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Spagine n°0 - Autori 01 Lecce, ottobre 2013 - anno I
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
autori
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri
Il tavolo di Sud Puglia di Maurizio Nocera
Aldo Bello con Antonio Verri in una fotografia di Fernando Bevilacqua
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Un sodalizio nutrito da un’amicizia sincera lo snodo poetico tra Aldo Bello e Antonio L. Verri
Nelle amare contee, poeta La notizia Lo scorso 3 agosto 2013, nella piazza antistante la facciata della chiesa di Giuggianello, si è tenuta la serata di assegnazione dei Monoliti d’Argento 2013 che, per questa VI Edizione, sono stati consegnati all’editore Lorenzo Capone, al giornalista Carlo Bollino, all’imprenditore vitivinicolo Piernicola Leone de Castris, allo scenografo Raffaele Del Savio; alla memoria al professore Nicola Cesari. Nel corso della cerimonia è stato ricordato anche Aldo Bello, di seguito pubblichiamo la prolusione a lui dedicata.
A
ldo Bello è nato a Galatina, il 7 settembre del 1937 è scomparso a Roma, il 26 dicembre del 2011è stato giornalista, inviato speciale in paesi alla fine del mondo, economista, storico, meridionalista, saggista, direttore di testate televisive e di diversi giornali, e quant’altro ognuno di noi può ancora immaginare ma, permettetemi, almeno per come l’ho conosciuto io, egli era e rimane per me fondamentalmente un poeta, che sapeva scrivere sia in versi sia in prosa. Oggi la sua sconfinata miniera di testi è una ricchezza importante per il Salento, e non solo per questa nostra terra, perché la sua sete di conoscenza è andata molto oltre ogni possibile confine, per cui la Banca Popolare Pugliese, e dico soprattutto questo ente finanziario, aumenterebbe di molto il suo patrimonio di beni immateriali se solo raccogliesse e pubblicasse in più volumi gli scritti del fondatore e direttore della rivista «Sud Puglia», divenuta poi «Apulia», fiore culturale di prim’ordine della medesima banca. Questa rivista bancaria, oggi conosciuta solo col nome di «Apulia», nacque nel 1974 con la testata «Rassegna della Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce»; successiva-
di Maurizio Nocera
mente (1983) la testata divenne «SudPuglia», infine, settembre 1994, «Apulia». La rivista oggi, con la morte del suo fondatore e direttore, ha chiuso anch’essa le pubblicazioni dopo quarant’anni di ininterrotta attività. Aldo è stato autore di libri importanti come Terzo Sud (1968), un saggio dedicato all’annosa questione meridionale; Poeti del Sud (1973), una raccolta importante delle più interessanti voci poetiche del Meridione d’Italia; La mattanza (finalista per la narrativa – opera prima – al Viareggio 1973); Le lune e Riobò (1978); L’idea armata (1983), una riflessione dall’interno dei gruppi eversivi dell’ultra sinistra; Amare contee, un viaggio in Puglia (premio Ciaia-Martina Franca, 1985), un ritratto della regione ricavato attraverso le voci dei più importanti personaggi; Economia e civiltà di Terra d’Otranto. Dal Consorsio Agrario di Matino alla Banca Popolare Sud Puglia (1988); Passo d’Oriente (1992), dove sono registrate le esperienze di viaggio e di guerre nel Medio Oriente; Il salice e l’imam. Califfi Oriente e Occidente del Ground Zero (2002), dove è possibile leggere la realtà contraddittoria interculturale Occidente/Oriente, del dopo Ground Zero. Sul fronte della narrativa, si è cimentato inizialmente con la forma del racconto breve (Il sole
muore, del 1973, poi riedito con revisioni ed integrazioni come Le lune e riobò già ciato); in seguito, con il romanzo La Mattanza, anch’esso già citato. Molti di questi libri, escluso forse qualcuno, Aldo me li ha donati quando con dediche quando semplicemente brevi manu, e verrà il giorno che ritorneremo a fare un esauriente commento su ognuno di questi suoi gioielli cartacei, come giusto meritano. Ma qui, permettetemi ancora, di fissare il mio sguardo a quell’Aldo Bello poeta, che ha vissuto una sua intera stagione in rapporto con un altro poeta salentino, Antonio L. Verri. Sparse per la mia casa ci sono lettere (e forse anche dell’altro) di Aldo Bello, inviate ad Antonio L. Verri e a chi qui scrive. A volte, magari quando proprio non le cerco, queste lettere le vedo riemergere dall’abisso ormai insondabile della mia biblioteca, altre volte, invece, quando le vorrei tenere proprio sotto gli occhi e, leggendole, sentire ancora più vicino il fiato dell’amico poeta Aldo, non riesco a rintracciarle. Tuttavia, per quest’evento della 6^ Edizione del Monolite d’Argento a Giuggianello (3 agosto 2013), che prevede anche un Ricordo dell’amico Aldo Bello (Monolite d’Argento 2009) una sua lettera sono riuscito a trovarla.
Spagine n°0 - Autori 01 Lecce, ottobre 2013 - anno I
È del 25 ottobre 1996, quindi di tanto tempo fa e, come tutte le altre sue, proviene da Roma. Si tratta della sua risposta all’invio della bozza del mio poemetto Antonio! Antonio. O dell’amicizia che, per la prima volta, vide la luce grazie alla pubblicazione che ne fece l’Istituto “Diego Carpitella” di Melpignano nel 1998. Scusandomi fin d’ora per un fatto che può apparire autobiografico, ma che io credo non lo sia, la sottopongo al vostro ascolto: «Carissimo Maurizio,/ e tre! In ventiquattr'ore Antonio Verri è riemerso tre volte. Ieri sera ho trovato fra le mie carte il racconto di una sua visita al convento dei cistercensi di Martano, e subito dopo un saggio di Nicola Carducci sulla sua opera; stasera trovo la tua lettera con le bozze che ho letto e riletto, ti prego di credermi, con un nodo alla gola. Antonio c'è tutto: con la testa e col cuore. Con la voce. Col suo modo di essere e di fare. Bisogna essergli (stato) molto amico, profondamente e assolutamente amico, per scrivere quel che hai scritto tu; per svelare con tanta naturalezza di poesia e disperazione di sentimenti i segreti di un sodalizio totale, qual è stato il vostro. Trovo splendidi tanti tuoi "passaggi", le invenzioni che vorrei definire (altrimenti, perché tante affinità e tanta contiguità?) "verriane", la testimonianza composita in sé, e la memoria che si fa nostalgia tanto più dolorosa e lacerante quanto più dai virgolettati emergono versi e frasi che conoscemmo appena nati nei Belli-Luogni di Lecce, di Castro, di Galatina, di Matino, ora - devo confessare - un poco deserti, schivi: per la paura che assale di pensarsi ormai soli definitivamente defraudati./ “Impossibile dimenticare.| Meglio fuggire...” scrivi. Fuggire? Non facciamoci illusioni. Antonio non ci ha lasciato tracce, segni superficiali sulla pelle; ma solchi abissali. Ha spostato la nostra meridiana sulla sua ora, sul suo ritmo del tempo, sui suoi orizzonti inquieti. Prima di essere Assenza, ferita insanabile nella carne. Quale tu impudicamente (e per questo di più t'ammiro) esibisci al mondo bue. Che non capirà mai. Ti ringrazio per questi fogli, per gli scenari che vi ricrei, per i climi e le atmosfere che intensamente disegni, e dentro i quali mi ritrovo del tutto, fermo a quell'alba di maggio, quando Antonio Errico
urlò più volte al telefono il nome di Antonio, senza riuscire a dirmi altro. Il nostro “Signore dalle ali spiegate” era “volato via”. Ora è lo stesso sgomento di allora. La stessa domanda senza risposta. La stessa ragione: la nave Castro è colata a picco nel cielo irto di vecchi stupidi ulivi addormentati. Mi spiace per quest'estate. Ti avrei visto molto volentieri.../ D'altra parte, come puoi immaginare, ho perso i contatti con molti amici, dopo quella notte-alba. Antonio aggregava, sollecitava, scopriva. Mi ha sorpreso non poco la tua descrizione della sua stanchezza. Era il moto perpetuo, il suo sistema neuronico era sempre vibrante, faceva fibrillare anche tutti noi. Una parentesi irripetibile.../ Intanto, ti abbraccio caramente./ Aldo». * * * Ecco. Ho riportato questa lettera, che mai prima aveva visto la luce, semplicemente perché descrive quello che è stato l’eccezionale sodalizio poetico tra Aldo Bello e Antonio L. Verri e, fra loro due, me fortunato, la mia modesta persona. Antonio aveva grandissima stima di Aldo, e Aldo aveva infinito affetto per Antonio. Aldo, che aveva conosciuto Verri agli inizi degli anni ’80, mostrò agli altri questo suo sentimento per il giovane amico poeta caprarichese la sera del 3 febbraio 1996 presso il Crsec di Lecce (allora in Corte dei Cicala), leggendo alcuni passi della sua introduzione – Il merlo eretico – al romanzo postumo di Verri, Bucherer l’orologiaio (Banca Popolare Pugliese, Matino, 1995). Quella sera, Aldo ci disse che Verri «aveva occhi obliqui in cima a una barba sefardita e sapeva allineare tre rughe sulla fronte pallida. Il timbro abissale della voce era di quelli che mettevano subito in guardia: diceva parole sicure come querce. Aveva anche gesti che passavano sopra tutti, più in alto di tutte le spanne messe insieme. Ad altezza d'uomo, invece, era forza d'urto, d'invasione, di assoggettamento. Ondulare e magnetico, non conosceva resistenze anodiche e trascurava ambiguità, compiacenze, degnazioni e altri provincialismi...Un giorno rivelò un segreto. "Ho un merlo ... ", scrisse. Un merlo impettito, attento, goffo […]"».
E quando gli capitò di presentare La Betissa, uno dei poemi più complessi di Antonio L. Verri, Aldo scrisse: «Verri mi passò una copia dattiloscritta della Betissa una sera, nella casa di campagna matinese nella quale ci si incontrava di frequente col testo della Storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora. Credo fosse stato, simultaneamente, subito dopo, a due comuni amici, Antonio Errico e Maurizio Nocera, con il fine di provocare a breve quello che era un confronto quasi rituale su forma e contenuti, su visioni del mondo e scenari onirici, con conversazioni, con dialoghi incrociati, con interpretazioni non sempre e non del tutto convergenti. Il testo fu pubblicato nel 1987 su «Apulia», ed ebbe diffusione diacronica, ma anche gran risonanza in campo letterario, perché La Betissa rappresentò un momento di snodo nella storia della narrativa (non soltanto) del Salento e del Sud». Ecco, anche qui, ho riportato solo alcuni brevi frasi di Aldo in un ricordo gonfio di pathos per l’amico poeta, perché quelle frasi sono poesia, la poesia di Aldo Bello, perché Aldo – e questo non finirò mai di ribadirlo – era un poeta. Basti andare a due suoi libri importanti che egli scrisse pensando alla poesia e vivendo la poesia. Mi riferisco a Poeti del Sud e ad Amare contee. Il primo, un bel libro cartonato e appetibile a qualsiasi bibliofilo è un’antologia di poeti del Sud; il secondo, invece, anch’esso cartonato, che fa il ritratto della Puglia, soprattutto nella parte introduttiva, ha tantissima vibrazioni poetiche. Quando il 26 dicembre 2011 mi giunse la notizia del suo ultimo, ed anche per lui, incredibile volo dalla terra verso il cielo, risposi alla moglie Ada Provenzano, sua fedele compagna di mille percorsi poetico-letterari, con queste semplici parole: «Affranto piango l’amico poeta Aldo». E sì, lo ribadisco, Aldo Bello era un poeta, che amava scrivere in prosa, e proprio per questo Antonio L. Verri, tra i tanti che c’erano, scelse lui a rappresentare la poesia italiana agli incontri di Yverdon (Svizzera) alla fine degli anni ‘80. Ma, dicevo, io l’ho percepito come poeta, soprattutto quando lo penso nel suo costante
autori Aldo ci disse che Verri «aveva occhi obliqui in cima a una barba sefardita e sapeva allineare tre rughe sulla fronte pallida. Il timbro abissale della voce era di quelli che mettevano subito in guardia: diceva parole sicure come querce» rapporto con gli artisti e i poeti del Salento, primo fra tutti il già citato Verri il quale, anch’egli lo percepiva come tale. Basta ricordare e rileggere I poeti sanno dove sono le capre d’inverno, vale a dire le Dieci lettere che Antonio L. Verri scrisse ad Aldo da YverdonLes Bains (Svizzera), dove si tenevano gli Incontri Poetici Internazionali e che Aldo, quasi in tempo reale, pubblicò su «Sudpuglia» (XII, n. 4, dicembre l986, pp. 196-208). di M. Nocera - Continua nella pagina successiva
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Nessuno di noi potrà dimenticare quanto Aldo scrisse in occasione della morte accidentale di Antonio. Ecco, è questo: «Per Verri// Finalmente possiamo tornare al nostro quotidiano: agli orari di lavoro stabiliti per legge, agli eroici straordinari, alle feste paesane, ai chiacchericci salottieri, al circolo cittadino, al bricolage del sabato pomeriggio. Avevamo perso di vista i rituali del nostro quietismo comportamentale, ci erano saltati i bioritmi, ci si era appannata persino l'ironia afosa con cui avevamo astutamente patinato i nostri vuoti culturali./ Per non perderci del tutto eravamo corsi ai ripari: fra gli opulenti menhir di Yverdon, schierati su campi d'erba ben pettinati, avevamo ascoltato le ipotesi narrative di Astalos e le acrobazie giullaresche della poesia di Delgado; a Neuchatel il giordano Abu Rubb aveva cantilenato versi come echi portati dal vento rosso del deserto, facendoci sognare carovane in marcia fra le dune e verdi pupille caucasiche balenanti in perduti Topkapi; a Zurigo avevamo cercato l'albergo degli immigrati in livrea, divorato dalle pale meccaniche nel nome di un efficiente boulevard. Un salentino bestemmiava contro gli svizzeri che non capivano le cicorie selvatiche e i rosolacci, e lui diceva: "Andrò in Spagna, per le carte di Benjamin". Sempre lì, a costringerci a pensare, con quei suoi lunghi treni mai fermi, nello sguardo paesaggi obliqui (“Il mare, no: dà stolte malinconie”), e un altro progetto gettato così, come un gioco di dadi, per perdersi l'anima. Perché aveva solo un baricentro interno: e il resto del mondo vi faceva capo. Non era dato altrimenti, come per chiunque abbia memorizzato le parole, restituendole con significati definitivi. Nessun sostantivo inutile, i punti interrogativi sulla sua faccia saracena, da coltissimo e incantevole Saladino, e il pensiero già oltre, imprendibile a volte, da tagliare il respiro. Per questo sapeva volare, lui che era di radici sicure e di grandi mani. E noi ad arrancare a quote basse, per non perderlo di vista, capaci - per questo - anche di piccoli inganni e di risibili insolenze. In realtà,
ci metteva a nudo, curli spogliati dalla corda timoniera nei lanci al cerchio, il suo e nostro cerchio vitale volitivo volante. Ammarato, ora, dopo l'ultimo volo, solo suo, in un cielo irto di ulivi. Un grido rosso, e di notte, ci ha trafitto il costato, le parole sono fiotti gutturali che tornano a giorni e luoghi come facce di dadi bianchi, il numero vincente è sogno, si possono scrivere solo lettere per l'altra riva. Maledetti amici suoi: dobbiamo tornare a noi stessi, allo scirocco delle nostre accademie, alle parentesi chiuse. Perché non fermenta più il pane sotto la neve» (da «Sudpuglia», XIX, II, giugno 1993, p. 51). Vedete, questo è un Aldo poetico, un Aldo che, pur scrivendo in prosa, segna il percorso del suo pensiero attraverso una musica che non può che essere quella orfica, fatta di suoni e di versi. In tutta la vasta produzione storico-letteraria di Aldo Bello non è facile rintracciare dei suoi componimenti poetici. Eppure, non poche volte, egli mi diceva che di versi ne aveva scritti, solo che li lasciava “sonnecchiare” nel cassetto. Ed io invece, che non avevo la forza di un Verri, non ho saputo “impormi” (e come mai avrei potuto?, di Aldo avevo una tale stima che…) e dirgli che quei versi dovevano vedere la luce. Gli unici poemetti che sono riuscito a trovare sono quelli del 1981, col titolo Niente. E così sia, scritti in occasione del terremoto in Irpinia; e il poemetto Canto per l’altro riva. (Con i nomi di santi, di duchi, di pirati, i figli del fiume e delle Ande tramontano al ponente di lune remote. A Chico Mendes, morto di morte annunciata), che Verri pubblicò in «Ballyhoo-Letterature», gennaio/luglio 1992. Sono qui allegati a questa memoria. Quanto il Sud sia stato presente nell’impegno culturale di Aldo Bello è difficile quantificarlo. Tuttavia si può senz’altro affermare che egli è stato un grande meridionalista di forti idealità gobettiane a livello di un Guido Dorso, di un Tommaso Fiore, di un Francesco Compagna, di un Manlio Rossi Doria, di un Carlo Muscetta, e ancora di tanti altri che hanno dato lustro al Mezzogiorno d’Italia. I suoi interventi di denuncia della condizione meridionale sono illuminanti. Chi potrà dimenticare mai il pathos col quale scrisse Il Sud è nel 1981 proprio
in occasione di quel terremoto. Scrisse: «Allora, sulla testa dei morti e dei vivi, dicono che il Sud è abulia. Il Sud è mafia. Il Sud è ignoranza. Il Sud è un’altra lingua, anzi una babele di lingue. Il Sud è quello con la pelle un po’ scura che - nelle città dell'altra Italia - si rischia di vedere abitare alla porta accanto. Il Sud è la Cassa per il Mezzogiorno, "che ci costa un occhio della testa"./ Imperdonabile colpa: il Sud è./ E visto che c'è, e che il mare non lo ha ingoiato, noi questo Sud, con tutte le sue passioni, con tutte le sue contraddizioni, lo abbiamo portato e continueremo a portarlo dentro le case e dentro le coscienze. Perché lasci inquieti. Perché, se è possibile, faccia perdere il sonno. Perché renda problematici anche i pensieri (se ne hanno) di quelli con la pelle più chiara. Perché con la sua immagine sgretoli l'idea stessa di benessere che questo Paese si è artefatta, e scuota il quietismo degli idolatri dello status quo, e faccia emergere il sospetto che l'iceberg possa da un momento all'altro capovolgersi, finalmente mettendo a nudo quanto c'è, da secoli, sotto il pelo dell'acqua. Nel bene e nel male». Signore e Signori, questo Sud di Aldo Bello, questa Italia di Aldo Bello, nel bene e nel male, ma più nel bene che nel male, è il nostro Sud, la nostra Italia. C’è un’immagine di Aldo che non si cancella più dalla mia memoria. Era il tempo delle nostre prime frequentazioni all’osteria Mocambo di Sternatia. L’oste Vito Maniglio disponeva di due stanze, collegate l’una all’altra attraverso un corridoio a cielo aperto. Le sere che decidevamo di passarle in quel posto (i primi ad arrivare erano sempre chi qui scrive e il Verri), il rituale era sempre uguale: si beveva un bicchiere di rosso nella prima stanza, quindi si accedeva nella seconda, dove c’erano dei tavoli per accomodarsi e mangiare qualcosa. Quasi sempre l’ultimo ad arrivare, nonostante provenisse da Galatina (paese molto vicino a Sternatia) era Aldo Bello, che a quel tempo, vivendo a Roma per motivi professionali, veniva spesso in Salento per vedere l’anziana madre. Il fotografo del gruppo, Fernando Bevilacqua, ha immortalato più volte Aldo nell’attraversamento del corridoio a cielo aperto: il poeta
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Spagine n°0 - Autori 01 Lecce, ottobre 2013 - anno I
C’è un Aldo poetico, un Aldo che, pur scrivendo in prosa, segna il percorso del suo pensiero attraverso una musica che non può che essere quella orfica, fatta di suoni e di versi
giornalista lo attraverso a passo di danza, quasi che ascoltasse un ritmo di pizzica. Verri ed io, che sempre lo aspettavamo all’ingresso della seconda stanza, lo vedevamo caracollare a passo di danza verso di noi. Era allora che, ridendo, l’uomo dei curli gli urlava forte: «Dai Aldo, che ce la fai!». di Maurizio Nocera - Fine