Spagine della domenica 04

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Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri

della domenica 04 - 17 novembre 2013 - anno I n. 0

spagine

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Nello Sisinni , La guerra guerra


Lecce, 17 novembre 2013 - spagine n° 0 - della domenica 04

Librerie A Lecce in via Templari, all’ombra

C

’era anche Inge Feltrinelli, la moglie di Giangiacomo e c’era anche Carlo Feltrinelli all’inaugurazione della nuova libreria Feltrinelli di Lecce, prende casa al 9 di Via Templari, dove c’era una banca, così com’è accaduto, anni fa, anche a Bari. Sarà un segno? Chissà... Ho letto la nota (su Spagine del 14 novembre), stupenda veramente, di Giuliana Coppola: mi ha tirato fuori pensieri che stavano rannicchiati, latenti, che riguardavano, in parte, un pezzo del mio passato di bottegaio (a volte si chiamano franchisor in termini legali e burocratesi). Centri vendita che vogliono proiettarci nel “futuro” che passa attraverso la scomparsa, l’annichilimento, il rifiuto di tutto ciò che è stato per entrare nel nuovo che incombe: “è il domani, ragazzo, fattene una ragione”. Così penso a Gepi, il mio libraio di Alessandria, è successo una volta che ero con un amico che gli chiedeva “un romanzo di una giapponese di cui non ricordo il nome, figurarsi l’editore” il libro parlava di un amore che non ricordo, Gepi si mise al suo computer, quello dei ricordi di libraio che i libri li sa, spesso li legge, andò in uno scaffale nascosto e prese un volume dicendo “è di qualche anno fa”, era lui! Questo poco prima che in libreria, la Gutenberg, arrivassero gli amici di ogni sera verso le 18, quando trovi persone che parlano di ogni cosa, fanno ironia sulla politica, sulla vita, discutono di dotte cose o di amene amenità. La libreria, appunto, il luogo, il punto di ritrovo di intelligenze (non sempre vivaci, per carità, però onestamente attente agli accadimenti). Finchè, come ogni sera, Gepi dice “si va a casa?” ed inizia a chiudere. Il futuro che ci propongono (impongono) è invece fatto di impersonali scaffali dove trovi gli stessi prezzi, identiche offerte e scontistica di quella libreria un pò meno supponente là nel viale, dove parli con un libraio che sa di libri. Questi enormi centri, magari su tre piani, hanno il compito di essere quello che qualcuno chiamò i “non luoghi”, dove tutto è impersonale, dove magari ti dicono buon giorno quando entri e poi ti arrabatti fra scaffali e perdi il senso della libreria, del parlare amenamente con amici, del sapore e del profumo della carta. Andrò, sicuramente, agli eventi e alle presentazioni,

La gra “Andrò, sicuramente, agli eventi e alle presentazioni, quando mi interesseranno, però tornerò nella libreria piccola, quella che mi ridà il senso dell’essere in un luogo...”

quando mi interesseranno, però tornerò nella libreria piccola, quella che mi ridà il senso dell’essere in un luogo, profana, sacra, sacrilega, poetica, gossipara, o che altro, ma dove c’è un rapporto, e lì comprerò i libri. E’ come il pane acquistato nella panetteria sotto casa, dove lo fanno e dove senti il profumo del forno, e quello comprato al supermercato luccichevole e sbarluccicante. Sarò vecchio, antico, da rottamare, però preferisco il mio libraio, preferisco il mio panettiere. Gepi quando entro e mi dice “vedi che è uscito....” mica mi propone un trattato sulla gemmologia, mi dice le cose che sa che mi interessano. E poi ci prendiamo un caffè assie-

me, quando capita. Ma il futuro è già qui, è quello strambo comportamento di industrie che permettono a piccole libreria di evolversi, di investire in scaffali e merce, salvo poi accettare offerte più imponenti e tentare di affossare i piccoli perchè “da noi prendi anche il caffè... Sono le leggi del mercato, ragazzo”. Vuoi mettere un caffè al bar con il libraio che ti conosce e che sa? Tutt'altra cosa, tutt'altro spirito. Forse qualche ragazza o ragazzo troverà (buon per lui) lavoro nella nuova libreria che luccica, però altri posti di lavoro si perderanno da altre parti, sarebbe bello fare il conto finale, tirare le somme, vedere i costi

sociali che questo accentramento comporta. Le strade e le vie che passo ogni giorno sono costellate di colorati cartelli “affittasi” “vendesi” alle vetrine di quelli che erano un tempo negozi. In Via Trinchese ne ho contati 4 in fila, desertificazione non delle periferie, anche del centro un pò meno “centro”, si chiama. Notti buie, non illuminate da quelle che un tempo erano vetrine. La crisi incombe e fa soccombere. Il Santo dalla Colonna guarda e vede. Fino alla prossima colata di plastica bianca sull'ovale. di Gianni Ferraris


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della colonna del Santo, la nuova Feltrinelli

nde effe “La libreria è quella... profana, sacra, sacrilega, poetica, gossipara. E’ quella dove c’è un rapporto, lì comprerò i libri...”

Sono giornate furibonde, senza atti d’amore, solo passaggi” solo con queste parole e il passo illanguidito dal trascorrere della pioggia delle ore passate, muovo verso il centro, verso un rosso grande dove affoga un’enorme eFFe. La statua del santo patrono, lì sulla colonna contesa dai brindisini, mi indica la via con una delle tre dita, scendo di pochi metri e una folla gracchiante e impettita mi abbraccia e con essa una ressa di parole, suoni e profumi. Indietreggio lungo le fila, incedo e per fortuna un allegro venditore di libri, ambrato abbastanza da ricordarmi l’estate, mi parla di volumi, ancora stordito, mi trovo in mano poesie senegalesi, ricette africane, critiche alla società e personaggi forti. Sono venuto

per vedere questa nuova apertura, questa libreria, comprare qualcosa come buono auspicio e nemmeno dentro già mi trovo indeciso se dire di no a questo figuro colorato e ciarlante che dice di chiamarsi Lampo del sud – o qualcosa di simile – oppure prendere qualcosa di nuovo. Scelgo e prendo questo nugolo di ricette della grande madre Africa, come dice lui, senza contrattare perché sono il primo cliente al quale stringe la mano, chiacchiera e sorride perché “visto”. Parliamo un po’ e poi gli auguro buona fortuna. Aggiro la calca nuovamente, aspetto e le uniche cose a farmi compagnia sono il fiatone del signore alle mie spalle e una goccia abbastanza grossa da farmi presagire un acquazzone. Si vedono persone di tutti i tipi, lì in fila, lungo le scale e sempre intenti a scartabellare fra i file

del proprio cellulare. Entro finalmente, quando la gente è dispersa, spalmata sui libri o intenta a chiedere informazioni improvvisate o a rimandare possibili acquisti nella prossima venuta, che magari avverrà tra un anno esatto. L’ingresso non è trionfale come m’aspettavo, ma piccolo, confortevole e rotondo. Scivolo tra la piccola folla e i libri impilati e sistemati per generi, con le scritte lì in alto come un supermarket biologico. Di fronte, in fondo, un bancone con camici bianchi, pane, frutta e frullati, prodotti del luogo dove la scritta “Salentu” s’avvinghia lì a ricordarti che non sei altrove, ma ancora nella città “barocchetta” e pusillanime, e allora prosegui schivando donnine dall’accento inusuale e figurini incartapecoriti, poi trovi isole di ragazzi e piccole

famiglie che attorniano il bambino, che s’aggrappa al primo libro, poca carta e molte figure su plastica musicale. Non sono ancora sceso al piano inferiore, giro fra le colonne, trovo titoli e copertine, un tavolino messo di fronte alle scale ospita Alice Munro e la sua fascetta da premio Nobel corrente, mi spiace vederla lì, sotto gli occhi disattenti di chi cerca altri titoli, altre storie passeggere e più blasonate. La poesia è di lato, messa in ginocchio, sorretta dalla cabina dell’ascensore, per lungo, che provi fatica a cercarla, leggerla e scovarla. Ti accoglie con Baudelaire, Montale e Pasolini, poi man mano gli altri, ti sembra sola, senza una sedia, poi pensi alla poesia detta, ai versi che vanno letti e non tenuti e contratti. Cerco il solito poeta che non trovo, per poi trovarne un altro che avevo dimenticato, mi fermo sui suoi versi e mi dico di volerlo, di mangiarlo e farlo mio perché “por detràs de ti te busco” e ti trovo. Di fronte comincia la narrativa dei classici moderni e lì sorvolo come un airone, sono tanti, troppi quelli che ancora sono col post-it da leggere assolutamente. Poi salto e scendo giù, immergendomi lungo le spire dei sotterranei, volti e personaggi che non vedrò più le prossime volte, vestiti bene come fossero alla prima di un qualche evento teatrale e mondano. Il reparto bambini è molto curato e spazioso, la saggistica si staglia in vari punti, la religione e la filosofia, la scienza e la malia, quella dei best sellers. E sempre in mezzo, come una piccola giostra trovo gli scritti di Olivetti, prendo la sua biografia e mi seggo, in un angolo, trovo una poltrona libera e attendo che lo stormire si plachi. Fino a quando una ragazzina attira la mia attenzione perché chiede se potrà avere l’autografo di Volo, quando presenzierà, la ragazza dice che provvederà, ma è a fini di marketing e dovrebbe comprarlo, altrimenti non v’è molto senso; lì sorrido e proseguo nella lettura. Un po’ curioso riparto per il mio giro, Bauman mi scioglie con la sua Vita liquida come l’amore, e passo a Simmel ed infine verso la musica della stanza accanto, coperta dal vociare dei bimbi recalcitranti a lasciare il lido colorato. Esco con una copia di poesie da fagocitare, di versi da esprimere altrove, non pongo attenzione ai volti che lascio indietro, ancora indecisi sull’acquisto. Alla cassa la fila umana ha pile libresche da portare a casa, spese cospicue da digerire in pagine, io parto con poco e uscito fuori ritrovo l’amico umbratile a salutarmi, l’avevo sentito poco prima mentre dai piani bassi veniva accompagnato alla porta, un po’ ingiuriato un po’ perplesso, magari perché pensava che come luogo di cultura potesse accoglierlo per vendere i suoi piccoli libri della madre Africa. di Gianni Minerva


Lecce, 17 novembre 2013 - spagine n° 0 - della domenica 04

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Scritture

Poesie dall’esilio

di Giuseppe Spedicato

Siamo fuggiti come se fossimo stati su un treno in corsa. Siamo stati costretti ad abbandonare il nostro Paese ed ora possiamo affidarci solo a Dio perché ora non abbiamo amici. Abbiamo superato terribili esperienze che non dimenticheremo mai. Pensiamo sempre a come era la nostra vita ed a come è adesso. Ora non siamo più liberi come lo eravamo nel nostro Paese, continuamente siamo fermati e ci chiedono i documenti. O Dio siamo fuggiti per tua volontà, siamo dietro di te, aiutaci a far cessare questa maledetta guerra. *** Hai abbandonato il tuo Paese, i tuoi figli, i tuoi genitori, ed ora sei sempre in pena per loro. La notte ed ogni momento del giorno pensi a loro. Non potrai mai essere felice lontano da loro e dalla tua terra.

L

e due poesie le ho raccolte, agli inizi degli anni Novanta, da alcune ragazze somale, che erano a Lecce perché fuggite dal loro paese a causa della guerra. Guerra scoppiata nel 1990 e praticamente ancora in corso. Trattasi di poesie provenienti da una cultura popolare orale, nate in un momento terribile per il paese. Le strade di Mogadiscio, capitale del paese, erano piene di cadaveri che nessuno seppelliva.

La città era in mano a bande armate. I signori della guerra decidevano della vita o morte della popolazione. Chi poteva abbandonava il paese. Del loro passaggio nella nostra città penso non sia rimasto nulla tranne qualcosa che ho pubblicato su Scritti d’Africa in “Viaggio all'interno del mondo femminile somalo” Un lavoro che riporta quanto mi raccontarono nel corso di circa dieci anni di frequentazioni (dal 1991 al 2001). I loro racconti - come si evince dalle due poesie pubblicate - parlano del dramma della diaspora somala. Dell’incubo del vivere a Mogadiscio nei primi anni Novanta. Delle speranze che avevano nel trovare rifugio in Italia. Delle difficoltà incontrate nel paese di accoglienza. Del conflitto che provocava loro vivere a contatto con una società moderna. L'interessante è che le due poesie sono il prodotto di una cultura che ritengo sia ormai scomparasa. Mi spiego. Le ragazze che ho conosciuto, nel loro paese avevano vissuto una vita normale, povera, ma normale. Sono andate a scuola, avevano famiglie normali, facevano una vita normale. Il loro islamismo era moderato, scevro da fondamentalismi. Le generazioni somale successive sono nate e cresciute in un paese in guerra, in un paese dominato da signori della guerra, da bande criminali e da islamisti estremisti e violenti. Ovviamente la loro psicologia e cultura è profondamente differente dai somali successivamente giunti in Italia. Nei miei scitti ho cercato di rappresentare quella cultura, quella attuale è profondamente diversa e molto meno attraente. http://www.scrittidafrica.it/index.php ?option=com_content&view=article&id =202:viaggio-allinterno-del-mondofemminile-somalo-di-giuseppespedicato&catid=52:approfondimenti&It emid=57


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Lecce Capitale Europea della Cultura 2019

Preghiera!

spagine

Lecce, 17 novembre 2013 - spagine n° 0 - della domenica 04

di Antonio Zoretti

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o letto con piacere, apprezzandolo, il commento di Silverio Tomeo riguardante il dossier (Bid Book) presentato a Roma per la candidatura di Lecce a Capitale della Cultura nel 2019. Bene, dal dossier ho tratto anch'io una mia personalissima interpretazione, m’è venuta ironica o istrionica, burlesca potremmo dire. Ho immaginato la preghiera rivolta all'Europa da parte del Comune di Lecce, per ottenere grazia o favore. La mia versione mostra, in estrema sintesi, lo spirito giullare che pervade l'intera trattazione svoltasi sul testo di 95 pagine. Ecco, diamo inizio all'esortazione: "Oh, Europa, fai un po' di carità a questo Salento in-

fermo. Non ti vogliamo ingannare, aiutaci adesso o non ci ripigliate più. Vedi, Europa, che ora siamo poveri e disgraziati davvero. Non ci meritiamo di essere poveri. Abbi compassione di noi. Non ci abbandonare. Non vogliamo rubare il mantello del prossimo ma, non è colpa nostra se siamo nati senza camicia. Oh, perdonaci, perdonaci, non l'abbiamo fatto apposta. Ordinaci qualsiasi espiazione, vogliamo riscattarci dalla colpa di essere poveri, poveri davvero. Ma così buoni, abbiamo un cuore d'oro noi e non c'è n'è più come il nostro. Europa, tu ci capisci, non è vero? Non chiediamo nulla a nessuno, noi. Siamo senza un Euro. E' così, siam poveri pallidi individui e non crediamo che la no-

stra candidatura sia tempo perso. Non vogliamo vedere svaniti i nostri sogni portati via dal corso delle cose, così come il Salento vede di spogliarsi delle sue bellezze, col pretesto che è al verde. Oh Europa, il vento del Salento torna a rumoreggiare agli spifferi del tuo uscio: 'Siamo soli'! Ah, che importa, è aiutarci prima che si deve. Non vorremmo che fosse troppo tardi, la nostra piccola terra potrebbe morire. 'Siamo soli'! E non ritroveremo mai più la nostra piccola penisola. Ma noi crediamo davvero che davanti al popolo d'una Capitale... alle luci della ribalta l'effetto sarebbe travolgente... e la gente per via ci guarderebbe scioccata dal nostro allegro e nobile portamento. E che qualcuno magari risolve-

rebbe l'enigma della sua vita... Noi non abbiamo dato nemmeno un quarto di quel che abbiamo dentro... Noi siamo temprati per far cose di cui si parlerà nel 2019, faremo colpo, e dobbiamo trovare il modo di restar così in vena per quell'anno che verrà... Ecco perchè cadiamo ai tuoi ginocchi, ah! ecco perchè ci trasciniamo ai tuoi piedi. In quell'anno saremo il modello della tua veste e il modello della veste europea. Adesso noi non abbiamo un amico che sappia raccontare la nostra storia, un amico che ci precede dappertutto per evitare queste lascive e stanche e noiose spiegazioni (dossier di 95 pagine) che ci ammazzano. Non abbiamo uno che sappia gustarci. Ah, si, ecco... l'Europa! Una Europa che ama l'Arte e la Cultura e che sappia fare di noi la sua Capitale nel 2019, e che conceda i suoi danari solamente a noi moribondi, a gente in estremis, e che perciò non possa vantarsene. Macché! La grande famiglia europea, una volta a casa, ammirerà i nostri scrupoli sull'esistenza, ma non li imiteranno nemmeno per sogno, e non se ne vergognerà affatto. Più tardi ci accuseranno di averli ingannati e di essere noi stessi i maggiori responsabili della nostra misera condizione. E colpevoli d'aver fatto scuola... di povertà. Come siamo soli! A questa Europa non ci entriamo nemmeno un po'. Ma ora non vogliamo più essere noi! Non più il solito povero Sud, isolato, ma vivere nella culla europea, e tendere alla piccola conquista mercanteggiando tranquilli, in armonia, come il Nord, l'Europa, il Mondo. E noi non vogliamo più essere noi! Vogliamo tornare tra la brava gente europea. Vogliamo sposare la nostra causa: vogliamo divenire Capitale della Cultura europea. Vogliamo divenire, sì! Tra tutte le nostre idee questa senz'altro sarà stata la più audace?" Mah!


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Racconti salentini

E’ uno spettacolo assistere alla preparazione della scena, nell’attesa ansiosa della maturazione dei minuscoli frutti ovali tra il verde e il viola...

Il tempo delle olive di Rocco Boccadamo

M

arittima è un piccolo centro, un puntino appena visibile sulla cartina e, però, come insegnato dal maestro in seconda elementare, si colloca esattamente all’altezza di una coordinata geografica indicativa e facile da ricordare: il 40° parallelo o, volendolo indicare con precisione scientifica, a latitudine nord 39,98747. L’immaginaria linea, a numero tondo, del mappamondo intersecherebbe proprio il largo del Convento, che, tanto tempo fa, fungeva da campo per giocare a pallone. Ha radici prettamente contadine, Marittima, del resto al pari di tutte le località disseminate nel Basso Salento, sebbene, adesso, di tali ancoraggi sia rimasto ben poco. Le origini e i tempi trascorsi, intessuti di vicinanza, contatto, consuetudine con la terra, basati sulla coltivazione dei campi, scanditi dalle stagioni e dai calendari delle varie attività agricole, erano sinonimi di vera e autentica civiltà, giustappunto di civiltà contadina. Un ambito, uno stato, un insieme di grazia, che, fortunatamente, non viene meno col succedersi delle generazioni, sopravvive alle epoche. Cosi che, pur con il richiamato ridimensionamento dell’agricoltura, a Marittima permangono ancora sintomi, segni della civiltà contadina e, fra essi, uno speciale momento di fulgore e di luce si nota in concomitanza della raccolta delle olive. In una fase prevalentemente segnata, anzi marchiata da fuochi fatui che durano un attimo, è uno spettacolo assistere alla preparazione della scena, dell’evento, all’attesa ansiosa della maturazione dei minuscoli frutti ovali tra il verde e il viola. *** Innanzitutto, le superfici sotto le piante sono nettate e lisciate alla stregua di delicati e lucidi pavimenti domestici, dopo di che, allo scopo di evitare il diretto contatto dei preziosi frutti con il terreno e anche di poter riporre più agevolmente, nelle ceste e nei sacchi, le olive cadute, si passa a stendere

Olive e rastrellino rosso

sulle medesime aree, ricoprendole con millimetrica precisione, grandi teli a rete di diversi colori. I campi, le distese di alberi vecchi e giovani dalle fronzute chiome argentee, danno una volta tanto l’idea di grandi e sontuose dimore, con sale, scaloni e ambienti d’ogni genere ricoperti da preziosi tappeti. Sì, un bell’allestimento che si rinnova puntualmente ogni anno, cui gli attori protagonisti non riescono a rinunciare, malgrado, spesso se non sempre, la non convenienza, in termini economici, del prodotto ottenuto: ma, raccogliere le olive e farsi il proprio olio è un precetto fissatosi nell’animo. Anche per un non addetto ai lavori e quindi semplice osservatore,

assistere è piacevole e affascinante. Alle sequenze in tempo reale, si aggiungono, anzi ritornano alla mente, immagini passate: stuoli di compaesane, da appena ragazzine a donne anziane, che, in questo periodo, partivano da Marittima, con poche e povere cose addosso e appresso, salvo l’irrinunciabile e indispensabile strumento di lavoro denominato pusceddra (dal termine francese pochette), con destinazione il fieu, anche questo francesismo per dire feudo, ovvero un vasto territorio di piantagioni dove restavano a raccogliere le olive per due o tre mesi. Fra le mete di dette migrazioni di ieri, sovviene la masseria Monteruga in agro di San Pancrazio Salenti-

no. Non c’è che dire, si rivela senz’altro a buon mercato l’osservazione che si tratta di ricordi, di cose andate, eppure i ricordi, se positivi, rendono più vero e fecondo il presente. Intanto, l’incrocio ideale, in un pomeriggio variabile, fra atti di tempi andati e di oggi, è suggellato e allietato per opera di un sorridente e sconfinato arcobaleno che si pone innanzi allo sguardo: i colori dell’iride sormontano appieno la stupenda collinetta sopra la quale trovasi adagiata Castro, perla del Salento, e abbracciano altresì l‘amato Canale d’Otranto, sino alle sponde dei Balcani.


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L’immagine della terra

Signuria me lo chiede, ma io proprio non saprei spiegarlo perché dovevo tornare, dopo un’intera vita, a rivedere questa terra che non è più la mia da tanto tempo. Mio figlio mi ha guardato a lungo prima che partissi. La prima volta che gliel’ho detto, che volevo rivedere il mio paese, ha sorriso divertito come quando guarda il suo piccolo Luca che gli chiede un palloncino alla fiera di sant’Andrea. Ma non ci si deve prendere gioco dei desideri folli di un vecchio. Signuria lo capisce. Signuria che tiene più o meno la mia età, anche se ancora lavora piegato sulla zappa. Novant’anni e gli occhi velati di ricordi mi la-

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Lecce, 17 novembre 2013 - spagine n° 0 - della domenica 04

di Marina Maria Bonifazio

Ai Paduli

sciano solo intravedere la terra rossa delle More e dei Paduli e i suoi alberi nodosi di olivo. Ma nella mente, riconosco la terra di quando ho detto addio a mia madre, che se n’era andata, e a mio fratello che non mi voleva. Signuria la vuole sentire la mia storia? Sorridete, mi sembra, e sia. La sorte decise per mia madre una vita da vedova giovane. E mia madre scelse per me una vita su al nord, con zia Vincenza, a studiare. Ero bravo a scuola. Mio fratello Pippi, di un anno più grande, era bravo con la zappa ed è rimasto a lavorare, per tutti e tre. Cosa pensava mentre spaccava le zolle indurite dal sole, io non lo sapevo e non me lo chiedevo. Io pensavo a imparare

cose nuove sui libri e intanto diventavo sempre più grande, e diverso. Poi è arrivata la guerra, a uccidere, a sconvolgere la vita di molti e i sogni di tutti. Sono rimasto solo a Milano, la zia sepolta sotto le macerie delle bombe alleate. Ho preso le mie cose, sono partito e sono diventato partigiano. Ho difeso la libertà in una terra tra cielo e mare, tra olivi pallidi come questi che mi guardavano miti e aspettavano che la follia finisse. Sono alberi pazienti, gli olivi. Vero? Non la pensa così anche Signuria? Mi sembra di capire dai vostri gesti che anche voi, qui, li considerate dei compagni. Sopportano tutto, gli olivi: il sole che li asciuga

e li brucia, le pallottole che vibrano tra i rami, le bacchiate degli uomini e la loro cattiveria. Vuole che continui la mia storia? È un sì quel gesto della sua mano grande e nodosa come un tronco? E sia! La vita poi ha preso il sopravvento, sembrava finalmente affrancata da ogni peso. E sono passati gli anni. È cominciato un nuovo millennio e io sono rimasto preso nella rete degli affari, dei pensieri che avevo lassù. Avevo dimenticato? Forse, ma ero senza radici. Quando per mia madre finì il suo tempo, io non c’ero. Non c’ero quando Pippi si sposò, quando nacquero i figli. Ero lo zio straniero, fortunato, ricco e immemore, sconosciuto. Non ho giustificazioni, dite? È vero, e neanche Pippi mi ha perdonato quella volta che, quasi di nascosto, sono venuto a pregare sulla tomba di mia madre. Accettò di vedermi solo per indicarmi la via per la stazione. Signuria mi chiede se è cambiato qualcosa, dopo? Come ha fatto a capire? Quando sono tornato a Milano, non è stato più lo stesso. Perché avevo rivisto questa terra delle More e, all’improvviso, avevo compreso tutto in una volta. Avevo capito che per tutti quegli anni avevo tenuto dentro di me un groviglio di pensieri, di tormenti, di affetti ma non ero riuscito a trovarne uno solo che mi desse la forza di sapere chi sono. Da quel nodo intricato è uscita l’immagine della mia terra, ed è bastato per farmi tornare di nuovo. Ed ora sento che anche per me, forse, è arrivato il momento. Mio fratello Pippi mi disprezza e non c’è più nessuno tra i vivi che conosca il mio nome e che mi voglia con sé. Ma so che questa terra non mi rifiuterà. La riconosco dall’odore acre e secco dell’estate, dai rumori di schiocchi e dal battere d’ali delle picalò. E Signuria, che ha avuto la pazienza di ascoltare la mia storia è stato il suo ultimo regalo. Ora vado. Buonasera a Signuria”. “Ne vidimu, Ucciu!”.


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In copertina Poeti-pittori, “leggi e vedi”, perché il messaggio a volte è sincrono, come per la corrente del cosiddetto “parallelismo”

La parola e il segno

di Gigi Montonato

I temi proposti intenzionalmente in duplice forma: letteraria e visiva

L

a tradizione artistica salentina si è arricchita in questi ultimi anni di una figura particolare: il poeta-pittore o pittore-poeta, a seconda della prevalenza dell’una o dell’altra frequentazione espressiva. Forse è stato sempre così: il poeta ha sempre cercato di esprimersi nei modi a sé più congeniali; a volte in più modi. Ne ho conosciuti tanti, ovvio, di vario livello. Sarebbe opportuno, prima o poi, gettare uno sguardo critico su di essi, in chiave anche antropologica. In genere mi occupo di politica e di storia. Lancio l’idea. Mi chiedo: chi si esprime in più forme è insoddisfatto o ama la ricerca? Nella nostra tradizione nazionale abbiamo esempi importanti, basti pensare ai grandi del Rinascimento, ai Michelangelo, ai Leonardo, pittori scultori scrittori trattatisti ricercatori; anche se essi, fosse stato per le loro cose scritte, sarebbero rimasti figure marginali nella storia della letteratura. Torniamo a casa, ai salentini. Ne parlo per quanto ne sappia per rapporti anche personali. Quasi tutti vengono dall’insegnamento scolastico, chi negli istituti superiori e chi nelle medie inferiori. Li definirei poeti-pittori “leggi e vedi”, perché il messaggio a volte è sincrono, come per la corrente del cosiddetto “parallelismo”, in cui il tema è proposto intenzionalmente in duplice forma: letteraria e visiva. In essi, evidentemente, prevale il messaggio “studiato” sull’espressione artistica istintiva e spontanea. Il più delle volte la poesia evoca l’immagine e si cerca l’autore nei suoi quadri. Me ne vengono a mente alcuni. Lionello Mandorino, di Collepasso, più noto come pittore, ma poeta fine e delicato, di insospettabili levità chiaroscurali, in contrasto con le tinte forti dei suoi paesaggi salentini, campagne soprattutto, dove prevale il rosso della terra, tramonti di fuoco, ulivi secolari. Non mi pare che abbia pubblicato raccolte di poesie in volume, ma è presente in molte riviste uscite nella seconda metà del Novecento, tra cui “Sallentum”, “Contributi”, “Brogliaccio Salentino”. Franco Ventura, invece, di Sannicola, pittore di paesaggi salentini

Nello Sisinni da I miei segni di Pisa

ariosi, solari, aperti allo spazio che fanno respirare chi li guarda, ha pubblicato anche delle raccolte di poesie. Anche qui emerge un contrasto, assai meno visibile, tra i versi, ai limiti della militanza politica per i contenuti di meridionalità difesa e coltivata o di difesa dei diritti umani più in generale, e la pittura, in cui prevalgono le tinte lievi, il giallo e il verde dei prati, il rosa dei fiori, il celeste del cielo con le nubi chiare e mai minacciose. Paesaggi in cui si coglie più che un desiderio di pace interiore, una sorta

di appagamento, che il sentimento religioso, forte nell’autore, detta e produce. Ventura ha dipinto molte tele di soggetto sacro. Giuseppe Greco, di Parabita, si è specializzato nella duplice arte della miniatura e della grafica, in funzione letteraria. A volte, nelle sue immaginette, le figurine con su i santi e le madonne, scorrono stampate sue poesie in vernacolo, che hanno il più delle volte contenuti religiosi, in cui il disegno si limita alla cornice, spesso solo accennata con motivi vaga-

mente floreali, ma di delicato gusto cromatico. Ritrattistica a parte, le sue opere risentono di una ricerca costante del tempo andato, dei piccoli oggetti perduti, delle atmosfere famigliari e direi crepuscolari. I suoi “Presepi”, scritti e disegnati, ne sono una prova. Eugenio Giustizieri, di Sannicola, precocemente scomparso nel 2010, era architetto e insegnante di storia dell’arte, molto amico e apprezzato dal poeta di Galatone Ercole Ugo D’Andrea, che me lo fece conoscere. Poeta fine, di sentimenti intimisti e famigliari, metteva la sua arte al servizio della comunicazione amicale. I suoi libricini, con su in copertina miniature impresse da carta di riporto, sulla quale realizzava i suoi acquerelli, mettevano in comunione la delicatezza dei sentimenti, la funzione della letteratura, la bontà e la bellezza dei valori umani. Nello Sisinni, di Cursi, è architetto, pittore e scultore, che coltiva la scrittura critica, episodicamente letteraria. Ha pubblicato dei libri, sorta di diari, in cui egli spiega come vive il suo lavoro di architetto, di riqualificatore di opere architettoniche da recuperare, e soprattutto di artista in dialogo con l’ambiente, coi suoi motivi ispiratori, con i suoi attrezzi, la sua tavolozza, i suoi colori, le sue modelle. Un artista d’impulso, che vuole però spiegare a sé e agli altri l’arte, il mondo e il rapporto degli uomini nella società, con la società e con la natura. Antonietta Di Seclì, di Taurisano ma da anni emigrata a Milano, è l’esempio della poetessa-pittrice che si esprime intenzionalmente in “parallelo”, lo stesso tema lo realizza in versi e in immagine. In questa artista prevalgono i temi forti della denuncia civile, la rivendicazione del perduto. La desolazione del paesaggio urbano, così avvertito in contrasto con quello arioso e inondato di luce del Salento della sua infanzia, perso ormai da una vita, è una costante. I colori dei suoi quadri sono cupi, quasi annuncianti un’imminente catastrofe. Solo in certi bozzetti di lontana memoria tornano i colori, ma sempre all’interno di un mondo chiuso, senza sbarre, dove l’esterno è proposto come qualcosa di meno desiderato dell’interno.


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