Spagine della domenica 17

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Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri

della domenica 17 - 16 febbraio 2014 - anno 2 n. 0

spagine Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Una fotografia di Michele Cera


Lecce, 16 febbraio 2014 - spagine n° 0 - della domenica 17

Accade a Lecce

Si è costituito il Comitato per la Tutela dell’Area Archeologica Ex Massa

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i Piazza Tito Schipa si torna a parlare, il progetto devastante pare in fase avanzata se in noti quotidiani alcune pubblicità a pagamento di una nota immobiliare salentina dice papale papale: “Nel cuore di Lecce si lavora per far sorgere un prestigioso complesso commerciale, nato per la riqualificazione dell’area di Piazza Tito Schipa...” Quindi tutto a posto, tutto in regola. Secondo alcuni non lo è affatto. È di questi giorni la notizia di una petizione sottoscritta da alcuni intellettuali, studiosi e leccesi in genere per scongiurare lo scempio. Partita per iniziativa di: ADOC, Ass. M. Perrotta, Forum ambiente e salute, Italia Nostra, Movimento Valori e Rinnovamento, Società di storia patria di Lecce promotori del Comitato Tutela Area Archeologica Ex Massa. Le prime adesioni: Salvatore De Masi, Eugenio Imbriani, Fernando Fiorentino, Guglielmo F. Davanzati, Giovanni Invitto, Bruno Pellegrino, Mario Signore, Woitek. Pankievicz, Mario Spedicato, dell’Università del Salento; Astragali teatro. Per adesioni telefono: 0832 493673, cell. 347 5599703, cell. 392 8172087

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a storia pare infinita, abbattuta la chiesa e l’ex caserma Massa nel 1971 nonostante pareri negativi della soprintendenza, la piazza divenne parcheggio. Da alcuni anni si sono iniziati scavi per costruire l’improbabile centro commerciale e parcheggi sotterranei a gestione mista. Ora, siccome era nota da decenni la presenza in loco di reperti medievali, di una chiesa, di un cimitero, è plausibile lo stupore nel ritrovare reperti ed ossa? Ne ha parlato Giovanna Falco, attentissima appassionata di storia leccese, che già nel 2012 nell'articolo “Santa Maria del Tempio in Lecce. Le ossa dei frati” pubblicato prima sul blog Spigolature Salentine, poi sul sito della Fondazione

Lo scempio

in centro di Gianni Ferraris

Due immagini di PiazzaTito Schipa

Terra d’Otranto ha indicato i servi di Dio e i membri di ordini cavallereschi sepolti nella cripta della chiesa, e che ha continuato a raccogliere notizie storiche di questo pio luogo. Scrive la Falco: “Il convento di Santa Maria del Tempio ha rivestito un ruolo di primo piano nella storia di Lecce, non solo dal punto di vista religioso (qui ad esempio si formò nel XV secolo fra Roberto Caracciolo), ma anche civile, basti pensare ad esempio, così com’è raccontato nella cronaca di Antonello Coniger, che vi sono stati incarcerati i nobili leccesi che nel 1495 hanno aderito alla rivolta filofrancese di Carlo VIII, qui, inoltre, erano custoditi alcuni documenti pubblici della città. Durante la seconda guerra

mondiale, quand’era stato da tempo adibito a caserma, vi si celebrava la cerimonia della consegna del gagliardetto alle truppe che partivano per il fronte. Nelle fonti della storia di Lecce episodi legato a questa struttura conventuale ricorrono spesso. Riguardo le fondamenta del convento di Santa Maria del Tempio, oltre al loro valore architettonico, hanno custodito per secoli sia vari reperti che testimoniano la vita conventuale, sia i resti mortali dei frati, dei cittadini che morivano fuori città, dei frati ricoverati nell’infermeria provinciale monastica, dei titolari delle cappelle gentilizie nella chiesa, ma anche, nel 1812, i detenuti delle Carceri Centrali ammalatisi di tifo petecchiale e successivamente i cittadini leccesi quando l’area è stata destinata per un perio-

do a zona cimiteriale. Oltre ai sette servi di Dio inumati nella tomba comune dei frati nel XVII secolo, si ha testimonianza della sepoltura del cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni, balì di Venosa e commendatore di Maruggio, voluta nel 1449 da Giovanni Orsini del Balzo. Vi è stato sepolto anche il barone Mario de Raho, morto nel 1678 e sepolto con l’abito dei Cavalieri Regolari della Immacolata Concezione di Maria, un ordine militare seicentesco poco noto. Tra i cittadini illustri sepolti in Santa Maria del Tempio, Bernardino Braccio menziona il medico Scipione Panzera, morto nel 1642 (da cui discesero Saverio e Oronzo, sindaci per il ceto civile nel XVIII secolo). A fine Settecento vi volle essere tumulato Giusep-


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Durante gli scavi sono state scoperte ossa umane. Saranno indubbiamente state, come prevede la legge, accuratamente catalogate e trasportate in luogo idoneo rispettando ogni normativa, in particolare con la supervisione importantissima di antropologi. Non c’è motivo di metterlo in dubbio e sicuramente ci saranno le catalogazioni disponibili per ogni tipo di verifica La legge in riguardo è giustamente severissima

pe Romano, sindaco di Lecce per il ceto nobile dal 1768 al 1770, cui fu dedicato il poemetto satirico La Juneide ossia Lecce strafurmatu. Puema eroecu dedecatu alli Signuri Curiusi”. Si ha notizia anche di altri sindaci della città di Lecce sepolti, tuttavia sono fonti da approfondire. Bene, durante gli scavi sono con tutta evidenza state scoperte ossa umane e saranno indubbiamente state, come prevede la legge, accuratamente catalogate e trasportate in luogo idoneo rispettando ogni normativa, in particolare con la supervisione importantissima di antropologi. Non c’è motivo di metterlo in dubbio e sicuramente

ci saranno le catalogazioni disponibili per ogni tipo di verifica. La legge in riguardo è giustamente severissima, leggo infatti: “Un particolare obbligo di denuncia viene imposto dal regolamento sulla polizia mortuaria (artt. 3 e 5 D.P.R. 285/90) a carico del Sindaco, per le ipotesi di morte che possono presentare sospetti di reato ovvero per i casi di ritrovamento di cadaveri, resti mortali ed ossa umane. Nel primo caso, quando dalla scheda di morte sorge il sospetto che la morte possa essere stata determinata da reato, il Sindaco ha l’obbligo di darne comunicazione sia all’A.G. che all’Autorità di P.S. . In questo caso permane, a

carico del sanitario che ha redatto la scheda di morte, l’obbligo del referto di cui all’art. 365 c.p. Nel caso, invece, di ritrovamento di cadavere, di resti mortali ovvero di ossa umane, chi effettua la scoperta deve darne comunicazione al Sindaco e questi, a sua volta, deve darne comunicazione all’Autorità Giudiziaria, a quella di P.S. ed all’A.S.L.. E certamente i lavori saranno seguiti, come vuole la legge, dalla soprintendenza, anche se annotiamo che i nomi dei funzionari addetti mancano nei cartelli dei lavori. In buona sostanza a Lecce manchi un piano di viabilità degno di una città d’arte candidata a capitale della cultu-

ra, però qualcuno può mettere in vendita edifici a notevolissimo impatto urbanistico ancora da costruire, e soprattutto per i quali manca ancora, visto che è stata richiesta in questi giorni, la verifica di assogettabilità a VAS ( Valutazione Ambientale Strategica). Questo era un atto che doveva precedere tutto il resto, ad oggi, a progettazione già avviata, è veramente strana questa tardiva richiesta. In particolare se si valuta che, trattandosi di project financing, il Comune ha obblighi verso l’impresa la quale potrà rivalersi per eventuali danni. Veramente strani sommovimenti.

http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/lecce-trasformazioni-e-ampliamenti-del-convento-di-santa-maria-del-tempio/ http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/santa-maria-del-tempio-in-lecce-le-ossa-dei-frati/ http://www.lecceprima.it/articolo.asp?articolo=28945


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Diario politico

Dove va l’Italia con Renzi? Non si sa e non si capisce

Matteo il fiorenzino

e un popolo alla fame

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commentatori politici si stanno sprecando ad evidenziare l’incoerenza di Matteo Renzi, le sue contraddizioni, le sue furberie da prima repubblica, gli accostamenti a Fanfani, a Forlani, ad Andreotti e chi più ne ha più ne metta di furbi e furbetti dell’italica genia. La verità è molto più modesta. Di solito un ciarlatano, un chiacchierone non ricorda quello che dice, perché quando parla non pensa. Quel che di bocca gli esce-esce. Il ciarlatano è coerente al massimo grado. Matteo Renzi è un ciarlatano. Non è di questo comunque che qui si vuol parlare. Il popolo italiano è stato ancora una volta truffato ed escluso da un dibattito che avrebbe meritato, anzi, che aveva il diritto di avere per il tramite delle sue rappresentanze politiche. Invece tutto si sta risolvendo in una faida all’interno di un partito, che, grazie ad una legge elettorale, il Porcellum, mai abbastanza vituperata ma mai abbastanza difesa unguibus et rostris, ha una maggioranza in Parlamento sproporzionata a quella reale che ha nel paese. Bene, anzi benissimo, hanno fatto Lega e Movimento 5 Stelle a rifiutarsi di partecipare alla comparsata quirinalesca. La liturgia è importante in politica, ma quando copre qualcosa di serio; non lo è quando incarta il nulla o – peggio – nasconde le porcherie. Ed è una porcheria il fatto che si vuol far passare l’idea che la crisi governativa che si è aperta non è una crisi, ma una semplice operazione politica limitata al partito di maggioranza parlamentare. Letta non si sarebbe dimesso per sopraggiunte difficoltà, ma per un cordiale scambio di compiti in famiglia. L’anno scorso, più o meno di questi tempi, si diceva – se ne sarebbe fatto garante Napolitano – che il governo Letta era a tempo, avrebbe fatto le riforme, prima fra tutte la legge elettorale, e poi si sarebbe votato con la nuova legge. Letta era stato eletto dal popolo, era passato cioè dal giudizio popolare.

Bersani, il candidato-premier aveva tentato un approccio, su mandato di Napolitano, ma non era riuscito per la refrattarietà collaborativa del Movimento di Grillo. Come era normale che accadesse, l’incarico passò a Letta, che era il vice di Bersani nel Partito democratico. Letta era l’uomo che voleva e poteva tentare una formula diversa, quella delle larghe intese, un governo cioè che tenesse insieme gli opposti. La cosa non piacque ai democratici, i quali non avrebbero mai voluto un governo con Berlusconi. Ma poteva piacere o non piacere Letta, era comunque espressione della volontà di chi aveva “vinto” le elezioni e poi non sempre si può stare con chi si vuole. Un vecchio proverbio salentino dice che quando altro non trovi vai a letto con tua madre. Con la madre proprio no, ma – sempre per stare nell’iperbole! – con una capra o un caprone forse sì. Oggi Matteo Renzi, che è nessuno, è solo il sindaco di Firenze, un personaggio televisivo e il segretario del Pd, nell’ac-

cingersi a ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, dopo le dimissioni imposte a Letta, dice che il suo governo durerà per tutta la legislatura, ossia fino al 2018. E il popolo, non conta più? Non conta e non canta! Il popolo italiano è il più paziente del mondo. Sarà stato il cattolicesimo a mettergli in necrosi i punti sensibili. O forse sarà la sua vecchiaia, perché, a pensarci bene, in altri paesi i cattolici si battono. Cazzo, se si battono! Fosse accaduto in Francia ci sarebbe stata un’altra Vandea. In tutto il mondo il popolo offeso reagisce. In Egitto, non ne parliamo! Perfino in Grecia ci sarebbero state dimostrazioni di piazza con albe dorate e tramonti di fuoco. E in Turchia, in Ucraina, in Iran, in India? In Italia niente! Domenica, all’Angelus, in Piazza San Pietro, l’imbonitore venuto dalla fine del mondo benedirà le pecorelle. Dove va l’Italia con Matteo il Fiorenzino? Non si sa e non si capisce. Pare che ad imporre il cambio a Palazzo Chigi sia stato

di Gigi Montonato

Draghi, il governatore della Banca Centrale Europea, il quale si sarebbe arrabbiato con Letta per avergli fatto fare una brutta figura con la Germania. Il calo dello Spread, infatti, sarebbe avvenuto, secondo il Financial Times, grazie alle manovre di Draghi, con la speranza che Letta facesse il resto, cioè prendesse i giusti provvedimenti per risollevare il paese dalla crisi. Invece questo non è avvenuto e i tedeschi sono arrabbiati con lui, che avrebbe favorito il suo paese. Di qui, il cambio. Il figlio Renzi farà quel che la mamma Europa vuole? C’è da dubitarne e c’è anche da essere contenti se non ci riuscirà, perché se già Monti impoverì gli italiani con la sua stretta osservanza europeistica, Renzi potrebbe, nel tentativo di fare quel che Letta non ha voluto o saputo fare, impoverire ulteriormente il paese. C’è un altro grosso problema che l’Italia vuole esorcizzare; e cerca di allontanare il più possibile le elezioni: la paura che l’antipolitica consegni il paese a formazioni populistiche di nessuna tradizione europeistica, che avrebbe l’effetto di allontanare l’Italia dall’Europa con conseguenze imprevedibili. Non si ha paura di una deriva di tipo peronista o peggio, della quale non si riesce neppure a ipotizzarne l’evento e il profilo; si ha paura del buio che si sta infittendo. In Italia la crisi ormai la si tocca con mano, ma non siamo ancora arrivati all’infelice ipotesi di dover ritoccare le pensioni, come è accaduto in Grecia. Finora è stato grazie alle pensioni se le famiglie hanno potuto rendere meno crudi i morsi morali e materiali della disoccupazione di tanti giovani. Se si arriverà – e Dio non voglia che accada – alla decurtazione delle pur misere pensioni, allora non ci sarà cattolicesimo o vecchiaia di popolo che tengano, non basteranno imbonitori e svariatori vari, allora accadranno cose molto brutte. Il coraggio degli italiani non è nella testa o nel cuore, è nella pancia.


Contemporanea

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n questi giorni, alcuni studiosi stanno portando avanti la campagna europea per il rilancio del riso Ogm, il “golden rice”. Indubbiamente, questa pianta modificata mediante tecniche biotecnologiche contiene al suo interno betacarotene. Si potrebbero sfamare, nei Paesi più depressi, milioni di poveri, che attualmente muoiono per carenza di vitamina A o soffrono di gravi patologie oculari fino alla cecità. I promotori dell’iniziativa si rivolgono alle associazioni ambientaliste affinché almeno il “golden rice” “sia esentato dalla politica di tolleranza zero verso le piante transgeniche”. Il dibattito sugli Organismi geneticamente modificati continua senza sosta. Greenpeace, altre associazioni, diversi biologi, sostengono che le piante geneticamente modificate possano “infettare” gli ecosistemi e, soprattutto, temono che i brevetti diventino monopolio di poche privilegiate multinazionali. Nel mondo scientifico, c’è invece chi ritiene che finora abbiamo assistito ad un dibattito truccato, ideologico. Difatti, c’è chi afferma che i rischi di contaminazione ambientale e di “inquinamento” siano solo apparenti, dal momento che il flusso artificiale di geni nell’ambiente è in atto da secoli. Da sempre in Natura assistiamo alla interazione fra il Dna di specie diverse. Due scuole di pensiero si contrappongono. La biologa e divulgatrice scientifica Anna Meldolesi è favorevole da sempre, senza riserve, alla nuova scommessa biotecnologica. Già nel suo saggio del 2001 “Organismi geneticamente modificati” scriveva che qualcuno è interessato a diffondere notizie distorte o peggio fasulle, mezze verità, dati pseudoscientifici e previsioni catastrofiche. “La lotta contro la minaccia dei semi transgenici (innocui) ha oscurato e messo in un angolo emergenze ambientali

L’etica e il cibo di Marcello Buttazzo

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assai più urgenti, fino a diventare il primo punto dell’agenda di verdi ed ecologisti”, scriveva Meldolesi. La politica, in Italia e in Europa, di sinistra e di destra, non è stata, in questi anni, in grado di discernere saggiamente la questione e, di fronte ad una opinione pubblica preoccupata, al cospetto di timori di vario tipo, ha saputo solo promuovere moratorie sui prodotti dell’ingegneria genetica vegetale. In particolare, nel nostro Paese, la politica dominante non ha mai dato troppo rilevanza ai fatti

della scienza, considerata come un’ancella. Meldolesi e altri studiosi continuano a battersi con pervicacia per dimostrare come la diatriba su organismi e alimenti transgenici sia rimasta “prigioniera di slogan e di affermazioni che non reggono all’esame della scienza”. Purtuttavia, non si può essere categorici, e il principio di precauzione, cui s’appellano gli ambientalisti, non è giusto liquidarlo quasi fosse una “scimitarra ideologica”. Ed ancora, gli attivisti di sinistra che accusato la condotta

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vorace e spregiudicata delle multinazionali delle sementi hanno le loro ragioni. È necessario spostarsi dal piano tecnico-scientifico a quello economico. Il neuroscienziato Alberto Oliverio rileva che in USA quasi tutta la popolazione si è nutrita e si nutre di alimenti in cui sono presenti Ogm; e anche in Europa molti di noi avranno inconsapevolmente usato prodotti alimentari contenenti Ogm. Il professore Oliverio sostiene che “non è facile discutere sui vantaggi o sugli svantaggi delle sementi ingegnerizzate quando non esistono le premesse per una discussione svincolata dal peso delle multinazionali”. Fuori dalla diatriba scientifica, da comuni cittadini possiamo notare che qualche problema sussiste. Soprattutto, sul versante politico ed economico. Una moderna rivoluzione tecnologica deve, comunque, essere sottoposta ad una rigorosa regolamentazione normativa a seconda delle esigenze dei vari Paesi. E, soprattutto, accertata irrefutabilmente la non nocività di certe prodotti della ingegneria genetica vegetale, è necessario più che mai che gli Stati esercitino una sorta di controllo stringente sui brevetti. Non è eticamente sostenibile che una ristrettissima élite di persone diventi, di fatto, economicamente proprietaria della Natura e effettui sfrontatamente una colonizzazione dei Paesi del Terzo Mondo, obbedendo a piattaforme rapinose e di spoliazione. Se però ci dovessero essere riscontri severi e serrati, se si riuscisse a depotenziare lo strapotere delle potentissime multinazionali, se l’obiettivo manifesto e autentico fosse quello di sanare le sperequazioni fra Paesi ricchi e Paesi a sud del mondo, si potrebbe senz’altro accogliere l’appello accorato di alcuni scienziati: “Chiediamo a Greenpeace e ai suoi alleati di permettere un’accezione umanitaria alla loro politica di tolleranza zero sulla modifica tramite ingegneria genetica”.


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Memoria

Lo scorso 11 febbraio a Uggiano La Chiesa la commemorazione del naufragio nel mare di Rodi della motonave italiana, persero la vita 4163 marinai

Il piroscafo Oria,

un re che fugge e una tragedia

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to 12 febbraio una tempesta colossale fece perdere il governo della nave. “Colto da una tempesta, il piroscafo affondò presso Capo Sounion, dopo essersi incagliato nei bassi fondali prospicienti l’isola di Patroklos (in Italia erroneamente nota col nome di isola di Goidano). I soccorsi, ostacolati dalle pessime condizioni meteo, consentirono di salvare solo 37 italiani, 6 tedeschi, un greco, 5 uomini dell'equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina”.

Uggiano La Chiesa l’11 febbraio è stato giorno di commemorazione. Nella sala consigliare dedicata a Sandro Pertini c’era un sacco di gente, e c’erano molte fasce tricolori dei sindaci dei paesi vicini. Il primo impatto è stato veramente emozionante, vedere la fotografia di Pertini era rassicurante. Non immagini della decadenza dell’etica in politica, ma lui, il Presidente che ancora amiamo e che veramente oggi manca molto. Vederlo là e pensare a come i suoi successori hanno ridotto l’Italia la prima parola che salta in mente è “scusaci!” La commemorazione e il ricordo erano nell’anniversario del naufragio della motonave Oria nella quale morirono 4163 soldati italiani diventati IMI per i nazisti. L’otto settembre 1943 fu un momento tragico per l’Italia e per l’esercito tutto. Il regime cadde, il re e la sua corte non pensarono di meglio che fuggire precipitosamente e vilmente, i militari mandati a fare improbabili guerre e invasioni si trovarono sbandati, senza guida, senza ordini e decisero, dovettero farlo, da che parte stare, se con i loro “alleati” nazisti o contro di loro. Furono giorni di tragedia. In particolare in Grecia si trovavano allora circa 80.000 soldati italiani. Moltissimi decisero di rimanere fedeli al re e di non sottostare agli ordini del nuovo nemico tedesco. Fu ritorsione, moltissimi vennero prelevati e mandati nei campi di concentramento diventando IMI (Internati Militari Italiani), dicitura ideata per scavalcare le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra. Per farlo venne utilizzato ogni tipo di mezzo disponibile, soprattutto navi anche

Il monumento commemorativo dei caduti dell’Oria

da carico sulle quali i prigionieri vennero stipati come sardine. Il bilancio fu drammatico, i naufragi e affondamenti da parte alleata ad oggi noti sono i seguenti (Fonte: Mare Nostrum Rapallo): Il 23 settembre 1943, si registra il naufragio a Rodi della Donizetti, gli imbarcati erano 1835, i morti furono 1584. Il 28 settembre ‘43 a Cefalonia, tocca all’Ardena, 840 gli imbarcati, 720 i morti. L’11 ottobre ‘43 a Corfù, naufraga il Rosselli, 5500 gli imbarcati, 1300 i morti. Due giorni dopo, il 13 ottobre ‘43 a Cefalonia è il Marguerita ad affondare, 900 erano gli imbarcati, 544 i morti. Il 18 ottobre ‘43 a Creta, fa naufragio il Sinfra 2390 imbar-

Quei morti, in particolare i 121 salentini sono stati ricordati a Uggiano. I 121 erano originari di: Acquarica del Capo, Alezio, Alliste, Aradeo, Arnesano, Botrugno, Calmiera, Campi Salentina, Cannole, Caprarica di Lecce, Carmiano, Casarano, Castrì, Castrignano dei Greci, Castrignano del Capo, Copertino, Corigliano d’Otranto, Cursi, Cutrofiano, Diso, Galatina, Gallipoli, Guagnano, Lecce, Lequile, Leverano, Lizzanello, Maglie, Martano, Martignano, Matino, Melissano, Minervino di Lecce, Nardò, Novoli, Parabita, Poggiardo, Presicce, Racale, Sanarica, San Donato di Lecce, San Pietro in Lama, Seclì, Soleto, Specchia, Spongano, Squinzano, Sternatia, Supersano, Surbo, Taurisano, Taviano, Trepuzzi, Tricase, Tuglie, Ugento, Uggiano La Chiesa, Veglie, Vernole. Tutti ragazzi sui vent’anni, caduti e rimasti senza ricordo per troppi anni, senza commemorazione alcuna. Dei silenzi colpevoli sulla tragedia ancora ci si interroga, nonostante i resoconti dettagliati dei superstiti non se ne parlò per lunghissimi anni.

cati, 1850 i morti. L’ 8 novembre ‘44, ancora a Creta tocca al Petrella 3173 imbarcati, in 2646 persero la vita. Il 12 novembre ‘44 a Rodi, naufraga l’Oria 4200 gli imbarcati in 4163 persero la vita. Il 22 novembre ‘44, non si sa dove scompare l’Alma 300 erano gli imbarcati in 150 persero la vita. *** In particolare della motonave Oria poco si seppe per molti anni, ancora oggi troppi sono i dispersi, forse seppelliti nello scafo, almeno in quel che ne riIl sito di chi cerca ancora una mane dopo il prelievo del ferro, verità è il seguente: nel 1955, da parte di palombari www.piroscafooria.it greci. Quello che è certo è che dei 4200 imbarcati italiani, di Gianni Ferraris 4163 morirono. Quel maledet-


Appuntazzi Gianluca Costantini ci poerta nel Teatro di Luzzara

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Letture

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ome un angelo Antonio Errico mi ha preso per la mano e condotto nel mondo dei poeti, quelli veri che ancora oggi pur non essendoci più, li senti parlare, raccontare la loro vita, la loro poesia. Sono in “Angeli regolari” ed è subito emozione. Mi affondo nella poesia maledetta di Salvatore Toma: “maledetta” perché ha avuto la colpa di essere stata amata sino alla vita e ormai fino alla morte. «Toma registra, testimonia i suoi tentativi di far coincidere la vita e la poesia, di far aderire i segni alle cose, di ridurre - nell'impossibilità di eliminare - il grado di finzione che l'atto poetico pretende e impone. Ed è proprio nel momento in cui la finzione risulta ridotta al minimo che si verifica l'azzeramento della differenza tra l'uomo e il poeta». E Salvatore Toma era un uomo-poeta. Non possiamo nasconderci dietro un dito, l'ipocrisia sì è stata tanta, le menzogne, le finzioni, i moralismi, e quest'ultimo l'aveva conosciuta bene a suo danno, come lo stesso Antonio Verri, Claudia Ruggeri da uomini-poeti soli profondamente soli lasciati all'incuria del tempo anche dopo averci lasciato. Ma voglio credere che gli angeli non ci lasciano mai, che esistono, come i demoni, sono accanto a noi, osservano, forse a volte si prendono beffa di chi dall'alto del suo scanno accademico dà lezioni di poesia. Cos'è la poesia? Si può dire tutto, si può tacere, si può ricorrere ad esempi o semplicemente far parlare i versi di chi con il sangue gli hanno scritti. Ho avuto una disquisizione sul concetto di poesia secondo il quale la poesia è equilibrio, è ragione, è tecnica. Non ci sto, non credo sia questo altrimenti le poesie di Toma, Ruggeri, Verri, Merini e molti altri andrebbero al macero. Dov'è la ragione? Non si può distinguere, non ci può essere equilibrio, in ogni grandezza deve esserci il genio della follia. E quanta voglia di conoscere i folli, gli angeli, quanta ricchezza! Senza dubbio, innegabile è lo studio, la conoscenza. Insomma non stiamo parlando di improvvisati o sprovveduti, ma di uomini - forse fragili - che hanno dato la vita per la poesia. Così di Verri scrive Antonio Errico: «Come ogni scrittore che non sa distinguere tra la vita e la scrittura, Verri aveva già visto oltre il suo presente, aveva già visto tutto il suo futuro. Chissà se quel-

Angeli regolari

Un pamphlet di Antonio Errico edito nel 2002 da QuiSalento di Alessandra Peluso

Ad illustrare una fotografia di Fulvio Attanasio (Skunky)

la notte pensò la sua scrittura, se la morte gli somigliò alle storie profumate, al miglio stompato, ai crateri del cuore, ai gesti teneri e scoperti del padre, ai suoi corti avvisi, al pane sotto la neve. Antonio Verri il padre di una generazione stupenda che non ha vinto nulla, né cattedre, né premi, né mortadella alla cuccagna, perché non ha saputo vendere parole al mercato dell'usato, perché non ha voluto arrampicarsi al palo ingrassato». E questa è onestà, dignità, libertà che sono costate carissime, la stessa vita. Nel mentre del cammino come Dante mi ritrovo nel bel mezzo del percorso, a mandar giù bocconi amari e sento sgorgare lacrime. Leggo: «Il volto ha la bellezza

del dolore: la bellezza assoluta dell'assoluto dolore che si stringe, si raggruma tutto dentro la pupilla, quella bellezza spaurita dal dolore del tempo, dell'uomo, della memoria, della follia, della ragione perduta, della parola che fiotta, che scende nell'abisso, … ». Non sono sola, Antonio mi conduce a conoscere anche la straordinaria Alda Merini, lei che ha scritto di cose che “sfondano i confini dell'ordinario, che sfidano, violano l'ordinarietà del senso, la banalità de senso. (…) Che deragliano. Provocano vertigini”. Ed è follia in vorticosi percorsi. Poesia, follia, amore, dolore. La poesia per Alda Merini è questo, è come una gravidanza, è un pulsare del sangue, è una narrazione dell'io profondo, è l'ascolto, il parlare, un dialogo infinito.

Non ascoltarla è blasfemia! C'è poi la poesia di lotta di Vittorio Fiore che sapeva raccontare del meridione perché vissuto sulla propria pelle. C'è ancora lo scorrere della vita, i battiti che pulsano intensi acuti a tratti si sentono delicati e il pulsare della vita, il fiume della poesia, appare impossibile da arginare. Mentre mi ritrovo ahimè alla conclusione di questo percorso e ringrazio Antonio Errico. Le sue parole incisive come lama di coltello hanno arricchito spirito e mente che nemmeno il tempo cancellerà, oramai fanno parte della materia incandescente della vita. Un grazie infinito ai POETI, agli Angeli regolari e irregolari, alla loro POESIA.


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Arte

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rtista discreto e raffinato, Cesare Piscopo di Parabita unisce alla pittura e alla scultura la passione per la poesia . Figlio di Giuseppe,anch’egli artista molto noto ed amato da pubblico e critica, Cesare Piscopo, nato nel 1947, laureato presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, già insegnante di Arte e Immagine nella Scuola Media Statale, ha compiuto viaggi di studio in molte città italiane ed europee. Cesare, da giovanissimo, ha contribuito agli scavi effettuati nella Grotta delle Veneri, a Parabita, sotto la guida del padre Giuseppe, scopritore delle due famosissime statuette in osso risalenti al Paleolitico Superiore (Sulla presenza dell’uomo di Neanderthal nel territorio di Parabita, fin dal Paleolitico Medio,80.000-35.000 a.C., segnalo il recente opuscolo “Parabita antiche presenze” di Irene D’Antico, edito da Il Laboratorio 2013). (...) Nel suo piccolo laboratorio nel centro storico di Parabita, con la silenziosa ma preziosa guida dello stesso autore, ammiro le opere di Piscopo, ed è come un tuffo in un mare di colore: il colore soprattutto, fra disegni a tempera e inchiostro, collages, olii, acrilici, ma anche il mare, principale fonte di ispirazione e oggetto della sua ricerca pittorica; mi immergo in un universo multiforme che ha nel cromatismo dei suoi voluttuosi gialli, rossi, blu e arancio il punto forte. Chiaro che il genere pittorico nel quale Piscopo viene convenzionalmente inserito sia l’Espressionismo. Ma la calda cromia delle sue tele conferisce all’autore una cifra stilistica personale e rende il segno di Piscopo del tutto riconoscibile. ll suo antifigurativismo porta direttamente all’essenza delle cose come l’osservatore le percepisce, ed è tutta qui, infatti, la carica emozionale dei suoi dipinti, nella percezione di chi li guarda. I sui colori sembrano parlare all’inconscio. E d’altra parte, non è poi l’inconscio il campo d’indagine privilegiato di quel movimento artistico, appunto l’Espressionismo, nato ai primi del Novecento in Francia con il fauvismo e in Germania con il gruppo Die Brücke? Le sue tele, con il loro valore polisemantico, accendono l’immaginazione di chi le ammira, dandogli l’abbrivio per fantastici viaggi emozionali, solo a volersi fare trasportare dalla sua arte astratta e del pari cogliere le numerose suggestioni e le associazioni di idee, insomma le corrispondenze, che essa offre. Oltre che con l’olio e la tempera e le altre tecniche succitate, Piscopo realizza con la tecnica mista. Il mare, dicevo, e i paesaggi salentini occupano gran parte della produzione degli ultimi anni. Ci fa sapere Cesare Piscopo: “Scrivere una poesia o dipingere un paesaggio traendo ispirazione dal mare (e in genere dalla Natura), rappresenta per me una triplice esperienza: visiva emotiva intuitiva. Io tento di dare forma a questa mia esperienza, trasfigurando la realtà e rendendo il paesaggio un soggetto in grado di comunicare una particolare visione del mondo. Baudelaire ha scritto:’ Uomo libero,

spagine

Cesare Piscopo pittore, scultore e poeta

Un’opera grafica di Cesare Piscopo

Con la

natura di Paolo Vincenti

amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio, tu contempli la tua anima nell'infinito svolgersi dell'onda’. Il mare è anche la mia storia, la mia esperienza, un brano di me stesso: lo specchio della mia anima!” Ma da artista alquanto versatile, Piscopo ha realizzato di tutto nel corso della sua fortunata carriera. Un altro ciclo pittorico degno di nota è quello delle figure umane. Si tratta di “un viaggio all’interno dell’uomo, alla ricerca di quel ‘lato nascosto’ della natura umana, a volte sconcertante ed imprevedibile, in cui si addensano le disarmonie, le contraddizioni e la frammentarietà che caratterizzano il mondo in cui viviamo.” Inoltre i collages, che sono costituiti da frammenti di disegni ed acrilico, a volte strappati, a volte sovrapposti,per rendere l’idea di un caos che regni informe e che è metafora della vita sbandata di questi anni frastagliati. Da qualche tempo poi egli realizza delle piccole sculture antropomorfe in terracotta policroma. Alcune figure ricordano i graffiti rupestri dei primi insediamenti umani preistorici. A volte, a muovere la creatività di Piscopo non è il pennello ma la penna. E nascono così le sue raccolte poetiche. Egli ha pubblicato: Fili d'erba" (1996), "Dal profondo Sud" (1998),con Prefazione di Mario De Marco, “Il mare dell’amore” (2006), “Messaggi dal mare” (2007) e l’anto-

logia “Sotto le silenziose nuvole un mare di pensieri” (2009),che è una summa della sua produzione precedente. Molte poesie inedite compaiono in questi ultimi anni sul suo blog (Comunicare attraverso l’arte) e sul suo profilo facebook. In occasione della mostra personale di pittura tenuta al Palazzo “Comi” di Lucugnano, dal 7 al 21 agosto 2005, venne pubblicato il libro “Cesare Piscopo. Il paesaggio – la luce della poesia”, a cura di Angela Serafino, edito da Il Raggio Verde con il contributo della Provincia di Lecce. L’amore per la propria donna è la tematica che cementa quasi tutta la sua produzione poetica, che consta di componimenti brevi, di pochi versi, che con il loro detto occupano preferibilmente la parte centrale della pagina, lasciando al vuoto del resto della pagina il compito di comunicare il non detto attraverso il bianco immacolato che vi si dipana. Sono poesie brevi nell’estensione (oligóstichos, secondo l’insegnamento di Callimaco e della poesia alessandrina) ma estremamente rifinite, di un lirismo delicato, soffuso eppure intenso. L’altra tematica che lega insieme pittura e poesia in Piscopo è l’amore per il Salento, un amore forte, intenso, vibrante e incontrastato. Un amore che dà poesia alle sue pennellate , che dà colore alle sue poesie. L’amore per il Salento, per il mare ed il cielo, spesso

saldati insieme in un tutt’uno (la loro compenetrazione è talmente forte che curiosamente lo stesso Piscopo, nel sistemare una tela sul cavalletto ne sbaglia il verso e poi la rigira), per l’architettura delle sue tipiche abitazioni rurali, per i suoi angoli nascosti, i suoi ulivi e le sue pietre. Ma, i suoi, sono paesaggi dell’anima, ancora riconoscibili nelle tipiche volute dell’ambiente salentino, ma al tempo stesso appena accennati, frutto di una sua intima visione, trasfigurati dalla sensibilità dell’artista che è astrattista un attimo dopo che paesaggista. I paesaggi che sono nelle sue opere, quindi, è come se offrissero soltanto lo spunto all’osservatore per andare oltre, per poi approfondire la visione. L’artista mira ad offrire suggestioni attraverso la disarticolazione dei campi visivi, il gioco dei pieni e dei vuoti, dei chiaroscuri, ed i contrasti fra opposti, e come lo stesso artista spiega: “Il mio punto di riferimento è la natura come vista attraverso una lente che dissolve le forme, svuotando le masse e, a volte, abbattendo ogni residuo mimetico.. affido al colore la liricità dei miei sentimenti… La natura è colore; il colore crea: la forma e l’informe, la luce e l’oscurità, la profondità e la superficie, il pieno e il vuoto, l’essenza e la provvisorietà, armonie e disarmonie”. Nell’informale egli realizza la propria idea del mondo, fra sogno e realtà, alfa e omega, edenica terra di sogno in certe sue visioni estatiche, e infernale guazzabuglio in altre di angoscia ed inquietudine. Un gioco di contrasti, insomma, in cui la creatività dell’artista deflagra in una esplosione quasi mistica di rosa, neri, bianchi, marroni, in una commistione di reale ed irreale, finito ed infinito, che porta ad un dinamismo ardimentoso per gli occhi eppure estatico per lo spirito, inquieto eppure ossimoricamente disarmante, comunque coinvolgente. Ma lasciamo che a parlare sia lo stesso artista: “Nella mia produzione pittorica sono interessato soprattutto a dare ‘forma’ ad un contenuto essenziale della Natura (il fondo primitivo da cui hanno origine esseri e cose), in una sorta di panica immedesimazione. In sostanza io miro ad esprimere, in strutture vaghe ed allusive, le emozioni suscitate dagli aspetti naturali, sostituendo alla rappresentazione diretta e ben leggibile del motivo una sua emblematica, liberissima rievocazione. Nelle mie composizioni il colore ha valore di spirito e materia al tempo stesso. Esso, oltre a trasmettere emozioni e sensazioni, ha una molteplice funzione: sono soprattutto le variazioni cromatiche a suggerire le forme (indeterminate), lo spazio (in espansione), il movimento (vitalità) e l’intensità della luce (che raggiunge nel bianco valori assoluti)”.(...) Così l’incontro con Cesare Piscopo, compiuta la mia personale iniziazione al suo m(ag)istero artistico, e con gli occhi abbarbagliati da quelle esplosioni luminescenti, termina in spontaneità e semplicità, proprio come era iniziato. http://cesare-piscopo.blogspot.it


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Libri

Da Musicaos:Ed l’esordio narrativo Gianluca Conte

Cani acerbi

L

a maturazione è delicato. affare Specialmente in Tempo questo strano e difficile. Che viene amplificato oltre modo. A vantaggio esclusivo di un’esigua rappresentanza della razza umana (che d’umano han solo l’appartenenza alla razza). La scrittura è affare delicato. Specialmente in questo Tempo fatto di parole (comunque impresse). E, rammento a me stesso, ognuno ne ha in dotazione un certo numero (sarebbe cosa buona imparare a spenderle bene). Il romanzo è affare delicato. Specialmente in questo Tempo di morti certe e resurrezioni impossibili. Anche i tuttologi creperanno e bisogna prepararsi (non certo chi già ha iniziato) a fare quel che si sa. Nel miglior modo possibile. La mistificazione va in scena ogni giorno, senza soluzione di continuità. E, ogni giorno, diventa sempre più arduo distinguere il falso dal vero. La messinscena dalla verità. La montatura dalla realtà. Si contrabbanda per autentico ciò ch’è ingannevole. Si è elevato a valore tanto conformismo fariseo. Basta saperlo vendere. C’è una sì larga diffusione d’un’ormai abitudine di pensare e agire ipocrita, capovolgendo merito e inettitudine (sacrificando il primo e premiando la seconda), ch’è diventato quotidiano modus operandi per i più, riflesso dell’attuale sistema corrotto in dispregio del Buon Sistema (quello ch’è modello irraggiungibile - forse -, ma verso cui almeno si credeva di poter tendere… quello che dovrebbe offrire la migliore delle occasioni di realizzazione a ognuno…), al punto che nemmeno i disastri riescono più a ristabilire giuste distanze, nell’annullamento d’ogni distanza e nella fondazione d’un’altra misura. Una nuova misura. Una misura capace di contenere ragione e sentimento. Data per tutti. Valida per ciascuno. Ogni disastro sembra vano. Le rovine non si conta-

no più. Eppure non bastano mai. Si smuove tutto. Tranne quell’aberrazione di pensiero. E allora, forse, sarà necessario qualcosa di più forte, di più potente, di più deflagrante… E restano qui. Aspettando il cataclisma ultimo. Che maturi la fine. Noi, invece, cani acerbi, eruttiamo morchia e contumelie sui vatuttobene scodinzolanti al dio potere (ciecamente osannato). Che li rende sempre più sudditi. Col biscottino tintinnante. Il soldo del coglione. Matureremo mai? Noi. Cani acerbi. Prima della parola ultima. Prima della parola fine. E, se diventeremo cani maturi, avremmo paura di sentirci additati come rabbiosi? Anche dai nostri simili. Non solo da chi ci vuole mansueti e obbedienti all’ennesimo spot. Oppure latreremo la nostra canzone e ne faremo accordi armoniosi e forti e potenti da farla diventare hit per le radio di tutta questa sfasciata Terra che la manderanno nell’etere e, traverso il quinto elemento, girare di sua incorruttibilità e - di tal sostanza - dai corpi celesti, dal cielo della luna e da quello delle stelle fisse, tornare come pioggia qui… dove cittu significa zitto e picciu vuol dire capriccio, dove certe cose accadono dalla sera alla mattina e non dalla mattina alla sera, dove un solo incubo sembra cancellare tutti i sogni, dove un sogno può vincere tutti gli incubi, dove un sì insieme a un altro sì son due anime che si fondono per sempre e diventano uno per l’eternità che, a ben pensare (ma anche a ben vedere), è la più bella realtà (mi chiedo se chiudere con un altro ? oppure mettere un ! poi decido un semplice ma determinato punto). Ecco. E, fin qui, avrò pure sproloquiato o, nella migliore delle ipotesi per lo sfortunato lettore, fornito un’immagine visionaria e molto (in fine) ottimistica (per non dire utopica - ché mo’ - aggettivando in maniera non ortodossa, ma comunque corretta - voglio essere arcaico! -) dell’epilogo del vi-

La copertina del libro

vere in questo in questo momento storico ma tale mio stato e conseguenze sono scaturite dalla lettura di un libro. Prima di dirvi quale vi tocca un’altra breve digressione: nelle ultime settimane ho accumulato sul comodino e altrove almeno una ventina di testi: ho completato la lettura (io che, di solito, sono un lettore feroce) soltanto di “Stoner”, di John Williams: un gran bel romanzo… Ho scritto ancora meno… Ma il libro di cui sto per dirvi l’ho divorato a pagine lente. Colto l’ossimoro? Ebbene, sì: l’ho letto in poche ore: ché l’aspettavo! Nel contempo ci ho messo tutto il tempo necessario. Ché “Cani acerbi” è un romanzo (per quanto anomalo) che rapisce (incuriosisce tanto da voler giungere subito all’ultima pagina), epperò detta da sé il tempo, ch’è un tempo lento, ché a ogni pagina c’è qualcosa che suscita e impone riflessione. È un ottimo esordio questo per il suo Autore, Gianluca Conte, poeta e operatore culturale di lungo corso, alle prese con una prosa che sa più di racconto lungo che di romanzo, ma che rivela una sapienza nell’uso della lingua notevole e una capacità nella

di Vito Antonio Conte

contaminazione dei linguaggi da vero e proprio studioso della comunicazione. La storia, con tutte le storie che contiene, è di quelle che sembrano chiudersi all’ultima pagina, invece rimangono aperte, ché lasciano al lettore una sola risposta e molte domande. Mai banali. C’è, invero, una gran bella risposta… e ci sono molti interrogativi… che potrete scoprire solo leggendo... vi assicuro che la lettura riserva molte sorprese, ché la scrittura di Gianluca Conte è, all’un tempo, incazzata colta e esilarante. Ma soprattutto “Cani acerbi” è una narrazione del nostro Tempo resa con una prosa ch’è figlia della poesia: voglio dire che si nota quando un poeta scrive in prosa: la prosa del poeta Gianluca Conte è asciutta e ricercata, come di chi facendo versi ha imparato a dire molto col minor numero di parole possibile e, soprattutto, cercando e trovando l’unica parola per dar corpo a un’emozione, a uno stato, a un sentire, a un vissuto, a un desiderio, a una denuncia…, come di chi sa che nella scrittura (come nell’esistenza) è fondamentale sottrarre… Del libro, quale oggetto, devo dire ch’è ben confezionato e gradevole da tenere tra le mani: merito dell’Editore: MUSICAOS:ED (sviluppo della nota rivista on line… e di molti titoli di ebook), che, nell’edizione cartacea, Collana SMARTLIT, conta due titoli (usciti i questo mese): quello di cui è qui parola e “Il romanzo osceno di Fabio” di Luciano Pagano, e altri ne promette. Aggiungo che la copertina (da una foto di Mirna e Martina Marić) è splendida (per bellezza) nella sua ambivalente e contraddittoria forza inquietante-rassicurante. Alla neonata Casa Editrice, a Luciano Pagano e a Gianluca Conte il mio bene che, tradotto con le parole di John Cassavetes, diventa un auspicio: possiate essere quel che volete, sempre col pazzo desiderio di esprimere voi stessi in modo completo, assoluto.


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L'arte di costruire la città Scultura barocca in Terra d’Otranto, Ambrogio Martinelli

P

otrebbe essere di Ambrogio Martinelli (Copertino 1616 – 1684) l'altare dedicato alla “Strage degli Innocenti” (Fig. 1) o più semplicemente degli “Innocenti”, il terzo della navata sinistra entrando nella chiesa di santa Maria degli Angeli a Lecce. Tale opera è uno degli esempi più interessanti della locale scultura barocca non solo dal punto di vista iconografico ma anche perché, ancora oggi, ha quasi interamente il suo aspetto originario; eccetto la mensa, infatti, tutto il resto (incluso forse anche il quadro), è così come fu voluto dal committente all'epoca della sua “fondazione” nel 1648. L'altare è stato attribuito fino ad oggi dalla storiografia allo scultore leccese G. C. Penna (1607 – 1653 circa) basandosi semplicemente sul fatto che questo artista è soltanto citato fra i testimoni dell'atto notarile di “fondazione” dell'altare. Questa presenza non è da sola sufficiente però per attribuire l'opera ed è necessario, pertanto, un approfondimento di tipo stilistico. Sono state a tal proposito considerate tutte le opere (autografe e più certe) oggi note di G. C. Penna con l'intento di comprendere se effettivamente questo scultore leccese possa avere materialmente realizzato tale altare. *** L'analisi stilistica conseguente all'operazione di catalogazione consente di rilevare una differenza fra l'altare degli Innocenti e il normale, consueto agire scultoreo di G. C. Penna. Si è deciso perciò di ampliare la ricerca ipotizzando che l'autore dell'altare potesse essere stato qualcun altro. Fatte le debite catalogazioni e indagini archivistiche, fra tutti gli scultori identificati, quello che più si avvicina ai modi esecutivi visibili sull'altare degli Innocenti, per esempio quelli rilevabili nei volti delle figure, sembrerebbe A. Martinelli. A tal proposito si sono considerate anche in questo caso tutte le opere oggi note del copertinese e, in particolare, due autografe: l'altare di sant'Antonio di Padova nella omonima chiesa conventuale francescana in Alessano (Lecce) - datato 1652, sarebbe la realizzazione più antica oggi nota dello scultore - e l'apparato decorativo del portale datato 1658 - della matrice di Campi Salentina (Lecce). La figura 2 è particolarmente utile per comprendere l'attribuzione qui proposta ad A. Martinelli: a sinistra, altare degli Innocenti (A. Martinelli, attr., 1648 circa), particolare A: colonna sinistra, lato destro; a destra, altare di sant'Antonio di Padova (Alessano, chiesa di sant'Antonio di Padova, A. Martinelli, opera autografa datata 1652), particolare B: volto centrale immediatamente sopra la nicchia con il Santo; al centro in basso, facciata superiore di Santa Croce (G. C. Penna, opera autografa datata 1646), particolare C: parte centra-

L’altare

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Lecce, 16 febbraio 2014 - spagine n° 0 - della domenica 17

degli Innocenti di Fabio A. Grasso

le del fregio con l'iscrizione “MATTEO” putto a sinistra delle lettere “TT”. *** Confrontare i volti di A. Martinelli (portale, Campi Salentina; altare, Alessano) con i motivi analoghi presenti sull'altare degli Innocenti sembrerebbe chiarire la paternità esecutiva di quest'ultima opera. L'analisi e il confronto di queste sculture evidenzia un dettaglio formale che più degli altri sembra in questo senso particolarmente utile e determinante. Nel rendere l'espressività di un volto, lo scultore copertinese proietta la struttura degli occhi alle estremità del viso aumentando così la distanza interpupillare. Non si tratta di un errore anatomico ma della rappresentazione di un “tipo” che, a dimostrazione della sua importanza, sembra comparire con una frequenza significativa in tutte le opere fino ad oggi note (siano essi volti maschili, femminili, adulti, bambini, adolescenti e addirittura animali) dell'artista copertinese. Questo modo di scolpire gli occhi, ben visibile nella testa d'angelo che è al centro dell'architrave dell'altare degli Innocenti (si vedano, però, anche i volti nei capitelli delle due colonne frontali), è una caratteristica che non si osserva, invece, nelle opere di G. C. Penna tranne forse in un caso, quello di un volto bifronte in palazzo Della Marra dovuto, però, più al fatto che tale profilo scolpito è strettamente addossato al muro che non a una ben precisa volontà di forma. *** Se l'attribuzione ad A. Martinelli dell'altare degli Innocenti fosse ulteriormente confermata si potrebbe affermare non solo di avere identificato dello scultore copertinese l'opera attualmente più antica ma anche forse addirittura l'unica oggi presente in una chiesa leccese. Altre opere probabili di questo artista nelle vicinanze di Lecce potrebbero essere (lo stato conservativo non ne consente una lettura di qualità) le statue, raffiguranti l'una san Pietro e l'altra san Paolo, visibili adesso in due nicchie rispettivamente a sinistra e destra della porta maggiore dell'odierna Matrice di San Pietro in Lama (Lecce). La presenza di A. Martinelli in quest'ultima città è attestata anche da una statua di San Nicola di Bari posta oggi nell'atrio della casa parrocchiale.

L’altare in Santa Maria degli Angeli, sotto i confronti tra i volti degli angeli


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Copertina Proseguono gli appuntamenti della rassegna Washing by watch alla Lavanderia Jefferson. Oggi, domenica 16, l’ospite è Michele Cera L’appuntamento è al civico 21 in via Reale a Lecce dalle 19 in poi

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Noi e l’intorno I

l paesaggio al centro: ruota attorno a questo tema il calendario di incontri ragionato dalle curatrici Valeria Raho e Francesca De Filippi per Washing by watch, la rassegna di videoarte e photo screening in cui si discutere di progetti intermediali indipendenti in ambito nazionale ed internazionale in una location d’eccezione, la Lavanderia Jefferson di Lecce. La rassegna, promossa dall’associazione DamageGood in collaborazione con Collaboratori Particolari, prevede screening mirati a fare il punto sulle nuove tendenze dell’arte contemporanea, nel video e nella fotografia. Lo strumento cardine degli incontri è soprattutto il talk informale con l’autore, protagonista dell’evento, in grado di fornire supporto critico e informativo non solo agli appassionati dei due media, ma anche ai neofiti e ai semplici curiosi della materia. *** Ospite del sesto ciclo Michele Cera, classe 1973 e nato a Bari, è riconosciuto come uno degli eredi dei maestri della fo-

tografia italiana di paesaggio. Appartiene a quella nuova generazione di autori che indaga i cambiamenti endemici e strutturali del territorio che conducono alla nascita di nuovi paesaggi, caratterizzati spesso da un'architettura anonima, priva di stimoli, e dall'espandersi incontrollato delle città. Provenendo da una formazione tecnico scientifica derivata dagli studi universitari in ingegneria con specializzazione in urbanistica, il lavoro di Cera è incentrato sull'analisi del paesaggio contemporaneo e degli insediamenti umani, di cui documenta le tracce e le contaminazioni edilizie, nel tentativo di rappresentare i diversi livelli che intervengono nella definizione del territorio. La sua è una poetica che riflette sulle interferenze che la nota definizione di “non luoghi” ha sulla qualità della vita sociale e sulla percezione dell’ambiente circostante. Parallelamente al suo percorso nel campo delle arti visive, Cera svolge da quasi dieci anni attività didattica e di divulgazione della fotografia d'autore: anche questi aspetti saranno

approfonditi nel corso dell’appuntamento in lavanderia. Per l’occasione sarà presentato “Dust”, suo progetto editoriale indipendente vincitore al SI Fest 2012 del premio Open Your Books, pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Kehrer, che raccoglie 37 fotografie scattate nel corso di svariati viaggi compiuti dall’autore in Albania. Nel dibattito sono previsti focus sul collettivo “Documentary Platform”, di cui è curatore e sull’attività di “LAB Laboratorio di Fotografia di Architettura e Paesaggio”. Prossimo appuntamento a febbraio domenica 23 con Daniele Guadalupi. A marzo, in programmazione video screening con Nico Angiuli e Sandro Mele. In lavorazione anche un evento speciale per la chiusura della rassegna. Gli appuntamenti sono in via Reale, sempre alle 19. Info e contatti: infodamagegood@gmail.com http://damagegood.tumblr.com http://www.urkaonline.it

Nella pagina fotografie di Michele Cera


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