Spagine della domenica 20

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Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri

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uando arrivo in Via Birago non piove ancora, la luce è diafana. Riconosco il posto dall'inequivocabile striscione accanto al grosso cancello d'entrata: Binario 68 occupato e poi da un tassello della memoria che ricongiunge rapidamente tutte quelle volte che passando, per strati di stagioni, da quella strada , ho notato sulla destra estendersi l'oscuro e possente stabile dell'ex tabacchificio. Dritto lungo la via, si intravede il giallo chiaro meringa di porta Rudiae.Al cancello un ragazzo

molto giovane, capelli castani, pelle chiara, felpa imbottita. Sono venuta qui apposta, vorrei entrare, dare una mano, gli faccio. Scopriamo essere tutti e due dello stesso paese, poco distante da Lecce, ma io lui non l'ho mai visto, nè lui ha visto mai me. Avendo lui vent'anni è di una generazione ancora altra, successiva alla mia che solo ieri era matricola, che solo ieri era universitaria; e che oggi lavora fuori oppure non lavora fuori oppure è diventata pazza o poeta. Dicono che in città sia successa questa nuova cosa, che l'ex tabacchificio attanagliato da rovi, animali, polvere, calcinacci, dalla

metà degli anni '90, sia stato occupato. La stampa locale ha dato un primo resoconto, da circa una settimana un gruppo autonomo di studenti, precari e disoccupati ha preso ad abitare e ripulire, smantellare, riparare, progettare azioni di riqualificazione dal basso, fare colletta per organizzare i lavori, mettere insieme manualità e conoscenze personali, con lo scopo di vivere in modo nuovo e senza fini di lucro la città e il quartiere. Il grande cortile esterno è pieno di erbacce, cumuli di legname, sacchi neri e scatoloni, sono le tracce di un lavoro pesante consumato già da qualche giorno, e anche suoni e segni di vita comu-

della domenica 20 - 9 marzo 2014 - anno 2 n. 0

spagine Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri

Bi na rio 68 L’ex manifattura torna a vivere

ne, la cenere di un falò che hanno acceso ieri i ragazzi, nel centro del cortile, per passare la serata e riscaldarsi. Alcuni di loro stanno passando le notti nelle stanze fredde dei piani di sopra, altre ragazze spazzano e disinfettano gli ambienti per renderli abitabili e alcuni di loro vanno in giro per lasciare nel quartiere volantini. E' successo che gli abitanti intorno sembrano essere contenti, il barista prepara loro la colazione e alcuni signore del vicinato consegnano al cancello un po' di provviste. di Gioia Perrone continua nell’ultima pagina


Lecce, 9 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 20

Diario politico

Mentre le nostre bellezze passate cadono a pezzi, noi, invece di preoccuparci di arginare il fenomeno, facciamo film per mostrare al mondo quanto siamo decaduti e decadenti...

L’insostenibile vaghezza

d’essere italiani

di Gigi Montonato

La grande bellezza”, il film di Paolo Sorrentino premiato con l’Oscar quale miglior film straniero, è uno di quei racconti che si possono leggere in molti modi per ricavare altrettante impressioni o certezze. Lo stesso titolo può essere riferito o alle immagini di Roma, alcune veramente bellissime e inedite, o inteso nel significato antifrastico del termine. Alle suggestive “cartoline” romane fa riscontro nel film una carrellata di caricature, di trovate barocche, vuote di contenuto ma sorprendenti e meravigliose nell’aspetto esteriore, in una parola di “bruttezze”. Come dire a qualcuno: è la vita, bellezza!, dopo che gli hai rifilato una fregatura. Sorrentino ha voluto stupire, sorprendere, meravigliare. “E’ del poeta il fin la meraviglia / chi non sa far stupir, vada alla striglia” diceva il suo conterraneo Giambattista Marino nel Seicento. Un secolo e una cultura terribilmente oggi di ritorno, attuali, come provano i tanti fenomeni privati e pubblici, individuali e collettivi di questa Italia di inizio millennio. In Europa questo genere di messaggio non incanta più nessuno. Al Festival di Cannes il film di Sorrentino è stato quasi snobbato. Ma l’America è l’America! E gli ha assegnato l’Oscar. La stampa e la televisione italiane hanno esultato, quasi l’Italia avesse rovesciato lo spread rispetto alla Germania e fossimo noi a dettar legge economica; come se la Nazionale di Calcio avesse battuto il Brasile in finale e pareggiato il conto dei titoli mondiali. Le istituzioni si sperticano ancora in attestati di riconoscenza al regista napoletano, nuovo salvatore della patria: “quindi trarrem gli auspici…”. Di preoccuparci, invece, non ci passa per la mente. Ed è proprio questo il punto.

Toni Servillo in una scena de La grande bellezza

Rappresenta la “bellezza” di Sorrentino la situazione italiana di oggi? L’Italia della debolezza politica, della crisi sociale, dei suicidi per fallimenti e disoccupazione, della privazione dei giovani di un avvenire esistenziale, della perdita dei valori morali e civili, del degrado in cui versa la vera grande bellezza italiana dei beni culturali? Rappresenta l’Italia che non riesce a farsi rispettare dall’India e lascia marcire colà due militari italiani colpevoli di aver fatto il loro dovere? No, assolutamente. Allora il film di Sorrentino è solo una maschera grottesca in sé e nell’uso, soprattutto nel-

l’uso che si vuole fare e che si sta facendo. Una maschera assolutamente inopportuna, degradante, offensiva. Può essere che quell’Italia rappresentata esista davvero; ma se pure fosse, sarebbe un’Italia da tenere nascosta, come si nascondono i quadri e gli specchi nelle case segnate dal lutto. L’America, premiando il film, ha voluto premiare gli italiani, il nostro modo di reagire alla gravissima crisi che ci tormenta ormai da anni e ci tormenterà per altri decenni. Ha voluto premiarci per il nostro modo di essere e di vivere, tra il superficiale e il leggero, lo svagato e “alla me ne fot-

to”. Mentre l’Italia delle bellezze passate cade a pezzi, noi, invece di preoccuparci di arginare il fenomeno, facciamo film per mostrare al mondo quanto siamo decaduti e decadenti. Ancora una volta ha trionfato il becerume incartato di bello e di luci, per farlo piacere. Siamo nella scia dei grandi registi italiani, alla Monicelli più che alla Fellini o alla De Sica, che propone il nostro modo di riderci addosso e con ciò di far ridere gli altri anche nelle tragedie e nell’epica delle guerre. Come a voler ribadire che noi italiani, in qualunque situazione ci troviamo, siamo sempre quelli di “Amici miei”. Quelli che Churchill disse che affrontano una partita di calcio come una guerra e una guerra come una partita di calcio. Tra tutti i nostri film premiati con l’Oscar questo è di sicuro il più mortificante, anche perché oggi non c’è neppure l’entusiasmo di altri tempi. Penso al dopoguerra di De Sica o al miracolo economico degli anni Sessanta di Fellini, quando crearono capolavori di alta rappresentatività italiana. Tempi di sofferenza e di speranza, di realizzazioni da raggiungere (De Sica) o raggiunte (Fellini). Il film di Sorrentino ci condanna ad essere visti come gente che affronta tutto con ignavia, che si compiace dei propri fallimenti, che gode del suo essere nulla, che inneggia al più infame dei nichilismi: a quello che fa del nulla piacere e vanto. L’Oscar assegnato ad un film simile contiene un messaggio inaccettabile: noi americani vogliamo salvare gli italiani così come sono, ci servono per svariare il tempo, per dimenticare le cose serie, per stordirci. Italiani, conservatevi: siete belli, stupendi. Voi, non i vostri beni, che vanno in malora, siete il vero patrimonio dell’umanità. Avremmo voluto dire: no, grazie!


Contemporanea

Q

Quando il giorno sembra percuotere insensibilmente il suo tamburo, la nostra storia più autentica ci viene in soccorso, ci ricuce le ferite, ci dà fiato, respiro

uando la melanconia ti scende dentro, quando la pioggia precipita e batte sull’ asfalto, quando il cielo si fa scuro, è tempo di far vibrare la fantasia. È l’ora di accendere giardini di sole. Quando la tristezza ti prende con la sua nera morsa ferrea, quando il quotidiano ti asfissia con le sue “ineludibili” impellenze, con le soverchianti urgenze da assolvere, è forse giunto il momento di aprire le ali, di dare linfa e voce alla memoria. Di vivere il passato e il presente. Qui e ora. Con piglio puro, semplice, misurare gli istanti dell’anima, nutrirla di cibo sostanzioso. Ambrosia degli dei. Rifiutare le convenzioni artificiose, gli stereotipi avvelenati, le ugge economiche che assalgono, e rifugiarsi in un mondo di fiaba. Il tuo mondo. E quello dei tuoi amici. Un universo ampio di relazioni gentili, cortesi, di scambi affettuosi e umani, dove la civile convivenza è davvero un libro arioso da sfogliare lentamente e da gustare a fondo. Quando si è soli fra le quattro mura e non si riesce a bere a piene mani acqua sorgiva, quando ci s’addolora per i colpi inferti da un ambiente esterno troppo superficiale, quando lacrime amare rigano il volto, c’è sempre un giacimento di pietruzze preziose da rastrellare con l’abnegazione d’un paziente rabdomante. C’è una fitta trama di vissuti nel sommerso e nel manifesto, in ognuno di noi, dove il cor s’allegra. C’è un nocciolo duro di scorza consistente, che non si piega allo spirare vorticoso del vento. Quando sono affranto, penso a voi, miei cari amici. A te, Vito Antonio, poeta e scrittore fine e sensuale, alla tua fraternità. Con te ho visto fiorire il mandorlo, la gaggia aulentissima, e l’albero di Giuda che arabescava di viola il cielo. A te, Caterina, che mi hai donato la bellezza del dialogo costruttivo, mi hai parlato del tuo piccolo Federico. A te, Barbara, voce potente, sublime, che apri il giorno di sogni. A te, Mirella, che agghindi la tua giovinezza spumeggiate come un’aurora vitale. A te, Serena, che mi hai regalato la tua dolcezza, la soavità. A te, Daniela, che mi accogli sempre con i miei limiti, con le mie manchevolezze. A te, Tonio, artista francescano, stremato d’amore. A te, Mauro, squisito punto di riferimento. Quando il giorno è corrucciato e sembra percuotere insensibilmente il tamburo, la nostra storia più autentica ci viene in soccorso, ci ricu-

spagine

pagine n° 2 e 3

Melanconia

di Marcello Buttazzo

Ad illustrare una fotografia di Robert e Shana Parke Harrison

ce le ferite, ci dà fiato, respiro. Giorni fa, Serena mi ha comunicato che la sua bionda cavalla Stellina ha partorito il piccolo puledro Faro. Un nome radioso. “Vuole essere una guida per tutti noi, nei momenti bui”. Faro di raggi scintilla, anatroccolo di luce, carro del sole. Di paglia, adorna le trecce di madre Stellina, figlia di Cerere. Per i prati trasognati scandisce il tempo in clessidre d’amore. Sulle albe dorate conduce fremente gli ultimi sfavillii della luna. Quando mestizia ti penetra piano piano nelle ossa, quando il senso di stanchezza non ti vuole abbandonare, è il caso di lumeggiare il sole.

Pensare magari alla nostra infanzia incantata, a nostra madre, al nostro paese. Dove dissipammo i nostri anni bambini. Dove scoprimmo l’amore e il significato inerente della bellezza. Dove corremmo la vita a perdifiato senza mai rinunciare alla speranza, all’attesa. Lequile, paese mio, terra di ulivi. Fra notti stellate si consumava e si accresceva il nostro amore, fiaccola di luce. Nazim Hikmet scrive che “due cose non si dimenticano fino alla morte, il viso di nostra madre e il viso della nostra città”. Quando il malumore compare, non c’è niente di meglio che destarsi all’alba.

Uscire, ai primi lucori, per le strade deserte. Percorrerle. Prestare orecchio, occhio, e tutti i sensi alla meraviglia della Natura che si sveglia, alla primavera che si annuncia. Osservare minuziosamente il paesaggio. Recarsi al bar per prendere il caffè. Eppoi rientrare subito a casa, prima che si popoli la piazza. In questi giorni, nel mio paese, siamo in anticipo di campagna elettorale per le prossime Comunali. Per non deprimersi ulteriormente, è necessario non stringere troppe mani. Numerosi contendenti politici s’affollano per la via.


Laboratori

pagina n° 4

Il 15 marzo, Storie in scena al Fondo Verri sarà dedicato a Lattafoglia

Nini Giacomelli

spagine

Lecce, 9 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 20

di parole e di musica di Milena Galeoto

I

l prossimo sabato 15 marzo, Storie in scena, al Fondo Verri di Lecce, sarà dedicato all’autrice e paroliera italiana Nini Giacomelli, e al suo personaggio Lattafoglia, sbarcato anche in America, al Festival of Arts dell’Università di Stato della California, con uno spettacolo teatrale per ragazzi costruito attorno al tema dell'ecologia e del riciclaggio dei rifiuti. E’ la storia di un viaggio nel mondo incontaminato di Valfiorita, dove i prati sono verdi, l'acqua è fresca e cristallina, le strade sono pulite e gli abitanti possono respirare a pieni polmoni l'aria tersa. Poi, l'arrivo in città dell'arrogante mister Marduk trasforma Valfiorita in Zozzonia. Solo con l'aiuto di Lattafoglia, una creatura con la testa di latta e le braccia di rami, tutti inizieranno a impegnarsi per un mondo più pulito e diventeranno persone impegnate a difendere il pianeta. L’autrice è Nini Giacomelli, conosciuta per i testi di canzoni come L’amico è, Grazie perché, scritti insieme a Sergio Bardotti, e di numerosi brani scritti per personaggi famosi come Ornella Vanoni, Gianni Morandi, Massimo Ranieri, Sergio Cammariere, Simone Cristicchi, Céline Dion, Tosca, Charles Aznavour, Chico Buarque de Hollanda, Vinicius de Moraes e molti altri ancora.

Lattafoglia

L’ecclettica e vulcanica autrice di Breno, ha dato vita anche a testi teatrali per adulti e ragazzi messi in scena da compagnie italiane e straniere, e a libri di favole e a programmi radiofonici e televisivi. Nel 1988 ha fondato il Centro Culturale Teatro Camuno (C.C.T.C.), con un’intensa attività di laboratori e spettacoli per bambini e ragazzi, per adulti e anziani. Alcuni di essi esportati anche negli Stati Uniti. Tiene seminari e laboratori sulla scrittura teatrale e creativa, e si occupa inoltre di "percorsi nella memoria" tra i racconti, i canti, le filastrocche del territorio camuno, dove vive. Per l’occasione, le rivolgo qualche domanda per conoscerla da vicino. Cara Nini Giacomelli, è stato un compito arduo sintetizzare le tue numerose attività, così la prima domanda che ti rivolgo è: quale tra tutte le tue passioni, musica, teatro, letteratura, comunicazione si è manifestata per prima nella tua vita o se esse sono manifestazioni di una forte personalità creativa e multiforme? “Ho sempre avuto una fervida fantasia. Da piccola mi rifugiavo nel retrobottega della merceria di mia zia Mina e mi nascondevo in uno scatolone; rimanevo lì per ore a raccontarmi storie e avventure incredibili popolate di mille perso-

naggi. Ho iniziato a scrivere racconti e poesie già nei primi anni della scuola elementare e le propinavo per lo più ad Anna, l’amichetta del cuore, passavamo interi pomeriggi sedute sulle scale di legno della mia vecchia casa , io leggevo e lei ascoltava. Mi ha sempre affascinato giocare con le parole, trasformarle, dare loro dei suoni, vestirle di emozioni. Le canzoni sono arrivate dopo, per caso o per conseguenza”. Ti seguo con piacere da diverso tempo, e mi ha da subito affascinato questo tuo legame con la musica di grandi cantautori brasiliani come Chico Buarque, Vinicius de Moraes e Toquino, per i quali hai tradotto e adattato dei brani. Com’è nato questo incontro? “Il mio Maestro di penna, per quanto riguarda la mia attività di paroliere, è stato Sergio Bardotti, grande autore e affabulatore, un uomo colto, raffinato, curioso. È lui che, nei primi anni 70, ha portato in Italia i maggiori cantautori brasiliani permettendoci di conoscerli e apprezzarli. Lavorando con lui era ovvio innamorarsi ancora di più di quella musica. Sono stata alcune volte in Brasile e ho avuto modo di conoscere Chico Buarque, Toquinho, Tom Jobim ed ho fatto da subito mio quel che diceva Vinicius de Moraes: “la vita è l’arte dell’incontro”. La cultura brasiliana e la poesia di questi grandi cantautori, ti cambiano la vita, perché ti arrivano dentro dolcemente e prima che tu te ne accorga si impossessano di te e ti colorano a tinte forti l’anima. Da questi incontri, nel 1983, hanno preso vita le mie prime traduzioni”. Dalle numerose raccolte di filastrocche, storie e sceneggiature per bambini e ragazzi, è evidente la tua spiccata sensibilità per il loro mondo. Nel tuo libro La scuola suonata mostri, in chiave ironica, le pecche d’insegnanti e genitori in un sistema educativo che sembra non funzionare. Cosa non funziona nella scuola di oggi? Troppo facile rispondere tutto, ma farei un torto alle tante persone di buona volontà che vi operano. Di sicuro non va il rapporto politica-scuola. Le scuole sono spesso fatiscenti, mancano dalla carta igienica al gesso e i supporti multimediali sono un sogno. La pro-

grammazione stessa è da medioevo. Ci sono, è vero, alcuni docenti preparatissimi che sopperiscono al nulla in maniera sublime, ma ci sono anche molti docenti impreparati al ruolo e pressappochisti. Per contro ci sono bambini con un grado di maleducazione ingestibile, genitori, “diversamente genitori”, pronti ad azzannare l’insegnante perché il piccolo genio ha sempre ragione. Ci deve pur essere un motivo se oggi persino alcuni ristoranti e alberghi in Italia (non solo all’estero) non accettano bambini italiani. Riassumendo, direi che siamo carenti di strutture, di buona educazione, del senso di rispetto, di dignità e di buon senso”. L’ironia è, nella maggior parte dei tuo lavori, l’elemento che maggiormente emerge. Quanto è importante l’ironia nella letteratura per ragazzi? “Credo che sia fondamentale educare i bambini all’ironia, soprattutto all’autoironia. In un mondo virtuale di tuttologi, saper ridere di se stessi è un buon primo passo verso la comprensione, la compassione e la tolleranza”. Il tuo personaggio Lattafoglia sarà protagonista del prossimo laboratorio per bambini che realizzeremo al Fondo Verri di Lecce, possiamo svelare qualcosa ai piccoli partecipanti e scoprire com’è nata questa storia? “È nata essenzialmente dall’esigenza di educare i bambini alla raccolta differenziata, spiegando loro l’importanza di proteggere l’ambiente che è la casa di tutti noi. Il mio gruppo, il CCTC, si occupa da 25 anni di teatro per ragazzi e lo fa sempre mischiando musica e parole; in questo modo si è sviluppato un piccolo musical a tema, con scenografie e costumi realizzati in materiale riciclato. Questa esperienza ha dato vita ai laboratori della fantasia. L’arte di creare oggetti utilizzando materiale di recupero. A fine laboratorio, al grido di “voglio viver garantito in un mondo più pulito” tutti i piccoli Riciclini diventano Cavalieri della Natura con qualche macchia e un po’ di paura”. Ti ringrazio per la disponibilità, certa che ti farà piacere una sorpresa che confezioneremo fapposta per te. Wow sorpresa? Aspetto curiosa e impaziente. Buon lavoro a te e ai Riciclini di Lecce. www.ninigiacomelli.it


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Beni culturali

"Che cosa ne sarebbe di noi o delle nostra cultura e del nostro modo di pensare se non restaurassimo niente e lasciassimo che il tempo cancellasse tutte le opere e i segni del passato, così che man mano non resterebbe più testimonianza del passaggio di ciò che è stato (...)"

Liberare

il Tempo

di Antonio Zoretti

S

alvaguardare i beni culturali può diventare una risorsa per la nostra terra. Con l'arte e la cultura si può mangiare (almeno un panino e un bicchiere di vino). Già! Sono gli slogan del momento; ma ci son sempre stati e sempre ci saranno. La parola d'ordine è Restauro. Certo, delle macerie, di quel che resta, insomma. Come Pompei o il Colosseo, l'equivalente di un dente cariato. Per cosa poi... per richiamare folle di turisti a rilasciare qualche dollaro in più sulle tavole sempre più vuote dell'Italia dei valori. A ben guardare, purtroppo a questo serve mantenere in piedi l'antichità decrepita, e non certo al nobile fine che spingeva l'uomo a guardarsi dentro, per ritrovar se stesso, le sue origini, il suo passato, il senso della vita... di cui parlava Nietzsche. Cioè, la domanda e la necessità di sprofondare sempre più indietro, sino ai confini estremi dell'immemorabile. "C'è sempre qualcosa di più antico che occorre ritrovare per far spazio al nuovo" - dirà Carlo Sini. "Bisogna ritrovare l'antico, recuperare l'origine, perchè l'estraneità del presente si illumini e renda praticabile il futuro." Invece, lo scopo dell'uomo contemporaneo è mostrar gli arcani lustri ai viaggianti, previo compenso, per sopravvivere, per non morir di fame, come se a tanta indecenza non provvedesse già la vita toutcourt. Se la nostra economia fosse florida non saremmo costretti a chiedere l'elemosina ai passanti, e men che meno ai turisti, navigati e mai stanchi, che abusano del loro tempo inspiegabilmente troppo libero. "La cultura per le masse è una idiozia, la fila coi panini ai musei mi dà malinconia" (Gaber).

Un’immagine da Pompei

Basta! Lancio una provocazione: ma, è solo "pro-vocazione", e questo significa chiamar l'altro a far sentire la propria voce, se ne è capace. Si tratta, certo, di una crudeltà, ma di Ecoiana memoria. Non si tratta però di cattiveria. Poichè può essere letta come un momento di humour. "Che cosa ne sarebbe di noi o delle nostra cultura e del nostro modo di pensare se non restaurassimo niente e lasciassimo che

il tempo cancellasse tutte le opere e i segni del passato, così che man mano non resterebbe più testimonianza del passaggio di ciò che è stato (...)" - disse il nostro professore di semiotica Umberto Eco, introducendo una memorabile lezione nei primi anni Ottanta. Ebbene, come provocazione non c'è male; essa provocò un silenzio pari a quello ottenuto nell'ouverture di un concerto. Riflessioni e meditazioni ne seguirono. Fu esaltante.

Una emozione simile la ebbi quando Paolo Fabbri (docente anch'egli di semiologia, a Bologna prima e alla Sorbona poi) dimostrò che "l'abito fa il monaco", capovolgendo la classica frase siffatta che ha sempre affermato il contrario. Scrosciarono applausi, mi ricordo... Che tempi! Come Oscar Wilde in un suo aforisma: "Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze." Ed altri ancora... Insomma, che cosa accadrebbe se lasciassimo il Colosseo al suo destino, Pompei alla sua frana, gli anfiteatri all'incuria e al loro declino... Mah! Certo, sono cose magnifiche i Teatri Romani, le tombe etrusche, i templi, le città sepolte e ritrovate, coi loro tesori, illuminati adesso per far bella mostra di sè e usando i giardini per fare concerti e spettacoli, con tutti i loro arsenali. Ma vadano tutte in rovina e non solo loro, ma tutti i restauri del mondo, se per il loro mantenimento è necessario che l'uomo sia nella condizione esposta sopra, cioè di bisogno, e subisca suo malgrado tale inganno. Quindi, il passato da conservare ed osservare non serve più a mirabili scopi ma, semmai a frenare la nostra fame, soprattutto in tempo di crisi... Anche se la vera crisi, a me, appare altra. Altro da questo misero e sfrontato tornaconto, nel riconoscimento dei beni culturali! Bene. E' quasi impossibile combattere contro questo mondo... di monete sonanti; indi non faccio appelli. Ma una cosa è certa, fosse per me libererei il tempo a operare il suo decorso di logorio, credendo che ogni resistenza a fermarlo con il maquillage non fa che aumentare il danno e gli uomini continuano tranquillamente a produrre e aumentare il danno credendo di neutralizzarlo. Sic!


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Teatro

Stefania De Dominicis e EmiliaTau raccontano il loro

Profumo di

Due salentine è un pò di Francia “Mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia”

F

Paolo Conte

rancia non è solo pioggia, ovviamente, e Champagne Ardenne è un distretto famoso per la sua bellezza, per il vino con le bollicine, soprattutto è regione con paesini piccoli, di pochissimi abitanti. Che diavolo ci fanno in quella regione francese al confine con il Belgio Stefania De Dominicis di Cavallino e Emilia Taurisano di Lecce? Trasformano in spettacolo i racconti che hanno imparato dagli abitanti di quella regione, una delle più povere di Francia, mentre bevevano assieme a loro un caffè. Il loro spettacolo è narrazione, recitazione, scrittura, fotografia, giocoleria, manipolazione. Studiano, ascoltano, parlano, trasformano e poi torneranno in quei paesi e saranno loro a rielaborare le storie nelle case, nelle sale da pranzo, davanti a un pubblico minimo. Un caffè che diventa un gioco del dare/avere, un filo che unisce ospiti e ospitati in uno scambio di ruoli. Loro, le attrici, dovrebbero essere ospitate, invece invitano gli abitanti in un momento di convivialità che permette un contatto non mediato da palcoscenici, platee, galleria, sipari. Ho incontrato Emilia e Stefania al Fondo Verri, mentre stavano lavorando e rielaborando le loro storie. Abbiamo parlato senza bere neppure un caffè. Come è nato il progetto? “Abbiamo risposto ad un bando della regione Champagne Ardenne che chiedeva di mettere in atto azioni culturali con lo scopo di coinvolgere a partecipare gli abitanti. Angeline, amica e collega è originaria proprio di quella regione che è una delle più povere di Francia, lo Champagne è arcinoto come eccellenza, meno forse come regione, la parte Ardenne è invece poverissima, ci sono paesini di 80 abitanti”.

Come mai vi siete trovate in Francia? “Io ci vivo, Stefania mi ha raggiunto per questo progetto” dice Emilia. Ditemi del bando “Avevamo pensato a qualcosa di simile per la periferia di Parigi. Abbiamo lavorato con Bertrand, in una periferia della capitale. Balzava a gli occhi nelle piazze, nelle strade il disagio, bambini che utilizzano internet per vedere film violentissimi, furti, degrado. Abbiamo sentito il bisogno di lavorare con queste persone e per loro. Abbiamo iniziato a sfogliare i bandi per cercarne uno che ci consentisse un lavoro sul territorio. Poi l’incontro con la regione Champagne Ardenne”. Quindi voi avevate già una compagnia... “Si, nuovo circo e fotografia. Lavoriamo per il teatro, il cabaret, i gala. Sono lavori che si prestano anche ad essere rappresentati in strada. A differenze dell’Italia dove il nuovo circo è prevalentemente teatro di strada, in Francia non è così. Là tutti i teatri stabili hanno programmazioni di teatro, danza, musica e nuovo circo. Rientra a pieno titolo nelle rappresentazioni ufficiali, è riconosciuto”. Quindi siete arrivate nella zona rurale... “Angeline, come dicevo, è originaria dell’Ardenne. Grazie a lei, che ha suggerito di andare a lavorare là, ci siamo mossi per scelta precisa proprio nelle zone più disagiate, quelle rurali, lasciando perdere le città ed i grandi agglomerati. Subito ci siamo posti il problema di come presentarci senza imporre la nostra cultura, volevamo cercare sul territorio l’identità di quelle persone, che è forte. Da qui la creazione di un punto di contatto fisico, reale fra noi e loro. In Francia esiste una cultura del caffè molto forte, prima dell’avvento della televisione era costume abituale invitare i vicini a prendere un caffè che è molto lungo e si beve tranquillamente seduti, facendo trascorrere il tempo, in grandi tazze. Ci è

sembrato un ottimo punto di contatto. Abbiamo proposto loro un baratto. Noi offrivamo un caffè e loro, in cambio, ci regalavano storie. Noi portavamo la nostra voglia di sapere ed un caffè, loro ci restituivano le loro conoscenze. Per farlo abbiamo imbandito meravigliose tavole nelle piazze e in luoghi dominati dalla natura, lì invitavamo le persone a sedersi con noi e a raccontare storie, aneddoti, fiabe. Alcuni Sindaci ci hanno aiutati, sia pure parzialmente, dopo questa prima fase di raccolta abbiamo iniziato a elaborare.” Parliamo della rielaborazione di questo lavoro, cosa proponete? “Stefania sta riscrivendo i testi partendo dai racconti e intrecciandoli con le esperienze che abbiamo fatto durante questi incontri, in sostanza, tutto ciò che noi

abbiamo imparato. Per il resto facciamo manipolazione di oggetti, antipodismo (giocoleria con i piedi), lavoro teatrale, il canto, marionette, teatro d’ombre. Un insieme di specializzazioni che ognuno di noi possiede. Inoltre stiamo facendo un lavoro sui suoni, il caffè ne ha molti, quando lo si prepara, quando sale, quando lo si versa, ogni momento ha un suo suono, una musica. Anche questo elemento sonoro sarà presente. Soprattutto tenendo conto che non facciamo un solo tipo di caffè, ma diversi: italiano, turco, francese ecc.” L’accoglienza è stata buona? “Non abbiamo mai avuto folle oceaniche, però ogni giorno abbiamo fatto conoscenze incredibili. In un paesino dove ci dissero “qui non succede nulla” noi abbiamo egualmente imbandito il nostro tavolo proprio lì abbiamo


viaggio teatrale nelle Ardenne

caffè di Gianni Ferraris

conosciuto persone bellissime. Un uomo pieno di storie si è fatto Km. a piedi per venire da noi a raccontarsi. Un inglese è arrivato con il suo asinello. Prima era un commerciante di diamanti, ad un certo punto ha avuto problemi di salute ed ha dato una svolta alla sua vita, si è messo a girare il mondo con un asinello. Sono storie nelle storie. Poi un’olandese che camminava dall'Olanda al sud della Francia, una blogger. Lei cammina e si cuce sulla giacca una targhetta con il nome di chi ha condiviso con lei un pezzo di cammino, così si porta appresso tutti gli amici”. Possiamo parlare di un sud del mondo come zona disagiata? Ed è possibile un parallelo con il Salento? “Da questo punto di vista direi di si, è un sud. Per il parallelo con il Salento in realtà la differenza è marcatissima. Però la nostra ricerca è sullessere umano. La signora di 90 anni che non ci aprì la porta per timore, e ci spiava dalla finestra socchiusa potrebbe essere mia nonna salentina. Il signore con l’asinello perchè non potrebbe essere il barone salentino? Similitudini le troviamo invece in abitanti di quei luoghi arrivati da fuori per viverci. Come in Salento, anche là si respira la possibilità di avere una vita meno oppressiva, più vicina alla natura. Una vita meno ossessionata ed opprimente”. Il progetto è riproponibile qui in Salento secondo voi?” “Quando organizzammo al Fondo Verri una prima rappresentazione venne accolta benissimo, il caffè riguarda anche noi. Certo, è proponibile, ovviamente non lavoreremmo sulle stesse corde. Quando lo porteremo in Ardenne ci faremo invitare nelle sale da pranzo, non nelle piazze o nei teatri, pochi spettatori invitati dagli stessi padroni di casa. Qui lo faremmo magari nelle corti, ci abbiamo pensato. Le corti sono micro comunità. Sicuramente incontreremmo tantissimo materiale su cui lavorare. Con questo spettacolo contiamo di andare in

giro per l’Europa. Magari per il Salento non partiremmo dal caffè.” Negramaro? “Pensiamoci! Ci incuriosirebbe la possibilità di fare spettacoli in case o corti salentine. In Francia è un esperimento diffuso, qui sarebbe nuovo. Su questo progetto uscirà anche un libro fotografico e scritto, sarà in doppia lingua italiana e francese” Disponibile quando? “Stiamo cercando una casa editrice, pensiamo francese, però ci fosse un editore italiano ci porteremmo pensare”. Certo che se trovaste un bando qui o una finanziamento sarebbe ottimo... “Ovviamente. Il nostro non è un pubblico pagante. Senza finanziamenti non potremmo iniziare”. Forse è un invito, chissà, forse qualche fondazione o qualche privato o, meglio, qualche ente pubblico potrebbe provare a pensarci. *** Riprendiamo dalla locandina in preparazione dell’incotro dell’ottobre 2013 al Fondo Verri: Compagnia TAU Un progetto finanziato dalla regione Champagne Ardenne Partner del progetto: Association Fleur Sociale, Compagnie La Baladaï, Côté cour, Festival du Jeune regard de Sy, FJEP de Vouziers, Maison de retraite de Vouziers, Médiathèque de Poix-Terron, Médiathèque Yves Coppens de Signy-l’Abbaye, Office d’animation des Crêtes Préardennaises, Café pour tous de ChâtelChéhéry, Les communes de: Boult aux Bois, Falaise, Lalobbe, Poix-Terron, Saint Lambert et Mont de Jeux, Signy-l’Abbaye, Sy, Fondo Verri Di e con: Stefania De Dominicis, Angeline Soum, Emilia Tau Documentazione fotografica: Bertrand Depoortere Assistente stagista: Igor David

Cinema

L’Oscar a Sorrentino

«E pensare che a confronto con la parodia di Villaggio "La corazzata Potemkin" di Sergej Ejzenstejn era veramente un capolavoro d'arte cinematografica. E non per paradosso, ma proprio letteralmente» https://www.youtube.com/watch?v=3CfVmRweoBw

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La bellezza e l’osceno

N

on so voi... ma, io il film "La grande bellezza" lo considero proprio brutto! Goffo e malconcio, decrepito. Si evince proprio la decadenza, il peggio di noi... Sono i nostri tempi, purtroppo. Conveniva scomodare e risvegliare la 'settima arte' per dire questo? Meglio lasciarla sopire ancora e attendere, con pazienza, tempi migliori... Meglio il silenzio che rumoreggiare invano. Il Cinema è altro, e l'Arte è un'altra cosa... "Non so voi... ma, io bevo Aperol" - recitava uno spot pubblicitario di qualche decennio fa. A buon intenditor... A proposito degli americani, i quali ad una 'scorreggia autoriale' hanno unito un Oscar (così come avvenne per Benigni), il grande Hitchcock apostrofava i loro film come "fotografie di gente che parla". Già! Ed io mi annoiai anche vedendo "La dolce vita" (versione edulcorata della volgare mondanità odierna de "La grande bellezza"). Quindi, è un augurio questo silenzio che viene rivolto al cinema, sperando che si dia per spacciata, una volta per tutte, questa idea di fare arte, senza l'ausilio di mezzi e mezzucci, perchè anche le mode sono un cavillo. Ci vorrebbe, forse, una grossa rivoluzione di pensiero (quella che auspicava Carmelo Bene, il quale non riusciva a capire perchè in campo cinematografico non succede quello che è accaduto alla pittura con Pollock), e allora potremo daccapo incominciare a frequentare l'Arte. Ecco, quello che ci manca, oggi, al cinema, come nelle arti in genere, è un gesto liberatorio, di uno che sappia fare piazza pulita, distruggere montagne di inutili parole con un colpo di mano. E prendere soprattutto in giro i critici o le persone che credono di aver cultura (i saccenti) e fare pulizia delle forme, dei valori,

degli pseudo valori culturali; così da farne una bella parodia e riprendere a ridere. Insomma, abbattere la cultura, almeno nel senso antropologico del termine: la cultura, in fin dei conti, è l'insieme delle rappresentazioni socialmente elaborate. Per questo tutta l'iconoclastia, la battaglia culturale di CB è stata contro la rappresentazione. (...) "Le parole, il pensiero, intesi come illustrazioni, come immagini, come repliche consolatorie, sono appunto rappresentazioni, bisogna liberarcene" - egli diceva. F. Truffaut paragona il genio pubblicitario di Hitchcock soltanto a quello di Salvador Dalì, e guardando i suoi film - egli dice è evidente che quest'uomo aveva riflettuto sugli strumenti della propria arte più di tutti i suoi colleghi. E "La finestra sul cortile" è semplicemente un film sul cinema. Ecco, Truffaut conosceva il cinema; tra l'altro nasce in Francia come il cinema, e vive in un contesto dove semiologi come Roland Barthes, Cristian Metz e Andrè Bazin scrivevano eccellenti saggi sul linguaggio cinematografico che ancora oggi sono oggetto di studio. Non c'è da meravigliarsi, dunque, se egli asseriva che i film di Hitchcock, sfidando l'usura del tempo potranno competere con le nuove produzioni, quasi a verificare l'immagine di Jean Cocteau a proposito di Proust: «La sua opera continuava a vivere come gli orologi al polso dei soldati morti». Il cinema invece nasce morto. Robert Altman salvava soltanto il cinque per cento della produzione cinematografica mondiale. Io ancora meno. C'è da chiedersi, a questo punto, se gli odierni prodotti artistici insigniti possano resistere al tempo; oppure il loro destino è limitato nell'immediato consumo, e resteranno solo artifici dei nostri tempi, in questo sciocco e sciancato Duemila. Comunque sia... buona visione. di Antonio Zoretti


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Per Itinerario Rosa 2014, Le Ali di Pandora rendono omaggio a Ezechiele Leandro L’appuntamento a Lecce, dal 12 al 16 marzo nell’ex Conservatorio Sant’Anna

Memoria

Un’opera di Leandro

M

ercoledì 12 marzo alle ore 18.30, presso l'Ex Conservatorio Sant'Anna in Via Libertini a Lecce, dopo il saluto delle autorità, Ambra Biscuso e Lucy Ghionna esporranno il programma della mostra/laboratorio sul libro d'artista: “I libri spezzati. La donna nella creazione di Leandro”. La mostra, che unisce la ricerca alla creazione, alla produzione, alla sperimentazione, è inserita nella manifestazione del Comune di Lecce “Itinerario Rosa 2014” e vede il patrocinio dell'Accademia di Belle Arti di Lecce. In apertura la performance “Il dubbio di Eva” di Lucia Macrì e Domenico Arces; a seguire Tommaso Ariemma, scrittore, filosofo, docente di estetica, parlerà del libro d'artista visto dal punto di vista estetico. Chiuderà la serata la proiezione del video di Claudia Ingrosso: “EvE” ispirato dai testi di Leandro. Una delle attività che negli anni ha contraddistinto l'Associazione Le Ali di Pandora sono i laboratori creativi, o laboratori protetti, punto focale della nostra attività sin dalla sua fondazione, dove ricerca, storicizzazione, sperimentazione e creatività vivono in simbiosi, si è quindi pensato di utilizzare la nostra “forza lavoro” per offrire momenti di approfondimento, creatività e riflessione, permettendo al pubblico di avvicinarsi a questa forma d'arte importante: Il libro unique scegliendo come ispiratore del progetto Ezechiele Leandro l'artista che fece dello scarto opera d'arte. Non a caso il titolo della mostra: I libri spezzati è il titolo di un'opera di Ezechiele Leandro che rappresenta la natività ed è, appunto, un libro d'artista. Al progetto della mostra hanno aderito: Roberto Bergamo, Daniela Cecere, Paolo Ferrante, Lucy Ghionna, Monica Lisi, Mauro Marino noti da anni nel campo del libro d’artista e storicizzati in musei, archivi, biblioteche nazionali. Si è inteso lasciare grande spazio a giovani Artisti, allievi del corso di Decorazione Contemporanea dell'Accademia di Belle Arti di Lecce, alla guida di Lucy Ghionna, che dopo un'attenta lettura del testo di Leandro: “La creazione degli Angeli ed il peccato di Adamo ed

I libri spezzati Eva” li ha visti protagonisti nella manipolazione di un libro già esistente esplorando le potenzialità semiotiche di tecniche e materiali appartenenti anche a categorie che non sono notoriamente quelle della stampa, fino ad arrivare a materiali e mezzi di tutt'altro genere, come l'apparente inconsistenza diretta delle tecniche virtuali. *** Il 13 e 14 marzo a partire dalle 17.00 si aprirà “Il laboratorio”, composto da un giorno di teoria ed uno di pratica, sulla realizzazione del libro d'artista. Giovedì 13 marzo Lucy Ghionna e Roberto Bergamo introdurranno alla storia del libro d'artista e spiegheranno come si svolgerà il laboratorio per approfondire l'argomento interverranno: Maurizio Nocera, Mauro Marino e Claudio Martino. Venerdì 14 è dedicato alla prati-

ca, quindi la realizzazione del manufatto che vede affidata la parte sperimentale a Roberto Bergamo, la pittorica a Daniela Cecere, la materica a Lucy Ghionna e l'editoriale a Paolo Ferrante. Il terzo giorno, sabato 15, i lavori prodotti nel corso del laboratorio saranno esposti al pubblico. Sabato 15, ore 17.00, il laboratorio di scrittura di flusso, L'isola sconosciuta, a cura di Ambra Biscuso: la parola prende il posto del corpo. Sempre sabato, in serata, Tiziana Buccarella proporrà una performance dove: sperimentazione e teatro si uniscono in un adattamento del testo di Leandro: “La creazione degli angeli ed il peccato di Adamo ed Eva”. Domenica 16 marzo è dedicata al laboratorio per i più piccini a cura di Monica Lisi.

La locandina dell’iniziativa


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Appuntazzi

Le corrispondenza da Luzzara di Gianluca Costantini

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Arte

Il colore dell’ I

l mio primo incontro con l’arte di Antonio Stanca è avvenuto attraverso un bellissimo articolo di Maurizio Nocera, “L’arte astrale di Antonio Stanca”, pubblicato sul n.4 del periodico galatinese “Il filo di Aracne”, del settembre-ottobre 2007. Mi colpirono profondamente, su quel numero della rivista, proprio l’opera di Stanca riportata sulla copertina e il titolo, a mio avviso felicissimo, dell’intervento critico di Nocera. Ho avuto poi modo di approfondire la conoscenza dell’opera di Antonio Stanca e dello stesso autore, avendolo conosciuto personalmente in uno dei vari rendez vouz artististici che si tengono in quel di Galatina, città che negli ultimi anni ho molto frequentato, per via delle tante intraprese culturali cui ho partecipato (complice il caro Gianluca Virgilio, presidente dell’Università Popolare “Aldo Vallone”) e dei molti amici a cui sono ormai legato. Mi sono talmente innamorato dei dipinti di Stanca che avevo pensato di chiedergli una sua opera per la copertina del mio libro “Di tanto tempo” (Pensa editore) del 2010, per la quale cercavo, nell’immagine, qualcosa di astratto e forte, con il rosso come colore dominante, qualcosa che mi era sembrato di trovare perfettamente in un’opera di Stanca delle sue ultime. Ma poi un certo pudore mi fece desistere dal proposito di rivolgermi a lui e, riducendo le mie pretese, per la copertina del libro lasciai fare al grafico della casa editrice. Un dialogo a distanza comunque si è da allora instaurato fra me e il pittore galatinese, io sempre a comunicargli il mio grande interesse per i suoi dipinti e la mia ammirazione, ad ogni occasione di incontro. Punto di svolta è stata la lettura del catalogo “Antonio Stan-

stello Baronale di Castrignano dei Greci, nel 2010.

ca. Una vita... una lunga ricerca”(Maglie 2010), di cui Antonio mi fece omaggio qualche tempo fa. Questo depliant mi ha davvero aperto le porte di un mondo di incontaminata bellezza e di fantastici colori, il mondo dell’arte di Antonio Stanca. Il catalogo, per la cura di Silvia Stanca, presenta in copertina l’opera “Ultimo ricordo di Totò”, del 2005, olio su mdf, un omaggio da parte del

pittore al cognato Salvatore Alessandri col quale egli condivideva gli interessi artistici. La carriera di Stanca viene sezionata e divisa in periodi e aree tematiche o stilisticoespressive,il che aiuta il lettore alla comprensione dell’elaborata parabola umana e creativa di Antonio e della sua multiforme attività. Il catalogo è stato pubblicato in occasione della mostra antologica tenuta da Stanca presso il Ca-

Nella sua dotta Prefazione, la professoressa Carmen De Stasio scrive: “L’artista Antonio Stanca formula innovate condizioni emozionali con lipogrammatica condensazione di squarci ideali, che suggeriscono una configurazione entusiastica delle idee lungo un percorso cui confrontarsi e fondersi con levità, lasciando quel segno enigmatico che è esso stesso sinonimo di libertà da qualunque forma di decorativismo.[…] Stanca supera costantemente i confini della metafora storica o solo spaziale e compiacente: l’impianto scenico riflette il dinamismo di melodie intersecanti con lo stridore di suoni armonici, irruenti, impetuosi, capaci di produrre emozioni sostanziali al coinvolgimento con un’obliquità ritmica che conferma solennemente la propria centralità di atto complesso, inquieto, e, al contempo, disarmante... con uno stupore che si adagia lentamente su fasi di meditazione intorno all’ignoto”. *** Attraverso le note biografiche contenute nel testo, apprendiamo che Antonio Stanca nasce a Castrignano dei Greci nel 1942 e si diploma in Decorazione Pittorica all’Istituto d’Arte a Lecce nel 1960. Insegna Educazione Artistica nelle Scuole Medie e parallelamente porta avanti la sua attività artistica con la partecipazione a svariate mostre in tutta Italia e all’estero. Oltre alla pittura, si occupa di scultura, grafica, fotografia. Sposato con Elisabetta Diso, e padre di due figli, vive ed opera a Galatina. La prima fase della sua carriera, 1959-60, è quella dell’Informale, con ovvi ed evidenti riferimenti a Burri, Vedova, Fontana, insomma i capisaldi dell’arte informale in Italia. La seconda fase, 1963, è quel-


Il potere dell’inconscio nella pittura di Antonio Stanca

ignoto

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pagine n° 10 e11

di Paolo Vincenti

la che viene definita “La crisi dell’arte”. Stanca, influenzato dall’amico Umberto Palamà, sostenitore del Futurismo, abbandona le realizzazioni “tradizionali” e si dedica ad una profonda riflessione sul ruolo dell’artista nella società di quegli anni e, proclamando la morte delle opere d’arte, dà sfogo ad un impegno civile e politico di profonda contestazione. Ma dopo la breve parentesi, egli ritorna a produrre, già nel 1970, con le “esplorazioni dell’inconscio”. In questa fase, influenzato dagli studi sulla psicologia e psicoanalisi, realizza dei quadri in cui protagonista è l’inconscio. Ma dopo questa parentesi intimistica, ritorna alla contestazione e all’apertura al sociale e realizza, con stile espressionistico, foto, poster e collages dai messaggi di forte impatto. Dal 1982 al 2001, la fase delle composizioni astratte. In questa fase ritorna l’amore per il colore che è poi il tratto distintivo della sua opera. Nelle sue composizioni, olio su mdf, le calde cromie delle opere ci parlano dai dipinti, facendoci immergere in un universo fantastico dal quale a fatica si riesce ad uscire, procurando l’opera nello spettatore una sorta di mistico rapimento, quasi una transe in cui si viene a sprofondare. *** Ecco, il potere dell’inconscio, a mio avviso, opera in tutta le creazioni di Antonio. Perché quelle immagini di sogno, o d’incubo, ci richiamano dagli abissi della follia, delle paure ancestrali, e negli orizzonti siderali dei suoi pianeti misteriosi, si avverte quell’ horror vacui che è come un fantasma ritornato dalla notte dei tempi. Nelle volute inestricabili, nei grovigli di colore di questi quadri, avvertiamo per un attimo lo spaurimento di trovarci soli fra quelle scie infuocate di

Ad illustrare alcune opere di Antonio Stanca tratte dal sito www.antoniostanca.it

astri e stelle comete come nebulose o galassie in estinzione e di non conoscere la via, di non sapere più il modo di ritornare a casa. *** Moltissime le recensioni sull’arte di Antonio Stanca. Un’intera sezione del libro è dedicata alla bibliografia delle pubblicazioni sulla sua attività artistica e degli scritti dello stesso Stanca. Fra gli altri, si sono occupati di lui: Vittoria

Bellomo, Nicola Cesari, Gerardo Caprioli, Valerio Grimaldi, Antonio Mele Melanton, Maurizio Nocera, Toti Carpentieri, Maria Rita Bozzetti, Giuliana Coppola... L’ultima sezione del libro è dedicata all’elenco delle mostre, personali e collettive, cui Stanca ha partecipato. Dal 1984 inizia la fase dei “panorami di Tancas”:si tratta di una serie di viaggi ed esplorazioni su un pianeta lontano e scono-

sciuto, chiamato con un anagramma del cognome del pittore, dove cieli immensi e scenari infuocati sembrano gorgheggiare come in un maelstrom nei vortici delle sue tele. Dal 2001 inizia la fase degli “Universi” che, insieme all’ultima, quella degli “universi paralleli e multiversi” è la mia preferita in assoluto. Si tratta delle esplorazioni dell’ignoto in cui domina sempre la luce come elemento caratterizzante e ancora di salvezza nel panorama buio e tempestoso e nella visione di ansia e angoscia che avvolge la quasi totalità di queste composizioni. Con la luce, Stanca vuole celebrare il miracolo della vita ed ingrandisce milioni di volte la luce stessa, fino a dare un’immagine iperrealistica che, curiosamente, convive in una rappresentazione astratta. Ma è come se il soffio generatore, invece di dare ordine e consistenza alla materia, la ingarbugliasse ancor di più, ne disperdesse l’inestricabile trama. Stanca, in questi ultimi anni, svolge sempre la stessa tematica ma con una miriade di immagini diverse, come delle variazioni sul tema. La sua ricerca si è fatta via via più profonda, complessa, di pari passo forse con gli studi che l’intellettuale approfondisce e che influenzano l’artista. Nei suoi gorghi di colore l’indistinto regna sovrano ed è questa, del resto, la peculiarità dell’arte astratta, nella quale il pittore abbandona ogni logica ed attinenza con il reale ; nell’antifigurativismo dei suoi quadri segue solo la voce della propria interiorità, ma essendo questa imponderabile, ne consegue che, nel suo percorso privo di condizionamenti, sulla strada dell’immaginario, egli dia voce, suono, colore, ad audaci invenzioni, trionfi dell’assurdo, fantasmagorie della mente.


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Racconti salentini

C’era una volta

l’asilo di donna Emma O

di Rocco Boccadamo

ggi, nell'ambito di ogni comunità, dal paesino di poche centinaia di abitanti sino alla grande città, esiste, per fortuna, una vasta e capillare rete di entità o istituzioni che s’interessa e occupa dell'accoglienza, custodia e prima formazione dei bambini in età da uno a cinque anni. Tali strutture, peraltro, com’è noto, mediamente insufficienti dal punto di vista quantitativo rispetto alla domanda dell'utenza, si caratterizzano sotto le insegne di nidi, asili, scuole materne e/o dell’infanzia e recano, in aggiunta, denominazioni e sigle carine e accattivanti, del genere, ad esempio, di “Ape Maya” o “La bacchetta magica”. Altro aspetto distintivo, constano di ambienti resi gradevoli e colorati e ciò per attirare e coinvolgere gli sguardi e i moti d’osservazione infantili e pure l'arredamento è consono ai gusti e alle preferenze degli ospiti. Vi lavorano operatori, specialmente operatrici, con un buon bagaglio di preparazione psicologica, pedagogica e di assistenza in generale a utilità e beneficio dei piccoli, un insieme di caratteristiche che mira, chiaramente, a non far pesare, nella suggestione delle giovanissime creature, il distacco, per buona parte della giornata, dalla loro mamma e anche dalle abitudini domestiche. Cosicché, i bambini, talvolta poco più che neonati, s’inseriscono bene, stanno con piacere nelle loro “nuove case”, sono rari i casi in cui soffrono e si lamentano, nonostante che la mamma resti sempre la mamma, uniche e insostituibili la sua vicinanza, la sua voce, la sua figura, le sue carezze, le sue occhiate sorridenti. Purtroppo, lemadri di oggi, e in un comune nucleo familiare, e nel ruolo, ormai non infrequente, di persone singole con prole, hanno l’impellente e irrinunciabile necessità di svolgere un lavoro, dipendente o autonomo, o di dedicarsi a una professione e, quindi, non si vede in che modo potrebbero cavarsela senza lo sbocco di una struttura di accoglienza cui affidare il/i bambino/i. Non sempre ci sono i nonni vicini e disponibili e idonei a fare le veci della mamma, ecco perché,

Il palazzotto a Marittima di donna Emma e don Rafaeli

dunque, alla fine le strutture in discorso si rivelano non bastevoli, anche se, da alcuni anni, ci si adopera per istituirne direttamente all'interno di grandi aziende o enti pubblici. Occorre fare i conti con problemi di mancanza numerica, quindi, per non parlare delle elevate rette da pagarsi, soprattutto presso le realtà private. Così è oggigiorno, mentre la situazione non era per niente analoga nei tempi andati, cinquanta – sessanta anni fa, almeno nei piccoli centri del Sud caratterizzati da una società tipicamente contadina. Ciò è in grado di affermare il cronista, non solo per ordinaria cono-

scenza ma anche per antiche esperienze dirette e personali, con riferimento alla sua località d’origine di Marittima. *** V’è, intanto, da dire che, nel corso dei decenni lontani, le donne si maritavano e iniziavano a partorire presto, intorno ai vent'anni, e, di conseguenza, avevano, a loro volta, fratelli e sorelle giovani e pure i genitori ancora tali, con l’effetto di notevole interscambiabilità e mutualità, in autonomia famigliare, di fronte ai bisogni dell'uno o dell'altro membro. Per le donne, particolarmente, non esistevano attività impiegatizie

o di lavoro in fabbrica, maturavano soltanto saltuarie giornate di fatica in campagna, in aiuto ai genitori e ai fratelli; in prevalenza, invece, se ne stavano casa, le giovani attendendo al ricamo o alla preparazione del corredo. Di riflesso, il paese non necessitava in via continua di un asilo o di una scuola materna, i bambini piccoli crescevano fra le pareti domestiche o fuori degli usci, sotto la cura e la sorveglianza, tra un’incombenza e l’altra, delle mamme o di qualche familiare, in attesa che, a sei anni, iniziassero a frequentare la scuola elementare statale. Tuttavia, ricorreva un periodo


stagionale in cui anche le donne, da diciotto fino a cinquantacinque – sessanta anni, intraprendevano un’attività lavorativa, che si protraeva da due a quattro mesi, nei “magazzini” o manifatture di lavorazione delle foglie di tabacco operanti nel paese: orario dell’impegno, dalle 7,30 alle 16,30, salvo un salto casa, a mezzogiorno, per un pasto velocissimo. In questa occupazione, capitava che fossero coinvolte sia le giovani ancora non sposate, sia le giovani mamme, sia, infine, le nonne ancora in età lavorativa e, pertanto, in quel periodo, anche a Marittima veniva a porsi il problema dell'affidamento e della cura dei figli in età da uno a cinque anni. Ad assumere tale compito o funzione, più o meno a cavallo della seconda guerra mondiale, si propose una donna del posto, di origini modeste, famiglia contadina al pari, del resto, della generalità della gente, il suo nome era Emma, trasformatosi per consuetudine più che per diritto, dopo il matrimonio con un uomo di famiglia abbiente, don Rafeli, in donna Emma. Alcuni particolari sulla persona. Emma, unitamente ai propri famigliari, badava, sin dalla tenera età, alle terre e alla stessa abitazione della famiglia di chi sarebbe diventato suo marito, erano mansioni, le sue, da persona di servizio, così usavano dire allora, oggi più giustamente definite da collaboratrice. In pratica, stava notte e giorno a faticare a contatto dei “padroni”, un rapporto strettissimo, quasi lei fosse una di casa. I vecchi del paese raccontano che, talora, i “padroni” di Emma si chiedevano ad alta voce se lei, una volta maritata, avrebbe proseguito o no l’attività di donna di servizio. E che la ragazza, nell’ascoltare siffatti discorsi, con acume, abilità o furbizia, rispondeva sempre così: “Cari padroni, a me difficilmente capiterà di sposarmi, giacché le malelingue del paese sussurrano e hanno ormai diffuso la voce che io, oltre a prestare servizio, intrattengo con voi anche relazioni d’altro genere, peccaminose ( ndr, e, a questo punto, chinava il capo) e, quindi, chi volete che mi prenda per moglie?”. Colpito e, chissà, forse toccato da simili reazioni, il giovane della famiglia benestante, don Rafeli, il quale aveva passato un po' d'anni in seminario senza però riuscire a prendere Messa, un giorno si sentì vinto da un modo interiore di particolare compenetrazione nell’idea della donna e, con aria solenne e decisa, le dichiarò: “Emma, non devi preoccuparti, se nessuno ti vorrà prendere per moglie, ci penserò io a farlo”. Scaturì da qui, l'avanzamento

Una pagina del libro “Raccolta di Sacre Novene”

della lavoratrice, da persona di servizio a sposa in municipio e in chiesa, non di un suo pari, ma, addirittura, di un signorino, con la parallela assunzione del titolo di donna Emma. Si era stabilita, la coppia, in un antico e artistico palazzotto a due piani nei pressi della “Campurra” di Marittima; per la precisione, il terraneo era affittato a un artigiano, mesciu Biasi (maestro Biagio), mentre i novelli marito e moglie, che non ebbero figli, occupavano l’ampio primo piano. L’ambiente più grande, nel periodo di operatività del magazzino o manifattura tabacco, si trasformava, giustappunto, in asilo per i piccoli di Marittima, lì accompagnati velocemente la mattina dalle rispettive mamme, in mano una borsetta di cartone contenente una frisella o fetta di pane, cosparse da un sottile strato di zucchero e, poi, ripresi e ricondotti a casa a metà pomeriggio. Diverse ore d’asilo per i cuccioli, sistemati su file di seggiole o panchette e sgabelli di legno a recitare filastrocche, ascoltare qualche cuntu (racconto), canticchiare inni di chiesa, semplicemente relazionarsi e giocare fra loro, sotto lo sguardo di donna Emma. In tarda mattinata, via alla discesa nel giardino, sottostante, del palazzotto, dove esistevano alcune piante di agrumi e quel posto, dopo l'invito o comando di donna Emma “forza, tutti a fare pipì e pupù” diveniva il bagno o gabinetto per i bisogni corporali dei piccoli. Tanto passava allora il convento, oggi verrebbe da rabbrividire dinanzi a simili procedimenti, di fatto, però, nemmeno l’ombra di proble-

mi o di effetti collaterali dannosi a carico di un’utenza di venti – trenta bambini e bambine. Quindi, la frugalissima colazione e, da ultimo, brevi sonnellini dei più piccini, all’interno di un paio di nache (culle) sistemate in un angolo dello stanzone. A tutto presiedeva la sola donna Emma, mentre il coniuge don Rafeli se ne restava isolato negli altri vani della casa, non si vedeva mai, salvo in occasione delle uscite per recarsi al tabacchino e rifornirsi di cartine e tabacco per fumare. Da mettere in evidenza che le famiglie che affidavano i figli piccoli a donna Emma, non le versavano alcuna retta, semmai si disobbligavano mediante sporadiche dazioni in natura, tipo un cestino di uova fresche, un pacco di zucchero, un vasetto di mostarda d'uva che tanto piaceva a don Rafeli. Insomma, in seno alla cittadinanza marittimese, donna Emma svolgeva in fondo una funzione benemerita di pubblica utilità. Una donna piccola di statura, e però, come accennato all’inizio, assai attiva, intraprendente e furba. Per il suo ruolo, lei era automaticamente invitata a ogni matrimonio o battesimo o cresima o comunione del paese e ai relativi modesti ricevimenti che seguivano. Purtroppo, in dette occasioni, si distingueva per una sua particolare debolezza, non rinunciava mai ad arraffare, con mani rapide, dalla guantiera dei “complimenti”, non uno, come facevano gli altri invitati, bensì una manciata di dolcetti, infischiandosene dello sguardo bieco e di riprovazione che puntualmente ma invano le rivolgeva il compae-

spagine

pagine n° 12 e 13

sano Nino che, di solito, si offriva di svolgere, a titolo volontario e gratuito, la mansione di cameriere. Un limite, che donna Emma si portò appresso finché restò in vita. Invece, don Rafeli, da parte sua, verosimilmente sulla scia dei suoi trascorsi da seminarista, si distingueva per la frequentazione assidua della chiesa e delle funzioni religiose (per citare, era sempre lui a reggere l’ombrellino a riparo del SS. Sacramento durante la processione del Corpus Domini) e, in genere, per la collaborazione con il parroco del paese. In speciale modo, si ricorda ancora oggi che, intorno al 1930 – 1935, egli si fece carico della trascrizione, rigorosamente a mano, con bella ed elegante calligrafia su fogli di carta sottili e i margini di ogni facciata contornati da disegni ornamentali, di antichi manoscritti sacri, contenenti preghiere, inni, salmi, novene, liturgie varie, correlate a Vigilie solenni e a ricorrenze celebrative dei Santi Protettori, alla Quaresima, alla Settimana Santa e via dicendo. Uno spesso volume che, una sessantina d'anni fa, catturava l'attenzione anche di chi qui scrive, che lo leggeva con passione, ripassando le pagine che sembravano maggiormente interessanti. Da notare, che tale manoscritto trovasi tuttora conservato, nella sacrestia della Chiesa Matrice di San Vitale, a Marittima, a cura scrupolosa dei parroci che si succedono nel tempo. L’opera si presenta integra, con ogni facciata e pagina nella versione originale, con l'unica eccezione che, a distanza di mezzo secolo dalla trascrizione per mano di don Rafeli, esattamente nel 1983, il volume è stato rilegato e munito di una copertina più moderna e nello stesso tempo protettiva e resistente, custodia preziosa del contenuto, alla stregua di un vero e proprio gioiello. Recentemente, ho ottenuto, dal prevosto in carica, il permesso di ridare un’occhiata e sfogliare ancora l'antico libro; con l'occasione, ho fugacemente catturato alcune pagine e l’intitolazione “Raccolta di Sacre Novene” in copertina e sul dorso. Avanti di passare a migliore vita, don Rafeli e donna Emma hanno deciso di donare alla chiesa il palazzotto della Campurra, che adesso, esteriormente integro nella sua antica bellezza, si presenta triste e vuoto.


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Accade in città

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Con Mr.P visita all’ex tabacchificio occupato a Lecce in via Dalmazio Birago... Si cercano libri per la biblioteca

segue dalla prima pagina

di Gioia Perrone

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ovreste usare una piccola tenda da campeggio anche dentro la stanza, per il freddo, dice Mr P. al ragazzo alto che mi ha aperto il cancello e che ora è intento a trasportare un carrello della spesa carico di pattume ed erbacce. Mr P. è un amico e street artist da anni rientrato da Londra e attivista nella riqualificazione urbana. Facciamo insieme un lungo giro, mi mostra i lavori che ha già realizzato sulle mura principali dello stabile e il lavoro che deve ancora terminare sulla superficie dell'enorme cisterna ormai vuota che divide la zona del cortile dai i grandi capannoni-bunker, adibiti un tempo per l'essiccazione delle foglie del tabacco. Qualche giorno fa questa cisterna nemmeno si vedeva , era tutto pieno di rovi, mi dice Mr P, poi mi guida all'entrata del primo grande capannone dalle mura spesse e senza finestre, un luogo concepito per essere totamente isolato,chiuso da porte pesantissime, in modo che l'anidride carbonica della cisterna filtrasse all'interno per essiccare il tabacco. L'odore del capannone è ancora pungente, senza volerlo il mio immaginario sfiora le camere a gas di tutte le latitudini temporali. Nonostante gli anni, mucchietti di foglie di tabacco giacciono aperte insieme alla polvere e ai cavi. Ne raccolgo una e attraversiamo tutta la superficie del bunker fino alla stretta uscita esterna. Mr P. Mi fa vedere cosa c'è intorno, uno spazio verde dalle enormi potenzialità, pini, erba, piante selvatiche, il capannone confina con i binari ferroviari, dove i treni sfrecciano verso Nord e fino a qualche decennio fa pieni della nostra gente, verso la Svizzera, o Torino, o la Germania. Pensa chi lavorava qua, mi dice Mr.P., a guardare questi treni passare pieni di compaesni, di amici, di parenti, che se ne andavano. Avere un posto di lavoro in questo tabacchificio, negli anni '70 era il massimo della vita. Mio padre, mi racconta, lavorava pure lui in un tabacchificio, a Trepuzzi, quando finivo la scuola ogni giorno andavo a trovarlo. Mr P. Fissa l’orizzonte e racconta. Rimango altro tempo con lui sulla pensilina retrostante il capannone, un metro sotto passa il vecchio binario che fa tutto il giro dello stabile, sul quale viaggiava il treno interno che caricava dal bunker il tabacco essiccato e che arriva sin

Binario 68 Nelle fotografie di G. Perrone la pensilina le segnalazioni delle sale di essiccazione e il binario interno alla manifattura

dentro il grande cortile, anche se quella parte si vede meno, sovrastata com'è da brecciolina, terra, erbacce. Un binario morto e sepolto, che però riaffora, fin sotto ai piedi dei ragazzi a lavoro con martelli, spazzole e vernice. Bisogna rintracciare i vecchi lavoratori, ci diciamo - mentre mi mostra tutti ammassati vecchi scatoli di medicinali destinati a loro ,"medicinali deo stato", insieme a materiale pubblicitario degli anni '90 - rintracciare le storie di quelli che qui hanno trascorso l'esistenza. Hai visto le stanze? E qui, tutto intorno? Tutto lasciato marcire. E adesso proviamo a farci una biblioteca [ chi vuole donare dei libri può contattare il 3408592011 ndr] e altre attività utili per il quartiere. Sono contenta per i ragazzi perchè hanno capito, coscentemente o in-

coscentemente quanto sia importante la cura, il ripristino, il ricucire il disuso, prendesi a mani piene lo spazio vitale, la condivisione, il rapporto col mondo che è sempre un rapporto con il proprio corpo e con lo sguardo di chi sta vicino. Lo stanno imparando e sperimentando con i vicini del quartiere, con il freddo di questo ultimo pezzo di inverno, con la propria assenza dalle aule dell'università, che in certi casi ed in certi luoghi, hanno dato molte bibliografie e poca corazza umana, poco esercizio all'ascolto, poco orientamento, quell'orientamento all'umano che parte dalla fila accanto, da quella dietro, dal proprio dirimpettaio, dai luoghi accanto alla propria casa, dalla voce che hanno le tracce, e dal valore che ha il lavoro che parte anche da questo specifico ascolto, e dal senso di appartenenza che parte anche quello, da questo specifico ascolto.

E la paura? Già, la paura. Eppure i bunker con i cartelli che si accendevano di rosso, per segnalare il pericolo di asfissia agli operai del tabacco, sono vuoti e si sente una forte eco, se provi a gridare. Ma è solo la tua voce che urta i muri spessi e ritorna. Paura non bisogna averne. Ora pulisco insieme ai ragazzi, mi dice Mr P, prima di salutarci, poi dopo un po' di pulizie mi metto a dipingere ancora, devo finire la cisterna, voglio fare delle belle cose...perchè... uno non è che viene a fare l'artista, o il giornalista, o... non so... prima deve ripulire, partecipare, poi fare. Al cancello una ragazza in bicicletta, col cestino pieno di arnesi entra dentro. Saluto i ragazzi, penso che tra poco viene aprile e sarà bello. Inizia un poco a piovere ma non la butta forte.


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