Lcdp per eugenio barba

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La Contrada del Poeta fogli volanti di poesia spersa

n°8-9 Lecce, luglio 2014

Per il 50° anniversario della fondazione dell’Odin Teatret

Contributi, letture e poesie

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La Contrada del Poeta fogli volanti di poesia spersa

n°8-9 Luglio 2014 Fogli volanti di poesia spersa, graficamente composti da Mauro Marino nella sede del Fondo Verri di Lecce Direttore: Maurizio Nocera I fogli sono pubblicati su Spagine (issuu.com/spagine) e stampati in fotocopiatrice a tiratura limitata

Il Fondo Verri è in via Santa Maria del Paradiso 8.a a Lecce (cap 73100) telefono 0832-304522 fondoverri@tiscali.it Spagine è su issuu.com/mmmotus https://www.facebook.com/perspagine


Il logo-simbolo dell’Odin Teatret

«L’Odin è una leggenda di cui ognuno può fare quello che vuole, appropriarsene, trasformarla. Ma io non credo che ci siano eredi» Eugenio Barba

[da un’intervista (19 febbraio 2013) di Francesca De Sanctis a E. B.: «Cosa resterà dell’Odin? Ci sono degli eredi?»]


Eugenio Barba

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Gallipoli e il Salento nei libri di Eugenio Barba

I

profili biografici del regista dell’Odin Teatret (Oslo, 1 ottobre 1964), di Eugenio Barba riportano come luogo di nascita Brindisi, ed effettivamente così è, ma tutti sanno che egli è gallipolino puro sangue. Eugenio (29 ottobre 1936), come pure suo fratello Ernesto (Brindisi, 27 aprile 1934 - Livorno, 27 aprile 1994), sono nati nella città adriatica semplicemente perché il padre, Emanuele (Neli) Barba, ufficiale delle milizie del regime, venne nominato comandante la piazza di Brindisi, a quell’epoca porto importante per le operazioni militari. Questa precisazione è utile per capire poi il perché negli scritti del regista siano tanti i riferimenti a Gallipoli e al Salento, per lo più rivolti a quella parte della sub regione ideale (così la definì Ennio Bonea) che sta al di sotto del capoluogo Lecce. Non mancano però anche i riferimenti a Brindisi, dove egli ha amici di vecchia data, come, ad esempio, Tony D’Urso e Emanuele Amoroso. È sufficientemente conosciuta la sterminata bibliografia degli scritti del regista dell’Odin, peraltro al momento difficile da consultare per intero, salvo che farlo presso il suo editore di opere teatrali, oppure presso il suo stesso studio a Holstebro (è in questa cittadina del Nord-Ovest della Danimarca che l’Odin Teatret si trasferì e stabilì a partire dal 1966). Per cui, non avendola io a disposizione interamente, intendo

di Maurizio Nocera

circoscrivere il mio sguardo di lettore solo a quei libri che sono presso di me, ovviamente tutti letti, qualcuno pure recensito. *** Ciò che mi affascina del mondo letteral-teatrale di E. B. è soprattutto la sua scrittura, quel suo tipico modo di mettere nero su bianco, e quello, altrettanto tipico, di far emergere le sue intime emozioni dalle relazioni interpersonali come quelle, ad esempio, vissute con l’altro grande mostro del teatro, Jerzy Grotowski, del quale Eugenio fu amico e, a suo scrivere, anche allievo ad Opole (Polonia) presso il Teatr 13 Rzedow (Teatro delle Tredici File). Ma non solo questo, perché mi affascina anche quella tipica scrittura indirizzata agli aspetti tecnici del mondo del teatro perché, occorre ribadirlo, E. B., in questo campo, è stato un rivoluzionario, che nel teatro, tipico luogo della rappresentatività della favola umana, ha modificato gli spazi fisici, i ruoli dei soggetti coinvolti, le trame che stanno all’origine del fare teatro. Non a torto, in tutto il mondo egli è considerato come uno dei grandi Maestri di tutti i tempi al pari dello stesso Jerzy Grotowski, e di Kostantin Sergeevic Stanislavskij, Vsevolod Èmil'evic Mejerchol'd, Antonine Artaud, Bertolt Brecht, Jacques Copeau, Peter Brook, Giorgio Strehler, Julian Beck, e i nostri grandi Eduardo De Filippo e Dario Fo. Forse ho dimenticato qualcuno, forse ho dimenticato il superla-


tivo Samuel Beckett, ma non fa niente, si tratta solo di citare quelli che ho citato per dare l’idea del livello a cui è giunto E. B. Ma scrivevo poco sopra che a me, oltre al teatro vero e proprio, ciò che mi affascina di E. B. è la sua scrittura, quei suoi tipici scritti gonfi di nostos e algos (nostalgia), che gli storcono lievemente la testa all’indietro per fargli rivedere sotto una luce del tutto particolare gli eventi del passato, soprattutto quelli legati alla sua famiglia, a quella straordinaria genia dei Barba gallipolini, il cui capostipite (Emanuele Barba, 1818-1887) fu un campione di storia della nostra città. E. B. non ha mai dimenticato questo, ed ecco perché egli, in quasi tutti i suoi libri non si è mai dimenticato di fare riferimento a Gallipoli, a Brindisi e al Salento in generale. E questo perché è accaduto e accade? Perché proprio questa sub regione e questi luoghi così periferici dal resto del mondo interessano al regista dell’Odin Teatret? Semplicemente perché, a mio parere, egli ritiene questi nostri luoghi elettivi della sua vita, mi riferisco ovviamente a quella del mondo del teatro. Basti pensare che è qui, in Salento, a Carpignano Salentino per la precisione, che nel 1974 egli, assieme all'Odin Teatret, sperimenta la pratica del teatro come “baratto culturale”, uno scambio di doni immateriali: io do a te, realtà comunitaria, una perfomance teatrale, e tu dai a me quel che hai, soprattutto sul piano delle tue tradizioni culturali. Ed è ancora qui, in Salento che, negli anni ‘70, ad E. B., coadiuvato dall’amico Nicola Savarese, nasce l’idea di fondare l’Ista (Scuola Internazionale di Teatro Antropologico), anche se poi la fondazione vera e propria avverrà a Bonn nel 1979, mentre solo nel 1987 terrà la sua prima sessione in Salento. Ma è anche qui che gli viene in mente l’idea del Terzo Teatro. Ovviamente queste sue grandi idee, che hanno rivoluzionato il teatro della seconda metà del Novecento, E. B. le ha sperimentate anche e soprattutto in altre regioni del pianeta (penso, ad esempio, al suo grande amore per i popoli emarginati e sfruttati, agli indios dell’America Latina, agli altri popoli dell’Est, ecc.), ma, nel fare la cronologia della sua at-

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tività di regista, sembra che nel Salento egli ha sperimentato molto. Ovviamente non va dimenticata la culla dell’Odin Teatret, Holstebro (Danimarca). Ed ecco ora i libri di E. B. che ho nella mia biblioteca e che ho letto – sia chiaro – non come teatrologo, perché non lo sono, e mi guardo bene dall’esserlo in quanto non ho le competenze specifiche, ma come gallipolino e salentino, il cui interesse al regista dell’Odin è rivolto unicamente per scoprire nei suoi testi letteral-teatrali i riferimenti ai luoghi da lui stesso ritenuti originari. Delle citazioni riporterò soltanto le pagine e non gli ambiti o sezioni differentemente intitolate.

Il libro dell’Odin. Il teatro-lboratorio di Eugenio Barba (a cura di Ferdinando Taviani, Feltrinelli, seconda ediz. 1978). In questo libro ci sono alcune foto che riportano immagini di spettacoli (Parate e improvvisazioni) dell’Odin a Carpignano Salentino (dove rimase dal 20 maggio al 15 ottobre 1974) e nelle «piazze, scuole, campagne di Pisignano, Sogliano, Galatone, Soleto, Serrano, Cutrofiano e Martano. Alle Feste dell’Unità di Castrignano dei Greci, San Cesario, Calimera e Copertino». Chi qui scrive, ovviamente, ha assistito in questi paesi a diversi spettacoli dell’Odin. All’epoca non conoscevo ancora direttamente E. B. (sua madre sì), perché di lui mi parlava suo zio Aldino (‘Ndino) Barba, padre di mio cognato. Con suo fratello Ernesto invece avevo cominciato già a corrispondere.

Nel cap. quinto (La linea d’ombra), E. B. scrive: «Il mio interesse per il fenomeno religioso. Non è la religione come catechismo che mi interessa, ma soprattutto il comportamento di certe persone che, vivendo l’esperienza religiosa, in realtà sono state dei grandi rivoluzionari: si sono cambiate, e quindi, con la loro azione, hanno cambiato tutta una società, tutta un’epoca. Questo è un problema affascinante, direi, per chi si interessa di politica: come – pur non impiegando i mezzi ortodossi, quelli che si considerano i mezzi ortodossi della politica – si può arrivare a risultati essenziali, cioè ad un cambiamento./ L’inizio: a Gallipoli, una cittadina del Sud dell’Italia, dove ho passato gli anni fra il 1945 e il 1951, ho vissuto in un


tipico ambiente religioso, cattolico, un cattolicesimo barocco, un po’ lugubre, ma molto pittoresco. Non posso dire di aver subìto pressioni per ciò che riguarda la religione. Mia madre [Vera Gaeta Barba] pur essendo cattolica, mi ha lasciato la massima libertà./ Quando ero bambino seguivo affascinato le processioni di Pasqua. C’era, per esempio, una processione con il Cristo: gli uomini vestivano sai e cappucci simili a quelli del Ku Klux Klan, ma tutti neri [qui, forse, Eugenio ha dimenticato, perché i cappucci delle confraternite gallipoline sono rossi]. Non restava nulla della loro figura umana. Li chiamavano i Mau. Era molto lugubre. E le donne, in un altro corteo, portavano la statua della Madonna Addolorata, gridavano in coro. Era il grido della madre di Cristo che chiamava il figlio./ O ancora, a Natale: bande di giovani suonavano e cantavano di notte dolcemente sulla strada per annunciare che Cristo sarebbe presto venuto./ Gallipoli era una città di pescatori. A quell’epoca remavano al largo dell’isola con le loro barche. Accadeva, a volte, che ci fossero nebbie e tempeste. Le donne andavano sui bastioni dell’isola – era una città fortificata, un’antica roccaforte veneziana – coi loro bambini; erano sempre vestite di nero, e facevano gridare i bambini affinché le loro voci argentine indicassero a chi era in mare la direzione per l’isola. Lo ricordo bene: dalle finestre di casa mia potevo guardare giù in basso le donne nere e quei bambini magri, senza scarpe, che cantavano perché rientrassero in porto i padri» (pp. 211-212). «Un corpo estraneo: è l’espressione che meglio copre la nostra presenza in questo paese dell’Italia del Sud. Gli attori dell’Odin e la popolazione di Carpignano….». Da questo punto in poi, il testo di E. B. si riproduce nel libro: Aldilà delle isole galleggianti (Ubilibri, Milano 1985). E. B. scrive: «Quando siamo andati a Carpignano [Salentino], abbiamo continuato a lavorare con strumenti musicali, cercando di superare quello che era il nostro limite: non saper suonare correttamente. Ci siamo concentrati su ciò che per noi era più facile: il ritmo. In quel periodo il nostro training era affiancato dal ritmo di strumenti a percussione. Cosa ci in-

teressava in lavoro sul ritmo? Sviluppare ancora di più la possibilità di trasformare lo strumento musicale in un accessorio scenico, teatralizzato, renderlo una parte integrante dell’azione drammatica dell’attore. Un esempio è il tamburo di Iben nel Libro delle Danze (1974), spettacolo che fa trapelare chiaramente tutte le tracce di questa nostra ricerca» (p. 88). Da questo punto in poi, e fino all’indicazione delle pagine, si tratta dell’intervista che Stig Krabbe Barfoed fece a E. B. nella primavera 1974 a Carpignano Salentino. Ho omesso di riportare le domande dell’intervistatore; ciò che mi interessa sono le risposte del regista sulla situazione di fatto. «I motivi dell’Odin Teatret per lavorare a Carpignano sono egoistici: siamo qui perché il nostro compito ci stimola, perché ci dà la possibilità di affrontare un lavoro nuovo, di metterci in una situazione di sfida./ Puoi definire i nostri motivi come egoistici ma è alle conseguenze, ai risultati che tu devi rivolgere la tua attenzione. Come percepisce la popolazione di Carpignano la nostra presenza nel loro paese? Siamo uno stimolo, un impulso così forte da mettere in moto dei processi che permettono loro di ritrovare un legame culturale comune che li caratterizza e li definisce in rapporto a noi? Se la popolazione risponde alle iniziative dell’Odin Teatret con una serie di azioni che hanno un senso culturale – danze, canzoni, teatro improvvisato, scene grottesche e parodiche – allora i nostri motivi apparentemente egoistici divengono un forte catalizzatore di un avvenimento sociale. […] L’espressione corpo estraneo è quella che meglio definisce la nostra presenza in questo paese dell’Italia del Sud. Gli attori dell’Odin e la popolazione di Carpignano sono veramente poli opposti. I giovani dell’Odin con i loro capelli lunghi, la loro cultura scandinava, il loro modello di comportamento, il loro modo di pensare, il pregiudizio della loro apparente mancanza di pregiudizi, sono totalmente differenti da questa società contadina saldata da profonde norme. Ma appunto questo “essere diversi” è stato il punto di partenza per la nostra attività./ Non siamo venuti qui per insegnare qualcosa alla popolazione, per illuminarli sulla loro situazione umana e sociale; non vole-


vamo dar loro coscienza di qualcosa che noi credevamo di avere. Né volevamo diventare il loro passatempo. D’altra parte non volevamo rinunciare alle nostre esperienze, a vivere in un nostro modo, alla nostra libertà emotiva, cioè capitolare di fronte alle norme del paese. Si tratta di rispettare le norme capitali di una società del genere: cioè le norme sessuali e religiose. Ma aldilà di queste abbiamo costruito il nostro soggiorno dall’esperienza del baratto./ Immaginati due tribù che sono molto diverse e che si incontrano sulle rive opposte di un fiume: ogni tribù può vivere per se stessa, può parlare dell’altra tribù, forse dirne male o elogiarla. Ma ogni volta che uno rema da un riva all’altra scambia qualcosa. Uno non passa il fiume per fare ricerche etnografiche, per vedere come gli altri vivono, ma per dare qualcosa e ricevere qualcosa in cambio: un pugno di sale per un braccio di stoffa, una manciata di perline per un arco e due frecce. Ma un patrimonio culturale si può barattare?/ Siamo partiti da situazioni molto semplici in cui gli attori dell’Odin cantavano canzoni scandinave e dove era organico e naturale che i presenti rispondessero con le loro canzoni. Dopo abbiamo allargato queste situazioni inserendovi alcune “danze” – esercizi del nostro training – a cui la popolazione ha risposto con proprie danze. Quindi apparvero brevi scene e sketches improvvisati. La situazione comincia a rassomigliare a una festa collettiva a cui tutti partecipano. C’è sempre qualcuno in ognuno di questi paesi che ha capacità spiccate come entertainer. Abbiamo proceduto in questo modo non solo a Carpignano ma anche in altri paesi: la gente veniva e ci domandava di presentare le nostre canzoni, le nostre danze, oppure un piccolo spettacolo di clown che avevamo preparato. “cosa ci date in cambio?” domandavamo noi. Dovevamo allora radunare persone disposte a “barattare” canzoni e danze. Nessun professionista, ma contadini e artigiani partecipavano a questo baratto. Allora il nostro arrivo e il nostro “spettacolo” erano soltanto un pretesto, un impulso concreto per radunare persone e lasciar loro rilevare la situazione, partendo dalle premesse di una cultura popolare: creare situazioni che saldano e non che dividono. Alle proprie canzoni,

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alle proprie danze, tutti possono partecipare. Non esiste un momento di estetizzazione dello spettacolo: cioè i professionisti che cantano, danzano e recitano e gli altri che passivi li osservano e li considerano specialisti del canto, della danza e della recitazione./ Questo è il nostro “baratto”. Noi non abbiamo rinunciato a quello che era nostro, loro non hanno rinunciato a quello che era loro. Ci siamo definiti reciprocamente attraverso il nostro patrimonio culturale. […] Ma non potevamo trapiantare una simile attività [quella dell’Odin a Holstebro] in un piccolo paese dell’Italia del Sud dove gli abitanti non hanno mai visto uno spettacolo di teatro. Per questo non potevamo più pensare in categorie di mestiere./ Ci siamo dovuti domandare che cosa vogliamo qui. Non volevamo imboccare queste persone col “teatro”, un fenomeno culturale di cui hanno fatto benissimo a meno per secoli. Volevamo che ci rispondessero con la loro voce, con la loro lingua, con i loro legami, con quello che li lega assieme, quello che li fa forti, quello che si vuol spezzare in loro: la loro cultura, una cultura popolare che – ed è l’essenziale – non divide ma accomuna» (pp. 173-175). […] Una sera, dopo circa un mese del nostro soggiorno a Carpignano Salentino (fino ad allora eravamo vissuti in quasi totale isolamento, concentrandoci solo sul nostro lavoro) abbiamo deciso di andare a trovare alcuni amici dell’università di Lecce, che erano venuti ad abitare in paese. Abbiamo preso i nostri strumenti musicali e siamo usciti dalla nostra abitazione. Era la prima volta che – in gruppo compatto – apparivamo in paese, e per di più con gli strumenti musicali e con gli abiti variopinti che usiamo per il training. Era anche la prima volta, in tanti anni di lavoro teatrale, che ci trovavamo per le strade davanti a tutti, noi che invece eravamo soliti essere ritirati nel chiuso delle nostre sale di lavoro, o nel chiuso dei seminari, fra poche persone attente e interessate. Subito cominciarono a seguirci moltissime persone che ci chiedevano di suonare./ Arrivammo alla casa dei nostri amici e non li trovammo. Restammo, così, senza volerlo, all’aperto, in piazza, circondati da molta gente che si aspettava che noi facessimo qualcosa. Eravamo con le spalle al


muro, e allora cominciammo a suonare: canzoni popolari scandinave oppure improvvisazioni vocali, come di solito fanno i nostri attori nel training. Per circa un’ora cantammo e suonammo. E quello che ci sorprese di più, alla fine, non fu il lungo applauso del pubblico (“cosa eravamo diventati, noi dell’Odin, un facile gruppo di musicanti?”) ma il fatto che alcune persone ci dissero: “Adesso vi faremo sentire noi le nostre canzoni”. Cominciarono loro a cantare, le persone che ci circondavano, canzoni di lavoro, canzoni che con il loro ritmo particolare accompagnavano il gesto del raccolto del tabacco e delle olive, e poi canti di amore infelice e di morte. Da questa situazione imprevista nacque la nostra idea di “baratto”./ Quello che accadeva ora a Carpignano ci ricordava un’altra simile, nelle montagne della Sardegna, dove circa cinque mesi prima avevamo portato il nostro ultimo spettacolo, Min Fars Hus./ […] A Carpignano con i nostri canti e le canzoni in risposta, era dunque accaduto di nuovo quel che era accaduto in Sardegna dopo Min Fars Hus./ Quando anche in altri paesi vicini a Carpignano si sparse la voce della presenza di un gruppo teatrale straniero, allora dei giovani vennero a chiederci di andare da loro. Noi rispondemmo francamente che non eravamo filantropi, che a nessuno piace lavorare per niente, che volevamo un compenso, ma non lo volevamo in denaro. Volevamo che loro si presentassero a noi nello stesso modo in cui noi ci presentavamo a loro, coi loro canti e le loro danze. Spesso questi giovani rispondevano che non sapevano suonare né conoscevano i canti del posto. A volte dicevano che nel loro paese non esistevano tradizioni./ Noi allora chiedevamo loro di andare a cercare i vecchi, proponevamo che andassero nelle botteghe di vino a farsi insegnare dai vecchi le canzoni, oppure invitassero i vecchi stessi a venire in piazza a cantare» (pp. 194-196). […] L’Odin Teatret è stato spesso in Italia con i suoi spettacoli. Qui abbiamo rappresentato 60 volte Min Fars Hus […] Abbiamo allora deciso di andare a vivere per alcuni mesi in Italia, e di farlo in un periodo in cui non avevamo più il vecchio spettacolo (Min Fars Hus) e non avevamo ancora il nuovo. Un periodo,

cioè, in cui eravamo soltanto un gruppo di persone, non un gruppo teatrale in tournée con il suo spettacolo. E di andare in un posto dove il teatro non era mai esistito, e dove non aveva neanche senso./ Il paese in cui andare a vivere, Carpignano, è stato scelto in una zona del Sud dell’Italia, dove in ogni famiglia c’è un padre, un figlio, un fratello emigrato in Svizzera o in Germania. Un paese piccolo e isolato./ I miei compagni e io ci siamo sempre sentiti a disagio vedendo qualcuno che è diverso e che cerca di familiarizzare con gli altri, quando un adulto si infantilizza con i bambini, o quando uno studente vuole farsi credere simile agli operai o ai contadini./ Ci sentivamo diversi, e ci mancava inoltre la vocazione di missionari per fare accettare agli altri la nostra verità. Ma questa nostra verità poteva definirsi solamente confrontandoci con le verità degli altri. Da questo incontro con il diverso noi siamo stati costretti a rivelare, attraverso tutta una serie di reazioni che ignoravamo prima, qual è il dislivello fra le nostre intenzioni e quel che siamo in grado di realizzare./ Arrivati in questo paesino del Sud, non ci siamo mischiati subito alla popolazione. Siamo vissuti per tre settimane in un totale isolamento al centro del paese, appoggiandoci a quel che era il nostro punto più sicuro: il nostro lavoro. Ci alzavamo alle 5 di mattina, alla stessa ora in cui i contadini vanno in campagna a lavorare. Le nostre ore di training si tenevano in campi lontani dal paese, deserti, ma dove eravamo allo scoperto e potevamo essere visti. Scorgevamo a volte i visi abbronzati e impassibili di uomini e donne che osservavano il nostro lavoro, training fisico e vocale. Ma nonostante tutti gli interrogativi che il nostro sconcertante comportamento presentava, la popolazione sentiva in esso una logica, una necessità e una disciplina il cui senso le sfuggiva, ma che era consistente, nella sua realtà di lavoro. […] Il nostro soggiorno nel Sud dell’Italia voleva essere per noi la dimostrazione che non è lo spettacolo – risultato ultimo e limitato nel tempo – che incide, ma è il gruppo, con il suo comportamento, con la sua visione realizzata in un lavoro che si estende nell’intera giornata./ Durante i cinque mesi del nostro soggiorno a Carpignano il “baratto” ha animato l’in-


tera regione, e se noi portavamo le nostre canzoni, le nostre danze, le nostre scene grottesche, le nostre parate in un paese, potevamo ricevere in cambio, nello stesso paese, qualcosa del genere; oppure un gruppo di loro poteva venire da noi a Carpignano, o poteva andare in un altro posto, dove un altro gruppo doveva ricambiare, o recarsi a sua volta altrove. Gli ultimi tre mesi furono un vivace “baratto” fra contadini, operai e studenti che andavano reciprocamente a presentarsi con quella che era la loro stessa cultura./ Non esisteva teatro professionistico. Eppure la situazione teatrale esisteva: un momento che permetteva di aggregarsi, l’accadere di situazioni con persone nuove che colpivano e raccoglievano gente intorno a sé./ Un piccolo gruppo di attori stranieri, apparentemente non a fondo in tutti i problemi politici e sociali del posto, dimenticando ogni bel programma di teatro, aveva portato alla luce il minerale nascosto nella miniera.// Ma si può andare più avanti? Si può trasformare il “baratto” da fenomeno culturale in qualcosa che lascia la traccia nella situazione politica e sociale del posto?/ Dopo molte esperienze il “baratto” mi ricordava il corpo di un polipo senza tentacoli, un sacchetto che fluttua, che emette materia che colora, che cambia il colore delle acque, ma che poi scompare, apparentemente senza tracce./ Come far nascere tentacoli a questo sacchetto, tentacoli capaci di avvicinarsi a un piccolo pezzo di roccia e staccarlo?/ Fu così che l’anno seguente, nel ’75, ritornando a Carpignano e più tardi sulle montagne della Sardegna, tentammo di far crescere dei tentacoli che facessero presa e rimanessero anche dopo la nostra partenza. Non solo chiedevamo il “baratto”, ma chiedevamo al gruppo che ci aveva invitato quale era per loro il problema che, nel paese, avrebbero più voluto risolvere. Le proposte erano molteplici e differenti./ Allora, come condizione della nostra presenza, esigevamo una mobilizzazione non solo per trovare suonatori o gente che cantasse» (pp. 199201). […] Nell’Italia del Sud, a contatto con le popolazioni del Salento e della Barbagia, potevamo sentire, nel loro quotidiano sopravvivere, i resti di una cultura, di una tradizione, di una eredità che si sbriciolava lenta-

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mente, contagiata dai valori del tempo nuovo» (p. 210).

Ista (International School of Theatre Anthropology). Salento 1987. Tradizione dell’attore e identità dello spettatore. Dialoghi Teatrali (1-14 settembre 1987). Si tratta di un Numero Speciale di «Terra d’Otranto» (Rivista Trimestrale della Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Lecce). Nell’editoriale E. B. scrive: «È la seconda volta che una sessione pubblica dell’Ista si svolge in Italia. A Volterra, dall’agosto all’ottobre 1981, fu un lavoro quasi monastico, chiuso verso l’esterno. Nel Salento, nel settembre dell’87, sarà un’Ista per le strade e per le piazze. […] L’Ista Salento si propone di vedere da vicino cosa accada in tali casi [si riferisce alle situazioni del baratto interculturale]. Si tratta di osservare come il senso dello spettacolo si trasformi nel passaggio dalla tradizione dell’attore alla “traduzione” personale che ne fa lo spettatore distante da questa tradizione» (pp. 17-19).

La canoa di carta (Il Mulino, Bologna 1993). Già nelle prime pagine, E. B. ricorda di quand’era un credente. Scrive: «vi è un bambino in un luogo caldo, pieno di persone che cantano, di odori fragranti, di colori vividi. È di fronte ad una statua posta in alto, tutta avvolta in una stoffa violetta. Di colpo, mentre le campane suonano, l’odore d’incenso diventa più pungente e i canti montano, la stoffa viene tirata giù e appare Cristo risuscitato./ Così si celebrava la Pasqua a Gallipoli, il paese dell’Italia del Sud dove ho trascorso la mia infanzia […] Credevo di applicare un procedimento giapponese. Solo ora ho capito questo détour e questo ritorno: è il momento della Vita, quando a Gallipoli cadeva il drappo viola e io vedevo, in una statua, il Cristo risorto» (pp. 11-12 e p. 21).

Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta (Note e montaggio fotografico di Lluís Masgrau; Ubulibri, 1996). Nel libro vi sono alcune immagini che mostrano alcuni spettacoli dell’Odin Teatret nel Salento. Di E. B., però, isolo questi testi: «Il secondo periodo è iniziato


nel 1974, con un lungo soggiorno in un villaggio dell’Italia del Sud. Ci sembrò normale trasportare il nostro abituale atteggiamento: lavoro “segreto” di training e di preparazione di un nuovo spettacolo, attività non orientate verso l’esterno. Ma in quella situazione, in quel villaggio del Sud, il “segreto” generava curiosità. E la curiosità che ci circondava ci spinse a chiederci se davvero il segreto era ancora necessario. Scoprimmo che non lo era più» (p. 46). Alla pp. 109-111 e alle pp. 113-121 del libro viene ripubblicata l’esperienza del baratto già descritta nel libro Aldilà delle isole galleggianti. «[…] Nell’Italia del Sud, a contatto con le popolazioni del Salento e della Barbagia, potevamo sentire, nel loro quotidiano sopravvivere, i resti di una cultura, di una tradizione, di una eredità che si sbriciolava lentamente, contagiata dai valori del tempo nuovo./ […] Perché pensavo a una Riserva, quando vedevo i vecchi seduti immobili all’ombra, le donne vestite di scuro che passavano cariche e indaffarate, certi giovani con gli abiti dai colori vivaci che passeggiavano incessantemente su e giù per la strada del paese, come animali in gabbia? […] Una Riserva, così come il governo americano l’aveva originariamente pensata, era un grande territorio di esclusiva proprietà degli indiani, da loro amministrato, senza alcuna intromissione da parte dei bianchi. La fame di terra fece rompere tutti i trattati, fino a che il terriotorio indiano si ridusse a limiti così ristretti che “Riserva” divenne sinonimo di “reclusione”, il tentativo subdolo di assimilazione forzata, di rendere il rosso simile al bianco» (p. 129). «L’esperienza di Carpignano ci ha spiazzato tra montagne di sabbia, domande nuove, situazioni impreviste. Un’altra esperienza è sopravvenuta subito dopo: la prima tornée dell’Odin in Sud America, al festival di Caracas» (p. 170). «Il poeta è malato; viene sbarcato a Brindisi e lo portano in una lettiga attraverso i monti Appenini fino a Napoli, dove morirà (sto parlando del romanzo di Hermann Broch, La morte di Virgilio). Appena sceso dalla nave, nel porto di Brindisi, scorge un fanciullo dalla pelle scura, con gli occhi luminosi e impertinenti. Gli sembra di riconoscerlo. Poi si rende conto di non

averlo mai visto prima di allora. Eppure è come se lo conoscesse intimamente» (p. 252). «Ho spesso parlato del teatro come un corpo emofiliaco che perde sangue scontrandosi con la realtà; del teatro come un ghetto di libertà, un’isola galleggiante, una fortezza piena di ossigeno; del teatro come una canoa che rema contro la corrente rimanendo allo stesso posto come la terza sponda del fiume; del teatro come una casa con due porte, una per entrare e un’altra per prendere il volo; del teatro come il popolo di un rituale vuoto; del teatro come un vascello di pietra capace di farci viaggiare attraverso l’esperienza dell’individuo e della storia; del teatro come un muro che ci spinge a metterci in punta di piedi per vedere cosa c’è aldilà; del teatro come baratto, come potlatch, come spreco, come emigrazione./ Sono delle metafore che vogliono accennare a un teatro che vale solo se si trascende, un teatro che cerca il suo valore provando a liberarsi della sua funzione di teatro./ Ho tentato di spiegare tutto questo parlando di terzo teatro, di un teatro asociale, della via del rifiuto, dell’eredità di noi a noi stessi e della necessità di evadere dallo spirito dei tempi./ Credo che il senso e il sottotesto di tutti i miei discorsi si distilli chiaramente nella storia del contadino che seminava leoni e raccoglieva coniglie./ Come mi pongo in relazione col mio tempo? Ho resistito più di trent’anni alla sua seduzione mangiando conigli./ Soprattutto cucinati arrosto o in umido, con olive e aglio, come si usa al mio paese» (p. 279). Quest’ultima citazione viene riportata qui, perché ritengo che, con quel «mio paese», E. B. si riferisca a Gallipoli e al Salento, dove effettivamente la carne di coniglio o di lepre viene mangiata in tal modo.

Il prossimo spettacolo (Textus, L’Aquila, 1999. A cura di Mirella Schino). Su questo libro, non più reperibile in libreria, mi sono rivolto al prof. Ferdinando Taviani, che me l’ha riprodotto in una forma assolutamente unica e di gran pregio, con allegata questa lettera: «L’Aquila, 19.11.2011// Caro Maurizio/ Ci ho messo un po’ a mandarti la copia del libro, perché volevo che riproducesse nella forma e nei colori l’originale: così puoi avere un libro ricostruito dopo essere


perito sotto il terremoto [6 aprile 2009, ore 3.32, magnitudo 6.3, vittime 309, feriti 1500]. Non una rarità, come sarebbe stato giusto per un bibliofilo, ma – che forse è meglio – un desiderio, un “vorrei ma non posso”, l’ipotiposi di un libro che è come se non ci fosse più. Fra i nomi degli studenti, che han lavorato a questo libro ce n’è uno d’una ragazza morta senza svegliarsi (pare o si spera) nel crollo della sua casa la notte del terremoto. Avevo detto a quelli della copisteria di mettere una pagina bianca davanti al frontespizio con tutte quelle firme che impudicamente mi chiamano “maestro”. Se ne sono dimenticati. Ma in fondo mi fa piacere, perché fra i nomi degli altri si nasconde quello della morta. E poi alla scemenza del “maestro” non faccio più caso. Sono un professore – di timpano o grancassa – e “maestro” per niente. È un bel libro. Forse il migliore su-con Eugenio e sull’Odin. Alla lunga il migliore. Il meno noto. E va bene così. Il sacco di libri che mi hai dato e che non mi è pesato, in realtà mi ha irretito e forse ossessionato nel viaggio in treno, e poi nei giorni scorsi. I salentini selvaggi sei – siete – riusciti a tenerli in vita conservandone le scintille, l’incomprensibilità e la paura. Pensavo: hanno partorito Carmelo Bene, che ha aperto la tenda, è usato fuori, s’è presentato all’esterno, a noi – dall’altra parte – sembrava folle e bizzarro. E forse, agli occhi di chi l’aveva spiritualmente partorito pareva un geniale ragazzo capace di mettere la testa a posto. O meglio di tenerla a posto attraverso le sregolatezze, zavorrata dalla saggezza del commercio. I salentini selvaggi sono propriamente quelli che hanno abbandonato gli ormeggi del commercio? L’arte senza commercio è dunque follia? Ovvio! Grazie per tutti i libri. Un bacio. E un abbraccio ad Ada.// Nando». Adesso, però, torniamo ai contenuti del libro vero e proprio e, a proposito dei riferimenti di E. B. a Gallipoli e al Salento, leggo: «Il mio viaggio non è avvenuto all’interno di una sola cultura, ma ne ha attraversate almeno tre. Di esse voglio parlarvi oggi, e per far questo ho cercato di dare un nome ad ognuna di loro./ La prima è la cultura della fede: un bambino in un luogo caldo, pieno di persone che cantano, di odori pungenti, di colori accesi.

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C’era un momento, poi, più straordinario di tutti: di fronte ai fedeli sta qualcosa, probabilmente è una statua, è tutta avvolta da una stoffa violetta. E a un certo punto – mentre le campane suonano, l’odore d’incenso diventa più intenso, i canti aumentano – la stoffa viene tirata giù e appare Cristo risuscitato./ Così a Gallipoli, dove ho trascorso la mia infanzia, si celebrava la Pasqua. Mi sentivo molto religioso, e uno dei miei grandi piaceri era stare in chiesa, immerso in un’atmosfera piena di canti, di incenso, di donne. Non capivo bene cosa si stesse celebrando. Non mi interessava molto la fede in sé per sé. Mi affascinava, invece, l’attesa di un momento particolare. Come era il momento in cui la statua veniva finalmente svelata. E mi piaceva lo stare insieme, sentirsi uniti, stretti, condividendo qualcosa. Ancora posso ritrovare quella sensazione di calore nel mio corpo./ Proprio come posso ancora risentire nelle ginocchia il dolore che provai quel giorno che vidi la madre di un mio amico seguire ginocchioni la processione di Pasqua. Nella processione del Venerdì santo, la statua del Cristo, con la croce sulle spalle, si muove a mezzo chilometro di distanza da quella dell’Addolorata, che lo chiama da lontano. C’è un effetto straordinario in questa distanza, struggente, è separazione e insieme è contatto attraverso il suono, il “lamento” con cui la Madre e le donne che seguono la sua processione chiamano Cristo. L’ho anche usato in uno dei miei spettacoli di strada questo canto, in Anabasi. Le donne che avevano avuto una grazia particolare dalla Madonna seguivano la sua statua ginocchioni./ Così vidi, tra di esse, la madre di un mio amico. Dapprima provai quel senso d’imbarazzo dei bambini che si trovano di fronte a degli adulti che stanno facendo qualcosa che non è normale, qualcosa di eccessivo. Ma poi ricordo il senso di dolore, lancinante, che sentii alle ginocchia: la sensazione del dolore che si deve provare a camminare sulle ginocchia per centinaia e centinaia di metri./ Per qualche anno ho convissuto con una donna anziana, doveva avere settant’anni circa. Ai miei occhi di bambino era vecchissima. Dormivo insieme a lei. Era mia nonna. Ogni mattina, alle cinque, mia nonna si alzava e si faceva un caffè fortissimo, lì, nella sua stanza. Mi


svegliava e me ne dava da bere qualche goccia, Io rimanevo a letto, e sentivo quanto facesse freddo in quella stanza di un paese del Sud [Gallipoli], dove d’inverno non c’era riscaldamento. Ma io ero al caldo, ero con la nonna, in quella stanza un po’ fredda, e la nonna indossava una lunga camicia da notte bianca, ricamata, come una bambina. Andava allo specchio, si scioglieva i capelli e cominciava a pettinarli. Aveva capelli lunghissimi./ Io la guardavo da dietro. Sembrava una vecchia e sembrava una ragazza. Vedevo tutte e due, il corpo da vecchia, secco, avvolto nella camicia da notte, e il corpo sottile di una bambina vestita da prima comunione, di una giovane vestita da sposa. E sopra il bianco c’erano i capelli, lunghissimi, belli, però grigi./ Tutte queste immagini, e le altre che ricordo della cultura della fede hanno qualcosa in comune. In primo luogo la complementarità e le contraddizioni. La più chiara è l’immagine della vecchia che ai miei occhi è donna e bambina, i cui capelli sono sensualmente sciolti anche se bianchi. Un’immagine di civetteria. Eppure bastava guardare un po’ di sbieco e lo specchio mi restituiva un volto di donna segnato dagli anni./ L’altra cosa che le accomuna è la memoria fisica: il dolore alle ginocchia vedendo la madre del mio amico, la sensazione del tepore del letto dal quale spiavo mia nonna pettinarsi./ Il viaggio in questa cultura è stato bello, punteggiato da dolori profondi. Vi ho vissuto un’esperienza estrema: ho visto morire una persona, una persona estremamente cara, mio padre. Ho assistito alla sua lenta agonia, che si protraeva nella notte, e la stanchezza mi ha fatto passare dal dolore e dal terrore alla insofferenza, al senso di scomodità. Alla fine la stanchezza era tale che lì, in piedi, vicino al capezzale, mi sono messo a pregare perché morisse presto, ed io potessi riposare. Di nuovo gli opposti si congiungevano. Stava per scomparire una delle persone cui ero più legato, lo sapevo, me ne ero reso conto dal viso e dal comportamento degli adulti, anche se non mi avevano detto niente, osservavo il passaggio da una realtà ad un’altra, con tutta la sua irrevocabilità. E in me scoprivo impulsi e reazioni che non mi sarei mai immaginato. Ecco: il desiderio di veder morire al più presto il proprio padre

(pp. 52-53). […] In tutti i miei spettacoli c’è un attore che ad un certo punto abbandona le sue vesti e appare sotto altre spoglie. Avevo sempre creduto che fosse un colpo di scena ripreso dal teatro giapponese. Nel Kabuki il momento in cui un attore, aiutato da due inservienti “invisibili”, si spoglia per apparire con un altro costume ha un nome preciso: hikinuki. In tutti i miei spettacoli c’è un momento simile a questo. Ora ho capito da dove mi veniva: era il momento della resurrezione, quando a Gallipoli vedevo cadere il manto viola e compariva la statua del Cristo risorto» (p. 56).

Viaggi con Odin Teatret (Ubulibri, 2000). Questo è un libro di fotografie di Toni D’Urso e testi di E. B. Si tratta di immagini relative agli spettacoli dell’Odin che vanno da Min Fars Hus (1972) a Mithos (1998). Non ci sono riferimenti di E. B. a Gallipoli e al Salento, salvo alcune foto che si riferiscono agli spettacoli dell’Odin a Carpignano Salentino.

La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia, seguito da 26 lettere di Jerzy Grotowski a Eugenio Barba (Ubulibri, 2004): «“Lutto” è il termine che associo agli attori di Grotowski. Penso a mia madre che ha perso il marito a 33 anni; poteva ridere, divertirsi, parlare o flirtare con altri uomini. Ma nella zona più oscura del cuore, si annidava la consapevolezza di una perdita insostituibile, il ricordo di un fulmine che ti ha colpito facendoti sopravvivere, ma trasformando in cenere la casa in cui sei cresciuto» (p. 33). *** Ecco. Questi sono i libri che finora ho letto di E. B. Certo non mi sono soffermato solo a leggere quanto egli ha scritto della sua esperienza relativamente a Gallipoli (mia adorata città adottiva) e al Salento, perché, com’è ovvio, ho letto anche tutto il resto, necessariamente utile alla mia formazione teatrologica. Ma il suo richiamo alla terra natia, quella sua “sofferta” nostalgia, francamente mi ha fatto pensare molto. Tuttora continuo a pensare. Ecco allora il perché del miracolo che mi accade ogni qual volta egli torna nella


sua e nostra terra, che tutti ci ha visti nascere. Il miracolo sta nella lettura dei giornali, attraverso i quali vengo a sapere che egli si trova in Salento assieme all’Odin Teatret per proporre un nuovo spettacolo. Allora corro subito a comprare due biglietti (per me e per mia moglie Ada) di accesso ai Cantieri Teatrali Koreja. Solo una volta non ho acquistato il biglietto: quella in cui il regista dell’Odin mi invitava a vedere, sempre nei Cantieri Koreja, il suo spettacolo Ave Maria. La Morte si sente sola. Cerimonia per l’attrice Maria Cánepa,. Era il 13 novembre 2011, domenica mattina (h. 11.00). Pensai si trattasse di una visione per diversi addetti ai lavori, ai quali E. B. voleva che ci fossi anch’io per un motivo che tuttora mi resta ignoto. Invece, seduti, uno accanto all’altro, c’erano solo cinque attori dell’Odin, io e, accanto a me, il prof. Ferdinando Taviani. Interprete delle Tre Marie: Julia Varley. Di questo spettacolo E. B. ha scritto: «María Cánepa è stata la più grande attrice cilena di teatro tradizionale tra il 1950 e il 2005. Fu maestra di molti attori e registi, amica di Pablo Neruda e Salvador Allende. Durante la dittatura di Pinochet insegnava dizione nei quartieri popolari della periferia alle donne i cui mariti erano in prigione. Le voleva preparare a prendere la parola e fare discorsi nelle assemblee. Ospitò l’attrice Julia Varley nella sua casa quando l’Odin visitò il Cile nel 1988 con uno spettacolo che fu presentato nelle chiese, l’unico luogo dove gli sbirri della dittatura non osavano entrare. Molte volte Maria e Julia si sono rincontrate e hanno anche lavorato insieme. Alla sua morte Julia ha voluto ricordare la luminosa personalità della sua amica cilena». Oggi è per me impossibile dimenticare la visione di questo spettacolo. Il dramma vissuto quella domenica mattina è incancellabile. In esso, inconsapevolmente alle intenzioni del regista, c’era anche il racconto di mia madre, una povera donna contadina, che del mondo conosceva solo la sua casa, la strada dove essa era ubicata e il campo dove lei raccoglieva capperi.

Eugenio Barba e un gruppo di allievi attori a Siviglia nel 2004

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Iben Nagel Rasmussen ed Eugenio Barba nel 1974 a Carpignano Salentino in una fotografia di Tony D'Urso


Il baratto culturale dell’Odin Teatret

N

el 1973 Ferdinando Taviani, giovane docente di storia del teatro all'Università di Lecce, invita Eugenio Barba, un regista di origini salentine che si va imponendo all'attenzione internazionale, a tenere dei seminari ai suoi studenti sullo spettacolo Min far hus (La casa del padre). Barba, che era lontano dal Salento da molto tempo, rimane colpito da una terra che, pur essendo senza teatro, ha una straordinaria, implicita energia rappresentativa della propria identità. Suggestionato dall'impatto avuto si ripropone di individuare un posto sufficientemente remoto, ma anche tramato di segni rivenienti da molteplici stratificazioni temporali. La scelta cade su Carpignano Salentino, un paese perlopiù agricolo, circa duemila abitanti, caratterizzato da una forte emigrazione, con un centro storico bellissimo e la campagna coltivata a viti, olivi e tabacco. Tornato tra gli attori della sua compagnia, decide di proporre loro una permanenza di alcuni mesi, in un posto lontano, al sud, dove avere la tranquillità di preparare il nuovo spettacolo. L'Odin Teatret arriva a Carpignano nel maggio del 1974 e comincia il suo lavoro. Ma non può non notare che per la comunità è abbastanza difficile comprendere cosa facciano queste persone venute da chissà dove, più che diffidente è ansiosa di capire. Come può rapportarsi al teatro questa comunità che ha potuto fare a meno per secoli del teatro, almeno quello ufficiale? Poiché, a guardar bene, nella sua vita, di teatralità diffusa ve n'è tanta, nei gesti, negli scambi dialogici, nelle occasioni festive… Bisogna creare un cortocircuito fra il teatro dei professionisti e quello, in gran parte inconsapevole, degli abitanti del luogo. E il cortocircuito è costituito da un evento, che vien

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di Salvatore Colazzo

fuori dalla mente di Jan Torp, il quale pensa bene di proporre agli abitanti uno spettacolo di clown. Uno dei principi della professionalità è che chi fruisce dei servizi del professionista li debba pagare. È un principio al quale l'Odin non intende rinunciare, pur comprendendo che non è affatto facile chiedere e ottenere del denaro dai contadini che duramente, lavorando nei campi, guadagnano il necessario per vivere. E allora Barba pensa bene di proporre un baratto: il teatro dei professionisti verso la performatività degli abitanti del luogo. È così che nasce una delle intuizioni più feconde dell'Odin Teatret, il “baratto culturale”, che da quel momento in poi darà una curvatura sociale alle sue azioni teatrali. Questo scambio non si limita alla serata dello spettacolo di clown, continua nei giorni successivi e si arricchisce. La popolazione potrà assistere a momenti di training spettacolarizzato (l'Odin Teatret fino a quel momento è stato estremamente riservato rispetto alle fasi preparatorie dello spettacolo), gli attori sono invitati a prendere parte a momenti conviviali, generalmente caratterizzati da abbondanti libagioni. Una sera a qualcuno viene l'idea di metter su una festa in onore degli ospiti. Da quel germe, nutrito da altri spunti e suggestioni (le idee funzionano così, si richiamano vicendevolmente) nascerà la Festa te lu mieru, un recupero inconsapevole di antichi omaggi bacchici. Dirà Iben Nagel Rasmussen, in un suo libro (ci riferiamo a Il cavallo cieco, edito da Bulzoni): «Il soggiorno in Italia, che doveva essere dedicato alla preparazione di un nuovo spettacolo ci porta a esperienze che assorbiremo nel più profondo di noi, delle quali ci serviremo negli anni a venire…». L'idea della Summer School di Arti performative e Community Care nasce dall'iniziativa di un gruppo di


L’Odin a Carpignano Salentino nel 1974 in una fotografia di Tony D'Urso Sotto un antica mappa di Carpignano

giovani, associatisi in Officine Culturali, i quali hanno deciso di conoscere meglio la storia della presenza dell'Odin Teatret nel 1974 a Carpignano Salentino, ma soprattutto di far diventare il principio del baratto culturale generativo di attivazione sociale, opportunità di empowerment comunitario. Per tale ragione essi hanno deciso di affidare all'Università del Salento la loro idea, affinché possa contribuire a metterla in movimento, facendo di Carpignano Salentino la memoria attiva del baratto culturale, portando nuovamente, ogni anno a rendere possibile l'incontro tra le arti performative e il desiderio di una comunità di trascendere i propri limiti. (Aprile 2012)


Silenzio. Squillo di tromba. Silenzio. Entra la Morte.

L’Ave Maria della morte

Il grande libro dei sogni s’è aperto sulla linea della vita: vede la Signora in nero entrare dalla porta del teatro: elegantissima alta ieratica un lungo frak nero il passo felpato l’andatura coreutica: lo spettro striscia sulle pareti della sala i piedi levitano da un pavimento nero d’asfalto il teschio s’illumina di un bagliore boreale e le mani danzano il rito della possessione.

La Dama in nero ha in mano una grande sporta: lentamente s’avvicina al tavolo parato a festa con la musica che l’accompagna quando lestamente apre il bagaglio dell’aldilà e tira fuori una piccola bara.

Al filo della vita ha già steso i nostri poveri cenci di spettatori inerti e - increduli la vediamo scoperchiare la crosta della terra: tirare fuori un Bambinello cullarlo tra le braccia poi su un’amaca del cielo cantargli una nenia ancestrale.

Danza la Morte danza stirando i panni della scena di uno spettacolo mai visto finora: evoca l’attrice delle Ande cilene: Maria interprete eroica di una Grande Storia che non ha bisogno di essere rappresentata né raccontata perché è quella delle Marie d’ogni tempo e di tutte le Madri di ogni cosa.


Poi

- ninfa cristallina come per incanto la Signora in nero si trasforma in Dama in rosso col volto velato color amaranto e danza al ritmo di una musica d’oltreoceano, musica di poeti, attrici, cantanti, eroi e antieroi, naviganti eppure teatranti.

L’anima dello spettatore sgomenta rapita nella trappola del ragno che tesse la tela della vita: sa di essere messo alla prova - durissima del giudizio diversale: il regista delle Marie di ogni tempo - figlio dolorante di un Padre non vissuto rievoca il Principio e la Fine della storia consegnando allo scheletro delle mani della Dama una mini pistola femminile:

La Morte domina la scena. La Madre vince la Morte.

La Signora in rosso già Dama in nero continua a danzare su ritmi ancora più incessanti ascolta dall’aldilà la voce di Maria soave lettrice dei versi amorosi di Neruda quando - incredibilmente nella solennità di una marcia funebre rimbomba un silenzio di tomba anchilosando la nostra desolante infanzia salentina così avviandosi - novella crisalide danese a trasformarsi nello spettro che era sempre stato. Ora il teschio è sempre quello


quello della Morte ma l’abito non è più l’elegantissimo frak nero neppure quello rosso gitano della festa: la nuova ninfa s’è trasformata in Dama bianchissima fantasma evanescente della Maria col Bambinello avvolta dal motivo dell’Ave Maria - intanto che il silenzio domina la scena accecante coi nostri poveri occhi rigati ormai a nuvole temporalesche mentre il filo della vita si srotola inesorabilmente.

Maria la Madonna va aldilà delle quinte in una mano tiene il legno del Bambinello snodabile - nell’altra un balocco variopinto di un cavallino burattino.

Silenzio. Questa volta squillo di tromba. Esce la Vita. Lecce, 13 novembre 2011, h. 17.

Maurizio Nocera

[Dopo aver visto (h. 11) ai Cantieri Teatrali Koreja lo spettacolo dell’Odin Teatret, Ave Maria. La Morte si sente sola. Cerimonia per l’attrice Maria Cánepa, alla presenza del regista Eugenio Barba, dei suoi cinque attori e del critico teatrale Nando Taviani. Interprete delle Tre Marie: Julia Varley. Alla prima italiana dello spettacolo a Bologna, il giornalista Massimo Marino, nell’ambito di una più corposa intervista, chiese a E. B.: «Chi era María Cánepa, l’attrice cui è dedicato questo lavoro?». Risposta del regista: «La più grande attrice cilena di teatro tradizionale tra il 1950 e il 2005. Fu maestra di molti attori e registi, amica di Pablo Neruda e Salvador Allende. Durante la dittatura di Pinochet insegnava dizione nei quartieri popolari della periferia alle donne i cui mariti erano in prigione. Le voleva preparare a prendere la parola e fare discorsi nelle assemblee. Ospitò l’attrice Julia Varley nella sua casa quando l’Odin visitò il Cile nel 1988 con uno spettacolo che fu presentato nelle chiese, l’unico luogo dove gli sbirri della dittatura non osavano entrare. Molte volte Maria e Julia si sono rincontrate e hanno anche lavorato insieme. Alla sua morte Julia ha voluto ricordare la luminosa personalità della sua amica cilena»].


Jerzy Grotowski e Eugenio Barba nel 1971 a Holstebro in una fotografia di Roald Pay


Come accadde che un capello bianco finì tra le pagine d’un libro scritto dal regista dell’Odin teatret*

A

Eugenio Barba, Bruciare la casa. Origini di un regista Ubu Libri

volte accadono eventi imprevisti; e la loro extra-ordinarietà ci fa amare ancora di più la vita. Qualche settimana fa, mi giunge dalla Danimarca un plico, che ovviamente scarto subito, perché immediatamente riconosco la mano del suo mittente: Eugenio Barba. Nel plico c’è infilato un altro plico ben confezionato e affrancato, ma con evidenziate le barrette postali di «sconosciuto». L’indirizzo al quale era stato spedito era quello di qualche anno fa, ormai non più in uso. Riscarto anche il secondo plico e trovo il dono più bello di questa prima parte del 2010: l’ultimo libro di Eugenio Barba, Bruciare la casa. (Origini di un regista) (Ubulibri, Rozzano 2009). Il volume è stato pubblicato nella prima metà del 2009 (maggio) ed io, come sempre faccio con i libri di Eugenio, non appena pubblicati, me li vado a comprare subito. Mi interessa seguire e capire il suo percorso di autore di teatro. E poi egli è fratello di Ernesto (Brindisi, 27 aprile 1934 – 27 aprile 1994), il poeta inquieto e caro che tuttora riempie buona parte dei pensieri della mia giornata. La mattina che avevo deciso di recarmi in libreria per ordinare Bruciare la casa, mi era giunta una mail da Holstebro, con l’annuncio che questa volta non dovevo acquistare il libro, perché il regista me l’avrebbe spedito lui. Capivo il perché della differenza: fra noi c’era stato un discorrere epistolare su un suo testo a me molto caro, che tengo sempre a portata di mano per una let-

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tura d’emergenza. Si tratta de La casa del padre, che Eugenio allestì come quarto spettacolo nel 1972. In Bruciare la casa, il regista scrive abbondantemente di quella sua memoria nel capitolo Non testo ma contesto (pp. 148-156).

I libri di Eugenio Barba, eccetto qualcuno (avrò modo di parlarne in altra occasione), hanno una veste abbastanza sobria, senza alcuna pretensione, risultato questo ottenuto non solo dall’editore ma anche col contributo dello stesso autore. Osservando la veste tipografica, potremmo dire «libri come tanti altri». Bruciare la casa, formato in-8°, ha la copertina color magenta con sullo sfondo alcune impronte di mani cavernicole (quelle ottenute con il soffio della calce sull’arto, tipiche delle grotte e degli anfratti sottoroccia dell’Australia aborigena o della Patagonia neolitica). Nella prima di copertina, c’è l’immagine, anch’essa in magenta, del regista con il suo tipico atteggiamento: braccia allargate e mani sui fianchi, il viso volto al sorriso. Nella quarta, invece, le ragioni del testo, utili da conoscere: «Quasi mezzo secolo dopo aver fondato l’Odin Teatret, lasciandosi alle spalle, con un modo diverso di fare teatro, una serie di spettacoli leggendari, l’ansia di un abbraccio fra tradizioni sceniche di più continenti, ma anche una preziosa quantità di scritti teorici, Eugenio Barba fa il punto della sua vita di creatore in un’opera esemplare di grande importanza storica. In Bruciare la casa (Origini di un regista) il Maestro distilla la sua


Eugenio Barba con Julia Varley a Holstebro nel 2009


lunga esperienza operativa cominciando dai balbettii camente e per via di un evento di una parentela acquidegli inizi per consegnarla a chi cerca un proprio teatro sita (Gallipoli e la famiglia Barba) agli inizi degli anni da fare, da immaginare, da sognare forse, teso a supe- ’70. Le nostre strade si erano incontrate allora anche rare lo scontento nei riguardi dello spirito del tempo, e per via della mia frequentazione a Roma della signora lo fa senza mai allontanarsi dalla concretezza dell’arti- Vera Gaeta Barba – sua madre, che mi aveva aiutato gianato, quello di una drammaturgia che coinvolge l’in- in una ricerca sul Risorgimento italiano con delle carte treccio delle azioni e dell’organizzazione fondendosi con dell’Ottocento riguardanti Garibaldi e il patriota gallila regia per arrivare a parlare in modo diretto e perso- polino Emanuele Barba, suo bisnonno – e l’amicizia nale a ogni spettatore, in modo che ciascuno di loro rie- con suo fratello Ernesto; poi le nostre strade si erano sca a vivere un suo spettacolo diverso. Dialogando con separate a Copertino, quella volta che Eugenio venne i grandi maestri scomparsi, parlando a volte al passato per un suo evento e che, inspiegabilmente, si dimostrò di sé come regista, l’autore appare deciso a non nascon- molto duro nei miei confronti tanto da neanche saludere nessuno dei suoi tormenti al lettore, al quale con- tarmi. Avevo torto io? Forse che sì! Con suo fratello, insegna la propria esperienza senza veli, in modo che vece, l’empatia non s’interruppe mai, neanche per un questa sua opera sconfini agilmente dal trattato scien- solo momento: Ernesto era il mio grande amico vagatifico al romanzo autobiografico, dalla morte del padre bondo, la cui vita è stata per me riferimento poetico, al suo ingresso alla scuola militare negli anni ’40, dal- per decenni corrispondente versatile dai più disparati l’arrivo in Svezia in autostop all’esperienza di marinaio, angoli del pianeta. A lui, contro il parere di tutti, perché dall’infanzia a Gallipoli all’incontro con Grotowscki, teneva tatuata sul braccio sinistro una rosa con al cenpartendo dal ricordo di quando da piccolo sognava “lo tro una svastica, ho dedicato uno dei libri a me più cari (Ernesto, figlio del Sole; Gallipoli 2007). spettacolo che finisce con l’incendio”». Non dico una stramberia se, prima di sapere dell’esiBruciare la casa si apre con l’incanto della dedica del re- stenza del regista dell’Odin, di teatro io sapevo solo quel gista, scritta nel febbraio 2010, cioè in quel tempo in che tutti i comuni spettatori di palcoscenici sanno, e cui egli ha pensato al libro come un dono e chi qui scrive questo nonostante studiassi già i libri e il teatro di invece, lo riceve solo qualche settimana fa. Nel prologo, Eduardo De Filippo, Dario Fo e Carmelo Bene. Per cui, ascoltando spesso nella casa dei Barba di Gallipoli della spiega la storia dell’incendio: «Per anni ho immaginato “lo spettacolo che finisce con sua mitica vita dedicata tutta al mondo del teatro, mi l’incendio. Conoscevo a menadito le diverse scene, ne sono messo un po’ a studiare e a capire i suoi movimodificavo mentalmente l’ordine, limavo i dettagli. E menti, senza nessuna pretesa e senza nessun tentativo mi rallegravo immaginando l’immancabile gran fuoco di avvicinarlo. La mia esigenza era solo inchiodata alla finale./ L’incendio però non poteva essere un artificio voglia di sapere di più della scrittura e del teatro del scenografico. Doveva essere un fuoco vero, e un reale gallipolino emigrato nei paesi del Nord Europa. Ecco, spavento. Per questo lo spettacolo era irrealizzabile: su questo si basava la mia prima curiosità. Per cui, così non potevo correre il rischio di bruciare il teatro e le come mi accadeva di interessarmi dei testi poetici di suo persone che ci stavano dentro. Ma il progetto mi si era fratello Ernesto, ho cominciato a leggere anche i suoi libri e i suoi testi sul teatro. ormai conficcato in mente» (p. 9). Com’è ovvio si tratta di uno spettacolo impossibile a Ed ora, eccomi qui, con tra le mani e sotto gli occhi il realizzarsi. Come si fa a bruciare tutto? Eppure è que- libro Bruciare la casa appunto. sta l’idea che il regista dell’Odin ha nella mente. Bru- Leggendo le prime pagine, mi sono chiesto che cosa ciare. Mettere a fuoco una casa o la Casa. Ma quale? frullasse nella mente del regista, che immaginavo Non certo quella nella quale, da 50 anni vive a Holste- aperta come un fiore sbocciato a primavera, quindi libera da condizionamenti. Conoscendo la storia dei bro. Infatti scrive: «So che non brucerei mai, neppure metaforicamente, Barba di Gallipoli, in particolare quella dell’illustre la casa mia e dei miei compagni, l’Odin Teatret» (p. 10). Emanuele (1818-1887), umanista e patriota del XIX E dunque, quale casa? Mi viene un sospetto, ma devo secolo, mi sono chiesto: Ma il regista dell’Odin quale verificare. Conosco il regista, ovviamente solo episodi- casa vuole bruciare? Forse la casa della memoria? La


Eugenio Barba in una fotografia di Fiora Bemporad a Bologna nel 1990 per Theatrum Mundi con lui Torgeir Wethal


casa in cui è conservato un particolare passato, quello che magari egli vorrebbe dimenticare, e tuttavia non riuscito a rimuovere? Leggo un’altra pagina e scopro che per lui «il passato vive nel presente e, ormai adulto e saggio, posso ancora essere il bambino che fantasticava ai piedi di una tomba. Mi nutro ancora di quelle zone di silenzio che l’abbandono della mia cultura ha schiuso in me. Agisco, parlo e scrivo senza sosta, ancorato all’immediatezza dell’artigianato teatrale. Aspetto. L’attesa è il presente del futuro. In questo paesaggio a venire, il teatro è il cammino che mi rende degno di tornare all’infanzia e di inoltrarmi nel tempo con l’illusione di sparire nella leggenda» (p. 147). Parole gonfie di malinconia, di nostalgia anche: «il bambino che fantastica ai piedi di una tomba» è il fanciullo Eugenio che corre nella notte alla ricerca di un medico per il padre morente; e la tomba è quella dei suoi avi, in particolare quella di suo padre, Emanuele (Neli) Barba, collocata in uno spazio monumentale a destra di come si entra nel cimitero della città ionica. Constato, ma è anche abbastanza ovvio (in fondo lo scrive egli stesso), che il regista dell’Odin non intende bruciare nulla di quanto fatto da lui e dagli attori dell’Odin in 50 anni di teatro, tuttavia precisa che egli non ha scritto Bruciare la casa per trasmettere un qualcosa, che non ha alcuna intenzione di convincere nessuno con le parole e che non vuole insegnare alcunché; semplicemente scrive per restituire, perché egli, nella vita del teatro, ha ricevuto molto. Ha ricevuto, soprattutto da veri maestri, «la maggior parte [dei quali] era già morta» quando egli venne al mondo. Il regista, in particolare questo regista di nome Eugenio Barba, silenzioso sulla scena come una sfinge e rigoroso con se stesso più che con gli altri (per tutta la vita da adulto si è imposto di calzare dei semplici sandali, lasciando scoperti i piedi al freddo, come nel Duecento se l’era imposto anche Francesco d’Assisi), scrive di sentire il libro Bruciare la casa («innegabilmente soggettivo») come un dovere, perché lui è «semplicemente in debito. E non [vuole] andar[s]ene lasciando[s]i dietro dei debiti» (p. 11). Sa di dolore questa sua affermazione, questo suo non volere andare via da questo mondo lasciandosi dietro dei debiti. Io so però che egli non ha debiti morali con

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nessuno. Lo so per via della mia lunga frequentazione con la signora Vera Gaeta Barba (sua madre). Non è colpa sua né di nessun altro al mondo se le storie di vita di ognuno di noi vanno per il loro verso, che è quello “naturale” alla specie. Tuttavia la sua è un’affermazione lapidaria, che lascia il segno, incidendola nell’inconscio di chi lo conosce. Solo nei temerari (da adolescente, il regista praticava lo scoutismo nella pineta di Gallipoli) riconosco la forza di chiamare il pane pane e il vino vino. Egli quindi non ha paura di scrivere quello che gli rode dentro e di farlo sapere ai quattro angoli del pianeta. Non ha paura! E come potrebbe? Non per niente è stato pure mozzo di nave nella tempesta. Dei suoi silenzi, della sua perseveranza a tacere quando è tempo di tacere, ne sanno qualcosa chi lo conosce e lo frequenta. Ovviamente, la colpa non è mai di chi naviga per oceani di acque e di nevi, ma di chi è rimasto aggrappato allo scoglio della tonnara. Fondamentalmente Bruciare la casa è un libro di teoria (il termine al regista non pare adatto) del teatro ma, allo stesso tempo, è autobiografico, perfino nello stesso coinvolgimento degli attori dell’Odin. In esso sono leggibili spaccati di vita non casuali, anche se, beninteso, non cercati a tutti i costi; è leggibile un rapporto con le cose e le vicende umane che, quasi sempre, stupisce il lettore, che scrive: «Sono sicuro che ci saranno sempre spettatori che cercheranno nel teatro l’esposizione indiretta di ferite simili a quelle da cui loro stessi si sentono lacerati, o che sono solo apparentemente rimarginate, ma oscuramente bisognose di riaprirsi./ Immagino che costoro sentiranno, in queste pagine, un’aria di casa. Un odore di bruciaticcio. Come lo sentii io in Polonia, quando ero poco più di un ragazzo dall’ambizione di diventare regista. Volevo cambiare la società attraverso il teatro. In realtà ero guidato da esplosive insofferenze, da voglia di gioia e volontà di impormi, dal bisogno irrefrenabile e potenzialmente autodistruttivo di sfuggire dal mio passato» (p. 13). Ecco, che si ripresenta la fatidica parola: il passato. Il regista scrive: «Il mio passato». Ma per lui cos’è il passato? E forse anch’esso una casa? Magari la Casa della memoria? Ed è forse questa casa del passato o della memoria che il regista vuole bruciare?


voro, il teatro, la costruzione di uno spettacolo, saper fare il proprio mestiere: «Essere padrone del mio mestiere significava innanzitutto saper preparare la tempesta che mi avrebbe sgomentato» (p. 116). L’importanza del lavoro per il regista, la capiamo tutt’intera leggendo la testimonianza dell’attrice (a sua volta, divenuta poi anche regista) dell’Odin, Julia Varley, che scrive: «Come attrice, riconosco in Eugenio tre capacità fondamentali: è un regista “animale”; si porta dietro un vastissimo bagaglio di letture e conoscenze; è in grado di identificare spunti e tematiche che emergono dalle necessità personali e da quelle del gruppo. […] La biblioteca incorporata – credo – sia un regalo della sua curiosità, velocità di lettura e memoria» (p. 109). L’importanza della regia teatrale è per Eugenio Barba un motivo di attenzione permanente. Lo conferma egli stesso nell’introduzione al libro, quando dà la sua definizione di regista: «In alcuni contesti il regista è la persona che cura la rappresentazione critico-estetica di un testo, in altri colui che ìdea e compone uno spettacolo da niente. In alcuni casi è un artista che insegue una propria immagine di teatro, realizzandola in diversi spettacoli con collaboratori che variano; in altri è un buon professionista in grado di armonizzare gli eterogenei elementi dello spettacolo. Vi sono ambienti dove il regista è un artista errante, in cerca di compagnie da governare provvisoriamente; ve ne sono altri in cui lavora stabilmente ed esclusivamente in un gruppo di cui spesso è il leader e anche responsabile per la formazione degli attori. Molti considerano il regista un esperto coordinatore. Altri lo identificano con il vero autore dello spettacolo, il primo spettatore che ha anche l’ultima parola in ogni decisione./ Oggi, per me, il regista è piuttosto il conoscitore della realtà subatomica del teatro, un uomo o una donna che sperimenta i modi di “sovvertire” i legami ovvi tra le diverse componenti di una spettacolo» (p. 18). C’è poco da aggiungere a questa sua definizione, e poi, chi oggi, conosciuta l’esperienza teatrale di Eugenio Barba, può aggiungere altro? Sarà opportuno aspettare altri tempi, altri luoghi per saperne di più. Anche sulla funzione del teatro nella società che viviamo, il regista dimostra di avere idee che ha a lungo riflettuto: Ora, finalmente, mi è chiaro cosa per il regista è il la- «il teatro […] non possiede più una voce capace di rag-

Bruciare la casa non è un solo libro, ma più libri. E sicuramente, di primo acchito, chi vuole leggerlo con l’idea di conoscere il regista, individua immediatamente differenti registri. In indice c’è un prologo, un’introduzione, quattro intermezzi [primo (pp. 41-90); secondo (pp. 93-185); terzo (pp. 189-231), quarto (pp. 235-244)]; due altri capitoli, un epilogo ed una chiusa a mo’ di rinvio. L’autore, per rimarcare la differenza, ha costruito i testi in due tempi: il primo, propriamente autobiografico, è scritto in corsivo; il secondo, quello che si riferisce alla teoria e alla pratica teatrale, è scritto con carattere tondo normale. Raramente, qua e là, e di tanto in tanto, si può incorrere anche nella lettura di qualche pagina, dove le parti si mescolano in un intreccio comunque sempre armonico. Come quando, ad esempio, descrive il rapporto avuto o che continua ad avere col suo lavoro, laddove a scrivere le pagine del diario sono gli attori e le attrici dell’Odin. Scrive: «Ancora oggi, dopo quasi cinquant’anni, sono affascinato dal mio lavoro, dal silenzio e dalla concentrazione delle prove, dalla meticolosità del processo e dalle minuscole scintille che ne scaturiscono. Eppure, all’idea di varare un nuovo spettacolo, provo insofferenza, quasi ripugnanza. È come se avessi perso il senso della vetta e noto solo la presenza del vuoto, di un buco nero senza fondo./ Ho sempre pensato a questa mia reazione di fascino e ripugnanza in termini femminili. Mi sento come una donna che desidera un bambino, ma si oppone alla gravidanza, alla deformazione del corpo, alla lunga attesa, alla nausea./ Le prime ore, i primi giorni, le prime settimane di prove sono insopportabili. Le tante trame e storie che sogno di materializzare lampeggiano nel cervello; immagini, testi o semplici parole sono solo segni sulla carta, idee suggestive, pensieri astratti. Mi tormento sui modi di trasformarli in carne e sangue, in un corpo vivente con un sistema nervoso, uno scheletro, un’epidermide, delle reazioni di riso, compassione e spavento. Mi affanno a estrarre dalla storia le sue diramazioni nascoste, me le rivolto nella testa, mi chiedo angustiato come trasformare situazioni generalizzate in grappoli di azioni e reazioni particolareggiate./ La carne è tenera, si sfalda. Nel nostro mestiere, l’aggregazione delle cellule non è una legge naturale. In teatro non vige la forza della coesione, ma una spossatezza centrifuga che polverizza le nostre energie» (p. 106).


giungere le orecchie d’una intera città. Non spaventa più nessuno, come possibile nemico del potere e della moralità pubblica. E nessuno può più ragionevolmente sperare nella sua efficacia come lievito per un mutamento della mentalità» (p. 19). Anche in questo caso, ci vuole un bel po’ di coraggio per affermare ciò. A leggere così com’è tale affermazione viene da pensare che fare teatro oggi può significare fare solo metateatro, un teatro cioè che si fa al di là delle scene e che quindi parla solo a se stesso. Recentemente Giorgio Albertazzi, per altri versanti e per un altro tipo di teatro, l’ha definito “teatro masturbation”, cioè un tipo di teatro utile solo a chi lo fa. Lontano mille miglia da quel tipo di teatro è quello del regista dell’Odin, per il quale le spettacolarizzazioni sperimentate finora, almeno quelle alle quali ho assistito io, sono tali da inchiodarti alla sedia per un’intera serata, e poi, quando le luci della scena si sono spente, e tu te torni a casa, senti dentro che quanto hai appena visto ti ha lasciato un qualcosa che, nell’immediato, non riesci a capire ma, al contempo, quel qualcosa ha generato nella tua mente una rivoluzione, un appiccare “fuoco alla prateria”, che brucia tutto quel che ha davanti lasciando solo un profondo solco nella memoria di chi è stato testimone. Bruciare la casa vuole dire bruciare la memoria? Bruciare forse la memoria che si ha di una determinata Casa? Quando questo tipo di fenomeno psichico accade, significa allora che quello spettacolo, visto in quel particolare teatro, ha segnato una traccia, all’inizio apparentemente impercettibile, come d’altronde sono sempre le tracce alla loro origine, ma poi, come accade al lento scorrere di una linea d’acqua di superficie, la traccia comincia a scavare il terreno, e con il continuo scavare forma il grande letto di quello che poi diverrà il fiume. Questo è quanto accade pure con il teatro di Barba, con la lettura per testi e immagini del racconto della sua vita, segnata dalla forte volontà di procedere sul tracciato di una strada difficile, a volte tempestosa, altre tranquilla, ma sempre spettacolarizzata con intima onestà intellettuale sulla pedana che sta al centro del suo teatro, dove attori e attrici entrano in scena non per mettersi in mostra, ma per faticare duramente per riuscire a rappresentare al meglio la dimensione del testo della memoria raccontata o scritta. Al primo impatto, gli spettacoli dell’Odin non sempre si lasciano facilmente comprendere, soprattutto quando lo

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spettatore non ha ancora letto il testo base. Spesso egli, davanti alle incredibili scene create da Barba, si sente come uno straniero in terra sconosciuta e pensa che questa sua condizione di spaesato sia la conseguenza del fare del regista, che così viene pensato come un incompreso. Nella storia del teatro del Novecento non sono pochi i registi incompresi, soprattutto quando la loro proposta teatrale si è rivelata essere rivoluzionaria. Così è stato per Eduardo De Filippo, Bertolt Brecht, Antonin Artaut, Dario Fo, Carmelo Bene, altri ancora, i quali hanno sperimentato sulla propria pelle l’atroce indifferenza del perbenista che guarda la scena dal buco della serratura. Sulla pedana del teatro, rovesciando la situazione precedente, anche il regista rischia sempre di vivere da straniero, e questo Barba lo ha spesso verificato di persona. Scrive: «amo il teatro perché, per sua natura, è straniero che lo voglia o no, che lo sappia o rifiuti di saperlo. È la storia a raccontarmelo. Chi praticava il teatro per mestiere, in Europa come in Asia, ha sempre vissuto in una condizione straniera, come se fosse di passaggio. […] Il teatro era straniero nel mondo in cui viveva, fra gli spettatori che gli davano da vivere, innanzitutto perché contraddiceva i confini e le gerarchie che mettevano ordine nella società circostante» (p. 146). È questa l’idea di teatro che il regista dell’Odin ha, un teatro dalla grande efficacia, dovuta all’intervento delle energie sottili, quelle particolare energie che gli sciamani andini indicano come risorse vitali: «Queste energie sottili – scrive Barba – provengono da esseri umani, da attori e attrici che non si rivolgono a tutti nello stesso modo, ma che sanno mettere in moto, nei singoli spettatori, emozioni, associazioni di idee, sogni a occhi aperti, amori nascosti e piaghe quasi dimenticate, nostalgie dormienti e paure rimosse. […] Un teatro capace di parlare a ogni singolo spettatore con una lingua diversa non è un’idea fantastica né un’utopia. È ciò a cui molti di noi, registi o leader di gruppi ci addestrammo a lungo, prima senza saperlo, credendo di indagare le segrete fonti dell’arte; poi coscientemente, sapendo di esplorare le catacombe d’una nonviolenta ribellione» (p. 19). Così è, perché chi ha sperimentato il rapporto dell’uomo con le energie sottili – ne sa qualcosa lo sciamano-antropologo peruviano d. Juan Nunez del Prado – sa che esse, per funzionare bene, così come indicato


dal regista dell’Odin, debbono confluire sotto forma di fluido energetico dall’alto del proprio corpo nello stesso momento in cui altre parti dello stesso elaborano l’abbandono delle energie pesanti, quelle tossine che quel tale corpo ha accumulato nel suo inevitabile vivere quotidiano, vita intrisa di memoria. Le energie pesanti, pur essendo spesso spregevoli indifferenze di chi non comprende il mondo del teatro, non vengono tuttavia espulse quasi fossero solo delle tossine ma, a volte, anche quando lo sono, vengono date in forma di dono alla Terra (la Grande Madre) che, grata, le ingoia e le purifica. A chi qui scrive è accaduto spesso, dopo aver visto uno spettacolo di Eugenio Barba, di sentire il corpo e la mente liberati da corpi estranei, da tossine di desideri insoddisfatti a causa di una pesante memoria non sufficientemente rimossa. Bruciare la casa. Nel capitolo Parole-ponte, c’è una parola che mi ha fatto molto riflettere: «ferita». Mi chiedo: il regista a cosa si riferisce? A quale memoria? A quale tormento che taglia la psiche? È escluso quindi quello fisico, perché il proprio corpo, prima o poi, ognuno può portarlo in un determinato luogo. Invece è il luogo del nostro vissuto che non riusciamo più a raggiungere che fa male. È questa la nostalgia, il dolore per l’impossibilità di tornare nella condizione vissuta, quale quella, ad esempio, di bambino. Ognuno di noi è condannato a soffrire di nostalgia. È forse questa la condizione che denuncia di vivere o di aver vissuto il regista dell’Odin? Scrive: «lavoro teatrale, la zona torrida era la zona della “ferita”./ Le “ferite”, se sono veramente tali, sono storie che non vogliono essere narrate. Ogni volta che proviamo, ci girano le spalle e si allontanano da noi. Intravediamo la loro schiena ricurva, come una gobba livida o radiosa: la nostra sacca di viaggio. Le nostre “ferite” rifiutano di essere danzate o mimate. Forse perché sanno che il loro destino, a teatro, è un altro, quello di riversarsi in un’altra storia, la cortina fumogena che permette di evocarle e celarle allo stesso tempo» (p. 212). In questo modo e con queste parole il regista sente su di sé una ferita ancora più profonda, una «“ferita-necessità” [che] ha agito come un impulso a farmi rimanere accanto al ragazzo che fui, e dal quale il tempo mi ha allontanato spingendomi in un mondo che cambiava» (p. 23). Ancora il passato, cioè un pezzo di vita vissuta da ado-

lescente e, nella penombra psichica, ancora quella casa che lo contiene. Il dolore del non ritorno (la nostalgia del tempo passato) non fu di Odisseo, che se la spassò per i molti mari del Mediterraneo, ma fu di sua moglie Penelope, che rimase attaccata come una cozza patella alla roccia di Itaca in quella parte di mare simile al porto dei pescherecci di Gallipoli, là dove si specchia la Casa nella quale il regista dell’Odin visse la sua adolescenza. È forse questa la «ferita» di cui egli scrive? È la memoria di quel ragazzo che fu Eugenio, in un tempo divenuto ormai solo ricordo di una casa che ora, per cancellarla dalla mente, sarebbe meglio bruciare? La casa è quella del già vissuto, «quella della memoria depositata» ha scritto Jung, la casa del tempo perduto definitivamente e mai più riproducibile, quella stessa casa [della memoria e nella memoria] in cui il regista ha vissuto una vita al limite della sopportabilità. Sul terreno alquanto accidentato della memoria, il regista ha scritto pagine di un fascino allucinatorio, pagine la cui lettura ti lascia un agrodolce sulle pieghe della mente, con il pensiero che corre proprio verso quel ragazzo che il regista fu e che desiderava a tutti i costi fare teatro. Scrive: «Ho cominciato a fare teatro tentando di conoscere in modo fisico, tecnico ed emotivo in cosa consistesse “fare teatro”. Comporre spettacoli mi ha insegnato, “da autodidatta”, a pormi domande sulla storia del teatro così come la si scrive di solito, a interrogare fatti noti o insignificanti, a soppesare e tradurmi i termini professionali che ascoltavo e leggevo, a camuffare nel mio lavoro uno spettacolo che mi aveva affascinato o che ricostruivo con la fantasia. L’insicurezza e i limiti della mia conoscenza mi incitavano a frugare e rifrugare tra i procedimenti del “come fare”» (p. 24). Parole semplici ma incisive come lo scalpello infisso nella pietra leccese, parole che solo un vero innovatore del teatro, un rivoluzionario del mondo e della vita del teatro, come lo furono Bertolt Brecht e Jerzy Grotowski, poteva scrivere. Parole umili e semplici e, proprio per ciò, profonde come le radici di una quercia. Sono queste le parole scritte da Barba in Bruciare la casa, una sorta di “parole-ponte”, che spiegano la molteplicità dei significati e «altre [che] erano parole tecniche che si riferivano a problemi o componenti dell’artigianato teatrale che mi avevano sempre affascinato: sats (impulso), kraft


(forza), organicità, energia, ritmo, flusso, drammaturgia, danza» (p. 25). Sono le parole-ponte che danno al regista la metodologia: «il mio metodo – scrive – è stato una pratica artigianale, intrisa di rigorose “superstizioni” tenute in vita da un ambiente di lavoro, l’Odin Teatret» (p. 85).

E adesso, arrivati a questo punto, come si fa ora a continuare a leggere Bruciare la casa evitando il desiderio di rileggere il capitolo Da dove vengo?. Anch’io mi chiedo: da dove viene Eugenio Barba? Allora leggo: «Vengo da un mondo che cadeva a pezzi […] 19401945, tempo di guerra». Anche se si tratta solo di due versi in forma di prosa, è sempre poesia. Ma tutto Bruciare la casa è poesia, che il regista ha ripreso persino negli eserghi: con i versi di Alda Merini a p. 118, di Kenneth White a p. 128, di Robert Frost a p. 143, di Henrik Nordbrabdt a p. 162 e a p. 184, di Attila Jòzsef a p. 168, di Billy Collins a p. 208, di Elsa Laser-Schuler a p. 219, di Sophie de Mello Breynen Andersen a p. 236, di Kobayashi Issa a p. 241, di Gyorgy Petri a p. 242, di Ana Blandiana a p. 243, di Fleur Adcock a p. 246, e poi quartine cinesi, e infine l’ultimo verso, che non è una citazione da un altro poeta, ma è lo stesso autore che lo scrive: «Lo schiaffo di una pietra sull’acqua» (p. 261). Bruciare la casa è la storia di un bambino che, dalla viva voce degli adulti, ascolta storie di tragedie, di case crollate, di morti sotto le macerie, di sofferenza: «Per il bambino che ascoltava, erano storie come quelle delle fate e degli eroi imprigionati negli alberi. Come le favole, anche le storie delle macerie si trasformavano, di notte, in sogni e paure» (p. 26). Il ricordo che il regista conserva della madre è sempre sobrio, rispettoso, quasi di distanza parenterale. Ed è anche un ricordo che fa rabbrividire la pelle. Scrive: «Certi giorni, mia madre e io facevamo insieme un gioco segreto. Mi chiamava da parte, mi pettinava, badava che fossi pulito e vestito bene, mi abbracciava e mi mandava a fare un giro nelle vie attorno a casa, sul lungomare. Il gioco era questo: dovevo tendere la mano e chiedere l’elemosina. Mendicavo. Ma mia madre e io dicevamo: andare alla ventura. Erano i giorni in cui in casa mancavano persino gli spiccioli per il cibo o una medicina. Vengo da quelle passeggiate solitarie alla ven-

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tura» (pp. 26-27). Ricordo tremendo, da rimanere annichiliti, soprattutto quando conosci la vera storia della vita del regista e di sua madre, il cui passato era stato importante. Sotto il fascismo il padre, Emanuele (Neli) Barba era stato un ufficiale della milizia di Mussolini a Brindisi e la stessa madre era figlia di un ammiraglio. A pensarle tali verità verrebbe subito da nasconderle, mascherarle dietro fronzoli e belle metafore. Così però non fa il regista, il quale coraggiosamente le scrive senza alcun infingimento. E qua sta anche la straordinarietà di questa sua memoria. Non è di tutti avere il coraggio di dire la verità sul proprio passato, bello o brutto che sia stato, e dirlo con la dolcezza del bambino che Eugenio fu e del cuore di bambino che ancora oggi ha. Solo i bambini non sanno mentire e solo i bambini hanno la forza ciclopica di dire le verità: su ogni cosa, su ogni dettaglio: «I bambini non possono essere sedotti da metafore, interpretazioni originali, immagini simboliche, citazioni conosciute, astrazioni e testi di autori famosi. Prendono nota, letteralmente, di ciò che si presenta davanti a loro, non di ciò che questo vuole rappresentare. Ai loro occhi, due vagabondi che aspettano un certo signor Godot, non raffigurano la condizione esistenziale, ma due adulti che chiacchierano per due lunghe ore. Ancora oggi, gli alunni delle scuole sono i miei primi spettatori. Le loro reazioni sono preziose per me; mi segnalano se il mio lavoro sui diversi livelli della drammaturgia ha rafforzato o assopito il Leviatan» (p. 151). Ancora una nota autobiografica: «Vengo dalla paura di intrappolare l’animale sacro nel buio del pozzo» e, a seguire, il ricordo di quand’era bambino in quella che lui continua a percepire come la sua città ideale: «la mia [casa] era quella dove ero cresciuto a Gallipoli» (p. 67). Ecco una verità vera. Nella mente del regista: «Gallipoli era un’isoletta, collegata alla terraferma e ai nuovi quartieri da un lungo ponte ventoso: dovunque mi giravo, mi scontravo con un mare diverso. La nostra casa era nella città vecchia, assediata dall’umidità e dalla tramontana quando d’inverno passavamo le sere tappati in casa con gli scaldini e le mani rovinate dai geloni. D’estate ci proteggevamo dal sole nella penombra delle persiane abbassate e aprivamo le finestre sul cielo solo dopo il tramonto. Non mi annoiavo. Giocavo con i bottoni custoditi in una scatola di cartone in cui


tro, invece, praticò distacco e oblio. In realtà: rimozione e reticenza. Questo secondo figlio sono io. Vengo da quel cordone ombelicale reciso dalle mie stesse mani. Vuol dire, anche questo, bruciare la casa?» (p. 28). Quei due figli di Neli Barba e Vera Gaeta, Ernesto ed Eugenio, hanno avuto la ventura di errare per il mondo, lontano dai loro affetti originali. E proprio quegli affetti mancati e quella lontananza li ha ridotti a brandelli di memoria, che il regista si chiede ora se vale la pena bruciarli assieme all’intera casa della memoria, nella speranza che quell’incendio rimuova definitivamente il proprio passato. Non credo che tale operazione di rimozione sia facile a farsi. Piuttosto quell’incendio annienterà le energie pesanti, e farà in modo che la difficile esperienza della vita venga poi compresa (interiorizzata) e, nell’umana comprensione, trovare il modo di abbracciarla teneramente, stringerla forte al petto e sentirsi ripagato per una vita vissuta in coscienza. Ovviamente il regista non pone tale domanda solo a se stesso, ma un po’ anche a tutti noi lettori e, nella sua possibile risposta, il regista sperimenta un’immaginaria scena di un suo tremendo ricordo: la morte del padre, miliziano fascista di primo ordine, ma ugualmente uomo come tutti noi, con i suoi sensi di colpa, le sofferenze di ogni giorno, i continui divieti della vita, quella vissuta con i margini imposti dalle condizioni di una società totalitaria. Bruciare la casa, per il regista, è forse mettere fuoco a quella casa in cui sua madre, con in grembo la pistola del marito, non riesce a decidersi a spegnere una vita che si va perdendo in rantoli di vento “refolo” e che giungono alle orecchie del fanciullo quasi fossero colpi di frusta sulla pelle. Bruciare la casa è anche la pena di quell’adolescente che, a differenza del fratello più grande, non sa piangere. Per questo, egli tenta di annientare il tempo della memoria, quello in cui la scena si mostra con lui davanti al padre morente e alla madre in pena: «Guardavo il viso di quell’uomo che fino a poche ore Di Bruciare la casa leggo e rileggo un passo, che com- prima rassomigliava a mio padre. Ora si disfaceva in rantoli. La realtà dissolveva la sua carica drammatica muove. Questo: «Sognavo di strapparmi fuori dalle acque stagnanti che sostituendola con un’immane fatica e mal di schiena. m’avevano visto crescere. Dei due figli di mia madre, Mi auguravo che la fine arrivasse presto. Il silenzio suuno coltivò lungo tutta la sua vita errabonda, in Eu- bentrò solo alle tre di notte. Mia madre smise di asciuropa, America e Asia, il culto e la nostalgia per le sue gare il sudore dal viso del marito e aprì la finestra radici meridionali, borboniche, gallipoline, e per la perché l’anima volasse via. Avevo dieci anni» (p. 65). scuola militare napoletana in cui fummo educati. L’al- Si tratta di quella notte tremenda in cui il regista sente mia madre teneva l’occorrente per cucire. Per pomeriggi interi schieravo i bottoni sul pavimento, diventavano flotte di pirati, squadriglie di aerei, legioni romane, carovane di pionieri./ Vengo da quella scatola di bottoni» (p. 27). In questo ricordo, il regista dell’Odin sa di descrivere un po’ la fanciullezza di ognuno di noi perché, come in tutti i fanciulli, gli oggetti a cui affezionarsi e giocare sono proprio quelli o altri simili: i bottoni, le scatole di cartone, i giocattoli di pezza, il cavallino a dondolo, il pinocchio di legno. Bruciare la casa è tutto questo, ma è anche un libro che parla dei suoi compagni di lavoro, gli attori e le attrici dell’Odin i quali, non conoscendo direttamente i luoghi descritti, in particolare Gallipoli e il Salento, possono solo immaginarli. E qui, il regista compie un altro miracolo di memoria inventandosi una scena di un immaginario spettacolo di bambini che giocano a nascondino sotto le grandi mura della città a precipizio sul mare. Poi altri ricordi ancora, gli studi in un collegio militare (la Nunziatella a Napoli, assieme a suo fratello Ernesto e all’amico Rosario Amodeo), l’esperienza di una notte particolare che per lui «dura [ancora] tutta la vita», perché è la memoria che dura quando è dura a morire. La vita del regista ha un percorso sinuoso, soprattutto, quando ancora giovane, tenta l’avventura: «Ero uno sconosciuto, un estraneo, una persona senza connotati, storia, legami. Qui [si riferisce alle prime esperienze scandinave] non mi era d’aiuto l’amore di mia madre o i buoni risultati in greco e in latino del collegio militare. Con pochissimi soldi, dormendo all’addiaccio, con un enorme zaino militare che mio fratello aveva ricevuto dai boy-scouts americani scrivendo loro che era tubercolotico, mi proteggevo dietro un’espressione innocente, facendo l’autostop verso la mitica Svezia, il paradiso dell’amore libero. Era il giugno del 1953, avevo 16 anni» (p. 126).


la devastazione dell’essere, con annessa la memoria che solca la psiche: «la pena per la solitudine [… della] madre, una costante sensazione di assenza: le mille smorfie della sofferenza interiore».

Bruciare la casa. La casa è quella di Gallipoli, prospiciente il mare delimitato dal castello angioino e dal porto dei pescatori. È questa la casa che il regista vuole bruciare? È questa la casa della sua memoria “ferita”? La casa in cui, in quella tremenda e oscura notte, vide e sentì sua madre che, nel dargli la Benedizione con un bacio, in un orecchio gli sussurrò: «che Disordine oggi» (p. 69). Da qui, da questo “Disordine” ordinato, nell’occasione del lutto, tipico delle case di quel Sud che sta al Sud di ogni altro Sud, nasce la ricerca del regista nel costruire lo spettacolo La casa del padre (322 volte rappresentato in una ventina di paesi), ma sta anche nella costruzione di tutti gli altri suoi spettacoli, in alcuni dei quali questo suo tratto caratterizzante appare di più, in altri meno. Non può essere altrimenti, pena il sovvertimento del “Disordine” ordinato della memoria, o meglio della “casa della memoria”, quella che dovrebbe essere poi incendiata. Quando il regista si confessa non ha peli sulla lingua. Lo fa spogliandosi di tutto, spogliandosi soprattutto di quelle energie pesanti di cui il corpo e la mente si sono ormai incrostati. Scrive: «Ho spesso detto, accennando alle forze oscure ed elusive che hanno guidato i miei passi, di sentirmi un cavaliere portato da un cavallo cieco che galoppava sull’orlo ghiacciato di un precipizio./ Era cieco anche il cavallo della miniera di cui parlava Zola. Ed erano ciechi i cavalli che facevano chilometri e chilometri girando sempre intorno alla stessa aia o allo stesso pozzo. Sono immagini che evocano un agire inane. Per me raffiguravano la strada creativa: calcare e ricalcare le mie orme, fino a quando non le riconoscevo più. In esse, scoprivo la traccia d’altri passaggi, di piedi che non erano più i miei» (p. 185). Sconvolgente ed attualissimo questo moderno “essere/non essere” del regista, che scopre il bordo dell’esistenza cieca al mistero della vita. In fondo cos’è la vita se non un teatro entro cui lo spettacolo si fa e rifà quotidianamente? Cieca è la vita, cieco è il percorso, ciechi sono gli orizzonti. Resta solo l’ebbrezza della consapevolezza che si vive. E il regista ce lo spiega col fare

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teatro: «Una delle ragioni per cui per me fare teatro possiede ancora attrazione sta nell’ebbrezza del momento in cui lo spettacolo ‘decolla’. Lo sento traballare, sospeso nel vuoto, spinto da forze sue, e mi interpella in una lingua che non mi sembra mia o dei miei attori, e che ogni volta devo sforzarmi di decifrare» (p. 197).

Siamo ormai alla fine di questa lunga riflessione in forma di recensione, ma forse non di recensione si è trattato, come pure, forse, lo svolgimento del credere che il libro Bruciare la casa mi ha fatto uscire fuori tema, visto che poi, forse, non propriamente di bruciare una casa si è trattato, forse non si è trattato neanche della Casa della memoria, del passato vissuto, di ogni vissuto. Tuttavia, seguo il mio percorso. Leggo ancora altri capitoli che ti prendono l’anima. Cavalieri che corrono nella notte sulle rotte del cielo. Ombre come radici e Venti che bruciano. E la casa è lì, esposta a questi venti. Eugenio Barba scrive e racconta la sua storia, quella dell’Odin Teatret, quella di sua madre, di suo padre (che non perde mai di vista), quella di Gallipoli e del Salento, che ci fa capire di amare molto, e non solo per quel triste rituale che anche lui, quasi ogni anno, fa e che io ho visto fare a suo fratello Ernesto per circa vent’anni, uscendo da Gallipoli e andando presso i Cappuccini sulla strada che porta a Taviano. Lì dove spira sempre il vento refolo, l’odore dei fiori che marciscono e quello del nido dell’upupa. Eugenio Barba ci dice che «la storia sotterranea del teatro è stata la [sua] casa. [Egli si è] aggirato nelle sue stanze alla scoperta della [sua] identità professionale. In angoli scuri [ha] scovato l’eredità che i [suoi] antenati [gli] hanno affidato: le [sue] radici e le [sue] ali». «Quando cominciai mi sentivo un orfano. In Europa non esisteva più un’unica tradizione teatrale. La Grande Riforma del Novecento, il “big-bang” del teatro aveva generato tante piccole tradizioni nomadi. Esse non appartenevano a una cultura o a una nazione. All’origine di ognuna di esse vi era un totem, un attore o un regista che, trascinato da una necessità, aveva inventato superstizioni e tecniche per darle vita. Queste tecniche e superstizioni erano incarnate in individui. Viaggiavano, contagiavano, spargevano la peste, incuranti delle frontiere, delle mode e delle coercizioni della Storia./ Per i totem, il teatro è sempre stato un ‘en-


clave’: un pugno di uomini e donne uniti a coltivare con rigore artigianale quello che agli occhi degli altri sembrava un giardino esotico o un’utopia. In realtà tutti, da Stanislavskij a Grotowski, hanno eretto una fortezza dalle mura di vento, al tempo stesso isola di libertà e rifugio dallo spirito del tempo./ La forza d’esempio dei miei antenati teatrali proveniva dalle motivazioni che li spinsero a separarsi dalle valutazioni e dalle pratiche del teatro della loro epoca. […] Sono stato solamente un epigono che ha abitato la vecchia casa degli antenati. Mi sono accanito sui loro segreti ed eccessi. Il mio zelo ha appiccato fuoco alle loro pratiche e visioni. Nel fumo dell’incendio ho intravisto un senso che era solo mio./ Mi sono risposto: io sono la tradizione-in-vita. Essa materializza e va oltre le mie esperienze e quelle degli antenati che ho incenerito. Condensa gli incontri, i fraintendimenti, le ombre, le ferite e i cammini sui quali non smetto di perdermi e ritrovarmi. Quando sparirò, questa tradizione-in-vita si estinguerà./ Forse un giorno un giovane, spinto dalle sue forze oscure, esumerà la mia eredità e se ne approprierà, bruciandola con la temperatura delle sue azioni. Così, con un atto di passione, volontà e rivolta, l’involontario erede intuirà il mio segreto nel momento stesso in cui realizzerà il senso della sua eretica tradizione» (p. 248).

Perché: “Come un capello bianco finì tra le pagine d’un libro”?

È noto a tutti che Eugenio Barba da un po’ di anni se ne va in giro per il mondo con una zazzera di capelli bianchi. Io non l’ho mai visto leggere nella sua intimità, ma me lo immagino come immerso nella lettura a volte con la mano che si riavvia i capelli, come per farli stare al loro posto. A volte accade che quando si fa questa operazione qualche capello resti nell’infradito. La mano col capello intrappolato si piega poi sulla pagina del libro per voltarla. E in questa nuova operazione il capello scivola via dall’infradito e si adagia sulla pagina che, rivoltata, conserva, come dono involontario, il capello sfuggito alla bianca chioma. Io ho speso quasi tutta la vita a studiare come sono fatti i libri, ed oggi, forse per qualche modesta competenza acquisita, mi azzardo a cercare di capire come è fatta la loro veste tipografica (la mia ispirazione è rivolta sempre a quel grande stampatore/editore di Alpignano, Alberto Tallone che, amando tanto i suoi libri, era arrivato al punto di chiamarli «figli di carta»). Bruciare la casa, di Eugenio Barba, l’ho letto quasi tutto d’un fiato una prima volta ma con un sospetto: la percezione di avere tra le mani un libro che qualcuno prima di me l’avesse già letto. Chi tipograficamente conosce i libri non impiega molto a capire se il volume che Qui, nel teatro della vita, dove le Belle Città, gli Uomini sta leggendo è intonso. Il mio Bruciare la casa, giuntomi e le Donne, i Registi e gli Attori, gli Scrittori e i Lettori a Lecce con una spedizione postale da Holstebro, non muoiono e risorgono, le Case sono diventate di vetro. lo era. È stato nel leggere le ultime pagine che mi sono Difficile bruciarle. Ci è permesso solo di rimuoverle. accorto del sottilissimo capello bianco adagiato sul bordo interno della pagina. In un libro intonso ciò è impossibile che accada. Ho riguardato il dorso del volume *** e i segni mi hanno rivelato la verità, almeno quella che io sospettavo: il libro era stato già letto. Mi piace pensare letto dal Maestro. E questo è il motivo Due note a margine per cui all’inizio parlavo del dono più prezioso e caro di La lingua usata da E. B. in questo testo è fascinosa. Su questa prima parte dell’anno 2010. Oggi, Bruciare la ciò sarà d’accordo anche l’Accademia della Crusca, la casa, di Eugenio Barba, è un libro-dono ben serbato nel quale accetterà l’uso di una terminologia italiana della cuore. prima seconda metà del secolo scorso, infarcita di neologismi provenienti da più ambiti linguistici dovuti alle * Scritto in una notte esperienze dell’autore, che usa, a volte con un amabile della seconda settimana dell’aprile 2010 azzardo, verbi e frasi incidentali, e modalità specifiche di punteggiatura con garbo e cautela. L’autore scrive: «chi scrive deve sforzarsi d’esser chiaro», ma Bruciare la casa non solo è chiaro, è pure leggibilissimo.


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«Il teatro è una scienza: però una scienza acrobatica. Un po’ come quelle corse al circodell’antica Roma, nelle quali il cavaliere correva con due cavalli, e doveva saltare dall’uno all’altro. Così è nel teatro: c’è il lavoro sulle cellule, sulle singole azioni, sulla qualità della presenza, del dinamismo, del ritmo, ed è necessario che lo governi solo la coerenza interna. E c’è il momento del mettere in realzione, del montaggio, nel quale si lavora a tutt’altro livello, quello dei significati e dei cambiamenti di significato. Bisogna continuamente saltare dall’uno all’altro. Non è che il teatro non sia una scienza esatta. Solo che contiene più d’una esattezza: e bisogna saltare dall’una all’altra». da Eugenio Barba, Il prossimo spettacolo ( a cura di M. Schino), L’Aquila, Textus, 1999, p. 39

Una parata di strada dell’Odin Teatret

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“La vita cronica”

Questa, fondamentalmente, la trama dello spettacolo, basato sui testi di Ursula Andkjær Olsen e dello stesso Odin Teatret. Gli attori: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley. Drammaturgia di Thomas Bredsdorff. Consulente letterario: Nando Taviani. Disegnatore luci e consulente: Odin Teatret e Jesper Kongshaug. Spazio scenico e suoi consulenti: Odin Teatret, Jan de Neergaard e Antonella Diana. Musica: melodie tradizionali e moderne. Costumi: Odin Teatret e Jan de Neergaard. Disegni della brochure: n novembre meraviglioso è stato quello Giulia Capodieci. Copetina della brochure: Peter By2011. Per me, poi, lo è stato in modo sted. Direttore tecnico: Fausto Pro. Assistenti alla particolare perché, me lo aspettavo, in regia: Raúl Laiza, Pierangelo Pompa, Ana Woolf. quanto già sapevo che nel programma Regia e drammaturgia: Eugenio Barba. leccese degli eventi messi in opera dai Cantieri Teatrali Koreja, ci sarebbe Ho riportato il lungo elenco degli artisti in opera stato Eugenio Barba, uno dei grandi inventori del (spesso, i critici d’arte si dimenticano di farlo), perché teatro contemporaneo. si tratta di attori, attrici e personale tutto che manMa di Barba e della sua capacità di incantare gli at- tiene in vita l’intera struttura della più geniale inventori e gli spettatori, ci sarà un altro luogo per par- zione di Eugenio Barba. Si tratta di un teatro che larne. Qui mi interressa riflettere sul suo ultimo “cammina” (ovviamente oggi su gomma; infatti spettacolo, La vita cronica [una produzione Nor- l’Odin si muove con un tir lungo quanto un fiume), disk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de La come accadeva un tempo per le compagnie del teatro Abadia (Madrid), The Grotowski Institute (Wro- dell’arte. Di solito, lo spettacolo viene pensato e claw)], presentato appunto al teatro stabile di Lecce messo in opera dal regista negli spazi pubblici messinei giorni 9-18 di novembre e che io ho avuto la for- gli a disposizione dalle istituzioni danesi in quel di tuna di vedere per ben tre volte, il 9, il 12 e il 17. Avrei Holstebro, dove c’è il suo laboratorio vivente, quindi desiderato vederlo ancora un’altra volta, ma l’Odin viene prima presentato nel paese in cui lo spettacolo Teatret il 18 finiva le rappresentazioni. E dunque. viene creato, in questo caso la Danimarca, poi si Da una cartolina pubblicitaria, stampata dallo stesso avvia a “camminare” laddove la richiesta lo porta. Odin Teatret, leggo: Eugenio Barba e i suoi attori portano in giro per il «La vita cronica// Dedicato a Anna Politkovskaya e mondo il loro teatro trainandosi dietro l’intera strutNatalia Estemirova/ scrittrici russe in difesa dei di- tura che, per chi non l’avesse mai vista, in questo ritti umani, assassinate da sicari nel 2006 e 2009 per caso specifico della Vita cronica, consiste in una la loro opposizione al conflitto ceceno.// Personaggi: grande pedana rettangolare – la “zattera” l’ha defiuna Madonna nera, la vedova di un combattente nita il regista – al centro dello spazio teatro affianbasco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, cata da due gradinate, che solitamente possono un avvocato danese, un musicista rock delle isole contenere più o meno 110 (spesso qualcuno in più) Faroe, un ragazzo colombiano che cerca suo padre spettatori; i due lati minori del rettangolo teatrale scomparso in Europa, una violinista di strada ita- sono occupati dallo spazio scenico con una particolaliana, due mercenari.// La vita cronica si svolge con- rità che vede gli artisti “agire” ora su di un lato ora temporaneamente in Danimarca e in altri paesi sull’altro oppure, e questo succede spesso, in contemd’Europa nel 2031, dopo la terza guerra civile. Indi- poranea, muovendosi all’unisono su entrambi gli vidui e gruppi con retroterra diversi si ritrovano in- spazi scenici. È facile intuire la situazione: lo spettasieme e si scontrano pressati da guerre, tore, per vedere l’azione o le azioni rappresentata/e, disoccupazione, emigrazione. Un ragazzo approda è costretto a guardare contemporaneamente sui due dall’America Latina in cerca di suo padre scomparso. lati scenici, cosa impossibile, oppure deve guardare “Smettila di cercare tuo padre”, gli sussurra la gente prima da un lato, poi dall’altro. È evidente che quementre lo accompagnano di porta in porta. Non è sta non è cosa facile da mettere in pratica, perché lo l’innocenza né la conoscenza a salvare il ragazzo. Sarà spettatore non possiede il dono della vista a 360 l’ignoranza a fargli scoprire la sua porta. Tra lo scon- gradi, per cui è costretto a scegliersi la scena volta certo di noi tutti che non crediamo all’incredibile: che per volta. una vittima valga, da sola, più di ogni valore. Più di Questa costrizione del “dove guardare” è proprio Dio». quello che vuole che si verifichi il regista che, così faLa Redazione de «La Contrada del Poeta» e gli abstract di: Iben Nagel RASMUSSEN, Roberta CARRERI, Julia VARLEY, Kai BREDHOLT, Sofia MONSALVE, Nando TAVIANI, Thomas BREDSDORFF, Eugenio BARBA

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Uno spettacolo dedicato a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova scrittrici russe impegnate nella difesa dei diritti umani assassinate da sicari nel 2006 e 2009 per la loro opposizione al conflitto ceceno

cendo, lascia libero lo spettatore di scegliersi la scena. È ovvio che mai si riesce a vedere tutto, perché qualche scena sfugge, in quanto, quando lo spettatore sta guardando da un lato, in quello stesso momento, sul lato opposto si sta rappresentando un’altra azione. Per poter avere una visone più o meno (è impossibile la totalità) completa, occorre vedere lo spettacolo più di una volta. Ed è quanto, a differenza di altri spettacoli dell’Odin Teatret da me visti, mi è accaduto questa volta con la visione della Vita cronica, eccezionalmente goduta per tre volte. Lo spettacolo è accompagnato da una brochure (edita da Odin Teatret, Nordisk Teaterlaboraturium, settembre 2011) con gli interventi di: Eugenio Barba (il regista che scrive due pezzi: Incomprensibilità e speranza; Il primo giorno); Thomas Bredsdorff (il drammaturgo che scrive: Il teatro cronico); Nando Taviani (traduttore in italiano dei testi scritti per lo spettacolo e professore di Storia del teatro che per 12 anni ha insegnato all’università del Salento e che oggi continua il suo magistero all’università de L’Aquila), che scrive: Le Indie nere dell’Odin Teatret; Sofia Monsalve (l’attrice che interpreta il ragazzo colombiano che cerca il padre), che scrive: Quel che mio padre mi ha lasciato; Kai Bredholt (l’attore che interpreta la vedova di un combattente basco), che scrive: Donna Vera; Julia Varley (l’attrice che interpreta la rifugiata cecena), che scrive: La nascita di Nikita: protesta e spreco; Roberta Carreri (l’attrice che interpreta la casalinga rumena), che scrive: La nostra vita cronica; Iben Nagel Rsmussen (l’attrice che interpreta la Madonna nera), che scrive: Il senso della follia, con un testo poetico e gli altri in prosa. Si tratta di testi bellissimi di autori/artisti che nel panorama mondiale hanno fatto un’esperienza più che unica e che qui, in questa sede, sarebbe veramente un peccato non darne conto.

La Rasmussen introduce il suo testo con la poesia La sala blu (febbraio 2008): «[…] Vennero gli attori, stanchi/ da anni di viaggi e imprese,/ e il regista/ a sorpresa vestito da monaco giapponese,/ o forse cinese,/ color verde appassito/ seguito dagli assistenti e dal consigliere letterario» (p. 71); seguono due testi in prosa: La sala della solitudine (maggio 2009) e La sala nera (febbraio 2010): «[…] Un giorno Eugenio mi mostra la figurina di un Bambino Gesù che è appesa nel suo ufficio: indossa una tunica bruna e, come aureola, tre manine spuntano da dietro la sua testa. “Provale per la tua Madonna” suggerisce. Nel Vangelo di Oxyrhincus, in Kaosmos e in Mythos abbiamo adoperato mani di legno, opera di uno scultore balinese. […] Anche per Eugenio, che ha seguito lo sviluppo delle prove insieme al piccolo gruppo di assistenti, ci deve essere spazio – un’area di libertà e ispirazione. Ad ogni modo gli vengono

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molte idee. Un giorno mi dice: “Forse la tua Madonna dovrebbe essere nera. E parlare latino”. Poi aggiunge: “Forse Lolito potrebbe trasformarsi in soldato. Gli procuro subito un’uniforme”» (p. 76); segue un altro testo in prosa, La sala bianca: «Dopo le due ore del væksthus, la mattina, continuiamo a elaborare la struttura dello spettacolo nella sala bianca. Dal momento in cui vi entriamo, è Eugenio che ha tutti i fili in mano. È la fase in cui noi attori dobbiamo mobilitare una pazienza quasi sovrumana. Veniamo spostati senza cessare a sinistra e a destra in un fiotto continuo di informazioni contraddittorie, con difficoltà a comprendere in quale direzione andare. Niente di strano, dato che anche il regista non è in grado di raccapezzarsi riguardo alla direzione del processo e che per di più considera una virtù il fatto di buttar via la bussola» (p. 77); segue l’ultimo testo, La sala rossa (Ottobre/novembre 2010 – Febbraio/marzo 2011): «Un’era è finita. Torgeir [uno dei primi attori di Barba] è morto di tumore in un’alba del giugno 2010. Ci siamo stretti l’uno all’altro, come globuli rossi in un corpo ferito./ La vita cronica sarà il primo spettacolo di gruppo dell’Odin Teatret senza Torgeir. […] Glaaang… - e un compagno di vita scomparso. […] La mia esangue figura femminile ha mostrato di contenere sia una Madonna nera che una terrificante divinità induista, le cui caratteristiche riconosco solo vagamente, e nel profondo di me. La vita cronica ha vagato attraverso tutte le sale di lavoro del nostro teatro. I muri sono stati i testimoni silenziosi delle nostre battaglie […] delle nostre crisi e dei disperati attacchi di rabbia di Eugenio quando i suoi attori, una volta dopo l’altro, non comprendevano le più semplici indicazioni. Ci hanno visto barcollare in costumi inzuppati di sudore, con lividi sul corpo e nell’anima, in un buio a volte assurdo» (pp. 71-78). Iben Nagen Rasmussen

Roberta Carreri ha scritto il testo La nostra vita cronica, periodizzandolo, per cui, attraverso la sua lettura, è possibile capire il percorso della spettacolo dalla sua prima ideazione fino alla rappresentazione sulla scena. Scrive: «L’inizio di un nuovo spettacolo è stato più volte paragonato all’inizio di una nuova vita. Il concepimento dei nostri spettacoli è sempre avvenuto alla sola presenza degli attori e del regista, in un’atmosfera piena di trepidazione e intimità. Per Il sogno di Andersen Eugenio ha inseminato la nostra fantasia, nei luoghi più diversi: […] Le sue “improvvisazioni verbali” hanno il dono di essere tanto precise e tanto vaste da riuscire a stimolare l’immaginazione e risvegliare l’interesse in ogni attore. Siamo persone tanto diverse, con alle spalle una lunga esperienza e sulle spalle una certa stanchezza. Continuiamo perché non possiamo farne a meno. Vocazione? A volte un colpo di coda


violento, come quello di un pesce preso all’amo che cerca di liberarsi, smuove le acque. Sbotti di ira. Contro il proprio destino?// 9 aprile 2011: Il sogno di Andersen finisce di sorpresa a Bogotà con una dichiarazione di Eugenio, che irrompe nello spettacolo all’ultimo minuto dell’ultima scena e si rivolge direttamente agli spettatori: “Avete assistito all’ultima rappresentazione in assoluto di questo spettacolo”. Per la prima volta nella storia dell’Odin Teatret, uno spettacolo viene chiuso a scena aperta. Un colpo d’accetta. Un grande albero viene abbattuto, per dare luce al giovane albero che due settimane prima aveva mostrato di aver attecchito./ 2008// Eugenio riserva il mese di febbraio per iniziare il lavoro sul nuovo spettacolo il cui titolo provvisorio è XL (Extra Large). […] È la prima volta che Eugenio ci descrive il tema del nuovo spettacolo alla presenza di altre persone. Ogni momento della creazione di questo spettacolo avverrà sotto gli occhi di testimoni. Per aiutare Eugenio? Per aiutare noi attori? […] Mi aspetto un nuovo inizio e invece quando Eugenio apre bocca ci obbliga a confrontarci ancora una volta con un funerale. Questa volta non è quello di una canzone, non è quello di un’idea: è il suo./ Eugenio dice: “Un giorno arrivate al teatro e vi annunciano che sono morto. In una lettera vi prego di organizzare il mio funerale con ciò che sapete che amo. Avete la possibilità di dialogare con me, di dirmi quello che non mi avete mai detto. Per tanti anni avete lottato per non farvi schiacciare dall’Angelo. Raccontate una storia piena di orrore e humor su di me a cui dovrete rivolgervi dicendo ‘lui’, mai ‘tu’. Ognuno di voi deve preparare la sua cerimonia. Decidete voi come. In pochi minuti. Dovrete dirigere i colleghi. Sofia [Monsalve] ha, invece, un’altra storia. È venuta per cercare suo padre. Questa vicenda è l’asse attorno al quale si aggroviglieranno le nostre storie. La nostra stella polare è il tema dell’integrazione”. Come sempre il tema di uno spettacolo di Eugenio è attuale, bruciante. [… ] 12 febbraio 2008./ Nel centro dello spazio ci accoglie un grande oggetto rettangolare coperto da un telo. Eugenio dice: “Qui sotto ci sono due idee: una mia e una di Luca Ruzza”. Il telo viene tolto e appare una bara trasparente, come quella di Biancaneve. È piena d’acqua, dentro nuota un’anguilla. Eugenio chiede a Sofia di entrare nella bara. Il suo corpo si cala dolcemente. I capelli fluttuano mentre l’anguilla scivola lungo le sue gambe. Sembra nel suo elemento. Quando Eugenio chiede a Sofia di uscire dall’acqua, lei ne riemerge tremante dal freddo e dallo schifo./ Lo spazio che Eugenio vuole utilizzare è di 5m x 3m. Piccolo piccolo. Ogni nostra minima azione è assordante. […] Tutti i giorni ripetiamo le proposte di ogni attore nell’ordine di presentazione, più quella di Nando. Ogni giorno Eugenio suggerisce qualcosa di nuovo, modificandole. Durante la sua scena, Tage [Larsen]

ci chiede di dire le frasi che abbiamo sentito ripetere da Eugenio fino alla nausea nel corso degli anni. A me viene in mente: “Questo spettacolo deve stare in una valigia”./ Dopo tre settimane di clausura, la filata dello spettacolo dura 80 minuti. Nel “magazzino” sono accatastati frammenti di vecchi spettacoli e nuove idee. Li riponiamo nella “bara di cristallo”. Interrompiamo le prove per andare in tournée con il nostro repertorio. Quando riprenderemo il lavoro su XL, ancora non si sa. Probabilmente fra un anno. Nel frattempo ognuno di noi dovrà creare il proprio personaggio e almeno mezz’ora di “tessuto musicale”. Io non ho idee, ho solo bisogno di fuggire da me stessa. […] 4 maggio 2009./ Riprendiamo il lavoro su XL. Ci viene comunicato che il titolo del nuovo spettacolo sarà La vita cronica. Un altro degli ossimori di Eugenio, penso quando lo sento per la prima volta. Non evoca in me alcuna risonanza. Forse è semplicemente ispirato alla sorte di sua madre nonagenaria, inchiodata ad un letto, senza memoria, senza neanche il piacere di riconoscere suo figlio./ Abbiamo avuto più di un anno per creare i nostri personaggi: […] nella sala blu, ci accoglie la nuova scenografia: un pavimento di assi di pino intercalate da fessure luminose. Con una bottiglia di vodka polacca, Eugenio la battezza “Zattera della Medusa” e dice che in questo spettacolo non vuole proiettori. Vuole solo candele, bastoni luminosi, torce ecologiche. […] L’illuminazione deve essere fantasiosa e povera. Eugenio ci comunica che la danza, come la musica, è uno dei temi centrali dello spettacolo, che si ripresenterà costantemente, come una forma di basso continuo. Un altro elemento centrale sarà la zoppia. Dobbiamo esercitarci ad essere zoppi. Questa piccola limitazione ci aiuterà a vincere i nostri cliché, e ci darà nuove possibilità ritmiche, dice Eugenio. […] Il lavoro inizia ogni mattina alle otto in sala nera, con due ore di “vivaio”. Qui abbiamo la possibilità di far crescere i personaggi che abbiamo creato. […] Per dare corpo alla maratona di danza, nel “vivaio” ci alterniamo nelle braccia di Ana Woolf per imparare passi di tango e milonga./ Il mio personaggio comincia ad uscire dalla sua “bolla” e ad interagire con gli altri personaggi. […] Come cameriera Eugenio mi suggerisce di introdurre del cibo da offrire ai compagni. […] Sugar [è il primo tentativo di personaggio interpretato dalla Carreri] cammina impettita e determinata, con passetti veloci. Le sue improvvisazioni hanno il carattere dei sogni dove si propone un passato di violenze e soprusi. Ma nella sua realtà c’è posto solo per il lavoro e il canto./ 13 maggio 2009. Lo spazio dello spettacolo si è trasformato drasticamente: i ganci da macellaio sono apparsi nel “magazzino”. […] Al termine di questo periodo di prove ho la netta sensazione che il mio personaggio non sia necessario in questo spettacolo. L’ho creato per sfuggire ai miei stilemi e aiutare Eugenio


a rompere i suoi, ma la verità è che Eugenio non sembra interessato a rompere i suoi cliché, anzi li riafferma e li rinforza. Per questo il mio personaggio che è così “diverso” non funziona, nel senso che non ha una funzione nella sua drammaturgia. Ma nel suo discorso di chiusura, Eugenio mi sorprende quando tira le conclusioni di questa seconda tappa della Vita cronica dicendo: “Ora abbiamo lo spazio, i personaggi. La storia è chiara: come si integra una persona? Abbiamo il personaggio di Julia che si lascia integrare e quello di Sofia che non si lascia integrare. Siamo liberi, eppure ci sembra che non sia una via d’uscita perché non riusciamo a trovare la chiave per aprire la porta. Le monete che tintinnano sono parte della sinfonia sonora che accompagna lo spettacolo. Il cibo è l’altro elemento: in questa società mangiamo quando non abbiamo fame e beviamo quando non abbiamo sete”. Eccomi servita: le chiavi e il cibo di Sugar sono funzionali. Eugenio ci lascia con una serie di compiti individuali da risolvere prima del prossimo incontro a ottobre. || La terza tappa inizia il 5 ottobre 2009./ Ci siamo spostati in sala bianca per dare spazio alla costruzione della struttura per gli spettatori. […] Eugenio riassume i temi dello spettacolo e chiede a Julia di cambiare il costume: il suo personaggio non deve essere un uomo ma una donna. […] Eugenio mi chiede di sviluppare il tema della porta/chiave e mi chiede di scrivere dei testi su questo tema. A metà ottobre Eugenio comincia a lavorare sulla tribuna degli spettatori rendendola parte integrante della scenografia. […] || 2010. Eugenio decide di non usare, come era previsto, il mese di febbraio 2010 per le prove della Vita cronica, ma per rielaborare tutti gli spettacoli di ensemble dell’Odin Teatret, cancellando la presenza di Torgeir [Wethal, ammalatosi di un cancro maligno che, dopo alcuni mesi, lo porterà alla morte]. Eugenio vuole che Torgeir si concentri completamente sulle cure e non partecipi alle tournée con i vecchi spettacoli. […] Posticipiamo il prossimo periodo di lavoro sulla Vita cronica a maggio. Dal 10 al 26 maggio lavoriamo in sala bianca. […] Eugenio crea nuove scene e fa continuamente cambiamenti radicali. Decide che Sugar deve parlare rumeno. I miei testi vengono tradotti. Eugenio mi chiede di cantare una canzone mentre poso i fiori sulla bara. […] Eugenio assegna anche ad altri compagni alcuni dei compiti di Torgeir. […] La quinta tappa della Vita cronica si svolge nell’autunno del 2010. […] Quando riprendiamo il lavoro il 29 settembre, troviamo la scenografia montata in sala rossa. […] Eugenio continua a fare sperimenti con l’organizzazione dello spazio, mettendo gli attori sulle scale, fra gli spettatori. A Wroclaw Eugenio lavora sullo spettacolo alla presenza di 40 corsisti. || 2011./ I mesi di febbraio e di marzo sono la cornice della sesta tappa della Vita cro-

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nica. È qui che Eugenio chiama Jesper Kongshaug a correggere il disegno luci dello spettacolo. Lo spettacolo ne ha bisogno per librarsi su un altro piano. [… ] La fine dello spettacolo cambia diverse volte. […] La pazienza di Eugenio a volte mi pare sovrumana. Aspetta per anni dei risultati che non ha nessuna garanzia di avere. Lo fa perché non può farne a meno. Sulla sua intelligenza non ci sono dubbi, ma c’è anche un’altra forma di intelligenza che lo guida. […] 3 luglio 2011./ Un anno fa [27 giugno 2010] celebravamo il funerale di Torgeir. La nascita della Vita cronica corre parallela alla sua malattia e alla sua morte. [… ] Torgeir ha iniziato con Eugenio l’Odin Teatret nel 1964 e nel maggio 2011 ha inaugurato la tomba di famiglia dell’Odin Teatret» (pp. 56-69). Roberta Carreri

Il testo di Julia Varley è intitolato La nascita di Nikita: protesta e spreco, che si apre con questo incipit: «La vita cronica è per me uno spettacolo il cui processo è segnato dalla morte. Ora che è quasi finito, comincio a intravederci una protesta contro l’inevitabilità della morte e un’asserzione della necessità di continuare, nonostante tutto. […] Quando dico che il processo della Vita cronica è segnato dalla morte mi riferisco alle persone care che ho e abbiamo perso negli anni in cui con intermittenza abbiamo provato questo nuovo spettacolo. Prima è morta Maria Cánepa, una cara amica attrice cilena; poi Silvia Mascarone, la moglie di Claudio Coloberti, il compagno con cui facevo teatro a Milano nella mia gioventù e che ora lavora per gli archivi dell’Odin Teatret; poi Marco Potena, l’uomo con cui mia madre ha convissuto tre decadi, […] poi Tony D’Urso, il fotografo che ha seguito molte delle nostre tournée più avventurose e le cui fotografie sono diventate delle icone del teatro; poi ci lasciò Torgeir Wethal, uno dei fondatori dell’Odin Teatret, la prima persona del gruppo con cui ho avuto contatto. Torgeir ha partecipato alle prove fino a tre settimane prima della sua fine. Ci sono state anche sparizioni meno dolorose, ma egualmente significative: Frans Winther, il musicista che è all’Odin dal 1987, ha lasciato lo spettacolo, e ad un certo punto il regista [Eugenio Barba] ha ‘ucciso’ il personaggio che avevo creato, in modo da farne nascere un altro. […] Ero in un bar di Scilla in Calabria a prendere un caffè e cornetto per la prima colazione quando Eugenio ha ricevuto la telefonata di Roberta Carreri che annunciava la morte di Torgeir. È spirato qualche minuto fa, mi ha detto. Non dimenticherò mai quel bar, il giornale aperto sul tavolo accanto alla tazzina di caffè, Eugenio in piedi vicino al banco per pagare, il silenzio improvviso che mi sommergeva, le mani che sostenevano il viso, lo sguardo perso nel nulla. Roberta e Iben Nagel Rasmussen, Alice Carreri


Pardeilhan e suo marito Erik, erano con lui: “meno male”, ho pensato in un angolo della mia mente. [… ] Tutto cambia in un secondo: avere e non avere, ci ripete sempre Eugenio. È giusto commemorare chi ci ha lasciato, ma è necessario celebrare la vita. Dobbiamo continuare./ L’obbligo del lavoro ci ha sempre aiutato nei momenti più difficili: ritornare a fare training quando Eugenio ha abbandonato le prove di Ceneri di Brecht; produrre lo spettacolo Theatrum Mundi per l’Ista del Portogallo già in programma quando è morta Sanjukta Panigrahi; fare le prove quando le coppie del gruppo divorziavano e i figli esigevano scelte chiare. Anche questa volta, finire lo spettacolo è stato un obbligo sentito da ognuno di noi, che ci ha aiutato a non lasciarci abbattere dall’inaccettabile. La presenza di Torgeir si prolunga nella Vita cronica, anche se non tutti gli spettatori sapranno vederla. Ho sempre avuto difficoltà a tollerare la tendenza a dirigere morbosamente l’attenzione verso se stessi. Il primo tema proposto dal regista [Eugenio Barba] aveva per me questo sapore. Ho reagito malissimo. Volevo scappare dalla sala di lavoro. Cercavo di sentire e farmi notare il meno possibile. Allo stesso tempo non potevo rinunciare a essere parte dello spettacolo e quindi del gruppo. In fondo l’Odin è la mia vita. Come potrei continuare ad esistere fuori e da sola? […] Per la mia “cerimonia funeraria” predisposi una scena di pulizia – come fa Eugenio per le ricorrenze importanti del nostro teatro – inframmezzata da aneddoti tratti da tournée e spettacoli passati. […] Alla fine della seconda settimana di prove il mio tormento arrivò al limite. Venerdì notte non riuscivo a dormire. Dovevo assolutamente trovare una via d’uscita. Non potevo continuare a rifugiarmi in un angolo della sala, chiusa nella mia pesante tristezza causatami dal tema datoci da Eugenio nel suo tentativo di rompere tabù e automatismi. La sua provocazione per scuotere il gruppo mi paralizzava. Rifiutavo il ricatto sottinteso nella frase “se non riusciamo a lavorare assieme non ha senso lo sforzo immane per mantenere il gruppo”. Ero imbarazzata […] Ero stanca di sentirmi dire che non bisogna parlare in sala mentre al tempo stesso ogni decisione del regista [Eugenio Barba] era spiegata e giustificata con lunghi discorsi che insistevano su una scelta che cambiava il giorno successivo. […] Nando Taviani, l’amico consigliere letterario che accompagna l’Odin da quarant’anni, parlò della zoppaggine. Trasparivano nel suo discorso le lunghe conversazioni fra lui ed Eugenio alla ricerca del cammino da seguire. Dopo aver introdotto la storia di Giacobbe del Vecchio Testamento, Eugenio ci chiese di preparare una scena dal titolo “la lotta con l’angelo”. A differenza di Eugenio che ha vissuto la sua infanzia nel sud Italia permeato da riti cattolici, da bambina ho avuto poco contatto con il mondo religioso. […]

Volevo invece parlare di Maria Cánepa, l’attrice cilena appena scomparsa. Volevo darle voce e tenerla in vita attraverso il teatro. Nella mia scelta della lotta con l’angelo, Maria diventò un angelo custode che mi proteggeva e incitava./ Passò molto tempo prima di avere l’occasione di mostrare la scena che avevo preparato. […] Presentai la scena una sera, dopo l’orario di lavoro. Solo Eugenio e gli assistenti alla regia erano lì. Mi chiedo come mai sento ancora emozione e paura, dopo anni e anni di esperienza, quando devo mostrare qualcosa di nuovo. […] Alla fine del primo periodo di prove, Eugenio ha chiesto a tutti di preparare per la successiva fase di lavoro la storia del proprio personaggio, dandogli anche un nome. […] A me in particolare Eugenio disse: “Se vuoi raccontare la storia di Maria, devi creare un personaggio cantastorie molto diverso da lei. Non puoi essere tu, e tu non puoi essere lei”. […] Maria – la mia motivazione iniziale – uscirà dalla Vita cronica per entrare in un altro spettacolo dal titolo Ave Maria./ Ci lamentiamo sempre che non abbiamo tempo: il regista [Eugenio Barba] per leggere, gli attori per creare materiali, i musicisti per provare le musiche. Prendendo a cuore le critiche che gli abbiamo fatto in passato per i suoi comportamenti bruschi e impazienti, Eugenio ha promesso che durante il processo per questo spettacolo si controllerà e mostrerà il lato affabile del suo temperamento. Creiamo, così, un tempo di circa due ore ogni mattino, un væksthus (il vivaio) in cui lavoriamo liberamente in sala nera. Eugenio guarda, annota, legge, sussurra commenti individuali agli attori. […] Ricordavo la rabbia sentita da chi ha perso un amore. Mi era chiarissima l’immagine di qualcuno che piange la mancanza di una persona cara, ma vedevo che non risvegliavo associazioni nel regista. Ripetevo la sequenza aspettando il momento in cui quello che era chiaro per me lo diventasse anche per chi guardava [cioè il regista (Eugenio Barba)]./ Ancora una volta il burka! Non è possibile! È una persecuzione! A ogni spettacolo Eugenio vuole nascondermi il viso e coprirmi dalla testa ai piedi di nero. Capisco la disperazione del regista [Eugenio Barba] che cerca modi per cambiare i propri attori, ma perché la soluzione per me è sempre il burka? Non ne posso più! Però capisco che su un punto Eugenio non transigerà nonostante tutte le mie proteste: dovrò ritornare ad essere donna. […] Faccio chiamare Eugenio e gli presento questo nuovo personaggio variopinto. Mi muovo velocemente in tutta la sala con gli stessi passi, gli stessi movimenti delle braccia e della testa del mio zio d’America. Eugenio è contento. “Funziona - mi dice – Nikita mi piace”. Ha battezzato subito questo personaggio. […] Eugenio lavora con l’idea che sono la moglie di un uomo morto in guerra e mi corregge di conseguenza. […] Quando dopo alcuni mesi di tournée e altre attività riprendiamo le prove, Eugenio ci


comunica che lo spettacolo non si chiama più Extra Large ma La vita cronica. […] Per ogni nuovo spettacolo ci poniamo il problema della lingua. Dopo l’esperienza del Sogno di Andersen e della difficile traduzione dei testi danesi nella lingua dei diversi posti dove lo spettacolo veniva rappresentato, Eugenio vorrebbe uno spettacolo senza questo problema. Pensa a un testo che non debba essere capito, che potrebbe essere anche in una lingua inventata. Immagina uno spettacolo in cui la drammaturgia non è necessariamente retta dal testo. […] Anche se Eugenio insiste che tutti dobbiamo imparare i nostri testi in una lingua inventata, qualcosa mi dice che alla fine del processo rimarranno delle parole comprensibili» (pp. 37-53). Julia Varley

Il ruolo dell’attore Kai Bredholt, nelle vesti di una vedova di guerra, è ben narrato nel testo Donna Vera, nel quale è possibile leggere: «Nello spettacolo faccio la parte di una donna, la vedova di un combattente basco. Ma la figura era originariamente ispirata a Donna Vera, la mamma di Eugenio Barba. L’idea di creare una figura femminile parte da una catena di pensieri messa in moto da Eugenio stesso. Dopo una delle prime prove dello spettacolo nella sala blu, lui [Eugenio Barba] mi ha proposto di utilizzare come ispirazione per il mio lavoro una persona che io conoscessi direttamente. [… ] Pensavo che lo spettacolo avrebbe potuto parlare di Eugenio, e che quindi quella donna doveva essere sua madre, Donna Vera. Per questo ho chiesto ad Eugenio di fargli un’intervista su di lei e sul tempo in cui lui era bambino. Ho anche preso in prestito da lui delle fotografie: foto di quando Vera era una giovane ragazza, di quando era una giovane vedova con due figli piccoli e di quando era una donna matura affiancata da due figli grandi con i vestiti militari. Questo fu il punto di partenza per creare la figura. […] Ho raccolto alcuni frammenti di testo dall’intervista con Eugenio e con Pierangelo Pompa, che è assistente alla regia, li ho montati per comporre un testo lungo in cui era Vera stessa a raccontare la sua vita. Come nell’intervista di Eugenio, tutto il resto era in italiano. Questo mi ha aiutato a trovare la voce di Vera. Mi riusciva facile parlare e raccontare in italiano. Era come un canto morbido. […] I testi che avevo scelto hanno dato vita a tre scene, in cui Vera racconta la sua vita. Una di queste si svolge nella sala da pranzo della casa di Vera ed Eugenio. Lei racconta dell’incontro con suo marito, e della sera di pochi anni dopo in cui morì. […] Eugenio mi aveva descritto minuziosamente quella notte e di come Vera lo avesse mandato a comprare del ghiaccio per il padre agonizzante […] Mi sembrava un’immagine fantastica, e mi sarebbe piaciuto usarla. Per tanto tempo non ho capito

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a che cosa servisse quel ghiaccio. Più tardi ho compreso che serviva per far abbassare la febbre del padre./ Nel momento in cui nella scena era Sofia e non più il pupazzo a rappresentare Eugenio bambino, potevo mandarla a prendere un blocco di ghiaccio e farla correre per lo spazio, come aveva corso Eugenio quella notte per i vicoli del suo paese. Mentre Vera scatenava il suo caos, spezzando il suo canto in falsetto con l’altra sua voce, molto più potente e profonda./ In questa scena eseguivo tante piccole azioni concrete: apparecchiare la tavola, piegare un fazzoletto, lavare il cadavere, coprirlo con un lenzuolo. Queste semplici azioni mi piacevano, ma anch’esse sono col tempo diventate una routine, che doveva essere rotta con l’aiuto del regista [Eugenio Barba]. [… ] Corri a comprare un pezzo di ghiaccio// Donna Vera: “Vengo da una famiglia aristocratica. Ero molto giovane quando mio marito Emanuele è morto e sono rimasta vedova. Abitavamo a Gallipoli, una cittadina di pescatori. Avevamo due figli, Ernesto ed Eugenio./ La morte non mi ha spaventato, ma per molti anni ho dormito con una pistola sotto il cuscino, perché avevo paura che venissero a giustiziare mio marito. Aveva combattuto dalla parte sbagliata durante la guerra. L’ho conservata come ricordo. Non mi sono mai sentita a casa in Puglia, non era il mio mondo./ Adesso che sono vecchia, chi mi sta più vicino è una famiglia povera di peruviani, che vive a casa mia e si prende cura di me”./ Scegliendo Donna Vera avevo sperato che lo spettacolo trattasse di Eugenio; che potessimo trattare la storia di un ragazzo di Gallipoli. Non per trovare risposte alla biografia di quel ragazzo, ma per sfidare la nostra abitudine a raccontare sempre storie molto aperte e ambivalenti. Per dare un’identità alle tante persone che nei nostri spettacoli subiscono delle offese oppure muoiono, o che cantano e raccontano./ Ma lo spettacolo non ha trattato di Eugenio e della sua vita. È un tema forse troppo vicino. “Non è interessante”, direbbe Eugenio. Forse perché lui corre ancora nelle strade di Gallipoli col suo pezzo di ghiaccio col terrore di non arrivare in tempo e vedere la morte negli occhi./ Eppure lo spettacolo tratta anche di Eugenio./ Una sera, a Città del Messico, gli chiesi se poteva parlarmi di sua madre. Il giorno dopo, e quello dopo ancora, ci siamo seduti uno di fronte all’altro e per cinque ore di seguito ha parlato di sua madre e di se stesso./ Del pezzo di ghiaccio nella notte in cui suo padre morì. Dell’anguilla nel pozzo di casa che bisognava stare attenti a non pescare, perché l’acqua avrebbe rischiato di avvelenarsi e l’intera famiglia Barba di morire. Ha raccontato degli zii ossessionati dall’idea del suicidio e di come tre di loro, dopo vari tentativi, lo commisero davvero. Di se stesso, l’unico della famiglia che andava in chiesa ogni giorno per pentirsi dei suoi peccati anche quando non c’era niente di cui pentirsi./ Ha


raccontato di Vera che, in quanto donna, non poté seguire il feretro del marito al cimitero e che da vedova non poté più mostrarsi per strada dopo l’imbrunire senza essere accompagnata da uno degli uomini della famiglia. Vera, una donna forte dall’umorismo bizzarro, che si piegava al suo destino senza perdere mai la sua dignità, che non si risposò e da sola educò i suoi due figli a frequentare questo mondo./ Ci sono anche tutte queste storie nella Vita cronica. Nascoste sotto molti strati, ma ci sono: angoscia, felicità, dolore, colpa, morte, odio, umorismo, sorriso, suicidio, canti, musica e solitudine./ Donna Vera: “Ricordi la notte in cui è morto tuo padre? Tuo padre ed io eravamo stati invitati a casa di amici. ‘Ritorneremo alle nove’, vi abbiamo detto. Erano le dieci e non eravamo ancora tornati. Tu e tuo fratello avete sentito lo scalpitio di un cavallo, lo stridore di una carrozza, voci alterate. Uomini sconosciuti hanno adagiato tuo padre sul letto. Sono venuta verso te ed Ernesto e ho detto: ‘Non abbiate paura’. A te ho detto: ‘Corri a comprare un pezzo di ghiaccio, poi vai dal dottore e digli che tuo padre sta male. Dopo corri dal prete e pregalo di venire con l’estrema unzione. Fa presto’.”./ Eugenio aveva dieci anni la notte in cui morì suo padre. Oggi ne ha 74 e il pezzo di ghiaccio non si è ancora sciolto» (pp. 29-34). Kai Bredholt

La giovanissima attrice Sofia Monsalve scrive il testo Quel che mio padre m’ha lasciato, nel quale rilevo l’importanza di questi passi: «Tutto è cominciato il 5 febbraio del 2008. Eugenio Barba aveva riunito i suoi collaboratori per iniziare un nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. Ci siamo riuniti nella piccola sala blu del teatro alle 7 di mattina nel buio dell’inverno danese. Eugenio sembrava il leader di un gruppo clandestino in una città sperduta della Danimarca, uno che stava organizzando un nuovo complotto, un patto di sangue, una nuova avventura./ Era l’alba. Lui prese a parlarci delle superstizioni: quegli scongiuri, parole, frasi o atti, che ci guidano nel momento di affrontare il destino: il grido “Jeronimo” che i soldati paracadutisti americani urlavano prima di lanciarsi nel vuoto. Con questa spinta superstiziosa doveva iniziare lo spettacolo che, per Eugenio, doveva essere una bestemmia rispetto alle nostre certezze. Poco dopo, ci ha presentato i percorsi sui quali si sarebbe basato lo spettacolo. Fece il mio nome e mi dettò quella frase che da quel momento non mi avrebbe più lasciato, accompagnandomi come un presagio, un mantra, un grido di battaglia e di supplica, il mio “Jeronimo!”: “Sono venuta perché mi hanno detto che qui c’è mio padre”. [… Dunque è] il 5 di febbraio del 2008, [… sono] seduta accanto agli attori dell’Odin Teatret e di fronte a un regista che ci invitava al complotto. Tremando

per l’emozione firmai il mio patto di sangue. Ero disposta ad abbandonare ogni certezza, la mia lingua, la mia famiglia e le abilità che credevo d’avere./ […] “In un villaggio deserto” fu il tema che Eugenio mi diede per la mia prima improvvisazione. […] Dopo alcuni mesi di lavoro Eugenio decise che la scena sarebbe stata un dialogo con il personaggio di Iben Nagel Rasmussen. […] Durante i primi mesi di prove il mio lavoro era condizionato dagli altri attori, ero come una marionetta nelle loro mani. […] Dal mio quaderno di lavoro: “Oggi Eugenio, giusto prima della mia entrata in scena, è venuto da me con una benda dorata per coprirmi gli occhi. Mi ha bendata in maniera tale che non potevo veder nulla, neanche un’ombra. Mi ha detto: ‘Ora entra in scena e fai tutto quello che hai fatto fino ad ora’.”. Si è aperto un nuovo spettacolo davanti ai miei occhi bendati. […] Quando Eugenio aveva concluso il suo discorso, quella mattina del 5 febbraio del 2008, il sole era già uscito. Con la luce erano arrivate le prime scene, e con le scene esplose il caos. E il caos ci ha accompagnato per questi quattro anni, un caos fluttuante che assume e perde forma; che si amalgama e poi si suddivide» (pp. 24-27). Sofia Monsalve

Di Nando Taviani cosa si può dire oltre quello che ormai tutti noi sappiamo. Da più di quarant’anni segue e sta accanto all’Odin come un buon padre, un caro fratello, un devoto figlio. A lui dobbiamo tanto, soprattutto deve chi qui scrive, il quale non avrebbe potuto mai conoscere così come conosce oggi (almeno credo) l’Odin Teatret di Eugenio Barba, senza le letture fatte sui testi di Taviani, il quale, per questo ultimo stupendo spettacolo dell’Odin, scrive il testo Le Indie nere dell’Odin Teatret. Scritti degli attori: Le «”Indie nere” sono anche le miniere del nostro teatro di Holstebro: etiche artigianali, esperienze, immaginazioni, motivazioni e necessità personali, quasi mai visibili, ma capaci di mettere in moto e nutrire il lavoro visibile. […] Il lavoro per La vita cronica è iniziato nel febbraio del 2008 e si è concluso nell’autunno del 2011. In un arco di quasi quattro anni, Eugenio Barba e gli attori hanno ritagliato alcune piccole oasi di tempo liberato da ogni altro impegno in cui dedicarsi esclusivamente ad un’opera nuova. […] Il tempo in cui l’intero ensemble dell’Odin si è dedicato all’invenzione della Vita cronica corrisponde, tutto sommato, a circa otto mesi di lavoro: febbraio 2008, maggio 2009, febbraio 2010, ottobrenovembre 2010, febbraio-marzo 2011, settembre 2011. […] A orientare le prospettive per l’elaborazione del nuovo spettacolo c’erano all’inizio soltanto due titoli. Prima XL (Extra Large), dall’apparenza talmente dozzinale da far ridere o pensare. Poi La vita cronica, semplicemente enigmatico. […] Ancora viva,


ma sempre più lontana, c’era la sorpresa del primo giorno di lavoro, la fantasiosa infrazione delle regole, quando Eugenio Barba, con un dribbling beffardamente autobiografico, aveva spinto l’ensemble in una sorta di carnevale arcaico: la celebrazione del suo funerale. […] Fra una tappa e l’altra, mentre l’opera restava in letargo, Barba immaginava scene e montaggi, e nell’immaginazione li distruggeva. Immaginare e distruggere sono azioni complementari per un regista a cui l’esperienza ha insegnato che un modo per riuscire è quello di sbagliare volontariamente strada, e che la soluzione giusta è quella imprevista, che sorge da sé, con la forza convincente della serendipità. […] Nessuno, né gli attori né il loro registadrammaturgo, aveva in mano un “piano di produzione” che delineasse la trama, i testi e la sceneggiatura dello spettacolo a venire. Negli ultimi vent’anni lavorare in questo modo è diventato normale nell’enclave dell’Odin. […] È un modo di lavorare basato su un paradosso: per essere libero, Barba deve lasciar mano libera agli attori. E viceversa gli attori conquistano una nuova libertà di scelta lasciando mano libera a Barba e agevolando l’indipendenza dei suoi interventi. […] Le cose, insomma, vanno alla rovescia: non dal progetto alla sua realizzazione, ma dalla scoperta alla sua comprensione; non dal soggetto al modo di interpretarlo, ma dall’emergenza inattesa al modo di giustificarla. […] Far camminare le cose a rovescio è una strategia cosciente, sperimentata, cresciuta da una storia precisa, difficile da imitare. Caratterizza il comportamento dell’Odin anche aldilà della sua pratica artistica. […] Gli scritti qui presentati sono stati composti nell’estate 2011, quando lo spettacolo non ha ancora assunto la sua forma definitiva. “Forma definitiva”, nel nostro caso, vuol dire l’opposto di “forma prevista”. In questo momento, tutti sappiamo che La vita cronica, benché consista già di scene, relazioni e azioni ben definite e fissate, potrà in pochi giorni di prove, mutare radicalmente aspetto, e sigillare il proprio viaggio in maniera diversa dalle innumerevoli ipotesi di volta in volta formulate dal suo regista-drammaturgo, o auspicate dall’uno o dall’altro di coloro che hanno partecipato al lungo processo. […] Protagonista è potenzialmente ogni attore. Per rendersene conto, basterà che uno spettatore riveda più volte lo spettacolo pedinando con lo sguardo e l’attenzione ogni volta una figura diversa. La drammaturgia qui è fatta apposta per permettere a ogni attore d’essere facoltativamente considerato come centro dell’azione complessiva, e per liberare ogni singolo spettatore dalla comoda ma usuale situazione di spettatore teleguidato (letteralmente: guidato da lontano)./ Questo tipo di drammaturgia, fatta per liberare sia gli attori che gli spettatori dalle tradizionali gerarchie

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drammaturgiche (primo attore, personaggi secondari, ecc.) ritorna in tutti gli spettacoli dell’Odin Teatret, in maniera particolarmente cosciente e raffinata da Min fars hus in poi./ Min fars hus è del 1972. Fu rappresentato per l’ultima volta nel gennaio del ’74. Due dei “protagonisti” di Min fars hus sono presenti nella Vita cronica. Un terzo [Torgeir Wethal], era presente fino a poco tempo fa, quando la malattia e la morte l’hanno costretto per la prima volta ad assentarsi da uno spettacolo del teatro ch’egli aveva contribuito a fondare. Gli attori, Eugenio Barba, alcuni degli spettatori che da più tempo aderiscono al nostro teatro, continuano a vederlo baluginare qua e là nello spettacolo. Nella Vita cronica c’è una quarta persona strettamente legata a Min fars hus, benché non ne facesse parte: l’aveva visto, e poi aveva chiesto di entrare nell’Odin. E inopinatamente vi entrò. […] L’Odin Teatret è in vita dal 1964, molte volte si è insistito sul record di longevità che detiene nel contesto del teatro contemporaneo. Eugenio Barba ama ripetere che tale record equivale a “una mostruosità, un affronto alla natura del teatro”. Immagino che così, esagerando un poco, riesca a controllare gli effetti di quello strano cocktail che in genere dà alla testa per la sua mistura di fierezza per il passato, presenza sicura di sé, più il dovuto turbamento nei confronti del futuro. […] Ricordo il primo giorno di lavoro per lo spettacolo che doveva chiamarsi XL e che poi s’è guadagnato il titolo di Vita cronica. Lo ricordo come un imprinting o forse un’alba irripetibile. Era il mattino del 5 febbraio 2008. Nei calendari tradizionali quel giorno era segnato come Martedì Grasso: uno di quegli ultimi giorni di carnevale dei quali solo vecchissimi libri conservano la memoria essenziale. […] La piccola stanza blu, quel martedì del febbraio 2008, si riempiva di accessori e fantasmi teatrali. In quell’ingombro mascherato cadevano tutto il tempo le maschere e le cortine. Da dietro una di quelle cortine comparivano – realtà o immaginazione? – due sorelle gemelle. Snudavano le armi e duellavano: Verità una, l’altra Speranza. Non erano allegorie, erano sorelle. E non era possibile indovinare se quel duello fosse un assassinio o una “lotta fiorita”, come in certe esotiche contrade viene chiamato l’amore» (pp. 16-23). Nando Taviani

Nella Vita cronica l’attore Thomas Bredsdorff interpreta la parte dell’avvocato, la cui zoppia è quella più vistosa. Scrive il testo Il teatro cronico: «Il canto dell’Odin Teatret sarà tra poco alle sue ultime note. Al prossimo anniversario rotondo compirà 50 anni e il suo direttore ha da tempo raggiunto un’età più che venerabile. L’energia non impone ancora limiti, ma la biologia lo farà presto. Ineluttabilmente, a una data che si approssima ogni giorno di


più./ Di regola, il nostro pensiero rimanda a domani la consapevolezza della fine imminente. Parliamo volentieri della morte, ma non della nostra. L’Odin Teatret ha scelto un’altra strategia: guardare negli occhi la fine che si avvicina. Cosa succede a un collettivo che fissa lo sguardo sulla propria fine? Questo era il punto di partenza della Vita cronica./ Vi sono diverse possibilità. Si può commettere suicidio insieme, come ha fatto il collettivo religioso riunito intorno al suo forte leader a Jonestown nella giungla della Guyana. Si possono anche evidenziare i segnali di morte nella cultura in cui si vive e consolarsi constatando che non si è gli unici ad aver raggiunto un’età venerabile, condividendo il declino dell’Occidente, secondo le parole del filosofo Spengler. O si può sperare che qualcosa d’inatteso salti fuori. È quello che, ai miei occhi, è successo nel processo che si è concluso con La vita cronica. […] La lingua – non il linguaggio scenico con le sue sfaccettature di luci, suoni e movimenti, ma la lingua che esce dalla bocca sotto forma di parole – ha sempre costituito un problema per l’Odin Teatret, i cui attori parlano lingue diverse e il cui pubblico sparso nel mondo spesso comprende una lingua che nessuno degli attori parla. Il fatto che per tanti anni sia riuscito a comunicare con spettatori di diversi continenti la dice lunga sulle particolari capacità di questo teatro» (pp. 11-13). Thomas Bredsdorff

Nella brochure dello spettacolo, Eugenio Barba scrive due testi (Incomprensibilità e speranza; Il primo giorno), dei quali riporterò qui i passi fondamentali. Ma prima è necessario che io dica che per 40 anni ho inseguito il regista dell’Odin Teatret che, finalmente e sodalmente, ho incontrato questo indimenticabile novembre 2011. Alla fine degli anni ’70 non sapevo neanche chi fosse Eugenio Barba, o meglio, per via di incroci parenterali acquisiti, sapevo chi fosse, ma non ne conoscevo a fondo l’attività. Poi il tempo, piano piano e, soprattutto, l’incontro a Roma con sua madre – Donna Vera Gaeta Barba –, che mi aiutò molto mettendomi a disposizione i materiali per uno studio su un importante personaggio dell’800, avo del regista - Emanuele Barba (Gallipoli 1818-1887) -, mi aiutarono a cominciare a capire il personaggio attraverso un primo contatto epistolare. Intanto, nell’immediato, ed anche per via di una certa assonanza d’interessi (viaggi, poesia) ho conosciuto più da vicino il fratello del regista – Ernesto Barba – un poeta e un giramondo che, pur di idee e ideologie totalmente lontane e differenti delle mie, ha affascinato il mio percorso. Eugenio, invece, si è sempre tenuto lontano da me, nonostante la parentesi epistolare. Non ho mai capito il perché, nonostante che il suo teatro, non appena l’Odin arrivò in Salento, cominciò ad ap-

passionarmi moltissimo. Praticamente, ho visto tutti gli spettacoli dell’Odin Teatret rappresentati a Lecce e a Gallipoli, e tuttavia, la presenza qui di Eugenio (anche quella estiva di Carpignano Salentino) l’ho percepita sempre contraddistinta da una certa sua diffidenza nei miei confronti. Mai un incontro che si potesse dire essere tale. Tuttavia, e nonostante ciò, ho sempre amato il regista, il suo modo di fare teatro, unico al mondo, e soprattutto amo i suoi testi drammaturgici, degni di un premio Nobel. Questo fino al novembre scorso, quando, finalmente, senza che io mi accorgessi di nulla, e dopo 40 anni di attesa, Eugenio mi ha teso le braccia e mi ha abbracciato.

Nel primo testo scritto, Eugenio Barba scrive: «Mi è stato detto spesso che i miei spettacoli non sono molto comprensibili. Penso allora a una riflessione di Niels Bohr: il contrario della verità non è la menzogna, ma la chiarezza. La verità è che a me in genere piace la chiarezza. Nei libri apprezzo la complessità, ma se sono irreparabilmente oscuri la noia si insinua./ A teatro è diverso. Mi capita di guardare uno spettacolo comprensibile e di pensare a un panorama pietrificato: una distesa di ghiaccio. Vivo questa sensazione: un panorama immobile è un panorama disperato./ Non c’è speranza quando si è convinti che non ci sia niente da fare. La disperazione, prima d’essere uno stato d’animo, è l’accettazione più o meno dolorosa dello status quo, l’ammissione delle forze in campo, di tutto quel che è evidente, giudizioso e al quale, in fin dei conti, ci sottomettiamo. La disperazione è l’inazione che deriva dall’intendere non solo bene, ma fin troppo bene quel che ci circonda, quel che sta dietro gli avvenimenti e quello che si prospetta davanti, nel futuro./ Un misterioso legame lega la speranza all’incomprensibilità, mi dico. Forse non è un mistero, la speranza è solo un modo di conservare la possibilità di illudersi. A me sembra qualcosa di più: un’indecifrabile forza oscura che mi aiuta a vedere in dettaglio quello che voglio rifiutare, senza rifugiarmi nella condanna generica e nella rassegnazione. E senza illudermi d’aver trovato la chiave che rende chiaro ciò che invece sperimento come complessità che confonde./ Mi piacerebbe che i miei spettacoli fossero come correnti di mare, non come panorami immobili./ Ho appena terminato un altro spettacolo. Lo guardo, mi sembra diverso dagli altri. Una domanda mi angoscia: non sarà immobile? […] Se mi domando: “Che cosa è il teatro?”, posso trovare molte risposte brillanti. Ma nessuna mi pare concretamente utile per agire nel mondo che mi circonda e per tentare di cambiare almeno un piccolo angolo. Se invece mi domando in quale recinto paradossale dello spazio e del tempo si possano far affiorare le forze oscure che spadroneggiano nella Storia e


nell’interiorità dell’individuo, e come renderle percettibili nella loro fisicità senza produrre violenza, distruzione e autodistruzione, la risposta mi appare evidente: è il recinto chiamato teatro./ Ho fatto, fino ad ora, spettacoli che si riferivano ad avvenimenti ed esperienze del passato o del presente. Per la prima volta, La vita cronica è immaginata in un futuro prossimo, simulato, simultaneo. La scena è la Danimarca e l’Europa: diversi paesi allo stesso tempo. La storia è quella dei primi mesi dopo una guerra civile. Non è un’ambientazione credibile (anche se non tanto incredibile da essere consolante). Non è un insieme comprensibile. […] Non credo che il mio compito nel teatro consista nel fornire un’interpretazione attendibile degli avvenimenti che altri hanno narrato. Non credo neppure che consista nel mostrare delle vie d’uscita dalla morsa in cui ci sentiamo intrappolati. Anche se volessi farlo, non ne sarei capace. Credo all’impegno verso un altro compito: dare forma e credibilità all’incomprensibile e agli impulsi che sono un mistero anche per me, trasformandoli in una matassa di azioni-in-vita da offrire alla contemplazione, al fastidio, alla ripugnanza e alla misericordia degli spettatori. Questo è l’impegno che mi costringe ancora al mestiere del teatro. Vorrei che questa matassa di azioni-in-vita infettasse la zona dove, in ciascuno di noi, la miscredenza si intreccia all’ingenuità./ Si crede che uno spettacolo teatrale abbia innanzi tutto il compito di comunicare. È vero fino ad un certo punto. Per me il suo compito primario consiste nel creare relazioni e condizioni di vita potenziata. Per chi? Per lo spettatore, per l’attore?/ Tra le tante ripercussioni che amo del teatro, vi è il momento in cui fa capolino una domanda bizzarra: che cosa si nasconde in quel che sembra totalmente chiaro? La chiarezza è una forma di cecità, manipolazione o censura? Ancora uno spettacolo incomprensibile? Vorrei che La vita cronica aprisse uno spiraglio nel magma buio e incandescente dell’individuo, e sul suo laborioso e vitale zigzag per liberarsi da un abbraccio gelato: quello implacabile e indifferente della Gran Madre degli Aborti e dei Naufragi, Nostra Signora la Storia» (pp. 4-8). Eugenio Barba

ora il titolo di lavoro sarà XL, Extra Large./ Ho telefonato subito a Nando [Taviani] e raccontato la prima immagine: una bara di cristallo piena d’acqua nella quale nuota un’anguilla e una giovane annegata. Poi altre idee, Antigone circondata da venerandi dottori, Sant’Agostino, San Gerolamo, Origene, il bambino dell’ultima scena di Aliosha nei Fratelli Karamazov, la prima frase di Pedro Pàramo di Juan Rulfo: “Sono venuto a Comala perché mi hanno detto che qui abita mio padre, un certo Pedro Pàramo”. Qual è il tempo della primavera, delle energie vergini, ignorate eppure accanto a te, dentro di te? La risposta è evidente: la fine di una guerra, tra lutti e macerie. Incomprensibilità che si tinge di speranza. Gli attori si allontanano dal dolore e dalla disperazione scossi da un filo invisibile, ma udibile: la musica./ Incomprensibilità come compassione, intuizione della sofferenza e della gioia dell’altro. E la speranza? Il piacere infantile di raccontare segreti, porre domande, amare, inoculare dubbi, attraversare paesi, libri, teatri./ Mi sento già stanco all’idea che debbo fare il meglio che posso. Spero di avere fortuna e, con i miei attori, far meglio del meglio che posso./ L’intelligenza, a teatro, non fa piangere. Sarò capace di far versare una lacrima ad almeno uno spettatore? John Keats: il poetico è esperienza senza pensiero. Non dimenticare Laurence Sterne: I progress as I digress./ L’impietosa scalata del calvario insieme ai miei attori: le tensioni e incomprensioni per realizzare insieme la tradizione della rottura, per lottare giorno dopo giorno contro i cliché che ci allontanano dalle nostre fonti vitali./ la vita sotterranea del teatro» (p. 9). Eugenio Barba

Dopo aver visto per la terza volta il 12 novembre La vita cronica, dentro il cuore mi piangeva a diluvio, così com’è continuato a piangere anche domenica 13 novembre, alle 11 di mattina dentro una sconosciuta sala dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Lì ho assistito alle prove dell’Ave Maria, l’ultimo spettacolo in allestimento di Eugenio, che l’Odin Teatret porterà in giro per il mondo nel 2012. Parlare dell’Ave Maria, interpretato da Julia Varlej con la regia di Eugenio Barba, è per me impossibile. Oggi, che scrivo queste Dell’altro testo del regista – Il primo giorno – tutto è note per la rivista di Gallipoli, sento il cuore ancora da citare: tremarmi. «(Dal mio diario) 16 settembre 2007: preso due decisioni. La prima l’ho chiamata L’interferenza del teatro. […] La seconda decisione è più temeraria: un nuovo spettacolo con tutti gli attori. Sapremo ancora creare uno spettacolo insieme dopo tanti anni? Ho già il titolo: La vita cronica, il verso di una poesia di Paulo Leminski che Aderbal [Freire Filho] mi fece scoprire sorseggiando un bicchiere di Tanat uruguayano. Per

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Eugenio Barba in una fotografia di Fiora Bemporad a Holstebro nel 1999


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«Rimangono indelebili nel mio midollo e nel mio cervello La Madre di Gorkij-Brecht al Berliner Ensemble, uno spettacolo Kathakali nell’umida notte indiana, Il principe costante di Grotowski. In maniera altrettanto imprevista e non voluta ho sperimentato e continuo a sperimentare il Disordine nel lavoro con i miei attori. Fin dai primi anni, certi disegni delle loro azioni fisiche o vocali, a forza di essere ripetuti e raffinati, saltavano verso un’altra natura o realtà d’essere./ L’ho constatato personalmente: da un altrove che non so dove sia e che cosa sia, nella mia arena di galli piomba o emerge un copro più denso, incandescente e luminoso dei corpi che possediamo. Questo corpo-in-vita vi fa irruzione, incurante del buono o del cattivo gusto, per l’imprevisto d’una laboriosa previsione o per la congiunzione del caso e del mestiere./ Il teatro ha costituito – oggi me ne rendo conto con chiarezza – uno strumento prezioso per fare incursioni in zone del mondo che sembravano fuori incursioni nelle terre incognite che caratterizzano la realtà verticale, o spirituale, dell’essere umano. E incursioni nello spazio orizzontale delle relazioni umane, degli ambiti sociali, dei rapporti di potere e della politica, nella vischiosa realtà quotidiana di questo mondo che abito ma a cui non voglio appartenere. […] Il teatro è il mestiere dell’incursione, un’isola galleggiante di dissidenza, una radura nel cuore del mondo civilizzato. Rare, privilegiate a volte, è la turbolenza del Disordine che scuote il mio modo familiare di convivere con lo spazio ed il tempo attorno a me e, creando scompiglio, mi costringe ad affrontare l’altra parte di me». da Eugenio Barba, Figli del Silenzio. Riflessioni per i quarant’anni dell’Odin Teatret/ al popolo segreto – gli amici dell’Odin, in Il sogno di Andersen, Odin Teatret, Holstebro, settembre 2004, pp. 60-61

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Eugenio Barba con Jerzy Grotowski


«Le ossa fanno male, la vista si è affievolita e costa più fatica lavorare dodici ore al giorno. Eppure è come se una forza poco sensata tenesse viva la mia necessità di fare teatro. Sono molti i motivi per cui continuo. Posso sintetizzarli con una frase: la professione teatrale è la mia sola patria, e Holstebro la sua casa./ Ed eccomi qui a festeggiare i quarant’anni del mio teatro preparando uno spettacolo su H. C. Andersen e le sue fiabe. Ho quasi settant’anni e mi diranno che sto diventando infantile./ Vorrei scriverla anch’io una fiaba. Racconterebbe di due fratelli, figli del Silenzio, che girano il mondo l’uno come l’ombra dell’altro. Hanno l’aspetto di teppisti e si chiamano Disordine ed Errore». da Eugenio Barba, Figli del Silenzio. Riflessioni per i quarant’anni dell’Odin Teatret/ al popolo segreto – gli amici dell’Odin, in Il sogno di Andersen, Odin Teatret, Holstebro, settembre 2004, p. 50

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