 settembre – 10 novembre 1991, Hannover, Kestner-Gesellschaft e.V., 1991, p. 47, fig. 2. Ringrazio Mario Diacono per la segnalazione. Il lavoro è ricordato e illustrato in un’immagine dell’epoca anche nel catalogo della mostra alla Fondazione Prada del 2019, cfr. Jannis Kounellis, cit., 36-37, fig. 5. Schwarz, From the Wall to the Window, cit., p. 49. Giorgia Gastaldon, Schifano. Comunque, qualcos’altro, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2021, pp. 65-66. Cesare Vivaldi, Dizionario di nuovi simboli e di nuovi
termini usati nella critica d’arte moderna, “Almanacco Letterario Bompiani 1960”, Milano, Bompiani, 1959, pp. 140, 142. 20. Ivi, p. 141. 21. Giorgia Gastaldon, Uno sguardo oltreoceano: assenze, presenze e fraintendimenti nella ricezione dell’arte americana a Roma (1958-1963), “Palinsesti”, n. 6, 2017, pp. 2-6. 22. Cesare Vivaldi, Giovane pittura di Roma, in Scarpitta, Perilli, Novelli, Accardi, Sanfilippo, Bignardi, Rotella, Marotta, Nuvolo, Buggiani, cat. della mostra, Roma, Galleria La Tartaruga, febbraio 1959, Roma, Galleria La Tartaruga, 1959, p.n.n. 23. Id., Nuove vie dell’arte, “Almanacco Letterario Bompiani 1960”, 1959, p. 131. 24. Id., Dizionario di nuovi simboli…, cit., p. 140. 25. Schwarz, From the Wall to the Window, cit., p. 49. 26. Conversazione con Germano Celant, 1974, in Jannis Kounellis, cit., p. 33. 27. Un processo grande e liberatorio. Conversazione tra Jannis Kounellis e Mario Diacono, in Jannis Kounellis, cat. della mostra, Castelluccio di Pienza, La Foce, 30 luglio – 6 settembre 1996, Roma – San Quirico d’Orta, Associazione culturale La Tartaruga – Editoriale Don Chisciotte, 1996, p. 7. 28. Roma-New York 1948-1964, cit., p. 149; Gastaldon, Fonti di arte americana a Roma, cit., p. 561. 29. Conversazione con Celant, cit., p. 32. Su questo aspetto, cfr. Schwarz, From the Wall to the Window, cit., pp. 56-57. 30. Ivi, p. 61. 31. Toti Scialoja, Tre pagine di giornale 1958, “L’esperienza moderna”, a. II, n. 5, marzo 1959, p. 15. 32. Ivi, p. 16. 33. Ibid. 34. Laura Cherubini, Intervista a Mario Diacono, cit., p. 343. 35. Documenti di una nuova figurazione. Toti Scialoja, “L’esperienza moderna”, a. I, n. 2, agosto 1957, p. 24. 36. Esiste un dipinto Senza titolo del 1959, riprodotto in Kounellis, Colonia, Galerie Karsten Greve, 2007, pp. 32-33. Un altro dipinto di questo tipo, su una tela di formato leggermente più grande, datato 1960, fa parte della collezione Margulies di Miami. 37. Cesare Vivaldi, Cy Twombly tra ironia e lirismo, “La Tartaruga”, n. 1, febbraio 1961, pnn. 38. Mario Diacono, L’alfabeto di Kounellis, ivi, pnn. 39. Kounellis, Colonia, Galerie Karsten Greve, cit., pp. 36-39. Uno dei quadri è stato anche esposto più di recente dalla galleria Larkin Erdmann, cfr. Jannis Kounellis. Early Works, cit., pp. 16-17. 40. Diacono, L’alfabeto di Kounellis, cit., pnn. 41. Ibid. 42. Discorsi: Carla Lonzi e Jannis Kounellis, cit., p. 130. 43. Ibid. 44. Da Finnegans Wake. A James Joyce’s mamafesta. By the Stream of Zemzem under Zigzag Hill, trad. di Mario Diacono, “La Tartaruga”, cit., pnn. 45. Umberto Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962, rist. in Id., Le poetiche di Joyce. Dalla “Summa” al “Finnegans Wake”, Milano, Bompiani, 1966, p. 113.
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46. Jannis Kounellis. “Alfabeto” & un testo di Mario Diacono, Roma, Studio d’Arte Arco d’Alibert, 1966. 47. Cesare Vivaldi, Lettera da Roma, “D’Ars Agency”, a. VII-VIII, n. 5, ottobre 1966-gennaio 1967, pp. 166-167. 48. È il caso, ad esempio, di un esemplare conservato presso la Spencer Collection, nella collezione di stampe e grafica della New York Public Library. 49. Cesare Vivaldi, in Jannis Kounellis, cat. della mostra, Roma, Galleria La Tartaruga, aprile 1964, Roma, Galleria La Tartaruga, 1964, pnn. 50. Ibid. 51. Francesco Guzzetti, Round Trip: From Rome to New York and Back Again, in Facing America: Mario Schifano, 1960-1965, cat. della mostra, a cura di Francesco Guzzetti, New York, Center for Italian Modern Art, 26 gennaio – 13 novembre 2021, New York, Center for Italian Modern Art, 2021, p. 6. 52. Germano Celant (a cura di), Un folle amore. La collezione Luigi e Peppino Agrati, Ginevra-Milano, Skira, 2002, cat. 256, pp. 263, 388. 53. “Realtà dell’immagine” era il titolo di una collettiva apertasi alla Libreria Feltrinelli di Roma l’8 aprile 1965, alla quale partecipò anche Kounellis. Lo stesso titolo fu impiegato per un’altra mostra di artisti romani, inaugurata alla Tartaruga il 10 giugno dell’anno successivo. 54. Conversazione con Germano Celant, 1974, in Jannis Kounellis, cit., p. 41. 55. Il lavoro è illustrato in Kounellis, Colonia, Karsten Greve, cit., p. 87. 56. Discorsi, cit., p. 130. 57. Ivi, p. 131. 58. Ivi, p. 132. 59. Conversazione con Germano Celant, 1974, in Jannis Kounellis, cit., p. 44. 60. Ringrazio Carol LeWitt e Janet Passehl per le informazioni. 61. Cesare Vivaldi, in Jannis Kounellis, cit., pnn. 62. Marisa Volpi Orlandini, Tecniche/materiali: Kounellis, “Marcatrè”, a. VI, nn. 37-40, maggio 1968, p. 73. 63. Sharp, Structure and Sensibility: An Interview with Jannis Kounellis, cit., p. 21. 64. Discorsi, cit., p. 130. 65. Ibid. 66. Germano Celant, Jannis Kounellis, “Studio International”, vol. CXCI, n. 979, gennaio-febbraio 1976, p. 38. 67. Rosanna Guerrini, Una realtà che non eravamo più abituati a vedere, “Successo”, a. VI, n. 4, aprile 1964, p. 82. 68. Jannis Kounellis, Pensieri e osservazioni, “Marcatrè”, a. VI, nn. 43-45, luglio 1968, pp. 230-237. 69. Lancioni, Perché Jannis Kounellis ha consegnato la realtà della vita alla fissità del quadro?, cit., pp. 47-48. 70. Carla Lonzi, Autoritratto, Bari, De Donato, 1969, p. 135, fig. 33; Schwarz, From the Wall to the Window, cit., pp. 63, 67. 71. Sharp, Structure and Sensibility: An Interview with Jannis Kounellis, cit.., p. 21. 72. Volpi Orlandini, Tecniche/materiali. Kounellis, cit., p. 73. 73. Un processo grande e liberatorio. Conversazione tra Jannis Kounellis e Mario Diacono, in Jannis Kounellis, cit., pp. 7-8.
Opere in mostra
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Apparati
Opere in mostra
Senza titolo, 1960 Pittura su carte intelate dall’artista 144 x 300 cm Firma e data in alto a destra
Senza titolo, 1960-63 Pittura su carta 70 x 100 cm Firma al retro
Senza titolo, 1960 Pittura su carta 70 x 100 cm Firma e data al retro
Senza titolo, 1960 Pittura su carta 70 x 100 cm Firma e data in basso a destra
Senza titolo, 1961 Olio su tela 114 x 160 cm Firma e data al retro
Provenienza Galleria Pio Monti, Roma Collezione privata, Roma
Provenienza Galleria Marconi, Milano Galleria Tega, Milano Galleria Rizziero, Pescara Collezione privata, Teramo
Provenienza Collezione privata
Provenienza Antigallery, Mestre Galleria massimodeluca, Mestre Collezione privata, Milano
Provenienza Galleria Christian Stein, Milano Galerie Annemarie Verna, Zurigo Dr. Johann-Karl Schmidt, Stoccarda Collezione privata, Germania
Bibliografia A. Zevi, Sessanta. Formidabili quegli anni nei dipinti, in “Corriere della sera”, 11 febbraio 1990; Enciclopedia Treccani, Appendice V, tav. XXVII; “Ars. Il nuovo dell’arte antica e moderna”, Gennaio 2001, p. 139. Esposizioni Chicago, MCA-Museum of Contemporary Art, Jannis Kounellis: A Retrospective, 18 ottobre 1986 - 4 gennaio 1987; Roma, Galleria d’Arte Netta Vespignani, Millenovecentosessanta, febbraio 1990, n. 6; Roma, Palazzo delle Esposizioni, Roma Anni ‘60. Al di là della pittura, 20 dicembre 1990 15 febbraio 1991, p. 98; Roma, Scuderie Papali al Quirinale, Mercati di Traiano, Novecento. Arte e storia in Italia, 30 dicembre 2000 - 1 aprile 2001, p. 502; Tokyo, Museum of Contemporary Art, Una storia dell’arte in Italia del XX secolo, settembre dicembre 2001, p. 113; Berlino, Neue Nationalgalerie, Jannis Kounellis – Das Labyrinth, 8 novembre 2007 - 24 febbraio 2008.
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Esposizioni Darmstadt, Hessisches Landesmuseum, ottobre 1985 - febbraio 1991 (prestito, etichetta al retro); Colonia, Museum Ludwig in der Halle Kalk, Kounellis. Die Front, das Denken, der Sturm, 1997; Stoccarda, Kunstmuseum, Drei: Das Triptychon in der Moderne, 2008.
Bibliografia Art Symphony, BAG Brother’s Art Gallery, Arte Povera, novembre 2013, Lugano, ill. a colori Esposizioni Art Symphony, BAG Brother’s Art Gallery, Arte Povera, novembre 2013, Lugano.
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Senza titolo, 1960 ca. Pittura su carta 70.4 x 100 cm Provenienza Galleria Mazzoli, Modena Collezione Fabio De Vincentiis, Roma
Il porto del Pireo, 1963 Matita, pastelli colorati e gesso su carta montata su compensato 41 × 47 cm Firma e data in basso a destra
Senza titolo, 1961-62 Pittura su carta 70 × 100 cm Firma in alto a sinistra al retro Provenienza Akira Ikeda Gallery, Nagoya Marisa Del Re Gallery, New York Rhona Hoffman Gallery, Chicago Segal Gallery, Boston Collezione privata
Provenienza Collezione privata, Roma
Bibliografia Dieter Schwarz, Jannis Kounellis, Early Works, Larkin Erdmann, Zurigo 2020
Senza titolo, 1963 Smalti acrilici su tela 194 x 199.7 cm Firma e data al retro
Rosa, 1966 Collage su cartoncino 75.5 x 56 cm Edizione di 9 esemplari (es. 5/9) Firma in basso a sinistra
Provenienza Ettore e Isabella Innocente, Roma Galleria Giuliana De Crescenzo, Roma Galleria Artiaco, Pozzuoli Studio Trisorio, Napoli Dr Hans Mayerl, Landshut, Germania Studio Trisorio, Napoli Albert Tuytens, Nokere, Belgio Collezione privata
Esposizioni Nagoya, Galleria Akira Ikeda, Jannis Kounellis, 1987, n. 10; Zurigo, Larkin Erdmann, Jannis Kounellis, Early Works, 11 settembre – 6 novembre 2020, n. 18. Parigi, Levy Gorvy, Jannis Kounellis, 27 novembre 2021 – 15 gennaio 2022
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Senza titolo, 1966 Collage su cartoncino 75.9 x 54.8 cm Provenienza Fabio Sargentini, Roma Topazia Alliata, Roma Rizziero Arte, Pescara Collezione privata, Milano
Jannis Kounellis: Storia espositiva 1960-1967
Si riporta qui di seguito l’elenco completo delle esposizioni personali e collettive cui Kounellis partecipò dall’inizio della propria carriera fino al 1967. Organizzata in sequenza cronologica, la storia espositiva termina nella primavera del 1967, con l’esposizione personale in due tempi alla Galleria L’Attico di Roma, nella quale l’artista presentò le Rose di stoffa e un’installazione con trenini giocattolo montati su binari all’interno di una struttura di legno, in parte dipinta di verde, in parte coperta di specchi. Quella mostra segnò il definitivo superamento della convenzione del quadro e la fase di transizione verso le sperimentazioni coi materiali e lo spazio dei tardi anni Sessanta.
Jannis Kounellis: Bibliografia dei cataloghi delle mostre 1960-1967 Mostre personali
1960 L’Alfabeto di Kounellis, in Quaderni di “La Tartaruga”, Galleria La Tartaruga, Roma, febbraio1961 (testo di Mario Diacono) 1964 Jannis Kounellis, Galleria La Tartaruga, Roma 1964 (testo di Cesare Vivaldi)
Kounellis, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 4 giugno 1960
1966
Opere di piccolo formato, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 3 dicembre 1960
Jannis Kounellis ‘”Alfabeto”, Galleria Arco d’Alibert, Roma 1966 (poesie di Mario Diacono)
XII Premio Lissone internazionale per la pittura, Lissone, Palazzo del Centro del Mobile, 29 ottobre – 26 novembre 1961
Jannis Kounellis, Galleria La Tartaruga, Roma 1966 (testo di Carla Lonzi)
Kounellis Schifano Twombly, Roma, Galleria La Tartaruga, novembre 1961
Jannis Kounellis. Il giardino / i giuochi, Galleria L’Attico, Roma 1967 (testo di Alberto Boatto)
Rauschenberg Twombly Kounellis Tinguely Schifano, Roma, Galleria La Tartaruga, dicembre 1961
Kounellis, Galleria L’Attico, Roma 1967 (testo di Jannis Kounellis)
13 pittori a Roma, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 9 febbraio 1963
Kounellis, Galleria dell’Ariete, Milano 1967 (testo di Carla Lonzi)
1967
Mostra Mercato Nazionale d’Arte Contemporanea, Firenze, Palazzo Strozzi, 23 marzo – 28 aprile 1963 Schrift en Beeld, Amsterdam, Stedelijk Museum, 3 maggio – 10 giugno 1963; Baden-Baden, Staatliche Kunsthalle, 15 giugno – 4 agosto 1963
Mostre collettive
1961 XII Premio Lissone, Lissone 1961 (testi di Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio e Pierre Restany)
IV Biennale Internazionale d’Arte. Oltre l’Informale, San Marino, Palazzo del Kursal, 7 luglio – 7 ottobre 1963
1963
Accardi Castellani Festa Kounellis Schifano, Torino, Galleria Notizie, 17 dicembre 1963 – 15 gennaio 1964
13 pittori a Roma, Galleria La Tartaruga, Roma 1963 (testi di Nanni Balestrini, Gillo Dorfles,Umberto Eco, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti e Cesare Vivaldi)
Angeli Bignardi Festa Fioroni Kounellis Lombardo Mambor Tacchi, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 5 marzo 1964
Mostra Mercato Nazionale d’Arte Contemporanea, Palazzo Strozzi, Firenze, Libreria EditriceFiorentina, Firenze 1964 (testi di Claudio A. Bruni e Marco Valsecchi)
II Mostra Mercato Nazionale d’Arte Contemporanea, Firenze, Palazzo Strozzi, 21 marzo – 19 aprile 1964
Schrift en Beeld, Stedelijk Museum, Amsterdam, Typos Verlag, Francoforte 1963
J. Kounellis, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 15 aprile 1964
(testi di Umbro Apollonio, Werner Doede, Wolfgang Grözinger, Helmuth Heissenbüttel, DietrichMahlow, Franz Mon, Shiryo Morita, Julius Rodenberg, Irmtraud Schaarschmidt-Richter e Paul Seylaz)
Mostra del Premio “La Tartaruga”, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 19 ottobre 1964 V Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio, Roma, Palazzo delle Esposizioni, aprile – maggio 1965 Realtà dell’immagine, Roma, Libreria Feltrinelli, dall’8 aprile 1965 L’art actuel en Italie, Cannes, Casino Municipale, 19 dicembre 1965 – 2 gennaio 1966
Biennale Internazionale d’Arte: Oltre l’informale, Palazzo del Kursaal, San Marino, Grafiche Gattei, Rimini 1963 (testi di Vincente Aguilera Cerni, Bruno Apollonio, Giulio Carlo Argan, PalmaBucarelli, Giuseppe Gatt e Pierre Restany) Accardi, Castellani, Festa, Kounellis, Schifano, Galleria Notizie, Torino 1963 1965 Realtà dell’immagine, Libreria Feltrinelli, Roma 1965 (testo di Giorgio de Marchis)
Roma 1966 realtà dell’immagine, Roma, Galleria La Tartaruga, dal 10 giugno 1966
Rassegna di arti figurative di Roma e del Lazio, Palazzo delle Esposizioni, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1965
Jannis Kounellis “alfabeto”, Roma, Galleria Arco d’Alibert, dal 7 ottobre 1966
L’art actuel en Italie, Casino Municipal, Cannes 1965, a cura di Palma Bucarelli (testo di G.Reymond)
Jannis Kounellis. Il giardino / I giuochi, Roma, Galleria L’Attico, 11 marzo – 8 aprile 1967 (prima fase); dal 13 aprile 1967 (seconda fase)
1967 8 pittori romani, Galleria de’ Foscherari, Bologna 1967 (testi di Pietro Bonfiglioli e MaurizioCalvesi) Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino 1967 (testi diEugenio Battisti, Germano Celant, Luigi Mallé e Aldo Passoni) Fuoco immagine acqua terra. Lo spazio dello spettacolo. Lo spazio degli elementi, GalleriaL’Attico, Roma 1967 (testi di Alberto Boatto e Maurizio Calvesi) La terza dimensione, Galleria Qui Arte Contemporanea, Roma 1967 (testo di Marisa VolpiOrlandini) Decimo Festival dei Due Mondi, Palazzo Ancaiani, Spoleto 1967 Arte Povera – Im spazio, Galleria La Bertesca, Genova, Edizioni Masnata/Trentalance, Genova1967, a cura e con testo di Germano Celant 5ème Biennale de Paris, ARC/Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi 1967 (testo diPalma Bucarelli)
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