Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri
della domenica 19- 2 marzo 2014 - anno 2 n. 0
spagine Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Lecce, 2 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 19
Diario politico
Matteo Renzi, è iniziata la gara a chi gli fa la festa
L’arrogante O
spite di Lilly Gruber su “La Sette” venerdì sera, 28 febbraio, c’era Paolo Crepet, lo psichiatra; si è detto entusiasta di Matteo Renzi e ha aggiunto di trovare insopportabile il fatto che lo si critichi. Perché tiene tanto all’ex sindaco di Firenze? Ma perché è giovane, ambizioso ed è fuori dei vecchi schemi di destra, di sinistra, che non significano più niente. Lasciamolo fare, non giudichiamolo prima che faccia; se poi sbaglia, ce ne facciamo una ragione. Questo l’assunto dello psichiatra, come se tutta l’Italia debba assistere – non si capisce il perché – alle performance di un novizio che gioca col fuoco e rischia d’incendiare la casa. Crepet avrebbe anche potuto spiegare, da psichiatra, perché Renzi si presenta in Senato con le mani in tasca, perché si mette in bocca ora la penna ora la cravatta. Maleducazione? Disagio? Che almeno lo psichiatra avesse dato una spiegazione, giusto per capire! Non so se Renzi sia contento di come la pensa Crepet nei suoi confronti e nei confronti dell’Italia. Fossi in lui, io mi preoccuperei. Non sono in lui; ma mi preoccupo lo stesso, in quanto parte infinitesimale dell’Italia. Renzi è come un giocatore di biliardo, che si prende burla degli altri giocatori; sbruffa: ora mi tiro questo ed ora mi tiro quest’altro, e puntualmente, benché non sappia tenere la stecca in mano, gli riescono i filotti dichiarati. Renzi fa filotto anche se colpisce la biglia con l’impugnatura della stecca. Al netto di una certa antipatia che si può legittimamente avere per un simile personaggio, velleitario di successo, arrogante e presuntuoso, ci sono ragioni politiche serie che mi convincono di preoccuparmi, solo nella mia dimensione di cittadino italiano che ama il proprio Paese, la propria società, la propria nazione; che ha un alto concetto dello Stato e della politica e che non la pensa come Crepet, ma sente di avere il diritto di impedire a Renzi di fare quello che gli passa per la mente sulla pelle degli al-
fa filotto di Gigi Montonato
Matteo Renzi
tri. Prima ragione di preoccupazione. Matteo Renzi è diventato capo del governo senza essere neppure deputato, senza essersi mai presentato a capo di un partito o di una coalizione per essere votato. Dunque, è espressione di un potere che non viene dal popolo, come democrazia vuole al suo livello più essenziale. Si dice: siamo in uno stato di eccezionalità, di emergenza, di crisi. E’ vero, ma perché ci si affida al primo sbruffone che si presenta senza avere i titoli? Titoli intendo legittimazione popolare, senza cui non si può parlare di democrazia? Renzi è stato voluto da un partito che ha, voto più voto meno, la stessa forza elettorale del Movimento 5 Stelle e del Centrodestra. Altro che premio di maggioranza, qui siamo in presenza di asso-raccogli-tutto. Seconda ragione di preoccu-
pazione. La sua nomina a capo del governo è una trovata di poteri, che non hanno volto, denominazione e responsabilità, i quali vogliono impedire al Paese di votare. Si dice: non c’è una legge elettorale che garantisca un esito utile alla formazione di un governo stabile e duraturo. Dobbiamo avere nostalgia di Andreotti e della sua filosofia del governare con la crisi? Il fatto è che la questione della legge elettorale è una colossale presa in giro. Non si può votare perché non c’è la legge ma non si fa la legge perché non si vuole votare. La tattica ricorda quella di Quinto Fabio Massimo, il cunctator, il famoso temporeggiatore che logorò Annibale, fino a quando non maturò Scipione a fare barba e capelli al Cartaginese. Terza ragione di preoccupazione. Il governo Renzi rischia di trasformare un governo di
emergenza in una formula politica duratura. Difatti si dice che questo governo durerà fino al termine della legislatura. Ma se una parte dell’opposizione, il Nuovo Centro-destra, sta nella maggioranza, l’opposizione a questa maggioranza chi la fa davvero? Risposta: Forza Italia, il Movimento 5 Stelle, la Lega. Pare niente? No, pare assai. Ma si dà il caso che l’opposizione di Forza Italia è un’altra presa in giro, perché, nel gioco delle parti Alfano ne recita una e Berlusconi ne recita un’altra, insieme ne recitano un’altra ancora. Il Movimento 5 Stelle è fuori del sistema che rifiuta e combatte radicalmente; dunque politicamente non è spendibile. La Lega è troppo piccola e troppo sola per proporsi validamente a ruolo di opposizione. Si ricorda che l’opposizione ad una maggioranza, per avere credito ed efficacia, deve necessariamente proporsi come fattibile alternativa; in caso contrario può fare opposizione, ma senza prospettive resta sterile. La quarta ragione di preoccupazione. Che cosa riuscirà a fare un governo, che è quasi universalmente guardato con forti perplessità perfino da chi lo ha voluto – vedi Corriere della Sera e poteri annessi e connessi – a causa delle ragioni dette e per altre, come l’inesperienza del suo capo e l’inevitabile guerra che gli viene fatta dal suo stesso partito? Letta, Cuperlo, Civati staranno con le mani in mano a godersi il folletto fiorentino folleggiare? Non lo credo affatto. Le durissime parole del sindaco di Roma Ignazio Marino per il ritiro del decreto Salva-Roma sono state definite da Renzi – sentite sentite da quale pulpito! – assolutamente inappropriate. Saranno state pure inappropriate, ma sono nello stile Renzi; e soprattutto sono rivelatrici di un clima di ostilità nei suoi confronti che è già iniziato, coi fischi pubblici e con dichiarazioni poco rassicuranti di alcuni suoi “amici” di partito.
Sui diritti civili Renzi saprà trovare il piglio giusto ed essere incisivo, determinante?
I
l governo Renzi si è appena insediato, preannunciando di già “scelte radicali”. Ci chiediamo con malcelata diffidenza: sui diritti civili l’ex “rottamatore” saprà trovare il piglio giusto ed essere incisivo, determinante? La sua maggioranza è talmente composita ed eterogenea, ancorata a visioni multipolari, che non lascia pensare ad aperture integralmente liberali. Del resto, il neopremier si avvale stabilmente della collaborazione dei Lupi, dei Formigoni, dei Sacconi, dei Giovanardi, degli Alfano, delle Roccella del Nuovo Centrodestra: paladini inflessibili dell’etica tradizionale, strenui difensori della famiglia naturale. Sono gli stessi esponenti politici che, ai tempi dello loro adesione al Pdl, non esitavano a redigere agente bioetiche di chiaro stampo confessionale. Riuscirà questo governo di varie e larghe intese a formulare finalmente una legge contro l’omofobia e la transfobia e una necessaria normativa sulle unioni di fatto? Non bastano più solo le meritorie iniziative della comunità Lgtb, le “giornate mondiali contro l’omofobia e la transfobia”, i seminari, i convegni, gli studi. Si attendono mirate misure legislative per tutelare doverosamente la gente discriminata. E, preminentemente, è indispensabile saper sfogliare con cura “l’agenda educativa”. Il presidente Napolitano più volte ha ripetuto che bisogna saper avvalorare sempre “la cultura del rispetto dei diritti e della dignità della persona”, nella consapevolezza che “la denuncia e il contrasto dell’omofobia devono costituire un impegno fermo e costante non solo per le istituzioni ma per la società tutta”. L’omofobia è una vera iattura, una malattia sociale. Purtroppo, la pavidità e il pregiudizio allignano ancora nel cuore e nella mente di certuni. Nell’ultimo anno, leggendo le cronache dei giornali, siamo rimasti esterrefatti. Diversi mesi fa, a Roma, una coppia di ragazzi omosessuali è stata vilmente aggredita e pestata da un branco di sette giovinastri. Sempre nella Capitale, due ragazzi gay, la cui “inespiabile” colpa era quella di tenersi per mano e di scambiarsi
Rispetto!
spagine
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di Marcello Buttazzo
Modi d’essere famiglia
qualche bacio, sono stati pesantemente insultati da due cinquantenni “perbene”, che hanno inveito gridando espressioni del tipo “ malati, fate schifo, andatevene”. Nel maggio scorso, a Palermo, un giovane omosessuale in un Internet point, “reo” di essersi collegato ad un sito culturale gay, è stato ferito con un martello da un cliente “scandalizzato”. A fine ottobre scorso, a Roma, Simone, giovane studente universitario di 21 anni, omosessuale, s’è suicidato, s’è gettato nel vuoto dall’undicesimo piano d’un palazzone sulla Casilina. Quanti sono i gay, i trans e le lesbiche costretti quotidianamente a soggiacere a mortifere logiche di umiliazione, di esclusione, di svalutazione? Il sentimento e l’appartenenza sessuale e di genere non dovrebbero rappresentare alcun “problema” in una società aperta, evoluta, civile, plurale. Il desiderio d’amore è una pulsione nobile e
soave, che cementa rapporti, getta ponti di conoscenza, edifica e nutre amicizie. Purtuttavia, a varie latitudini, e anche nel nostro Paese, tanti cittadini soffrono ordinariamente lo stigma dell’esclusione, vengono ghettizzati, irrisi, non riconosciuti. Picchiati, uccisi. Per abbattere alla radice la sottocultura della discriminazione, sono fondamentali dosi massicce di persuasione e coraggio. In una società civile, non si possono minimamente tollerare i volgari alfieri della ghettizzazione, gli sprovveduti classificatori di esseri umani. L’ignoranza e l’ignominia di alcuni vanno combattute senz’altro ricorrendo ad armi non violente politiche e istituzionali. L’omofobia è un misero abuso, una brutta bestia. Alfine di diffonde i fecondi virgulti d’una serena comprensione reciproca non bastano, ovviamente, le leggi particolari, gli interventi securitari, ma occorre
una appropriata campagna ad ampio spettro, che cominci magari dalle scuole, dalle famiglie, e si propaghi dappertutto. È necessario più che mai far veicolare fra la gente la cultura del rispetto, nella certezza che l’omosessualità non è “oltraggio” ad alcuna buona norma morale. Come scrive la psicoanalista Simona Argentieri, “la bussola del nostro equilibrio non è il genere sessuale del partner, ma la qualità del rapporto che siamo in grado di costruire, nel riconoscimento dell’altro nella sua interezza”. Perché non si pone ascolto attento e riguardoso all’uomo nella sua integrità? La sessualità è solo un aspetto della nostra articolata identità, sempre in divenire. Dobbiamo apprezzare l’umanità ed essere cittadini maturi, disposti sempre ad accogliere l’altro nella sua totalità, amando il mondo, scorgendo il volto vario delle relazioni umane.
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Si è tenuto venerdì 28 febbraio un incontro promosso dal Comitato per la difesa dell’area archeologica dell’ex Caserma Massa
Accade in città
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l Comitato per la tutela dell’area archeologica ex caserma Massa, al quale aderiscono moltissimi enti e associazioni, ADOC, Forum ambiente salute, Fondazione Mario Perrotta, Italia Nostra, Movimento Valori e Rinnovamento, Storia Patria, ARCI, Fondo Verri, Manni Editore, Telerama fra gli altri, si è riunito all’Open Space venerdì 28 febbraio. Assemblea molto partecipata, posti in piedi. Dopo l’introduzione di Giovanni Seclì, che ha fatto la cronistoria dei progetti che qualcuno ha chiamato "culturicidio", ponendo una domanda semplice: «Dopo l’abbattimento dell’ex convento poi diventato caserma nel 1971, vogliamo proseguire a distruggere fondamenta e reperti?» Perché proprio di questo si tratta, proseguire a cancellare pezzi di storia in nome e per conto del voler convogliare in centro il traffico, nei 500 posti auto che si verranno a creare in un parcheggio sotterraneo sottostante la galleria commerciale. In un periodo in cui abbondano i cartelli “affittasi” sulle vetrine di ex negozi chiusi da una crisi mostruosa, Lecce si premura di far costruire altri negozi, nuovi nuovi, appaltando il tutto ad un’impresa. A questo pare contribuiscano anche alcune deroghe della Regione Puglia al piano paesaggistico che in origine prevedeva l’impedimento a modifiche sostanziali di siti archeologici. E sul comportamento della Regione ci sarebbe da discutere, lo stesso pare stia succedendo a Cisternino, per la famigerata “strada dei colli” che scavalca il piano paesaggistico con un sottinteso placet di Bari. E, sostiene Seclì, si scavalca anche il PUG (Piano Urbanistico Generale) che prevede la salvaguardia del patrimonio archeologico. Ci si chiede se il sito sia archeologicamente rilevante o no. In particolare non si sa che fine abbiano fatto le indagini conoscitive promosse dall'amministrazione Salvemini. Sono sparite? Perse? Nascoste? Si sa per certo che la soprintendenza ne 1971 diede parere contrario alla demolizione, ininfluente, con tutta evidenza. A sentire gli interventi la quasi totalità dei partecipanti all'assemblea era contro il progetto,
Scegliere il futuro
di Gianni Ferraris
Lo scavo di Piazza Tito Schipa
tutti tranne il professore Francesco D’Andria che, in un lungo intervento ha detto due cose fondamentali: abbiamo fatto scavi, trovato reperti, catalogato e fotografato il tutto e ne abbiamo fatto un libro; oggi non c’è più nulla di rilevante. Secondo questa teoria si può costruire anche un grattacielo e i comitati sono, in pratica, dei rompipalle. E poi, ha detto D’Andria rivolgendosi ad un altro signore che denunciava il
progetto come invasivo «Lei dov'era nel ’71 quando abbattevano il Convento?». Quel signore aveva qualche anno in meno di me, nel ’71 avevamo tutti altri interessi. Evidentemente secondo D’Andria, chi in quegli anni non ha protestato, ora non ha alcun diritto a farlo, indipendentemente dall'età anagrafica. Bizzarro veramente. E quello del Professore è stato un ottimo assist per l’assessore Messuti che ha detto «ci fosse
stata presenza di un sito di rilevanza archeologica ci saremmo fermati» ed ha proseguito dicendo che prima quella piazzetta era una schifezza immonda, a lavori ultimati si rivaluterà anche con una piazza, ideale congiungimento fra il centro storico e quello commerciale. Non ci ha detto l'assessore quali amministrazioni hanno governato e consentito una schifezza immonda nel centro di Lecce per lunghissimi anni. Chi scrive vive a Lecce da soli sei anni, quindi non c’ero nel ’71 (con buona pace del Prof. D’Andria), e se ci fossi stato avrei avuto altra sensibilità, a vent'anni mi occupavo d’altro, forse questioni ormonali, forse ideali, non ricordo. Dopo i primi sei mesi spesi a girare in una città stupenda con lo sguardo in alto a vedere le meraviglie del centro storico, ho dovuto, ahimè, abbassare il naso a guardare cosa succede sotto il barocco. Ho visto Piazza Sant'Oronzo che è in buona parte un parcheggio quasi incontrollato, ho visto edifici storici di proprietà pubblica nel degrado più assoluto, ho visto che non esiste un piano traffico. Ed è proprio quest’ultimo punto il più qualificante per l’intervento in Piazza Schipa, senza un piano traffico che senso ha costruire un parcheggio per 500 auto in pieno centro? Quale altro interesse se non quello di attrarre altro traffico ed altre auto in una città già intasata? I parcheggi di scambio, come richiamato da Wojtek Pankiewicz, i bus navetta per liberare e pedonalizzare il centro storico, sono nei progetti o meno? In sostanza, le amministrazione negli ultimi vent'anni hanno vagamente ipotizzato qualcosa di diverso dal caos? Qualcuno, nel corso dell’assemblea, ha sibilato anche interessi di altra natura, ma si tratta di illazioni. D’altra parte la filosofia che guida l’amministrazione in queste scelte si è palesata nella ristrutturazione di Piazza Partigiani, è di questi ultimi giorni la notizia che le piste ciclabili verranno sacrificate per aumentare i parcheggi auto. Con buona pace della città sostenibile. Sembra quasi che il problema di Lecce sia Lecce stessa. Troppo bella e troppo delicata, e con troppi interessi più o meno sottesi.
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Appuntazzi
Visite a Luzzara. Gianluca Costantini saluta gli amici
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Poesia
“Tu poetessa”
Salve sono tornata. Sono malata d’amore
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on parlerò della morte, non del folle volo, non del matto e del bagatto, ma dell’amore e del daimon poetico che attanaglia senza possibilità di salvezza, disgregando la ragione, portando alla perdizione nei meandri inebrianti della follia, tra slanci, cadute e rialzi, slanci, cadute, rialzi. "Tu, poetessa". Così Claudia si rivolge a se stessa, appena tredicenne, in una pagina del vecchio diario usurato dal tempo, pieno di foto ritagliate dai giornali che ritraevano i suoi cantanti preferiti, di foglietti che fungevano da promemoria, di immagini che rievocavano amori immaginati e idealizzati, mai vissuti. Si perché la sua è una malattia d'amore, la maledizione cassandrica, la "maledizione di gabrieleamore ", così come lei stessa chiama la sua duplice vocazione, poetica e amorosa. "Questa tensione alla morte era un amore. Un amore geniale", e poi “Salve sono tornata: sono malata malata d’amore”. Le sue visioni sono profonde e inquietanti, provengono dagli alti cerchi del cielo e dalle viscere dell'universo, sono sostanziate da ricchi riferimenti culturali di ampissimo respiro, rivestite di una sfera aulica che le innalza a una dimensione di arcaica sacralità, dove ella si fa custode di fitti misteri, sacerdotessa in carne e ossa dei segreti di una foresta oscura e intricata in cui si addentra per estrapolare il senso ultimo e più alto dell’esistenza. Una malattia esistenziale avviluppa la giovane poetessa sin dal suo essere bozzolo e poi crisalide, quando già nella primissima giovinezza la sua ricerca d'amore inizia a farsi ritmica, poi spasmodica, come nel mito di Thanatos, e per questo forse, si ammalerà inguaribilmente, portando l’impronta del mostro ad otto tentacoli (“tentatoceli”) che le alberga dentro, e che risuona in “Inferno minore” e, in
di Rosemily Paticchio
particolare, nelle “Pagine del travaso”. ...amore ti avrei dato la sorte di sorreggere perché alla scadenza delle venti due danze avrei adorato trenta tre fuochi, perché esiste una Veste di Pace se su questi soffitti si segna il decoro invidiato: poi che mossa un’impronta si smodi ad otto tentacoli poi che ne escano le torture. La sorte di sorreggere suggerisce l’intera meravigliosa, travolgente carica sia semantica che simbolica che l’autrice conferisce a questa sua duplice serrante vocazione, non dimenticando l’associazione amore morte avviluppati in un unico tragico abbraccio, portata in extremis nella sua poesia al suo culmine e forse punto di non ritorno, configurando una costante chiave di lettura dei suoi versi, quella dello sfrenato bisogno e desiderio di un amore talmente grande che è destinato per sempre a restare inappagato. E’ qui che esso diviene idealizzato, quasi sempre slegato da una dimensione concreta e concretizzabile e, in quanto mai raggiunto nella sua pienezza, va a coincidere con la morte delle illusioni; é ancora da qui che deriva il continuo anelito della poetessa verso una dimensione di autentica purezza, dove può risiedere la salvezza dell’anima, raggiungibile solo attraverso l’abbandono a questo potente denominatore Amore, fino a morirne. Non amore dei sensi, non Eros, ma Thanatos, oppure, talvolta, Eros e Thanatos insieme, connubio che risponde a una fortissima istanza sul piano letterario ma anche personale. Un amore annientatore eppure altamente mitizzato e fortemente vagheggiato, il cui raggiungimento passa spesso attraverso la
Del grande furore di Claudia Ruggeri
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“L’Amore di Claudia, cui qui conferiamo la lettera maiuscola, appartiene a un tempo mitologico, poiché solo lì è così potente, irriducibile, quasi a divenire nobile gesto di servigio...” misericordia di Dio, un dio o talvolta un demone che non possono di certo racchiudersi nella tradizionale accezione e distinzione religiosa, di cui pure non mancano i richiami. Non cambiarmi le valvole padrone, non cambiare i miei circuiti logori ma lasciami morire. Ritorna alla tua terra tra le stelle, lasciami sola in questo mondo ostile ove l’acciaio non resiste agli acidi. Ben altre sfere e ruote gireranno per te nell’universo ed io fioca scintilla nell’infinita fiamma lascia che in questo istante mi consumi. Nel mio cervello elettrico solo un circuito ancora regge il carico, quello della preghiera, perciò ti prego non cambiare le valvole, non aggiustare i miei circuiti logori ma lasciami morire. E di fatto, come argutamente affermato da alcuni critici, l’Amore di Claudia Ruggeri, cui qui conferiamo la lettera maiuscola, appartiene a un tempo mitologico, poiché solo lì è così potente, irriducibile, quasi a divenire nobile gesto di servigio (t’avrei lavato i piedi/oppure mi sarei fatta altissima) materia vivente aldilà di ogni costrizione convenzionale nonché spaziotemporale, nobilitando l’animo umano. In tal senso Claudia è poetessa d’Amore, mescolandosi e incorporandosi il suo atto di scrivere, per lei impellente e necessario, nella stessa incalzante, straziante necessità di amare. Ma non parliamo, tuttavia, neppure di quell’amore cantato e idealizzato da certi poeti, qui si coglie tutt’altro: I veri poeti Non scrivono inni Alla patria Alla vita All’amore: no quelli veri combattono piangono sudano per adattare l’atona vita al ritmo dei versi
Una sofferenza vitale, dunque, la consuma, totalizzante come quell’Amore assoluto e senza compromessi cui si protende la sua anima senza mai giungere a una sintesi con la realtà, che trova esito in altrettanto estreme forme di espressione poetica. Ora è la poesia degli opposti, ora del tutto e del nulla, del vuoto e del pieno, della luce e delle tenebre più profonde, della presenza e dell’assenza, della gioia e dell’acuto dolore. Impossibile darne una spiegazione o un’interpretazione dettata dalla ragione, di lei e di quell’amore estremamente vocalizzato o ci si innamora fino a perderne il senno o si abbandona subito l’impresa di addentrarsi nei suoi intricati meandri poetici. E sul VUOTO di Claudia è più che un dovere soffermarsi, sul suo abbandono a un flusso inconscio di pensieri che probabilmente riprende dal suo amato modello, il maestro del“depensamento”, Carmelo Bene, colui che diceva “Vado verso l’instaurazione del vuoto”. La poetessa persegue questa ricerca con la destrutturazione di un linguaggio che deve saper rivolgersi agli oracoli, e con essa la ricerca di quel vuoto che apre il suo “Elogio della Follia” tanto che persino lo riconduce etimologicamente al senso profondo dell’essere artista. Quel vuoto che pare stabilisca da principio, inequivocabilmente, la sua fine e che l’attenderà nell’ultimo suo estremo lancio. Non crediate che l'artista si distingua dal profano per una sensibilità eccentrica o per una intelligenza o per una diversa educazione. Ciò che lo definisce creante è la sua particolare disposizione e il suo titanico coraggio ad arrendersi di fronte all'evidente realtà del vuoto che ha dentro! (da “Elogio della Follia”) Ad illustrare due immagini della poetessa
Lecce, 2 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 19
Racconti salentini
Il mio amico
don Bruno
di Rocco Boccadamo
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rovo gioia e, non si direbbe, anche un filo d’emozione nel tracciare queste righe, informali ma nello stesso tempo riflettenti, così almeno spero abbiano a rivelarsi, un rosario di pensieri e sentimenti d’intensa e genuina umanità. A prescindere dal ruolo e dall’altissima carica rivestiti dal personaggio di cui mi accingo a dire, l’intenzione è di rivolgermi, innanzitutto, a una persona, un compaesano e, giustappunto, un amico. Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Bruno Musarò, Arcivescovo Titolare di Abari, antica città romana della provincia dell’Africa originariamente denominata Bizagena (corrispondente all’odierna Tunisia) e Nunzio Apostolico a Cuba, è nato nel 1948 ad Andrano. Prima di proseguire nelle relative note biografiche, mi sembra, però, opportuno inquadrarne la figura, a modo e parer mio, nel guscio del suo nido, della sua famiglia. Bruno è uno dei sei figli, tre maschi e tre femmine, messi al mondo dai coniugi Musarò, Menotti e Viola, detta Violetta: una prole numerosa, dunque, anche se in sintonia con le consuetudini delle generazioni andate circa la composizione media dei nuclei. Prole, a ogni modo, puntualmente riuscita, grazie alla forza d'animo, all' impegno e ai sacrifici congiunti di genitori e ragazzi, ad avviarsi e a procedere, con ottimi risultati, su percorsi positivi, in una pluralità e diversità di scelte e inclinazioni. Difatti, con l’annotazione indicativa che papà Menotti, in vita, è stato esercente di una piccola merceria, barbiere, collaboratore scolastico e contadino, mentre mamma Violetta, tuttora esistente, si è occupata delle faccende domestiche e di star dietro a marito e figli, mette conto di rimarcare i seguenti esiti e sbocchi post studio conquistati dalla
Monsignor Bruno Musarò
squadra dei giovani Musarò: un sacerdote, un avvocato, un architetto, un medico e due insegnanti. Dopo l'ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1971, don Bruno conseguì l’ammissione alla Pontifica Accademia Ecclesiastica di Piazza della Minerva a Roma, istituzione che forma e da cui provengono i diplomatici
di carriera della Santa Sede. Terminato quel tirocinio, seguirono lunghi periodi ed esperienze da addetto e/o consigliere presso varie Nunziature. Poi, nel 1995, maturò il momento magico del salto di qualità, con la consacrazione vescovile, in San Pietro per opera e dalle mani di Papa Wojtyla, con il titolo, personale, di arcivesco-
vo di Abari, elezione accompagnata dall’investitura a Nunzio Apostolico in Panama. A tale iniziale destinazione, seguirono poi analoghi incarichi, nell'ordine, in Madagascar, Guatemala, Perù e Cuba, paese, quest’ultimo, dove è insediato e presta servizio adesso. Nella capitale L’Avana, ha accolto, nel 2012, il Papa dell’epo-
Ritratto del Nunzio Apostolico a Cuba Monsignor Musarò nato nel 1948 ad Andrano
ca, Benedetto XVI, ora Pontefice emerito, nella fase finale del suo viaggio pastorale nel Messico e a Cuba. Come particolare rimastogli maggiormente nella mente e non solo lì, don Bruno mi ha riferito della evidente stanchezza, se non spossatezza, che nel riceverlo all’aeroporto in una giornata dall’altissima temperatura, notò sul volto e nel fisico del Santo Padre, aggiungendo che, secondo fonti particolarmente vicine e informate, sarebbe stato in quella circostanza che, nell’animo di Ratzinger, iniziò a maturare il proposito di rassegnare le dimissioni, poi concretamente date nel febbraio 2013. *** Don Bruno è più giovane di me, essendo nato sette anni dopo, come mia sorella Teresa, e perciò, da ragazzini, non abbiamo avuto occasione di conoscerci e frequentarci, pur abitando in due paesini confinanti, la sua Andrano e la mia Marittima. In effetti, ho sentito parlare, per la prima volta, di lui, quando è diventato vescovo, a Roma dove, allora, lavoravo e risiedevo. Appresa la notizia dell'evento, mi recai in Vaticano per incontrarlo di persona e congratularmi, fui da lui accolto con grande cordialità, da conterranei, quasi fossimo stati da sempre amici, nel pensionato di Santa Marta, sì proprio quella che oggi è anche la residenza di Papa Francesco, dove don Bruno si trovava temporaneamente alloggiato. Lo ricordo ancora adesso, mi fece festa grande e m’invitò subito a intervenire, la domenica successiva, alla celebrazione della Messa da vescovo, in una parrocchia della periferia romana, cui era, evidentemente, legato, uscita pubblica d’esordio nelle vesti di alto prelato, prima di intraprendere il viaggio verso il paese nativo di Andrano. Lì, non ero presente e, però, mi giunse l’eco di un evento eccezionale che coinvolse l'intera comunità concittadina e nugoli di amici e conoscenti dei paesi
Un’altra immagine di Monsignor Bruno Musarò e sotto un classico cartello cubano
vicini: ciò, giacché don Bruno, pur trovandosi a lungo a vivere, analogamente a chi scrive, lontano dal luogo di nascita, aveva sempre mantenuto, come fa del resto tuttora, i contatti con le proprie radici: in primis, ovviamente, rispetto ai famigliari e, insieme e sullo stesso piano, in termini ideali e devozionali, rispetto alla “figura” che domina particolarmente sulla popolazione di Andrano, la divina protettrice Madonna delle Grazie. Al punto che, don Bruno, non è mai mancato, tranne che in rarissimi casi di assoluta impossibilità o d’impedimenti ineludibili, ai festeggiamenti patronali relativi, che si svolgono annualmente, di solito, fra gli ultimi giorni di luglio e l’inizio di agosto. Così che, fa sempre un effetto piacevole scorgere la sua figura sorridente, affabile e cordiale nei paramenti solenni correlati al suo rango: nel caso specifico, nessun contrasto, anzi perfetta simbiosi, fra abito e tratto. Don Bruno, insomma, racchiude insieme la figura di Arcivescovo e alto diplomatico plenipotenziario del Santo Padre e quella di
uomo ricco di semplicità e di umanità, fedele alle sue origini. Quando ritorna a casa e si trattiene fra i compaesani e i salentini in genere, il forbito ed eclettico poliglotta, ama parlare ed esprimersi con frasi e discorsi non tanto in italiano, quanto in dialetto andranese. In tal modo, invero, si comportò già all’atto del nostro primo incontro in Vaticano, nel riferirmi dei numerosi viaggi di andata e ritorno a piedi, da bambino, lungo la via vecchia da Andrano a Marittima, puntualmente ogni prima di domenica di marzo in occasione della fiera della Madonna di Costantinopoli; e, ancora, delle puntate, quand’era ragazzo e giovanissimo, in direzione dell’insenatura Acquaviva, per prendervi qualche bagno, in alternativa e a integrazione dei tuffi compiuti in Zona Botte o Grotta Verde della Marina di Andrano. *** Dopo il 1995, ho rivisto e incontrato don Bruno sistematicamente in ogni stagione estiva, o a casa sua o nella mia “Pastorizza” o in mezzo alla festa patronale della Madonna delle Gra-
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zie. In un paio d’occasioni, inoltre, all’ Acquaviva e, in una circostanza, addirittura, in barca: l’ho notato mentre era intento a nuotare all'imboccatura, per l’appunto, del suddetto seno, insieme con un suo collaboratore di nunziatura, in un attimo vele amaranto ammainate, scaletta fissata alla fiancata del battello e don Bruno e l'amico su a bordo a farmi compagnia per una piacevole veleggiata, esperienza da loro molto gradita in quanto novità, sino alla già richiamata Grotta Verde. Qualche tempo fa, nell’ambito di un racconto, mi è capitato di far cenno ad un personaggio passato della comunità nativa di don Bruno, la muta di Andrano, figura da lui ben conosciuta, al che il Monsignore, letto il mio lavoro, mi ha scritto di aver provato dentro una profonda commozione. Anche nei giorni scorsi, durante l’ultimo suo breve periodo di vacanza, ho potuto rivedere don Bruno ad Andrano, nell’abitazione della sorella maggiore, ivi presente, seduta su una poltrona, anche mamma Violetta. Piccolo particolare conclusivo: proprio nell'atto di congedarmi da lui, mi è stato dato di cogliere una minuscola ma singolare chicca della sua innata e conservata semplicità umana, sotto forma di una frase rivolta ad una seconda sorella, residente in una non distante cittadina del Salento, la quale era andata a trovarlo: ”Senti, sorella, per il prossimo lunedì, tieniti libera e ritorna qui, prima che io parta per Cuba, fermati anche per il pranzo e “cusì ne manciamu mparu nu picca ‘e pasta” ( così, ci mangiamo insieme un po’ di pasta asciutta). Un’espressione, nella rigorosa lingua dei padri, che, almeno a chi ha i capelli bianchi, richiama alla mente anche la presenza, sulle tavole contadine, del classico grande piatto di minestra unico per tutti i commensali.
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Copertina Sabato 8 marzo, al Fondo Verri un pomeriggio dedicato a Italo Calvino
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Lecce, 2 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 19
C’erano una volta
le fiabe italiane
di Milena Galeoto
Italo Calvino in un acquerello di Tullio Pericoli
S
abato 8 marzo, al Fondo Verri di Lecce, nella rassegna Storie in scena, dalle 16.00 alle 18.00, saranno protagoniste le Fiabe italiane come tributo all’autore Italo Calvino, uno dei narratori italiani più importanti del Novecento.
La copertina di Fiabe Italiane
Era il 1956 quando uscì per la prima volta in Italia, la raccolta di fiabe italiane a cura di Italo Calvino, pubblicate da Giulio Einaudi editore, un accurato lavoro antropologico oltre che letterario,
per le tradizioni e personaggi popolari provenienti da diverse regioni italiane, contenuti in esse. La volontà di comporre un libro che contenesse le fiabe popolari italiane, spiega Calvino nella prefazione di Fiabe Italiane, nacque da un’esigenza editoriale poiché si voleva pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe popolari straniere, una raccolta italiana. Anche se la storia dimostra come i grandi libri di fiabe italiani, siano nati molto in anticipo sugli altri. Già verso la metà del XVI secolo a Venezia con il diffondersi di novelle e racconti in lingua dialettale. Nel Seicento, a Napoli, con i “cunti”, le fiabe “dè piccerille” contenute nel libro Pentamerone di Giambattista Basile. E ancora, nello stesso periodo, sempre a Venezia, le favole calcano il palcoscenico tra le maschere d’Arte. Furono diversi gli studiosi e appassionati di storie popolari a riportare per iscritto le storie che si tramandavano a voce, tanto che verso la metà dell’Ottocento si accumulò una montagna di narrazioni tratte dalla bocca del popolo nei vari dialetti. Ma era un patrimonio destinato a fermarsi nelle biblioteche degli specialisti, non a circolare tra la gente. E mentre questi racconti erano curati dentro dotte monografie, qualche illustre scrittore tentò di realizzare un libro di fiabe per l’infanzia e così, iniziarono ad essere narrati racconti con il suono poetico del C’era una volta… Come nella raccolta di Antonio Baldini, intitolata La strada delle meraviglie. Fu il Carducci a diffondere le narrazioni di tradizione popolare nelle scuole, inserendole nelle antologie dei ginnasi da lui curate. Riprese
poi da Gabriele D’Annunzio nella rubrica Favole e Apologhi della Cronaca Bizantina. Però la grande raccolta delle fiabe popolari di tutta Italia, che potesse essere anche un libro piacevole da leggere, non esisteva ancora. Fu questo l’arduo compito affidato a Italo Calvino che trascorse due anni non solo attraverso un meticoloso lavoro di catalogazione, rintracciando versioni e varianti delle varie storie, ma visitando dal vivo i luoghi dove erano nate. Due anni vissuti in mezzo a boschi e palazzi incantati, come lo stesso autore descrive nell’introduzione della raccolta, per immaginare come meglio raccontare la bella sconosciuta che ogni notte dormiva accanto al cavaliere. Per comprendere come misteriose magie, incantesimi, trasformazioni mostruose, avessero preso vita. Per quale motivo in quel luogo si narrava la presenza di un sortilegio, o in un altro le vicissitudini di un bizzarro personaggio. Esperienze dirette che confermarono al nostro autore italiano, la sua convinzione che l’ha guidato fin dall’inizio in questo percorso e cioè che: le fiabe sono vere. Nate da vicende umane, conservate nella tradizione contadina, dove s’intrecciano storie d’amore, persecuzioni d’innocenti, virtù che portano alla salvezza e al trionfo, la bellezza come segno di grazia e l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste veramente. Tutto questo racchiuso in ben duecento racconti: Le Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino.