Maurizio Nocera La favola dei fichi parlanti

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Spagine


Maurizio Nocera, La favola dei fichi parlanti Prima edizione - Dicembre 2017

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Maurizio Nocera

LA FAVOLA DEI FICHI PARLANTI In appendice

Abate Antonio Maria Salvini Cicalata decima terza

IN LODE DEI FICHI (1751)


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LA FAVOLA DEI FICHI PARLANTI Nel mio antico paese c'è un luogo della memoria che non si cancella più dalla mente, le Tagliate (tajate in dialetto), grandi cave di tufo a cielo aperto, nei cui pressi esiste una delle meraviglie del nostro pianeta: la Grotta delle Veneri. Ero ancora un ragazzo quando archeologi famosi tirarono su dalla terra rimasta vergine per millenni i tesori in essa conservati: le due Veneri paleolitiche. La mia memoria è legata a quel luogo non solo perché in quella grotta gli archeologi permisero anche a me di trasportare all'esterno un po' di terra, ma perché lì, tra la Masseria vecchia, il Casino dei monaci e la Discesa agricola ci sono le mie radici. È un luogo magico, incantato, fatato. Un motivo, per me sicuramente ancestrale: mia madre mi confessò che lì, nella Tagliata, mi aveva concepito un inizio d'estate di tanto tempo fa. Sarà forse per questo, forse anche per altro, che sono rimasto ad esso legato. *

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In questo straordinario luogo della memoria, mia nonna mi ha pure cresciuto, forse un po' come un gufo di alta parete di cava. Lì, nella grande Tagliata, finché c'è stata la necessità, ha vissuto tutte le buone stagioni d'ogni anno la mia famiglia. «Vai a prendere l'acqua dalla cisterna»

mi comandava la nonna. Ed io, spaventato come un passerotto appena uscito dal nido, mi recavo con le gambe tremanti verso la capiente cisterna che si trovava al di fuori del recinto della tajata. Non riesco a ricordare il numero degli alberi di fico che crescevano in quel luogo. Ma nella mia mente li rivedo oggi come tantissimi. Grandi, medi, alcuni anche nani. Tutti però abbondantissimi di straordinari frutti di ogni grandezza e di multiformi colori. Erano questi splendidi alberi che facevano da cornice alla spelonca nella quale vivevamo, nel senso che mangiavamo quando c'era da mangiare, e dormivamo quando c'era da dormire; e questo perché l'intera famiglia di mia nonna consisteva, tra mariti, zie e nipoti in più di 15 persone. 8

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La spelonca infatti non era più grande di tre metri per tre, ed era ricavata da una grande pèntuma (lastrone di pietra) di parete inclinatasi su un fianco con tre muri a secco che la richiudevano e che mio padre aveva tirato su alla meglio. Eppure in questo angusto luogo tutta la famiglia riusciva a stare. Bisognava stare a tutti i costi. Perché c'era un compito primario da assolvere: raccogliere i fichi, spaccarli e quindi distenderli al sole per la seccatura. Solo recentemente mi hanno detto in paese che i fichi secchi provenienti dalla Tajata della Concetta, detta la Mìlordana, erano tra i migliori. Ciò non era dovuto, almeno credo, alla bravura di mia nonna nel tagliarli e seccarli, e neanche alle buone cure della scelta dei frutti fatta da mia madre e dalle sue tre sorelle; piuttosto credo che il giudizio positivo provenisse dal fatto che i fichi crescevano e venivano essiccati in un luogo composto essenzialmente da polveri di tufo, a loro volta fortemente indorate da diverse erbe aromatiche che lì crescevano spontaneamente, come il timo, la salvia selvatica, le differenti specie di origani, la mentuccia, gli spessi e verdissimi uluzzi, altre erbe e arbusti ancora. La favola dei fichi parlanti

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Sarà stato sicuramente questo intreccio di terre, odori, condizioni climatiche a dare loro quel caratteristico sapore ai fichi secchi di quel posto. I cavatori della Tajata (gli 'zzoccaturi) andavano matti per quei fichi tanto che, spesso, quando cominciava a fare alba, si calavano nei punti meno controllati dalla nonna e si facevano grandi scorpacciate. Non so quale straordinario senso visivo o di calcolo percettivo avesse mia nonna, però era inevitabile che subito si accorgesse dell'ammanco, per cui per tutto il giorno se ne andava girando per la Tajata lamentandosi per quell'innocuo furto che, tutto sommato, era servito a sfamare qualche bocca di altrettanti poveri lavoratori. Bambino com'ero, non comprendevo la natura profonda del danno che quei giovani arrecavano alla povera vedova che era mia nonna per cui, quando ciò accadeva, me ne stavo nascosto sotto il grande fico accanto alla spelonca nell'attesa di vedere ritornare il sorriso sulla sua faccia. A quel tempo non potevo capire granchÊ. Solo molto tempo dopo, un vecchio del paese mi fece sapere che la mia nonna si portava dentro un 10

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dolore immenso: il marito morto in giovane età. Mia nonna lo ricordava sempre durante le sue preghiere, soprattutto, e questo ancora oggi non riesco a capire il perché, quando il cielo volgeva a temporale. «Il cielo si sta oscurando a temporale - mi diceva -. Corri figlio mio, corri, corri a prendere le coperte per coprire i fichi messi a seccare. Corri, altrimenti questo inverno non mangeremo nulla». Ed io, come un puledro che trotterella, correvo a prendere ogni sorta di telo che potesse servire al salvataggio dei preziosi frutti. Il temporale poi arrivava per davvero, ed erano fulmini e tuoni impressionanti lungo tutta la Tagliata. Io tremavo assieme alle foglie di quegli alberi di fico sotto la pioggia d'estate, mentre mia nonna riuniva tutt'intera la famiglia per pregare a voce alta. Ricordo ancora l'adagio che più volte ripeteva:

«Azzate san Giuvanni e nu ddurmire/ ca visciu tre nuveje caminare/ una t'acqua,/ una te jentu,/ una te forte maletiempu./ Azzate san Giuvanni e nu ddurmire/ e pòrtale a nna riva te mare,/ a ddhru nu canta gallu,/ a ddhru nu luce luna/ a ddhru nu nnasce anima criatura»

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(Alzati san Giovanni e non dormire/ che vedo tre nuvole camminare:/ una d'acqua,/ una di vento,/ una di forte maltempo./ Alzati san Giovanni e non dormire/ e portale presso una riva di mare,/ là dove non canta gallo,/ là dove non luce luna ,/ là dove non nasce anima creatura).

Io però ugualmente continuavo a tremare.

Le storie dei fichi delle Tagliate le ricordo come se fosse ieri, quello stesso ieri di un bambino come tanti, quando mia nonna e mia madre mi permettevano di assistere alla preparazione dei fichi secchi. A quel tempo mia nonna aveva in gestione la grande cava di tufo con dentro questi benedetti alberi di fichi. Mai sono riuscito a contarli tutti. C'erano fichi di tutte le specie: c'era la fica della Signura o cosiddetta della Monaca, quella dell'Abate, la Pazza, la Sanguigna, quella dell'Abbondanza, la Napolitana, l'Ottata bianca eppure quella magenta (detta anche Melanzana), la fica Paradiso, la Pelosa, la Rigata, la Mammella di Vacca, la Verdesca, l'Invernale, la Tremona, la Lattarola, al maschile c'era poi il Fracazzano bianco, quello nero e quello rosso (detto anche 12

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Pinto), il Colombo nero, lo Zingarello, altre ancora e con altri nomi, ma adesso io non li ricordo più, perché sono rimasto bambino. I fichi cominciano a maturare verso la fine di luglio inizio di agosto però, ancor prima, verso metà giugno, e propriamente intorno al 24, giorno della festa di san Giovanni, maturano i fioroni (le dolci culumbare), che sono primizie.

Ora però voi vi domanderete: «Come mai mia nonna aveva in concessione quella cava?». L'aveva ricevuta dopo la morte del marito, cioè mio nonno che, in paese dicevano fosse caduto nel profondo di quella stessa cava da un'altezza di oltre 30 metri. Povero mio nonno, dopo alcune ore di agonia, se n'era andato all'altro mondo senza neanche salutare la nonna almeno con un bacio. Si diceva pure che forse era stata una mano fascista a segare la fune che tirava su i conci, per cui il nonno, addetto all'argano, venendo a mancare il contrappeso se n'era volato giù come un uccellino sparato a un'ala da un malvagio cacciatore. Però non tutti i cacciatori sono malvagi, perché ce ne sono alcuni che vanno per i campi e per La favola dei fichi parlanti

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i boschi unicamente per osservare la fauna e la flora, che sempre belle sono, per cui non sono affatto cattivi. Ecco il motivo per il quale la nonna aveva avuto in concessione la cava. Alcune volte, durante la raccolta dei fioroni, la nonna mi raccontava delle storie legate alla vita del nonno. Una volta raccontò che al tempo di Sacco e Vanzetti, il nonno era stato emigrante in America e forse aveva lavorato con Vanzetti in una cava di marmo. Poi, quando questi due poveri italiani innocenti erano stati uccisi sulla sedia elettrica dai governanti americani, il nonno pensò bene di ritornarsene al paesello. Una volta qui, con i soldini che si era portato dietro, assieme ad alcuni suoi compagni, aveva costruito una casetta, dove viveva con la nonna e con le sue tre bambine. Dall'America, il nonno si era portato dietro pure un'inconsueta (almeno per noi gente del Sud) abitudine, amava cioè vestirsi all'americana, cioè con giacca, camicia, panciotto, ghette, una catenella con agganciato un orologio (che però - mi diceva la nonna - non aveva mai funzionato), un bel cappello a larghe tese, insomma un tipo di ve14

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stiario che nel paesello nessuno aveva mai visto, salvo aver sentito parlare che così si vestivano i milord. Fu per questo che i suoi compaesani lo chiamarono milord, avendo confuso le abitudini degli americani con quelle degli inglesi. Anche la nonna, che era una povera bracciante, cominciò ad essere chiamata la mìlordana. Una volta tornato al paesello, il nonno non aveva dimenticato i due compagni ingiustamente uccisi, tanto che, per onorarli, quando arrivava il Primo Maggio, si dava ammalato per non andare alla cava. Aveva escogitato pure un piano di adesione agli ideali in cui credeva. In quello stesso giorno i caporioni fascisti del paese si adunavano in piazza per fare le loro bravate in camicia nera, mentre lui, nascosto dietro al parapetto del palazzo ducale, aspettava di vedere passare le tre figlie: una di sette, cosiddetta la Scardullina; l'altra di cinque, cosiddetta la Picciottara; e la più piccola di tre anni, cosiddetta Pirinosso*. Le bimbe erano dirette a vedere la messa nella Chiesa madre, che sta proprio nella piazza grande. Ai lunghi capelli delle bambine, il nonno attaccava delle coccarde rosse. In questo La favola dei fichi parlanti

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modo, egli commemorava il Primo Maggio tenendo con ciò vivo anche il ricordo di Sacco e Vanzetti. Ovviamente, i fascisti, per qualche anno, finsero di non accorgersi di quelle coccarde tra i capelli delle povere innocenti, ma alla fine decisero di fargliela pagare al nonno. Qualche vecchio anarchico e pure qualche socialista del paesello, almeno così ricorda, e ancora oggi così si dice che i fascisti segarono la fune per tirare su i conci dal basso della cava di tufo e così accade che il nonno volò in cielo. La nonna rimase vedova con le tre bambine più una quarta che le stava ancora in pancia. Per fortuna aveva la piccola casa e si sentiva ancora giovane con i suoi 36 anni. Prima che il nonno tornasse dall'America, lei aveva fatto la raccoglitrice di olive e sapeva pure vendemmiare e raccogliere la foglia del tabacco Xanti-Yaca, tutte pratiche bracciantili non facili da eseguire per una donna che non fosse forte e in salute. Ma, dopo il suo ritorno, il nonno non aveva voluto che sua moglie lavorasse in campagna perché, diceva, c'era lui che poteva pensare al sostegno della famiglia con il suo lavoro di cavatore. 16

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Ora però che egli era morto come poteva vivere la nonna e quelle sue povere sfortunate figlie? Fu così che il capo dei fascisti del paese ebbe compassione, così pensò bene di affidarle in gestione la cava di tufo con gli alberi di fico e, guarda un po', la cava in questione era proprio quella dove era caduto il nonno. I caporioni fascisti l'avevano pensata a comodo, s'intende per i loro interessi: la nonna sarebbe vissuta della raccolta dei fichi, che poi avrebbe venduto alla distilleria "Costa" dove facevano lo spirito (alcool), e nello stesso tempo avrebbe fatto pure la guardiana delle cave perché, dovete sapere, che in quel luogo c'erano molte altre cave. A quell'epoca c'erano tanti ladri di fichi. La fame era grande quanto una montagna.

Non si sa bene come la nonna riuscì a sopravvivere. Una cosa è certa: in paese si è sempre saputo della sua fedeltà al marito morto, tanto che non volle più risposarsi nonostante fosse ancora di bella presenza. Di questa sua fedeltà ne sono testimone anch'io. Quando tutte le figlie presero marito allontanandosi dalla piccola casa, La favola dei fichi parlanti

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mia madre, che era la maggiore, per non lasciare sola la nonna, soprattutto in quei giorni quando si lamentava per essere rimasta sola, incaricava me di portarle la cena e di fermarmi anche la notte a dormire con lei. La nonna mi sistemava su un vecchio divano a forma di letto di una “piazzaâ€? nella stanza davanti, mentre lei dormiva nella stanza centrale (in tutto erano due sole camere mentre il gabinetto, una sorta di bugliolo appena coperto da una tettoia, stava in un piccolo cortile tutto bianco di calce) su un tavolaccio accanto al letto grande che un tempo era stato quello sul quale lei aveva dormito col nonno. Dopo la morte del marito, quel letto matrimoniale era diventato una sorta di reliquia. Guai a chi di noi bambini si appoggiava. Per non guastarlo neanche lei ci dormiva piĂš. Sul tavolaccio quindi, come se fosse in penitenza. Ma, occorre pensare che forse quella era per davvero la sua penitenza. Dovete sapere che la mia nonna, pur essendo povera, era anche molto bella. Al mattino, sia d'estate che d'inverno, si levava presto dal letto, aggiustava casa, si lavava tutta e annodava 18

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i capelli in un batuffolo dietro la nuca, poi andava in campagna a fare i lavori con le altre donne braccianti. Con sé portava sempre un tozzo di pane e qualche pomodoro; l'olio non lo usava perché lo riservava per la cucina della casa. Allo stacco del lavoro, un po' come facevano tutte le altre lavoratrici, apriva la sua sportella e gustava quel tozzo di pane, beveva l'acqua della cisterna, e ritornava a lavorare. A quel tempo di lavoro ce n'era tanto. I feudatari spremevano queste povere donne anche per più di dieci ore al giorno (dalle 6 alle 16.00). Spesso la paga consisteva al massimo dieci soldi. Possibilità di protestare non ce n'era. Ti dovevi accontentare, anzi per di più la bracciante doveva ringraziare il feudatario per quell'opportunità di lavoro che le dava. Dopo aver finito il lavoro in campagna la nonna tornava a casa che erano le 17.00. Io l'aspettavo sull'uscio di casa oppure stavo dentro al cucinino a fare i compiti della scuola. Intanto la nonna preparava la cena per noi due soli. Di solito cucinava legumi oppure le “foglie mischiate” selvatiche che lei stessa raccoglieva in quei minuti di pausa durante il lavoro. La favola dei fichi parlanti

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A tarda sera, ma non proprio tanto tarda però, accendeva il fuoco nel camino, dove io e lei ci riscaldavamo in attesa di andare a letto. Mi raccontava del nonno, del suo corpo di atleta greco, della sua fierezza giovanile, dell'amore per la natura. Poi mi diceva di quegli strani ideali che gli passavano per la mente e, a voce alta, diceva:

«Ma perché doveva sempre pensare agli altri, doveva preoccuparsi delle condizioni di vita e di lavoro dei suoi compagni e, nel caso che essi venissero maltrattati dai padroni delle cave (quasi sempre caporioni fascisti), lui si sentiva in dovere di intervenire e difenderli?».

A questo punto la nonna si fermava per asciugarsi gli occhi, poi continuava:

«Pensava sempre al socialismo e diceva che in America c'erano grandi personaggi che lottavano per un mondo migliore. Ecco, ora il mondo migliore per lui è stata la morte a soli 38 anni».

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Piangeva la nonna e così cominciava a recitare il Rosario, più qualche altra preghiera che io non capivo mai, salvo quando lei cominciava la tiritera riferita al marito morto:

«E ora il nonno è in cielo»; «E ora Dio gli sta sorridendo»; «E ora il nonno sta sorridendo pure a noi». Ma... «nonna io non lo vedo il nonno, perché dici che ci sta sorridendo?».

Allora lei sorrideva un po' mentre i suoi occhi continuavano a versare lacrime di sale. Poi non la finiva più con quell'Ora pro nobis cantilenato, almeno fino a quando non vedeva che le mie palpebre non ce la facevano più a stare aperte.

Dovete sapere che quando dormivo da lei, non sempre riuscivo a prendere sonno subito. Mi capitava così che ad un certo momento della notte, rimanendo con gli occhi socchiusi nel buio, la vedevo camminare per la casa e parlare, soprattutto quando arrivava sotto la fotografia del nonno, appesa alla parete. Lei lì, rivolta al marito, gli faceva lunghi discorsi. La favola dei fichi parlanti

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Alla fine parlava pure dei fichi. Diceva che un acquirente glieli aveva pagati poco; che quell'anno i cavatori si erano accaniti con i suoi alberi andando spesso a rubare i frutti; che la pioggia era venuta giù un po' più delle altre estati tanto da annacquarglieli. Altre cose diceva la nonna. Poi chiudeva il suo discorso sonnambulico così:

«Domani andrò alla cava quanto più presto possibile, così coglierò in flagrante i ladri dei miei fichi. Con me ci sarà anche il bambino».

L'allusione era rivolta a me, quasi io fossi un Ercole ciclopico che la poteva difendere da chissà chi. Così arrivava il mattino e la nonna mi svegliava: «Su alzati che andiamo a raccogliere i fichi».

La strada che percorrevamo era sempre la stessa: quella polverosa della Masseria vecchia. Almeno a me sembrava polverosa. Si trattava di una specie di mulattiera attraversata dall'alba al tramonto dai traini che trasportavano i conci sui cantieri edili. 22

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I carrettieri, trasportando i tufi per la costruzione delle case, cantavano dolcissime nenie:

«Aggiu persu lu sonnu de l'occhi mei/ ca scindu benedendu e ppassandu de cquai./ E lu presciu de lu trainu è lu cavaddhru/ e lu presciu de la donna è lu capiddhru./ Amame beddhra e tienime lu core/ se vo' cu me sienti sta sera cantare./ E amame beddhra mia ca tegnu cose/ e tegnu nu panariellu mo' de fiche./ E cavaddhru famme fare mo' sta salita/ ca a Napoli te ccattu la sonaiera.

(Ho perso il sonno degli occhi miei/ scendendo, benedicendo e passando di qua./ La meraviglia del traino è il cavallo/ e il vanto della donna è il capello./ Amami bella e scaldami il cuore/ se vuoi questa sera sentirmi cantare./ E amami bella mia che tengo cose/ e tengo un cestino di fichi./ E cavallo, fammi fare ora questa salita/ così a Napoli ti compro la sonagliera».

Quella strada era tutta bianca e, quando il sole filava a mezzogiorno, abbacinava chiunque la percorresse. Tutto quel biancore mi dava un po' di La favola dei fichi parlanti

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fastidio, come pure mi dava fastidio la polvere che si annidava in quegli straconsumati sandali che portavo ai piedi e che erano stati calzati già da mio fratello. Alla fine poi però arrivavamo alla cava, dove era caduto il nonno. Una volta dentro, la nonna mi faceva fare un percorso difficile, un po' pericoloso anche, per raggiungere un punto dove lei si fermava, s'inginocchiava e diceva le preghiere. Anni dopo ho capito che si trattava del punto dove era caduto morto il nonno. Al centro della cava c'era la pèntuma che faceva da ricovero per la notte, ma anche quando pioveva o il sole accecava. La porticina d'ingresso aveva una tenda di sacco di juta, per la verità sempre un po' malconcia. Una spelonca insomma, nella quale a viverci durante i mesi estivi c'era lei, mia madre con mio padre, mio fratello ed io, le mie tre zie non ancora sposate. E lì che la mia mamma mi fece nascere. Poi, una volta divenuto grande, mi disse pure che non riuscendo ad allattarmi, mi affidò, ma solo per l'allattamento, ad una zingara Rom di Casarano. Comunque sia, la nonna prelevava dall'interno della spelonca dei cesti di canna d'india. 24

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Quello piccolo lo dava a me, mentre quello grande che, quand'era pieno, pesava forse cinque chili, lo prendeva lei.

«Cominciamo a raccogliere i fichi - diceva partendo da questo lato, e fai attenzione ai frutti da staccare dall'albero, perché parlano. Se li raccogli male, essi sentono dolore, per cui si lamenteranno. Perciò devi raccogliere solo quelli maturi perché, se raccogli gli acerbi, farai loro del male».

Non vi dico lo sgomento che mi prendeva quando ascoltavo queste parole. Subito rispondevo:

«Ma nonna come faccio a sapere quali sono i maturi e quali quelli acerbi?».

«È semplice - rispondeva lei - prima di staccarli torcendo la mano, li tocchi là dove la loro pancia è più rotonda e gonfia; se vedi che è morbida e si affloscia al tatto, allora significa che il frutto è maturo. Altrimenti passa avanti».

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Nonostante questa raccomandazione, la mia paura però rimaneva. Così, mentre la nonna, nel tempo che lei riempiva il suo paniere, il mio invece, per di più piccolo quasi da bambola, non era colmo che appena la metà. La mia lentezza era dovuta alla cautela con cui palpavo i fichi. Avevo paura di sentire i loro lamenti qualora avessi staccato un frutto acerbo. E tuttavia accadde comunque che una volta, dimentico della raccomandazione della nonna, raccogliessi un frutto acerbo. Mi accorsi dello sbaglio quando ormai l'avevo staccato dal ramo. Chissà cosa sarà stato, forse la paura. Tenevo nel cavo della mano questo povero fico acerbo, quando sentii un lontano lamento, come di un alito di vento refolo che mi sfiorava le orecchie.

«Nonna, nonna - gridai - ho raccolto un fico acerbo ed ora si sta lamentando. Corri, corri, dimmi cosa devo fare!».

La nonna, con un sorriso che ricordo ancora come indecifrabile, mi venne incontro dicendomi: «Dallo a me, che so io come calmarlo». 26

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Lo prese in mano, lo portò alle labbra, lo baciò, poi se lo mise nella tasca del grembiule. «Ora non si lamenterà più», disse.

Dopo quella volta, ritornai ancora a raccogliere i fichi, ma non mi accadde più di raccoglierne uno acerbo, almeno così ricordo. Ora che sono vecchio e scrivo non ne sono poi tanto convinto. Comunque, quando i panieri erano pieni di frutti, la nonna li andava a riversare sul tetto della spelonca, dove ci teneva nascosto qualche cannizzo (un rettangolo di canne d'india secche intorcigliate). Così, alla fine della raccolta, salivamo su questa lastra di pietra e cominciavamo a spaccarli in due ed esporli al sole d'agosto per seccarli. La nonna mi aiutava a salire sul dorso della pèntuma. Lei impugnava un coltello da cucina, mentre a me dava un temperino aggiungendo una nuova direttiva: «Mi raccomando, devi tagliare i fichi partendo dal peduncolo e finendo proprio giusto al centro della loro pancia gonfia. Stai attento, perché se sbagli direzione il fico si lamenterà».

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E qui di nuovo un'altra mia grande paura. Non vi dico lo struggimento che mi assaliva tutte le volte che con le dita della mano sinistra prendevo il frutto e con la destra, armata del coltellino, cercavo di individuare il punto centrale del peduncolo per poi affondarlo fino al fondo della sua pancia gonfia. Un tormento. Quando la nonna ne aveva "spaccati" già una decina, io stavo ancora al primo. E tuttavia anche questa volta mi capitò di sbagliare. La colpa la diedi a un gheppio che aveva cominciato a volteggiare proprio sulle nostre teste. Mi affascinava vedere quei suoi voli silenziosi e gonfi d'armonia. Sembrava un aquilone tenuto da una mano di un bambino esperto. Un attimo di distrazione e giù il coltellino che si va ad affondare obliquamente nel corpo succoso del frutto. Questa volta il dolore lo sentii io per primo, e subito dopo arrivo il sibilo lungo nelle orecchie come vento refolo proveniente dall'alto dei muraglioni tufacei della cava. Per fortuna la nonna era vicina e sentì il mio lamento per lo sbaglio fatto. Anche questa volta, lei, con quel suo sorriso indecifrabile, disse: «Dallo a me, che lo sistemo io». 28

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Gli ricucì la ferita da me fatta e ritagliò nuovamente il fico giusto al suo centro-pancia. Le chiesi: «Nonna, ora sta meglio? Non sente più dolore?». «Sì, non ne sentirà più!».

Ovviamente, da quel momento in poi, io non tagliai più nessun altro frutto. Rimasi come incantato a vedere la nonna spaccare i fichi giusto nella loro metà. Durante tutto il mese di agosto non facevamo altro che raccogliere i frutti dagli alberi, spaccarli ed esporli al sole. La notte la nonna li copriva con un telo. Diceva che non dovevano prendere umidità. Arrivato settembre c'era il grande trasporto. Dalla cava i fichi ormai secchi prendevano la strada del paese e lì, nella piccola casa della nonna, si doveva cominciare l'apparecchiatura. Allora a noi due si univa pure la mia mamma. Questa apparecchiatura consisteva nel riaprire i fichi e, nel centro della loro carnosa pancia seccata dal sole, riempirli di buccia di limone più una bella mandorla abbrustolita, qualche seme di finocchio selvatico (i semini della profumata caLa favola dei fichi parlanti

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rosella), appena appena un polpastrello di cannella, che allora era molto rara. Ci fu una prima volta in cui fui ammesso anch'io a questo rituale, però con una raccomandazione, fatta sempre della nonna:

«Mi raccomando a trattare bene i fichi secchi altrimenti si lamentano. Devi distenderli come meglio ti riesce sul palmo della mano e, al centro della loro pancia, devi sistemare prima la mandorla poi la buccia di limone, infine i semini della carosella. Fai attenzione a non sprecare nulla e soprattutto, quando li schiacci, devi usare la giusta pressione altrimenti si lamentano».

Nuovamente non vi dico quanto grande diventava la mia paura perché, questa volta, non si trattava di raccoglierli, oppure di spaccarli, ma di schiacciarli. Per cui chiesi alla nonna: «Ma scusa nonna, come faccio a sapere quanto posso schiacciarli?». «Ecco devi fare così», rispose.

Ne prese uno, l'aprì nell'incavo della mano, gli al30

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lineò gli orli, quindi posizionò la mandorla, poi la buccia di limone, quindi spruzzò alcuni semini di finocchio selvatico, infine richiuse il fico con l'altra metà rimasta vuota. «Va bene nonna, farò così».

Non vi dico il disastro che accadde. Intanto non riuscivo a contenere nell'incavo della mano il fico, e quando mi fu concesso dalla buona sorte di portare a termine l'operazione, accadde che nel chiudere le due parti, sentii nuovamente il lamento come sibilo lungo di vento refolo che mi sfiorava le orecchie. Non so cosa sia stato, forse un respiro lungo della mia mamma dal petto asmatico. Questa volta però lo spavento fu veramente grande e quello strano sibilo si fermò nelle orecchie. Tant'è che l'ho sentito per molto tempo dopo, e ancora oggi, che sono un vecchio bambino, quando il mio cuore è sfiorato dalla malinconia, lo risento come acufene. Ma torniamo all'apparecchiatura e al momento in cui avevo sentito il lamento. Gettai subito il fico in aria, mi alzai e corsi verso l'uscita. Il grido della nonna e della mamma mi costrinsero a fermarmi: La favola dei fichi parlanti

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«Ma dove stai andando? Torna indietro!».

«Ma nonna non hai sentito il lamento del fico. Ti prego non farmi fare più questo lavoro. Ho paura».

«Va bene, non farlo, però continua a guardare, perché può darsi che un giorno ti verrà voglia di raccogliere i fichi, di spaccarli, seccarli e apparecchiarli».

Aveva proprio ragione la mia nonna, che ora non c'è più e sta in cielo accanto al nonno sorridente: oggi che sono ormai un vecchio bambino non ho dimenticato di come si raccolgono, si spaccano e si apparecchiano i fichi e, guarda un po', quelli che metto in vasetto provengono ancora dagli alberi della cava di tufo dove mio nonno cadde nel vuoto malamente e se ne volò in cielo senza aver prima baciato la nonna. NOTE *Scardullina = piccola cardatrice di lana; Picciottara = da Villa Picciotti (oggi Alezio), frazione di Gallipoli e che indica giovinotti/e; Pirinosso = uccellino pelle e ossa. 32


L’arte di farcire i fichi

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Nelle foto che seguono Maurizio Nocera alle prese con il suo lavoro stagionale: dopo aver raccolto e seccato i fichi, li farcisce, li tosta e li confeziona in barattoli di vetro per farne dono agli amici.

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Il tavolo di lavoro per l’apparecchiatura



Maurizio Nocera al tavolo di lavoro








L’etichetta

Fichi secchi mandorlati Dono di Maurizio Nocera © che li ha raccolti nel campo di suo padre in Contrada “ li Monaci” Tuglie-Lecce-Italia essiccati al sole, farciti con mandorle semi di finocchio semini di anisetta buccia di limone alloro e cannella cotti in forno alla temperatura di 200° e confezionati con le sue proprie mani nell’estate ****




Umberto ECO, Gianni CERVETTI, il libro e i ďŹ chi secchi


Umberto ECO il libro e i ďŹ chi secchi


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Abate Antonio Maria Salvini Cicalata decima terza

IN LODE DEI FICHI (1751)

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In lode dei fichi [...] Pure per non finire tanto presto quel che io lodo, e quel ch'io faccio, e perché tutti attendono qualche particolare argomento, come sarebbe di lodare qualche vivanda, poiché chi lodò l'Insalata con far menzione di quella di Papa Leone, chi il Formaggio coi versi saporitissimi, e chi una cosa, e chi un'altra, ed io altra volta vi lodai le Cicale, cibo, per quanto si vede, assai magro degli antichi, che diede il nome al nostro componimento; dirò anch'io la mia. Ora lo stesso nome di Beccaficata, dolce e ampia materia mi porge di ragionare di quella dolce frutta che, beccata, gli Autunnali uccelletti quasi tutti qualifica, a contemplazione dei quali, dai Greci detti Saltanfico, dai Latini Mangiafichi, ma da noi più leggiadramente Beccafichi, questo nobilissimo Simposio Accademico fu a principio istituito, e dai quali una Cena, che vi è d'ogni bene, per eccellenza, e per antonomasia, Beccaficata si denominò. E per procedere con qualche ordine, che questo princi53


palmente in tal componimento si deve attendere, siccome il principiar da Giove era stimata una cosa bella, così bello è il principiare da Dante, il Giove di nostra Lingua. I versi per verità non son troppo onorifici per la nostra patria, ma tuttavia son tanto belli, e conditi di tanta grazia, e sì ben trattano della dolcezza del Fico, che quel poco d'amaro, che vi è, si può loro perdonare. Udite:

Ma quell'ingrato popolo maligno, Che discese da Fiesole ab antico, E tiene ancor del monte, e del macigno, Ti si farà per tuo ben far nimico; Ed è ragion, che tra gli lazzi sorbi Si disconvien fruttare il dolce Fico. Dante era di sua antica schiatta vanaglorioso, e diceva se essere Romano fino di quei primi che vennero ad abitare Firenze, e gli altri, discendenti dai nostri contorni, e villaggi, quasi salvatici, e villani, e novellini sprezzava. Ora benissimo egli gli chiama lazzi, cioè acidi, come le Sorbe, le quali, come si sa, col tempo maturansi, laddove egli, che non di nuova cittadinanza, ma d'antica vantavasi, era un Fico dolce, cioè concotto, stagionato, maturo.

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Che ne dite, o Signori, di questa interpretazione? Affè, affè, che l'ho per giusta, e per la vera; e sebben detta dopo cena, si può anche la mattina seguente ratificare. C'è in Dante un luogo, ove parla delle famose frutte di Frate Alberigo, ove confessando che riprende Dattero per Fico, pare che egli esalti i Datteri sopra i Fichi. Con pace di Dante, sproposito spropositissimo; tiriamo avanti. Questa è una materia pei miei denti, se ci fossero, sebbene non ce n'è bisogno, e se ne può fare una scorpacciata; se non fosse come quella di colui che per aversene cacciate in corpo due staia, gli saltò addosso un febbrone tale che costrinse gentil Fico a ordinagli per medicina quella insegnata dalla natura alla Serpe, che ha trangugiato il Rospo, di stare tre dì colla pancia al Sole per digerirli. Sebbene un'altra Lezione dice che non furono fichi. Basta, la non ha a stare in un filare di case. Se non era Lupo, egli eran Can bigio. Ora io vi porterò qua alcune bazzecole tratte per lo più dai miei Fichi, titolo solito darsi all'ordine Senatorio; e quanto più mostran vecchi, colla veste logora, e colla lagrima, meglio sono. In lode dei fichi

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Guardate per esempio dal dire: Questa Cicalata non vale un fico; cattivo modo, e da dismettersi; che io non so che avesse nel capo Orazio, per altro giudizioso Poeta, quando chiamò il legno del Fico inutile; se non altro servì a fare quel buon Nume Ortolano; e negli scudi serve a difesa, ed è, cred'io, come ficaia dei denti del ferro, che vi si allegano. I bambini, se si allattassero con sugo di fico, diverrebbero grossi e rigogliosi, dice Erodoto Licio, che ne fece un intero trattato. Ferecrate Comico nei Persiani: Che s'un di noi un fico fresco vede, Dopo un tempo con questo noi impiastriamo Gli occhi a' bambini, giusto come i fichi Fusser non ordinaria medicina.

Sciolgonsi presto, e si smaltiscono meglio dell'altre frutta, come tutte le cose umide mature, e non impediscono che l'altro alimento nello stomaco non si lavori. Hanno le facoltà incollanti de' liquidi e dolci, e hanno del nitro; lubri[fi]cano il corpo piacevolmente, e se ne possono fare scorpacciate, perché non rimangono, e si può dopo quelli mangiare nello stesso modo. Chi lo dice? 56

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A voi come a voi, particolarmente in materia [di] medicina, non vi crediamo. Oh voi aspettate, ch'io dica Galeno, che appunto è l'Autore che io ho sempre per le mani, ed il mio favorito per la facondia e per li buoni ammaestramenti, oltre alla sua materia di critica e di morale. Signori no. Galeno è un Autore troppo comune. Egli è Maestro Dafno, che cita Filotimo nel terzo degli alimenti. Dai Medici facciamo passaggio agli Storici. Teopompo nel libro cinquantaquattresimo delle sue Istorie, per segno d'una meravigliosa ubertà di terreno, beato predicando, e fortunato il Re Filippo, avanti alle viti e agli ulivi mette i Fichi in capo di lista. Va di concerto con questo Istorico il Poeta Antifane in una sua Commedia, ove descrivendo la fecondità d'una Regione, dice: Oh che cose produce quel paese! Di tutto quanto il Mondo le più care: Mele, Pan, Fichi; Fichi egli produce.

Mirate: la forza non la fa il Poeta sul m[i]ele, che sapete quanto era dagli antichi stimato, che se ne servivano per zucchero, e quanto sia celebre per questo e 'l monte Ibla, e l'Imetto, e i Timi, che faIn lode dei fichi

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ceano il m[i]ele saporito; talché le composizioni Attiche, e belle si dicevano sapere del Timo del paese, come giusto a una minestra danno sapore l'erbucce. Sopra il m[i]ele adunque, a cui pure fu comparata dal massimo dei Poeti la dolcezza dell'eloquenza del vecchio Nestore, sono innalzati i Fichi; non ha [a] che fare la dolcezza di questi colla dolcezza di quello. L'una è sazievole, l'altra abboccata, e gustosa. Ma che dico del m[i]ele? I versi sopraccitati gli preferiscono il pane, che oltre a non venir mai a noia, è una confezione miracolosa per conservarci, e di cui non vi ha cosa al Mondo più necessaria, e per cui sola gli uomini s'affaticano. Catone l'Agricoltore Romano buon vecchio, nel tempo dei Fichi per economia scemava il pane ai lavoranti. Laonde non ci deve recare meraviglia ciò, che dice Polibio nel duodecimo Storico, come lo chiama Tito Livio, da non disprezzare, che Filippo Re di Macedonia padre del Re Perseo, quando corse [per] l'Asia, trovandosi in angustie per vivere, prese dai Magneti, da che grano non avevano, per i soldati vettovaglia di Fichi e, in virtù d'un tal cibo, impadronitosi d'una Città detta Muunte, che noi 58

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diremmo la Topaia, per gratitudine donò il luogo conquistato ai Magneti in memoria e in contraccambio dei prelibati lor Fichi. Or vada dunque in malora il proverbio, che dice, far troppi Fichi, perché non è mai troppo quel ch'è tant'utile. Diedesi il caso una volta, che un Sibarita, che conduceva fuori un suo scolaro, fece una delle sue, cioè veramente da Sibarita. Il povero giovane s'incontrò per via in un Fico secco (e doveva essere di que[ll]i regalati) lo raccolse prestamente, e già se lo metteva in bocca; via (disse il governatore severo), vergogna, un vostro pari queste bellezze? E pigliandogliele destramente, con grandissimo sapore, e con magistrale soavità in sua presenza tutto se lo trangugiò. Il racconto è presso Eliano nella varia Istoria. Ma [tra] tutte quante [queste] Istorie passa quella del Fico fresco, che portò seco sotto in Senato Catone, per mostrare quanto poco era dall'Africa a Roma, poiché di [là] era venuto, e quel Fico [diede] le mosse alla terza guerra dai Romani impresa contra Cartagine, e fu la distruzione di Cartagine, e la sicurezza di Roma. Una cosa mi sta sul cuore, che le false spie, e i calunniatori, peste dell'umano genere abbominevole, In lode dei fichi

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ed esecranda, abbiano a essere chiamati dal Fico Sucofanti, il qual Fico in Greco si dice Sucon, onde il Succus dei Latini per ogni distillante umore, e sapore ne venne, quasi i Fichi siano la fonte; e l'idea prototipa del sapore; ma pure Sucofanti i calunnianti anche nelle Commedie Latine, che tutte sono dei soggetti Greci formate, alla maniera Greca sono chiamati, come se uno dicesse, le Spie, e i Delatori dei Fichi. Ma ciò non osta, che anzi ritorna in gloria della nostra celebrata frutta, poiché non bastando al Popolo Ateniese quelli ottimi Fichi, e sfoggianti, che nel territorio suo li generavano, per lo ben pubblico, giacché di tale preziosa merce erano stati quasi per loro soli il Cielo e la Terra benigni e cortesi, fecero legge e provvigione, che senza licenza dei Signori, e con matura considerazione di causa non si estraessero. Ora pensate! Sorsero le spie a diluvi per rovinare questo e quello, come contraffacenti alla legge. La bontà dunque dei Fichi d'Atene fece questa pessima razza di gente per accidente germogliare, dei quali non si spegnerà mai la semenza, che facevano il mestiere del Sycofanta, o vogliamo dire del Calunniatore. E per 60

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verità erano tanto buoni questi Fichi, che Platone, personaggio d'ottimo gusto, dicono, con tutta la sua filosofia, che ne fosse assai ghiotto. Diogene ancora non fu il suo minchione, il quale trovandosi un giorno, salito su di un Fico, e sgridato da chi lo vide, che l'albero, per essersi uno a quello impiccato, era macchiato, e polluto, rispose con filosofica flemma: «E per questo lo ripulisco, e, come vedi, ne lo purifico». D questi pomi suoi favoriti trasse il medesimo filosofo, dal mordere, cioè dal dir male, soprannomato Cane, la bella similitudine, onde paragonò i ricchi sciocchi, e idioti ai Fichi selvatici posti sopra erti monti, e scoscesi, ove gli uomini non vanno a [rac]co[glie]rgli, ma bensì i gracci, e i corbacci, significando volendo con questi la nera turba dei malvagi adulatori, e lusinghieri, vendemmiatori delle sostanze di quelli. Siccome dalla bontà del vino Lesbio mostrò Aristotile la preferenza, che egli aveva di Teofrasto, ch'era di quel paese, sopra gli altri suoi discepoli; così dai Fichi il medesimo disegnò la Repubblica d'Atene la quale, come di popolare e tumultuoso governo, era disposta a calunniare i suoi cittadini, colle parole d'Omero In lode dei fichi

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degli Orti d'Alcinoo dal Tasso rendute:

«...sopra il fico invecchia il fico»,

volendo dire in enigma: nuova calunnia s'aggiunge all'antica. Ciò veramente è in male, ma è fondato sulla fertilità del paese in questo genere di frutte. Così un altro, trattando dell'emula Repubblica di Sparta, disse essere i suoi Fichi piccoli, a cagione dello stato tirannico, diceva egli, che gli spremeva, e gli striminziva, che se questo non fosse, sarebbero più vegnenti e più grossi. Un altro che faceva la comparazione d'Atene e di Rodi, non obliò di mettervi i Fichi d'una e l'altra città come indizio solenne del genio dei terreni e dell'indole e complessione dei paesi. E che direte, avere avuto questi una volta del miracoloso e del divino? Fu creduto parlare il Cielo per la bocca d'un venditore di essi, il quale invitando i compratori colla sua solita cantilena a provvedersi dei Fichi della città di Cauno, ch'erano squisiti (questo fu un Durazzo, appunto quando Marco Crasso [stava] per partire alla volta dei Parti, ove rimase infelicemente sconfitto) questo fruttajolo adunque gridava in Latino, nella cui lingua i Fichi son 62

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femmine: Cauneas, Cauneas; cioè Fichi Caunei, Fichi di Cauno, e nella sua pronunzia pareva che dicesse: Cave ne eas Guardi di non andare. Non era egli adunque un avviso questo, come ho detto, del Cielo, o vogliam dire d'un caso predicitore a Crasso, perché non andasse? Andò, non volle fare a senno dei Fichi, che lo consigliavano al bene. Che ne avvenne? Ebbe la rotta, fece fico. Oh pomo delizia degli uomini e degli Dei! Sofibio Lacone, per dar gloria al suo paese, toglie la prerogativa agli Ateniesi, tra cui la Repubblica, e la Spartana era gara e gelosia perpetua, infin dei Fichi; toglie, dico, la insigne preminenza del ritrovamento d'una tal frutta, che pure per segno di ciò in Atene avevavi una contrada, intitolata Fico Sacro, e l'attribuisce ai suoi Lacedemoni, con recare in testimonio il soprannome di Bacco Dio donator di letizia, da loro detto (guardate strana denominazione!) da loro detto Ficario. E quelli che abitavano nella città, ove Teseo piantò la povera Arianna lasciandola in Nasso, adoravano un certo Bacco Melichio, cioè m[i]elato, delicato, per aver dato questo soave frutto, che stilla m[i]ele a modo di gomma, dice Plinio. In lode dei fichi

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Oibò! che rozzi tempi! A guida, bisognava dire, di giulebbo. L'è come quella che dice il medesimo che i Fichi s'infilavano e che si mangiavano in cambio di cacio. Lo compatisco, non era ancora, al tempo di Plinio, venuta l'usanza del candire. Ma, per tornare onde partimmo, presso i popoli di Nasso la faccia di Bacco bacchese era di vite, quella di Bacco M[i]elato era di Fico. Ne volete [di] più? Per questo tra i filari delle viti fanno bene i Fichi, e Ippocrate disse in un suo Scazonte: Ficaia negra della vite fuora.

Il nostro Vettori [Piero (Firenze, 3 luglio 1499 – 8 dicembre 1585), scrittore, filologo e umanista] loda tra le viti il Fico estremamente, come frutta di guadagno, e da cui in mercato si hanno di buone riprese. Nella Scrittura sempre colla vite il Fico si accompagna, bel patrimonio, e ricco dei buoni ed ubertosi terreni; laddove in Erodoto per disegnare un paese aspro e selvatico, ove uomini duri facevano ed alle aspre battaglie [pronti], disse: «non aver quelli nel loro paese Fichi, né ben veruno», quasi [che] non essendoci Fichi, 64

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fosse il loro vitto ferino e selvaggio e fecondo il vitto anco il cuore duro, ed alpestro. Oh dolcezza adunque del Fico, quanto sei tu da commentare! Certamente che delle tue lodi mai non si vedrà sazia la lingua mia. Filippo Re di Macedonia, essendogli rapportato, come alcuni dei suoi sudditi non secondo il debito rispetto di lui parlassero, come egli, credo, aspirasse a dominare tutta la Grecia, e simili cose, comenché era d'alto senno, e tutto dolcezza, ebbe subito in bocca il Fico per non inasprirsi. Vedete, disse, i Macedoni son gente di montagna, grossolani, materiali, idioti. Chiamano le cose per il loro nome, non usano circoscrizioni, né metafore, dicono il Fico Fico, il pan pane, onde uscì il nostro proverbio: ve la dirò panpana, cioè a lettere di scatola. Oh, a proposito delle scatole, si serbano anche i Fichi, e secchi si chiudono nelle scatole; e Plinio, il gran Segretario della natura, stimò bene nei suoi libri di farne ricordo. E registrò ancora quei tanti nomi di Fichi, che a confrontarli con quelli che registra Ateneo nelle Cene dei Savi (e in quelle Cene, che credete si disputasse? Si disputava di Fichi) se ne farebbe una erudita lezione. In lode dei fichi

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Dai paesi gli Sciotti, i Calcidici, o di Negroponte, gli Africani, pel fatto di Catone famosi, perfino i Fichi Scalogni da Ascalona città di Soria, onde i Capollini di questo nome furono detti; ed io il primo fui quello che nelle medaglie di questa città [Firenze], ciò che gli Antiquarj stimavano foglie di lauro, o speroni di nave, scoperti essere pretti e sputati scalogni. E questa mia osservazione fu in questi ultimi tempi dal dotto Baron di Spanheim morto, Inviato per il Re di Prussia, gran Mecenate dei Letterati, a sua Maestà Britannica, al Mondo tutto fatta palese. Fichi Parj, Megaresi, Laconici, come il lor parlare, piccoli, e stretti, Frigj, che uno antico chiama divino mangiare, un boccone degno della Madre degli Dei, che quivi sotto nome di Dea Frigia s'adorava. Alcuni denominati dagli uomini come i Fichi Pompei, Fichi Livii, e simili. Da un uomo di scelte notizie mi fu detto, non so donde se lo cavasse, che i Borgiotti fossero di Spagna, nutrice di tutte le buone cose, in Italia portati dal Duca Valentino Cesare Borgia, e che da lui Fichi Borgiotti poi per trasportazione di lettere, e comodità di favella dal nostro popolo Brogiotti venissero a nominarsi. Per altro 66

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il nostro Vettori gli fa venire dall'Ambrosia cibo immortal degli Dei, quasi siano Ambrosiotti, cioè fatti per il palato dei Numi immortali, e ciò pone egli come sua propria osservazione nelle varie sue Lezioni. Non so se questi fossero i Fichi che Plinio appella Duricorii, o di duro cuoio, e questi son buoni quando hanno la pelle graffiata, e che, come dei Castagnuoli colti senza piccioli dice il Burchiello: La Balia abbia colto loro il latte, E siansi azzuffati colle gatee.

Quelli che sono teneri d'alcuna lor cosa, come i vecchi dei loro figlioli, e autori dei componimenti sogliamo chiamare Fiorentinamente Brogiotti dalla dolcezza di questo Fico, meglio senza comparazione, che Baggiani da quelle fave grosse, che hanno lungo l'acque di Baia nel regno di Napoli nobilitate dai bagni dei Romani. Né è da vergognarsi di questo nome, siccome con quello di Popone non si degnarono ancora gli Omerici Eroi e Dei d'essere nominati, che vale, tenero, fatto, stagionato, cotto, condizionato, maturo. Né mancarono i Fichi detti dai In lode dei fichi

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Greci Poponi, che forse son quelli che Plinio nomina delicati, venendo la delicatezza dal punto che seppe pigliare nel cuocerli il gran Cuoco della Natura. L'imbrogiottirsi adunque, e l'esser Brogiotto non sia da qui avanti chi tenga per male, perciocché è una naturale cottura istillataci per la parentevole guardia e provvidenza dei nostri parti. I Leuconfalj, cioè bianchi umbilicati, saranno quelli che sono sopra gli altri di soavità e di gentilezza dotati, onde il bel nome si fece e per maggiore spicco, ribattutamente detti Dottati se non fossero gli Albicerati di Plinio. I Fichi Prodromi, cioè Corrieri, che prima degli altri giunsero, detti anche per questo Proterici, cioè primi venuti o primaticci. Certi Ficaldi selvatici, la polpa dei quali piaceva ad alcuni più dei domestici, come la carne del cignale più del porco nostrale è saporita. Fichi di due, di tre volte, Rondinini forse, perché beccati dai Beccafichi convertiti in Rondinini, giusto come a un desinare degli ajuti dei Provveditori, che avevano provvisto per sé proprio certi Beccafichi freschi, grassi, scelti (ridicola metamorfosi!) si sono a un tratto convertiti 68

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in tante magre Passere. Imperiali, Mozzini, Sportati, infino Fichi dalla bellezza loro, e dalle Passere e da altri uccelli che li beccano, detti Callistruzzi, consorti per avventura di quel buon Religioso Tommaso Calestruzzi, che siccome di studio, di sapere, e d'affetto, così benché Fiorentino, è Greco nel casato, quantunque ciò possa essere da luogo detto da galestro sorta particolare di terreno. Basta, poco importa. Eranvi i Verdini, quelli detti Carne di cervio, i Corbini, Biscioni bianchi, Biscioni neri, Dragoncelli, Fontanelli, forse dalla lagrima, per la qual io ne disgrado le Mirre, e i Balsami, e gli altri preziosi delle piante sudori; finalmente i Fichi Macine, che io non ci so vedere altra etimologia se non che fossero grossi e tondi come una macina. Uno dei Titani, per nome Sucea, cacciato da Giove fulminatore, fu ricevuto nel seno della sua madre terra. Che pensare che facesse la buona madre, come son tutte compassionevoli? Produsse il Fico, e ciò (dice lo Storico, ch'è un tal Dorione, o vogliamo dire Dorino, in un tal libro d'Agricoltura) a fine di trattenere quel giovanaccio, da cui una città In lode dei fichi

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della Cilicia ebbe nome Sucea, come se noi dicessimo Ficalle, o Ficecchio (che così, e non Fucecchio, si deve dire, testimonia un'antica Cronaca Latina) la qual Città doveva essere appresso a poco, per quanto per entro le caligini dell'antichità si può comprendere, come Troja, la quale Omero nomina per tutto la città dell'ampie vie. Eh che volesse tutte quante le lodi d'una sì dolce, necessaria, e utile pianta rammemorare, non la finirebbe mai, e prima mancherebbe la notte che la materia. Perciocché io nulla v'ho detto del dolce Fico, così detto figuratamente in una Commedia da Aristofane, per intender la qual figura quivi non abbisogna commento; niente dei Verdini, o Cotognoli, da noi detti Cutignoli, perché non manchi anche la fredda stagione di questa frutta; niente, che il suo sugo serviva di caglio e di presame, giusto come è servita questa Cicalata alla vostra delicata attenzione; niente v'ho detto, che un soggetto riguardevole venne di Fiandra espressamente in Italia, senz'altro bisogno, per mangiare dei Fichi; nulla v'ho detto della Ficoncella acqua termale, perché ebbe la scaturigine di sotto un Fico là nei 70

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Bagni di San Casciano; nulla infine del Fico Ruminale o della Mammella, sotto il quale furono allattati i due gemelli Romolo e Remo. Talché dal Fico ebbe la Romana gloria cominciamento, e in conseguenza la nostra città figliola di quella, se non era il Fico della poppa dei suoi Autori, nata e fiorita si non sarebbe. Oh non solamente l'atteggiante Fico, come il nostro gentilissimo Alamanni t'addimanda, ma ancora si può dire allattante, e allattante i Fondatori di Roma, gli Avoli nostri!, ma il più bel pregio tuo si è l'essere da quegli uccelletti beccato, che la nostra solenne annuale mensa incoronano e di se stessi e del nome. Ora s'intende acqua e non tempesta. Cicalare è bene, ma non stracicalare. La Cicalata è finita, e siccome non c'è bisogno d'esordio, né d'altre parti, così né anche di ricapitolazione, o d'epilogo. Solamente per mia scusa soggiungo che, se ho fatto troppi Fichi, quantunque fare i Fichi sia più proprio delle donne, che degli uomini, come cosa cred'io, che più si confà colla loro natura, ma pure se ho fatto troppi Fichi, se ho recati i Fichi a cena, mi perdoniate se ho colto i Fichi in vetta con periIn lode dei fichi

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colo di rompere il collo, sette vostro; si vede che a scegliere me non v'è venuto voglia dei Fichi fiori, mentre avete scelto un Fico afato e selvatico, e dalle forfecchie degli anni divoratori logoro e roso, che se per disgrazia da tanto cicalamento se n'è cavato punto un sugo, è miracolo.

Abate Antonio Maria Salvini (Firenze, 12 gennaio 1653 - 17 maggio 1729), grecista e Accademico della Crusca, di cui fu Arciconsolo nel 1693-1694. Contribuì alla redazione della quarta edizione del Vocabolario. Il testo qui riprodotto è tratto da Raccolta/ di/ Prose Fiorentine./ Parte seconda./ Volume Quarto/ Contenente lezioni./ Edizione Novissima.// In Venezia/ MDCCLI// Dalla Stamperia Remondini (pp. 115-124). Nella presente edizione si sono omesse tutte quelle incoerenze di punteggiatura e di parole desuete dal testo originale.

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L’autore

Maurizio Nocera, (Tuglie, 1947). Scrive da sempre.

Ha pubblicato (con Antonio L. Verri) Dieci anni in rivista (19791988) Lettere a Pensionante de’ Saraceni (Apulia, Lecce 1990); Antonio Antonio. Fabbricante d’armonia (Melpignano, Istituto “Diego Carpitella”, 1998); Compianto (Gallipoli, I Poeti dell’Uomo e il Mare, 2001; Tallone, Alpignano 2005); Il Fanalista d’Otranto (I Poeti dell'Uomo e il Mare, Gallipoli 2002); Totò Franz (altrimenti detto Totò Toma) (Amaltea, Maglie 2003); Antonio Antonio o dell’Amicizia (Il Laboratorio, Parabita 2003); Figli, vostro padre uccidete/ La lama del tenente (Copertino, I Quaderni del Bardo, 2004); Crepuscolo nel mare di Gallipoli (2004); Per Carmelo Bene. I primi passi da gigante, (Kurumuny-teatro, Kalimera, 2004); Il morso del ragno: alle origini del tarantismo (Capone, Cavallino 2005); Compagno sai dirmi dov’è l’officina riparazione sonetti? (Novoli, Biblioteca Minima, 2005); Ernesto Barba, figlio del sole (I Poeti dell'Uomo e il Mare, Gallipoli 2007); Lettera di Maurizio Nocera a Mario Marti e risposta./ Mario Marti, Sul valore sentimentale attribuibile alle scelte del critico (Tallone, Alpignano, 2007); La contrada del poeta più altri poemetti e poesie sparse (Il Raggio Verde, Lecce 2008); Il labirinto metrico e altri scritti di bibliofilia (Rovello, Milano 2008); (F)Atti di dolore (I Poeti dell'Uomo e il Mare, 2009); Massari (a cura, D'Ars, Milano 2010); Antonio Buttazzo. Tipografo Leccese (Milella, Lecce 2010); Hyrie. Studi in onore di Donato Palazzo (Società di Storia Patria per la Puglia, Oria 2010); Profilo di don Pablo (Tallone, Alpignano 2012); La pietra àzulum. Nel cuore del cuore delle Ande (Lendaro *

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g. Càmiless &dizioni clandestine, Lecce, 2012); Almanacco del bibliofilo. Indici 1990-2012 (biblohaus, Macerata 2014); Officina Mardersteig. Un incontro con Martino Mardersteig, (Macerata 2015); Tarantulae (La Notte della Taranta), (Lecce 2016).

Con Spagine ha pubblicato Edoardo possente come un vichingo, dolce come un bambino, (2017).

Ha curato: Nazim Hikmet. La conga con Fidel (con Joyce Lussu, Tricase, GinoBleve editore, 1998); Luigi Stifani, Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate (con L. Chiriatti, Roberto Raheli, S. Torsello, Lequile, Istituto Ernesto de Martino/Edizione Aramirè, 2000); Quotidiano dei Poeti, fondato e diretto da A. L. Verri (Calimera-Lecce, Associazione culturale Ernesto de Martino/Salento, 2002); Pensionate de’ Saraceni, fondato e diretto da A. L. Verri (Melpignano, Istituto “Diego Carpitella”, 2004); Immagini del tarantismo. Galatina: il luogo del culto (con L. Chiriatti, Cavallino, Capone editore, 2004); Antonio L. Verri/On Board (con F. Bevilacqua e G. Pranzo Zaccaria, Unione dei Comuni di Cavallino, Lizzanello, Castrì di Lecce, Caprarica di Lecce, 2004); Pietre. Giornale dei Comuni del Salento (con Gino Bleve e A. Donno, Tricase-Lecce, 2008).

È redattore delle riviste «Anxa News» (Gallipoli, dal 2004) e «Aracne» (Galatina, dal 2006) e collabora con altre riviste e giornali.

È socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia dal 1980.

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Indice

La favola dei fichi parlanti............................... 5 L’arte di farcire i fichi....................................... 31 L’etichetta........................................................ 43

In lode dei fichi................................................ 49

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Colophon

Dicembre 2017 - Questo libro, composto da Mauro Marino con la collaborazione di Valentina Sansò per conto dell’autore nella sede del Fondo Verri in Via Santa Maria del Paradiso 8 a Lecce, è stato impresso in tiratura limitatata presso la Universal Book di Rende (Cs) in 100 esemplari firmati. Maurizio Nocera




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