Overture a san leucio di maira marzioni volantino

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spagine Spagine Volantino/TEATRO Lecce, 20 ottobre 2014 - anno II

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A. L. Verri

Overture il Festival delle Arti(n)contemporanee

Si è tenuto nel borgo casertano di San Leucio dal 22 al 28 settembre 2014 la terza edizione di

teatro,performingart,incontri,musica,installazioni di OFFICINA TEATRO per la direzione artistica di Michele Pagano per Spagine c’era Maira Marzioni


del training per il pub P spagine

di Maira Marzioni

Il logo di Offinina teatro e la Locandina del Festival

Gli spettacoli visti:

URSULA PANNWITZ – la donna delle bifore tratto da “LA CASA DELLE BIFORE” di Lidia Luberto – ed. Guida in scena Piera De Cesare ALBUM DI FAMIGLIA | ignote storie da tavola Da un’idea di Luca Sorbo. Performance per 4 spettatori, a cura di Peppe Zappia

RADIO CUORE LIBERO | scusate per l’interruzione da Le 5 rose di Jennifer di Annibale Ruccello in scena Gerardo Benedetti

Le serve di Genet all’interno di KIORMA un progetto a cura di Mimmo Borrelli In scena Lucia Tangredi

L’ABITO D’ORO - Materia, marionette e corpi Gruppo ANCHE│ Antonia D’Amore e Caterina Stillitano Officina Teatro Viale degli antichi platani, San Leucio di Caserta www.officinateatro.com

an è dio delle selve, dei campi, dei pascoli, vaga per i boschi mentre suona e canta, gli sono sacre le cime dei monti, secondo alcuni è figlio di Penelope, la tessitrice. San Leucio è uno strano borgo pendice di Caserta. È un borgo serpente, una striscia di case tutte attaccate che ricordano qualcosa delle case inglesi. A San Leucio si lavorava la seta, tutta la filiera completa: dalla coltivazione dei bachi nelle campagne vicine, fino alla realizzazione dei più raffinati damascati che hanno fatto il giro del mondo. Vado a vedere il museo, nel belvedere sopra il borgo. Da quassù si vede il Vesuvio, l’orizzonte è Napoli e il mare, ai lati la corona dei monti Tifatini. Ci accompagna nella visita una non guida, un signore pagato dal comune che più che altro controlla che non tocchiamo i macchinari. La stanza dei telai è impressionante e bellissima: un teatro di fili e legno, ci mostra il gesto del tirare la pietra per costruire l’ordito, mentre lo fa si sentono i suoni dei fusi che sbattono tra loro. Leggo che l’organizzazione della fabbrica di San Leucio era evoluta: venivano affidate case agli operai dotate di servizi igienici, c’era la scuola gratuita per i figli che potevano lavorare a partire dai 15 anni. Si usava celebrare tutti i matrimoni il giorno di Pentecoste con un particolare rito: a ogni coppia era assegnato un mazzo di rose, bianche per gli uomini e rosa per le donne, fuori la chiesa li aspettavano gli anziani del villaggio, di fronte ai quali le coppie si scambiavano i mazzi di fiori come promessa di matrimonio. Ora dell’economia della seta rimane qualcosa soltanto nella lavorazione, il filato si importa, il settore è in crisi. La storia assomiglia alle tante dei paesi in cui il sapere artigiano altamente qualificato, fattosi industriale, è stato delocalizzato, per ridurne i costi, e dunque si è perduto. Si perde tutto se non si ha la lungimiranza di capire cosa vale la pena tenere come bene prezioso di una comunità. Con la seta e la sua filiera si sono perse tutte le storie passate e quelle che sarebbero potute venire. Il panico è uno dei modi attraverso cui Pan arriva a noi, dunque come tale è una delle vie del ritorno all’anima istintuale, all’immaginazione di cui è composta. Pan è al tempo stesso distruttore e preservatore. Quando siamo presi dal panico non sappiamo mai se non si tratti del primo movimento con cui la natura si appresta a elargirci, se siamo capaci di udirne l’eco, una nuova visione di se stessa.

Come in ogni paese che si rispetti c’è per fortuna sempre qualcuno che prova ancora a tessere, a creare nuove storie. Lungo la strada per arrivare

al borgo c’è Officina Teatro, un piccolo teatro di 90 posti ricavato da un ex fabbrica, il luogo è accogliente e curato. Michele, casertano della provincia, viveva a Roma e lavorava come regista cinematografico, poi ha deciso di tornare e costruire un progetto collettivo di teatro contemporaneo che principalmente puntasse ai giovani. Michele ci tiene subito a dirmi due cose importanti: il teatro è indipendente e il festival anche, non perché non abbiano provato a farsi ascoltare dalle amministrazioni, ma non sentono, danno il patrocinio ma poi fanno pagare il suolo pubblico e la luce, tanto vale non chiederlo allora. La seconda cosa è che lui è il direttore artistico perché serve un nome, ma il teatro si regge sul lavoro di tutti. Ai laboratori di Officina Teatro partecipano dai bambini agli adulti, osservando per tre giorni tutte le persone che ci girano attorno il pensiero è che è un luogo dove da sette anni si lavora molto e ognuno fa quello che sa fare.

Il festival dura una settimana e lo chiamano Ouverture perché è il prologo della loro stagione teatrale. Scrivono nel sito che anche il pubblico ha bisogno del suo training così come gli attori dunque ecco una sette giorni che si conclude la domenica sera con una festa e la presentazione della stagione teatrale, con le migliori compagnie nazionali di teatro contemporaneo e con le produzioni di Officina Teatro. Sono venuta per scrivere poesie da donare ai passanti, ma oggi piove e allora ascolto, mi immergo, mi lascio raccontare. Siamo nel piccolo e caldo foyer del teatro, legno chiaro, cuscini rossi, vestitini dorati di filo intrecciato appesi, stanno provando una scena per lo spettacolo di stasera. A un certo punto Michele mi chiede di sedermi in prima fila e dirgli cosa vedo, gli è utile per capire. Piera è una donna con un viso dolcissimo e mi porta in un attimo nella storia di Ursula, “la sibilla del borgo”, così dice. Avevo appena sfogliato quel libretto su Ursula appoggiato alla biglietteria del teatro, Piera la porta in scena e io mi ci ritrovo dentro, ballo per un attimo con lei. La sera assisto allo spettacolo, le performance del festival avvengono in teatro e in alcuni luoghi del borgo: case, cantine, vicoli, cortili che non rimangono scenografie, ma diventano parte della performance, dando vita all’abitarsi reciproco di corpi, voci, luoghi. Così il borgo si ripopola di storie e tessiture. Entro in una sera nelle stanze intime di Ursula, Bruno e Jennifer. Ursula Pannwitz era una donna tedesca che ha scelto il borgo vecchio di Caserta e lì per trent’anni ha fatto casa, laboratorio, accoglienza, soglia magica, luogo d’arte e vita. Piera è in scena con i ri-


bblico

cordi in forma di scatole chiuse da aprire lentamente, un muro a cui appendere i lampi di una memoria che diviene sempre più labile, che si affida a suoni sottili, a oggetti, una rosa, un carillon, frammenti a cui si aggrappa per dirsi ancora viva, per non perdersi le scelte di una vita. È fatta di delicati salti emotivi la presenza di Piera che dà il corpo con grazia a Ursula. Mi commuovo nella battuta finale, dichiarazione di attaccamento viscerale e necessario a un’identità che il tempo sembra cancellare. Sono nel posto giusto, un posto adatto ai cercatori di cura. Tra le stanze del borgo troverò le sfumature dei sentimenti contratti, le pieghe delle emozioni contorte, questo sarà solo il primo movimento interno, continuerò a camminare sul filo di Pan per tutta la sera. Sono la prima ad entrare nella casa di “Album di Famiglia”: un contrabbasso, un tappeto, dei cuscini, il soggiorno bello e antico di una casa normale, come ce ne sono tante, in terra album di vecchie foto e Peppe, il custode di questa stanza. Scoprirò che gli album sono recuperati da mercatini di cose usate e vengono dalla collezione di Luca, fotografo e ideatore dello spettacolo. Peppe me ne porge uno e io lo sfoglio, le foto vecchie mi procurano ammirazione, mi sembrano tutte belle, è una cosa banale forse è solo il passaggio del tempo reso visibile. Sfogliarle è un viaggio che stimola l’immaginazione, proprio a questo veniamo condotti quando inizia il racconto di Bruno. L’album che sfoglia sotto i nostri occhi è bellissimo, è il racconto di un viaggio in Europa: nella prima pagina l’itinerario disegnato, le didascalie, le foto, poi ogni tanto, quando i passi non ci sono arrivati, Bruno per ricordarsi dov’era stato metteva una cartolina. Appare una donna che diviene la trama del testo, il personaggio misterioso che si affaccia tra le pagine che scorrono. «In quella stanza ho incontrato gli occhi del mondo. Continuerò a bussare». Così dietro l’ultima foto lascia scritto la donna a Bruno. Mi commuovo, ripenso alla mia stanza a quella dove ho incontrato gli occhi del mondo, quella a cui continuerò a bussare. “Così io”… questo fa il teatro.

Paradossalmente, le pulsioni più naturali sono non-naturali, e la più istintualmente concreta delle nostre esperienze è immaginale. È come se l’esistenza umana, persino al suo livello vitale di base, fosse una metafora.

Mi hanno detto che Jennifer è forte, che mette ansia. Leggo il titolo “Radio Cuore Libero” e sono

Teatro

Volantino / Teatro - 20 ottobre 2014 - anno 2 n.0

già dentro, seduta con altre quattro persone in un divano un po’ sfatto di una casa disordinata, una casa come la mia, siamo seduti in cucina, si vede fino al balcone in fondo, con la finestra aperta e il buio oltre. Siamo a casa di Jennifer, una trans di Napoli innamorata di Franco, che non c’è e che lei aspetta attaccata al telefono mentre la radio parla, canta e racconta che nel quartiere c’è qualcuno che uccide quelli come lei. Jennifer è lì con quel mazzo di rose rosse, pronta disperatamente al rito dell’unione. Noi la spiamo, è lì con la sua intimità, col suo dolore, con la sua allegria folle, esagerata, una colonna sonora bellissima, la stessa che ascoltiamo io e le mie amiche alla fine delle feste, quando siamo solo noi le regine. Jennifer è come me, sono stata Jennifer tante volte, Jennifer aspetta che telefoni la sua passione e intanto ha paura. In quaranta minuti attraversa tutti i colori che stanno dentro a un cuore. Quando canta a squarciagola insieme alla radio “Mi sei scoppiato dentro al cuore” io scoppio con lei, scoppiamo tutti. Quando scompare, moriamo tutti un po’. Alla fine dello spettacolo non so quasi dove sono, esce Gerardo a prendersi l’applauso e io in una sera m’innamoro del teatro e del suo rito panico. La sera successiva mi siedo nell’angolo che i ragazzi di Officina hanno preparato per me, appoggio la macchina da scrivere e i fogli, appendo le parole e i segni delle presenze che mi abitano e penso che sto nel posto giusto, penso che se respiro posso farcela, posso sedermi e fare quello che so fare, portare in scena il minimo teatro umano, che parte da uno sguardo per costruirci una storia, ritratto di parole.

Nell’incubo la natura rimossa ritorna, così vicina, così reale che non possiamo che reagire ad essa naturalmente, divenendo cioè interamente fisici, posseduti da Pan, gridando per avere luce, conforto, contatto. La reazione immediata è l’emozione demoniaca. Siamo ricondotti all’istinto dall’istinto.

Accanto a me c’è la performance di Cicci, Lucia Tangredi tratta da Le serve di Genet, per la regia di Mimmo Borrelli. È sabato, l’ultima sera del festival, a un certo punto lascio la mia sedia e mi intrufolo all’ultima replica, che sarà forse la decima della serata. Scendiamo le scale di una specie di cantina, c’è una rete metallica intorno, uno scorrere continuo d’acqua che esce dal tombino. Lei inizia, in alcuni momenti non riesco a guardarla, Pan mi si infila prepotente nella gola mentre guardo la follia lucida dell' accarezzarsi i capelli e il corpo famelico

col sapone, ora che è lei la signora, lei che ha saponificato chi non riusciva ad amarne la follia. «Sono io la signora! Sono io la signora!!», è lei… sono io. Risalgo le scale un po’ traballante, qualcuno mi aspetta per sedersi e avere una poesia, lo faccio, ma non ne ho il controllo, non so da dove viene, non so cosa buca, ma di sicuro fa un foro e esce.

Pan è riflesso completamente nel corpo, il corpo come strumento, come quando danziamo…è una coscienza che si muove circospetta nella saggezza della paura, attraverso i luoghi deserti dei nostri paesaggi interiori, dove non sappiamo che direzione prendere, senza un sentiero; il nostro giudizio fondato soltanto sui sensi, senza mai perdere il contatto con il gregge dei riottosi complessi, delle piccole paure e delle piccole eccitazioni. La coscienza corporea è della testa, ma fuori della testa, lunatica, spirito delle corna. Non è mentale e calcolatrice, è una riflessione, ma né dopo né durante l’evento. È piuttosto la maniera in cui un atto viene compiuto.

Il festival è quasi finito, ma Caterina e Antonia replicheranno più tardi, quando il borgo è quasi vuoto. Apparecchiano l’ultimo mio atto panico, ancora non lo so, ma un po’ me lo sento e lo aspetto. Lavorano con corpo, marionette e strani “abiti” collosi e organici. Il loro spettacolo è una sorta di rito sciamanico che attraverso il silenzio e la presenza di corpi fibrosi, metafore di pelle viva, mette in scena un trapasso, una trasformazione. «Ho paura, mi spavento... questo ho… questo ho….». Così una cantilena dolce conclude il viaggio, così le due donne in scena partoriscono un corpo materico, una sorta di angelo principessa, una marionetta bianca e bellissima che scende le scale, ora in vita e delicata spegne la candela. Torna il buio, di nuovo non so bene dove sono, ma so che sono dentro a un racconto, il mio e quello di tutti, innestata di nuovo dentro la trama del tempo che scolpisce le storie umane. Ridiscendo a piedi dal borgo fino al teatro, come ritornassi a casa, in bocca ho il mio nuovo ritornello: ho paura, mi spavento, questo ho, questo ho… Il demone è diventato canto. Il tremore s’è fatto carne, la trasmutazione l’ha fatta il teatro per me. Contributi su Pan tratti da “Saggio su Pan” di James Hillman


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