Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri
della domenica 22 - 30 marzo 2014 - anno 2 n. 0
spagine
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Lecce, 30 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 22
pagina n° 2
Diario politico L’Italia, la corruzione, l’evasione fiscale, i tagli e la democrazia
Nel paese
I
dell’assurdo
n Italia è in corso, propagandato come una rivoluzione, un colossale raggiro degli italiani. Si tratta della spending review, che dovrebbe portare nelle casse dello Stato qualche miliardo di euro nel giro di qualche anno. Detta papale-papale: tagli di spesa in ogni settore della pubblica amministrazione, della difesa, della sicurezza, della sanità, dei trasporti, della scuola e della …stessa democrazia con la soppressione del Senato e delle Provincie. Nello stesso tempo: privatizzazioni, dismissioni, vendite di immobili dello Stato. Insomma, una situazione di fallimento indecoroso e completo. A fronte di questa campagna di “cenci alla patria” per racimolare qualche spicciolo, quasi fossimo in tempo di guerra, ci sono due fenomeni criminali, che fanno pensare a vite da nababbi, a mattinieri tuffi nel denaro alla Paperon de’ Paperoni. Fenomeni che da soli, se non esistessero, basterebbero a giustificare una tendenza opposta del governo, e cioè una spending review al contrario per sovrabbondanza di disponibilità. I due fenomeni sono corruzione ed evasione fiscale, i cui dati hanno dell’incredibile. La Corte dei Conti ha quantificato il costo della corruzione in 60 miliardi all’anno (dico sessanta). L’evasione fiscale, secondo Stefano Liviadotti, uno specialista della materia che scrive per “L’Espresso”, ammonta a 180 miliardi all’anno (dico centottanta). Lo si legge nel suo libro Ladri. Gli evasori e i politici che li proteggono. Ogni anno solo per queste due anomalie l’Italia è sotto di 240 miliardi di euro (dico duecentoquaranta). Se li avesse a disposizione potrebbe estinguere il debito pubblico in pochi anni, potrebbe aumentare e migliorare l’esercito, la marina, l’aero-
di Gigi Montonato
Ad illustrare La famiglia del pittore (1926), di Giorgio De Chirico
nautica, la sicurezza; potrebbe migliorare sanità, istruzione, trasporti, protezione civile e quant’altro; potrebbe tagliare le tasse ad attività imprenditoriali e commerciali; potrebbe garantire un minimo di reddito a tutti i cittadini; potrebbe fare dell’Italia, per dirla col Veltroni di qualche anno fa, un Paese normale. Ma non voliamo con ali di cera! Sappiamo che il governo non ha la bacchetta magica per risolvere problemi così annosi come corruzione ed evasione fiscale e che pertanto, nell’impossibilità di poter avere nell’immediato tanti miliardi, è giocoforza procedere a vendersi perfino le mutande. Ma se non possiamo volare, non possiamo
neppure rinunciare a camminare. E allora, quando senti che dalla vendita delle famigerate auto blu si ricavano 200 milioni, che dai tagli alla difesa si ricavano tre miliardi, che dalla riduzione delle forze dell’ordine si incassano 700 milioni, e via elemosinando, che c’è da pensare? Che siamo un Paese fallito, un Paese che non riesce ad evitare sperperi di centinaia di miliardi all’anno ed è costretto a barattarsi per poche decine di miliardi nell’arco di alcuni anni. Un Paese che mette a rischio la sicurezza, che mette in crisi servizi strategici, che impoverisce settori vitali, che dequalifica la vita politica, perché non riesce a fare quello che è semplicemente fisiologico in un Paese normale,
è un Paese che non merita di sedere né in G7 né in G20, semplicemente è un Paese da ricostruire. Magari con la forza, con le cattive. Si capisce, con le cattive!, dato che con le buone non si è riusciti a conservare il benessere raggiunto. Corruzione ed evasione fiscale non sono purtroppo gli unici mali che minano l’Italia. Abbiamo quattro mafie agguerritissime, che fatturano miliardi e miliardi di euro all’anno, che rendono invivibile gran parte del territorio nazionale, che impediscono il naturale scorrere della vita sociale ad ogni livello. L’incontro di Renzi con Obama ha ancora una volta rimarcato l’inadeguatezza di chi rappresenta l’Italia. Troppa sottomissione, troppe untuosità, troppa carenza di autoconsiderazione. Non parlo tanto della persona. Figurarsi Renzi, che è tronfio di boria! Parlo dell’immagine offerta dell’Italia, aggredita da epidemie sociali intollerabili, rappresentata da gente approssimativa perfino nei comportamenti esteriori, ormai allo stremo della propria fiducia. Ricordiamo l’onesto Letta piangersi addosso e autocommiserarsi ogni volta che incontrava i pari grado stranieri. Non è né facile né bello riconoscere dei fallimenti, ma se non si può non vedere il disastro economico e finanziario, sociale e civile, perché rifiutarsi di stabilire un rapporto tra ciò che effettivamente abbiamo e i modi che lo hanno prodotto? Se a tanto siamo arrivati attraverso una democrazia degenerata, perché non considerare, accanto ad una revisione della spesa, anche una revisione della nostra democrazia? Forse è quanto stiamo facendo con provvedimenti dolorosi che sembrano dettati dal bisogno immediato dell’oggi più che da consapevole progetto per il domani.
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Il populismo domina incontrastato la scena politica l’appello di Libertà e Giustizia
Rischio renzusconismo S
tiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali. Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o ac-
Matteo Renzi e Silvio Berlusconi
condiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto. Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giu-
sto ciò che è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone. Primi firmatari: Nadia Urbinati Gustavo Zagrebelsky Sandra Bonsanti Stefano Rodotà Lorenza Carlassare Alessandro Pace Roberta De Monticelli Salvatore Settis Rosetta Loy Corrado Stajano
spagine
Lecce, 30 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 22
Giovanna Borgese Alberto Vannucci Elisabetta Rubini Gaetano Azzariti Costanza Firrao Alessandro Bruni Simona Peverelli Sergio Materia Il premier decisionista vorrebbe portare a termine il disegno e l’architettura istituzionale declamata per vent’anni da Berlusconi. Probabilmente i pranzi ad Arcore e gli incontri per le riforme sono serviti a questo. Ora più che mai Renzi è vergognosamente nudo. Il problema è la deriva a destra del Partito Democratico che in nome e per conto di una preunta governabilità avalla ogni porcata. Questo Parlamento è delegittimato a fare riforme così importanti, la Corte Costituzionale lo ha chiarito senza ombra di dubbio. Noi non vogliamo che parlamentari nominati, che un governo nominato e guidato da un guitto violentino la Carta Costituzionale. Il populismo della destra berlusconiana e dell’altra destra che si chiama PD, assieme a quello del movimento di Casaleggio, dominano incontrastati la scena politica, occorre che le sinistre tornino a dialogare, occorre ridare un senso alla Democrazia violata. Il venir meno di una sinistra che aveva un disegno, una prospettiva d isocietà diversa, equa, giusta, e l’appiattirsi sui desiderata del puttaniere di Arcore sono stati catastrofici per la Democrazia. Ch isi ostina a difendere a spada tratta un ragazzino borioso e supponente è di fatto complice della deriva populista e reazionaria dell’Italia. Occorre sfiduciare il disegno di renzusconi! G.F. http://www.libertaegiustizia.it
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Poesia Edoardo De Candia Particolare di una rappresentazione della dinamica urbana
S
e non sei felice, uomo, fai qualcosa. Lo so che non lo sei. Fai qualcosa. Non è più tempo di stare dietro gli schermi, è lì che si è consumata l'ultima ipotesi di incontro, con te stesso, con l'altro. Smagrito di silenzio e vuoto l'uomo deperisce, si anemica e inimica. Smettila di rintracciare ed essere rintracciato, di rispondere sempre all'oggetto onnipotente e piccolo. Le stelle ti corteggiano e il cielo pure, e tu non capisci, non guardi. Sequestràti occhi e mento a un basso senza fondo che t'im-piglia l'anima, la vita, ti secca ogni ipotesi di fioritura, ossifica e opaca il vivido, il vivo, quel lucore agli occhi che dovresti pur conoscere. Sei un animale e l'hai dimenticato, hai dimenticato anima e terra, sei orfano di cielo. Questa è la tua condanna. Sei orfano di cielo, di Creato. Laudati siete e siate, Creato e Creature. Siate cose del creato. Cucite il vostro destino alle leggi cosmiche, ai fatti naturali, a ciò che vive nel persempre, al vivo che non muore. Non c'è altra felicità. Il resto è a stento. Il resto è infelicità, condanna, spreco, perdita, sottrazione, anemia, spegnimento. “La natura che noi definiamo selvaggia è molto più sapiente della nostra esaltata ragione”, diceva Henry David Thoreau. (Ippocrate e Avicenna, Vis medicatrix naturae). E quel che è più vivo è più selvaggio. Datemi per amici e vicini uomini selvaggi, non addomesticati. La brutalità del selvaggio non è che un pallido fantasma della spaventosa ferocia che spinge gli uomini civili l'uno contro l'altro. Sempre Thoreau. Disobbedienza civile. Preghiera dello stare al mondo senza essere del mondo. Siate come i gigli dei campi. Non lavorano e non filano, eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. La domestica di Wordsworth rispose: “questa è la sua biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta”.
L’uomo e la città
di Ilaria Seclì
Ma qui, qui e ora, nelle città, si vuole l'uomo radicato ai soli soldi. Con l'origine e la destinazione tradite dalle fabbriche, dall'industria mortifera, dai supermercati-obitorio, dai diavoli a portata di palmo e impazziti polpastrelli, diavoli con password, esattori di tempo e di incontri incarnati. Al contatto con la terra ci pensa solo sorella Morte. Almeno per chi mal tollera d'essere infilato nei buchi degli umani e preferisce la pioggia e il sole, sebbene da una qualche differita. Orsù sindaci, orsù, in particolare, sindaci del Sud, abbiate a cuore la vita dei vostri cittadini. Abbiate a cuore la Vita. Abbiate a cuore la salute dei vostri cittadini. Orsù, sindaci, abbiate a cuore la felicità. E la felicità è direttamente proporzionale alla presenza di alberi, piante, parchi. Direttamente proporzionale al Verde. Orsù, sindaci, la cultura ha senso se prima i piedi camminano
scalzi su prati lontani dal cemento, se i bambini crescono correndo all'aperto e respirano aria buona. Buona. I polmoni, sindaco, i polmoni. Al di là delle birre e delle sigarette che offre la città, al di là dei fumi, dei mille veleni, al di là dei concerti, delle mostre. Al di là, sindaco, non c'è altro. Non c'è storia fuori dalla possibilità, di una madre, di portare il figlio al parco, che sia parco e non ciuffettini d'erba sbucanti da estese lastre di cemento. Nominare gli alberi, lontano dai rumori di città, lontano dai veleni. Nominarli. Alberi, verde, fiori. È l'unico antidoto, sindaci, l'unico. E non siate tirchi nell'ora. Chiusura e apertura dei parchi in stitiche considerazioni di prudenze e salvaguardia. Su, sindaci, guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono né raccolgono nei granai. Eppure il padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?
Basta quindi, gomiti incarogniti l'un contro l'altro, per spartirsi i 30 denari di una cultura ufficiale ferma alla polvere dei centrini sugli altari o sulle lapidi, ferma alla festa in pompa magna, a quello strepito di banda per una qualche commemorazione. Disattenta al vivo e al fremente. Nostra madonna del pressappochismo, nostra madonna della superficialità. Nostro Signore Bodini all'ingresso della mostra, gamba alzata... Nemmeno la morte lo può consolare di tanta sciatteria. La serietà e la cura sono un obbligo, un dovere. Impegnamoci. Ce lo insegnano cittadini di altre realtà che costruiscono cultura, amano di un amore profondo e rigoroso la storia della propria terra, diffondono il messaggio di uomini che l'hanno camminata e resa illustre, e progettano insieme. Anche al di là dei finanziamenti di turno, dei guadagni, dei ricavi. Amore per la propria terra. Conoscenza. La cultura non si porge come una portata su una tavola male e frettolosamente imbandita. I piatti si preparano insieme, a cominciare dalla raccolta di origano e rosmarino nella campagna. A cominciare dalla salvia. Triste metafora. Ma i nostri animi goderecci e gastronomici gradiranno. Mi sto spiegando? È difficile, abituati da sempre alla guerra tra poveri. Ma possiamo migliorare, pian piano. Basta educarci al cielo, guardare in alto. I cittadini più virtuosi d'Italia sono gli stessi che camminano i sentieri di montagna, per ore, alla ricerca di un borgo. Conoscono le costellazioni e le nominano, gli alberi e gli animali. La natura ci rende più capaci e più eleganti, meno rozzi e egoisti, tutto qui. È suo l'insegnamento più grande, come quello della Memoria, leggi sacre e immutabili per il governo degli uomini e del cosmo. Suoi i suggerimenti per riformulare il mondo altrimenti perso. Persa la felicità. L'attenzione e la cura generano accortezza. L'accortezza genera gentilezza. La gentilezza salverà il mondo.
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Contemporanea Il dolore, un codice della memoria
spagine
Lecce, 30 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 22
Il violino di Dio di Marcello Buttazzo
V
ita che passa, scorre, velocemente corre. Porto inquieto, mare aperto, tempesta di venti, per noi anime indocili alla perenne ricerca della buona stella, della parola salvifica che avviluppi il cuore. Vita che passa, percorre gli infinitiselciati di terra e sassi, i profumati giardini di rose e spine, scandendo iconsolidati tormenti in clessidre d’anima. Vita che vola, fra inevitabilirimpianti, rossofuoco dentro, lievi ricordi rammemorati per placare lericorrenti risacche. Il presente è una vita sospesa, sangue imprigionato,desiderio scintillante e inespresso d’amare volti mai visti, di apprezzare il sapore dolceamaro del tempo. Il presente è un cammino scosceso, un leitmotiv, un tragitto a ritroso per recuperare brandelli d’amaranto. Questa vita attuale è tutto ciò che abbiamo, nella gioia e nel dispiacere: essa cingiamo come vessillo d’attesa e di speranza. Eppure niente scordiamo. La ferita ancestrale che ci recise il cordone ombelicale per farci affacciare al mondo è sempre viva, ma ha una sua virtù di suono. I colpi subiti dall’ambiente sono fendenti di scimitarra, che affondano nella carne, nelle ossa. Ma va bene, va bene così. Le incomprensioni e i rifiuti sono cicatrici sanguinanti, ma capire le loro ragioni e i loro codici d’ingresso vuol dire apprestarsi al viaggio. I vagiti di bimbo sono echi del violino di Dio dalle corde inesauste. Gli interminabili giochi d’infanzia sono schegge di memoria, fantasmagoriche perle d’innocenza, che colorano di az-
Marc Chagall
zurro, d’indaco, di violetto la stupita iride del sogno. Arcobaleni e arcobaleni d’immutato splendore, nel candore dell’infanzia. I desideri dell’adolescenza sono fanciulle con gli occhi verdi, con gli occhi di mora, che sapevano leggere fra le nostre pieghe e tramutavano i limiti in virtù. Il riecheggiameto dei meravigliosi amori persi sono gocce di luna, fascinosi tramonti aranciati, la faccia lucente delle stelle. I nostri amici sono sostentamento continuo, grano che nutre, la cifra più decorosa del nostro sé. Vita che passa, fluisce come fiume, s’arrampica su declivi melanconici, e ci fa respirare ogni suo risvolto, fino in fondo. Ci fa accettare piaceri e travagli, dal
momento che ogni variante dell’esistenza è parte del gioco. Quante volte sentimmo patimento, ma senza proferire lamento. “Il mio dolore è quieto, sta come me, non va via, mi fa compagnia il suo caro segreto. Gli anni sono in me illuminati e tristi, oh, perché non venisti, non tornasti, perché?”, canta Attilio Bertolucci. Il dolore e l’inquietudine non sono componenti marginali nello svolgersi ordinario dei giorni. Tantomeno il dolore e l’inquietudine possono essere assimilati a caratteri negativi, da rimuovere radicalmente. Sono, forse, la sorgente più cristallina per poter vezzeggiare il futuro, coccolare le rosee utopie, sperare in
un mondo migliore, meno egoistico e non più arroccato su se stesso. Il dolore è, tra l’altro, una mansione che può essere perdurante, persistente, ma può anche essere un codice della memoria. Può riferirsi alla esistenza che quotidianamente conduciamo, nel qual caso l’atteggiamento più corretto è di non stazionare in esso, ma di trovare le risorse per oltrepassare la ferita e approdare in nuovi lidi. Ma se il dolore è reminiscenza d’un evento trascorso, talvolta, possiamo tranquillamente naufragare nel suo mare. Il dolore addolcito per un amore passato è una benedizione di Dio, un canto d’usignoli, un volo di bianche colombe. Dobbiamo essere infinitamente grati alla donna che è andata via e ci ha lasciati soli. Ci ha permesso magari di meditare sulla gelosia, o su altri sentimenti invalidanti, ci ha consentito di incanalare la rabbia distruttiva in meati di ricchezza, di positività. Nel dolore del distacco, abbiamo avuto il tempo per pensare, per diventare qualcosa d’altro, per diventare altri uomini. Magari migliori. Personalmente, mutuando le parole del poeta Bertolucci, penso che il mio dolore sia silenzioso, mi faccia compagnia, accompagnando teneramente i miei vissuti. Il dolore fa parte della mia vita, perché la vita è anche dolore. Fa parte di me e ad esso mi rivolgo sovente per capire le cose del mondo. Il dolore lo lambisco, lo carezzo piano, lo ascolto, per tentare di essere un uomo meno triste.
Lecce, 30 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 22
Teatro
L’International Theatre Institute World Organization for the Performing Arts ha celebrato con Astragali al Teatro Paisiello di Lecce giovedì 27 marzo la Giornata Mondiale del Teatro
Lo spirito della performance A Brett Bailey drammaturgo, disegnatore, regista teatrale, organizzatore di festival e direttore artistico del Third World Bun Fight quest’anno l’ITI ha affidato il messaggio ufficiale
O
vunque vi sia una società umana, l’insopprimibile Spirito della Performance
si manifesta. Sotto gli alberi in piccoli villaggi, o sui palcoscenici ipertecnologici delle metropoli globalizzate; negli atri delle scuole, nei campi e nei templi; nei quartieri poveri, nelle piazze urbane, nei centri sociali, nei seminterrati, le persone si raccolgono per condividere gli effimeri mondi del teatro, che noi creiamo per esprimere la complessità umana, la nostra diversità, la nostra vulnerabilità, nella carne vivente, nel respiro e nella voce. Ci riuniamo per piangere e ricordare, per ridere e riflettere, per imparare, annunciare e immaginare; per meravigliarci dell’abilità tecnica e per incarnare gli dei; per riprendere fiato collettivamente di fronte alla nostra capacità di bellezza, compassione e mostruosità. Veniamo per riprendere energia e rafforzarci; per celebrare la ricchezza delle nostre differenti culture e dissolvere i confini che ci dividono. Ovunque vi sia una società umana, l’insopprimibile Spi-
rito della Performance si manifesta. Nato dalla comunità, indossa le maschere e i costumi delle nostre diverse tradizioni; rinforza le nostre lingue, i nostri ritmi e gesti, e si fa spazio in mezzo a noi. E noi, gli artisti che lavoriamo con questo spirito antico, sentiamo il dovere di trasmetterlo attraverso i nostri cuori, le nostre idee e i nostri corpi per rivelare le nostre realtà in tutta la loro mondanità e nel loro splendente mistero. Ma in quest’epoca in cui milioni di persone lottano per sopravvivere, soffrono sotto regimi oppressivi e un capitalismo predatore, o sfuggono conflitti e miseria; in quest’epoca in cui la nostra vita privata è violata da servizi segreti e le nostre parole sono censurate da governi invasivi; in cui le foreste vengono distrutte, le specie sterminate e gli oceani avvelenati: che cosa ci sentiamo in dovere di rivelare? In questo mondo di potere ingiusto, nel quale diversi ordini egemoni cercano di convincerci che una nazione, una razza, un genere, una preferenza sessuale, una religione, una ideologia, un contesto culturale è superiore a tutti gli altri, come si può sostenere che le arti debbano essere svincolate dalle agende sociali? Noi, gli artisti delle arene e dei palcoscenici, ci stiamo conformando alle domande asettiche del mercato, oppure stiamo afferrando il potere che abbiamo: per fare spazio nei cuori e nelle menti della società, per raccogliere le persone attorno a noi, per ispirare, incantare e informare, e per creare un mondo di speranza e di sincera collaborazione? Brett Bailey http://www.thirdworldbunfight.co.za/
pagine n° 6 e 7
“La performance non è un'illusionistica copia della realtà, nè la sua imitazione. Non è una serie di convenzioni accettate come un gioco di ruolo, recitato in una seperata realtà teatrale. L'attore non recita, non imita, o pretende. Egli è se stesso”. Jerzy Grotowski
Prendere la parola. Dirla! di Carla Petrachi
I
l teatro è una tela, si fa e si disfa incessantemente. Il teatro è il corpo delle donne e degli uomini che lo abitano, così il teatro diviene la casa dei loro saperi, della loro vita – intima e segreta – del loro stare al mondo in modo obliquo e incrinato, delle loro parole, della loro voce. Il teatro è un sapere complesso, che ha a che fare con l’occhio di chi guarda, poi che se “l’attrice e l’attore sono al centro, ed è l’unico luogo dove la cosa accade, ecco tutto”, contemporaneamente “tutto accade nell’occhio di chi guarda”. E’ solo in questa relazione, esclusiva non meno che effimera, sospesa, in costante divenire sempre, che il teatro accade, che il teatro può accadere. Al teatro si torna, sempre. Per dire quel che altrove non si può, non si riesce a dire, per trovare le parole, e un luogo totalmente altro, qui ed ora. In questo ci sono state maestre, ci hanno preso per mano, ci hanno accompagnato Maria Zambrano non meno di Marguerite Yourcenaire, Marguerite Duras, Nicole Loraux, Christa Wolf, Helen Cixous. Il teatro è la parola scritta ma ancor di più quella detta, ma perché si possa dare è nell’oralità e nel canto che si dipana la storia, e si rintraccia il senso. Epifania di una energia divina forzando, ma non troppo, l’etimologia. Voce non neutra, poi che – sempre – dell’una o dell’altro. Voce incarnata. Voce coro. Dove nessun respiro scompare, si confonde, si annulla, piuttosto si incontra. Dove le parole prendono posizione. Dicono il dolore, lo sgomento. Qui si situano, le lingue. Incessante esercizio della critica. Nell’agire e nel narrare che ri-accade, costantemente sulla scena –per noi spesso un luogo al di fuori dei convenzionali edifici chiamati teatro - si mette al mondo il mondo. E dicendolo, lo si trasforma. Per questo il teatro che amiamo è, per forza di cose, politico. Poiché abita la città e, prendendo parola, la dice. Infine, il teatro è, per noi, essere nella contemporaneità. Questa è la sua forza, e la sua minaccia. Non cronaca del tempo (sebbene alcune volte possa esserlo), non riduzione del già detto o del già visto, piuttosto critica del presente e, per questo stesso, perché la critica possa darsi, azzardo dell’essere di lato, inattuali. In questo, metamorphosis, canto della vita che cambia.
La Giornata Mondiale del Teatro è stata creata a Vienna nel 1961 durante il IX Congresso mondiale dell'Istituto Internazionale del Teatro su proposta di Arvi Kivimaa a nome del Centro Finlandese Dal 27 marzo 1962, è celebrata dai Centri Nazionali dell'I.T.I. che esistono in un centinaio di paesi del mondo
Lecce, 30 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 22
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Note e notizie
Sui danni causati dall’uso del telefono cellulare La confusione è molta sotto il cielo, pochissime le certezze, molti i dubbi. Nel frattempo è bene prendere piccole precauzioni...
Il male
L
del telefonino
eggo in un lungo articolo sul Corriere della Sera della richiesta al governo Italiano di imporre ai produttori di telefoni cellulari la scritta, come per le sigarette, “nuoce gravemente alla salute”, di vietarne la pubblicità e l’utilizzo ai minori. L’ esposto in tal senso è stato inoltrato al TAR del Lazio citando una sentenza della Cassazione, che fece vincere un ricorso contro INAIL in quanto il dirigente d’azienda, Marcolini, si ammalò di cancro, il tribunale confermò che la causa andava cercata nell’utilizzo del telefono cellulare. In particolare l’articolo citato parla dei dati, quelli riportati nel ricorso sono inquietanti. Il rischio di incidenza di neurinomi acustici nel lato della testa dove è utilizzato il cellulare è più che raddoppiato negli utilizzatori di cellulari da circa 10 anni, che abbiano un tempo di esposizione giornaliero dai 16 ai 32 minuti al giorno, per un totale di mille o duemila ore complessive. E proprio sul numero di minuti utilizzabili al giorno giocano le campagne pubblicitarie delle principali compagnie telefoniche. Nel ricorso, riguardo questo punto, i legali chiedono «di inibire a gestori e operatori la diffusione di offerte «infinito», di “Minuti illimitati verso tutti”, e così via. Tra le altre richieste, ci sono «il rendere obbligatorio per gestori e operatori l’invio di sms sulle regole di utilizzo al fine di evitare rischi cancerogeni, di introdurre il divieto di pubblicità
di Gianni Ferraris
dei cellulari e dei relativi contratti di utilizzo, e, solo in subordine», di «vietare la pubblicità con persone che non usano auricolari o vivavoce, e ai minorenni». Non solo. Le compagnie dovranno avvisare con un sms gli utenti, quando viene superata la soglia massima di durata oltre la quale il rischio di ammalarsi di cancro è più alto. «È da notare - scrivono i ricorrenti - che oltre all’aumento del rischio di gliomi celebrali e neurinomi acustici, certificato dalla Iarc nel 2011 e suggerito da studi scientifici e governi nazionali, l’uso prolungato e abituale nel tempo dei telefoni mobili è causa dell «aumento del rischi di altri tipi di tumore alla testa proprio nelle aree più direttamente interes-
sate alla esposizione di radiazioni emesse durante il funzionamento: meningiomi celebrali, tumori alle ghiandole salivari, melanomi all ‘uvea oculare e tumori all'epifisi e alla tiroide». *** In realtà la confusione è molta sotto il cielo, come evidenzia un altro articolo su La Repubblica, pochissime le certezze, molti i dubbi. Nel frattempo è bene prendere piccole precauzioni: utilizzare il cellulare solo per comunicazioni brevi, utilizzare maggiormente vivavoce e auricolari per tenere l’apparecchio lontano dalla testa, spegnerlo la notte e comunque non tenerlo accanto al letto. Il problema dei telefoni cellulari, come di moltissima nuova tecnologia, è stato il loro boom
in pochissimo tempo, senza testarli a sufficienza, questi sono i rischi della mondializzazione e della modernizzazione incontrollata, della capacità del nuovo di diventare obsoleto in pochi giorni e di offrire un nuovo "nuovo". Si costruisce, si butta sul mercato, si rende indispensabile e poi si vedrà. Gli errori del passato (sigarette e alcool in primis) che trasformavano i vizi in mode non sono serviti, non ci si ferma, la produzione deve proseguire, i giornali debbono vantare il primato del consumo di telefoni cellulari in Italia, primo paese al mondo per diffusione. E problemi, secondo alcuni esperti, potrebbero sorgere con il wi fi diffuso ormai in moltissimi luoghi pubblici e case private, anche qui si è andati avanti urlando che chi non ci sta è retro. Vuoi mica star fuori dal futuro? Quasi come se un cavetto fosse il peggio che offre la vita. Noi siamo senza cavi, noi dobbiamo essere in rete 24 ore al giorno. Pare che siamo arrivati nel mondo dell’evoluzione incontrollata, anzi, dell’economia senza freni, la mancanza di etica si sta diffondendo con tentacoli lunghissimi e avvolgenti in ogni dove, senza alcun freno, dalla politica alla produzione (ammesso che quest'ultima ne abbia mai avuta). "Ai posteri l'ardua sentenza" diceva il poeta, al momento sappiamo che lasceremo loro le cure per le malattie.
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Spesa pubblica
Cronache
Con i tagli a rischio la riabilitazione visiva. La salute non può dipendere né da dove si nasce né da dove si risiede
Il caso di Uli Hoeness condannato per evasione fiscale e una Messa domenicale in una parrocchia di Monaco
C
É
om’è noto, l’ultima legge sulla stabilità, ha quasi annullato i contributi a disposizione delle Regioni, disposti dalla legge 284/97 per la creazione e il potenziamento dei centri di riabilitazione visiva a soli 160 mila euro. I tagli creeranno gravi problemi sul territorio e renderanno quasi impossibile l’attività dei centri come accadrà per l’’Antonacci di Lecce. La cultura della riabilitazione in Italia è lunga nel tempo, infatti la legge 833 del 1978, all’articolo 26 esplicitava tra i compiti delle nascenti Asl, oltre alla prevenzione anche la riabilitazione sensoriale quindi visiva. Le parole: prevenzione riabilitazione erano quelle che indicavano la cultura di una sanità moderna, misurata sui problemi della salute come benessere personale, costruita sui territori. I LEA infatti fissavano i livelli essenziali di assistenza. La riabilitazione e la prevenzione però hanno incontrato molte difficoltà, resistenze culturali e amministrazioni poco preparate e poco sensibili al cambiamento della legge 833 rivoluzionaria nell’organizzazione della sanità. La strategia della riabilitazione oggi va allargata e potenziata: dal cieco all’ipovedente. Nel 2008, una Commissione ministeriale, predisposta per
di Luigi Mangia l’aggiornamento aveva previsto l’inserimento della riabilitazione visiva nei compiti della politica sanitaria. Tale modifica sarebbe stata utilissima anche perché oggi gli ipovedenti sono cresciuti rispetto ai ciechi e non va dimenticato il cambio demografico della popolazione sempre più vecchia e quindi sempre più esposta ad avere problemi con la vista. Quel documento è rimasto lettera morta per motivi economici. Sarebbe stato invece sufficiente recuperare quel documento della Commissione di studio per attuare l’articolo 26 della legge 833 del 1978, legge tradita e mai compiuta. Un impegno urgente e necessario è quello di avere le linee guida sulla riabilitazione visiva che cambiano da centro a centro a secondo dei territori di appartenenza. La riabilitazione visiva è un problema italiano ed europeo. Noi vogliamo avere linee guida uniformi sulla riabilitazione in Italia e in Europa perché la salute non può dipendere né da dove si nasce né da dove si risiede. Le elezioni europee devono essere l’occasione per assicurare una riabilitazione uguale per tutti i cittadini di un’Europa che faccia della solidarietà e della salute un diritto fondamentale e non legato ai confini dei Paesi secondo le differenze tra ricchi e poveri.
ancora fresco di cronaca il caso di Uli Hoeness, Presidente della società cui appartiene lo squadrone del Bayern Monaco e già famoso calciatore della medesima compagine bavarese e della Nazionale tedesca, il quale è stato condannato dal Tribunale di Monaco a una pena di tre anni e sei mesi di reclusione, per un evasione fiscale di oltre ventisette milioni d’euro. A latere di tale vicenda giudiziaria, che, ovviamente, ha avuto risonanza mediatica a livello internazionale, ha peraltro colpito la decisione di Hoeness di accettare con piena consapevolezza il verdetto della magistratura, rinunciando quindi a ogni eventuale ricorso, di scontare incondizionatamente la pena, di assumere, infine, l'impegno di ottemperare fedelmente e rigorosamente, di qui in avanti, ai doveri e obblighi nei confronti del Fisco. In certo senso, si potrebbe parlare di desiderio, da parte del personaggio, di riscatto, sia pure postumo, sul piano morale. Tuttavia, in queste righe, non ci vuole soffermare sul reato e le conseguenti decisioni di che trattasi, giacché, in materia, entro le frontiere del nostro paese, non dimorano pecorelle tutte candide e, anzi,
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di Rocco Boccadamo laddove i trasgressori individuati, accertati e condannati si comportassero come Hoeness, forse la capienza del sistema carcerario si rivelerebbe presto viepiù insufficiente rispetto alla già critica situazione ordinaria. Invece, collocabile a valle, oppure a monte a seconda dei punti di vista, della richiamata vicenda, ricorre una notazione di tutt'altro genere ma altamente indicativa sul piano del costume collettivo. Durante la Messa domenicale, in una parrocchia di Monaco, fra le invocazioni contenute nella preghiera dei fedeli, è stato dato d’ascoltare la seguente: “ Preghiamo per coloro che pagano (regolarmente) le tasse e, anche, per chi ha ora deciso che, da questo momento in poi, le pagherà”. A buon intenditor poche parole, non occorrono commenti. E’ parso di rivedere la scena in cui Gesù, alla domanda se fosse giusto che gli ebrei versassero i tributi all'imperatore romano Cesare, così ebbe a rispondere: “ Rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matteo – 22,15,21). Cioè a dire, sono millenni che la religione cattolica insegna anche il dovere di obbedire alle autorità civili e di rispettare le relative leggi.
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La Voce e quella
Letture
Voci
Due copertine della rivista La voce del ribelle diretta da Massimo Fini
«
Mi rivolgo a chi non si riconosca nel modello di sviluppo occidentale. L'attuale crac lo dimostra: oltre l'economia c'è il nulla» Così esordiva Massimo Fini, presentando il suo mensile "La voce del ribelle" (sia cartaceo che online), un contatto quotidiano con l'informazione ed il pensiero non conforme; contro la vita da schiavi, dove siamo ormai costretti a consumare per produrre, per paradosso, e non più il contrario. Essa non vuole essere una rivista ideologica contro la Modernità, o una battaglia di retroguardia. Essa si occupa anche di musica, principalmente per un target giovanile. Aspira ad agganciare un pubblico vasto che abbia desiderio di trovare cose insolite. L'autore di libri e pamphlet (il suo Il denaro «Sterco del demonio») viene mosso a far qualcosa per sopperire all'inezia generale. E il crac economico rafforza il progetto. «Se hai puntato tutto sull'economia e questa crolla, non resta che il deserto. E il nostro modo di vita che è sbagliato, da schiavi salariati. Prima contadini e artigiani vivevano del loro e sul loro, adesso dipendiamo da cose che non sono più sotto il nostro controllo» egli dice. La rivista tende a offrire alle persone meno informazioni (che amplificano l'ignoranza con l'illusione di ridurla) e più conoscenza. Dare strumenti, mezzi, che possano aiutare a giudicare, ad analizzare e formare una coscienza critica. Sarà anche "greco" e forse utopico, ma si può fare. Massimo Fini spera che oggi venga, almeno, preso sul serio; a differenza di trent'anni fa che
Gilbert Keith Chesterton
era irriso e le sue idee venivano considerate "un intelligente provocazione". Ora la realtà gli dà invece ragione e forza. Il giornale tende a garantire un pensiero diverso e quindi fuori dalle finte polemiche, di cui se ne ha le scatole piene...! La rivista dà spazio a intelligenze "laterali", tipo Franco La Cecla, autore di un ottimo pamphlet Contro l'architettura, e tutti coloro che abbiano qualcosa di originale e interessante da dire. Massimo Fini vorrebbe che "La voce del ribelle" diventasse come il mensile di cultura "Pagina", fondato da egli stesso e Aldo Canale, una palestra per nuovi talenti. Un "pazzo" ha finanziato l'iniziativa con diecimila euro. Al resto ci pensano gli iscritti al suo Movi-
mento Zero. Comunque, egli vorrebbe essere ricordato per la sua opera di scrittore, non per l'attività da polemista. Ha intenzione di fare qualcosa sulla tragedia greca, sul senso del Fato. Supporta gli artisti viventi, quelli morti non ne hanno bisogno. Gia! Un classico come Shakespeare, per esempio, nel suo Riccardo III : «Non esiste belva così tanto feroce da non avere almeno un po' di pietà. Ma io non ne ho alcuna, ragion per cui non sono una belva. Sono un uomo». Che è peggio. *** Sulla malvagità si espresse un altra voce indecente e anarchica: Gilbert Keith Chesterton, che diceva: «Se il demonio vi dice che una cosa è troppo terribile per guardarla,
guardatela». E a incrociare la spada «col nemico della creazione» manda un ingenuo poeta determinato al duello in nome di «tutte le cose comuni» (le lanterne giapponesi di Saffron Park, la chioma rossa della ragazza nel giardino, gli onesti marinai che trincavano birra lungo il dock, i suoi leali compagni) fino alla morte. Perchè «dopo tutto - si disse Syme - io sono più che un demonio: io sono un uomo. Io posso fare l'unica cosa che Satana stesso non può fare: posso morire». Per il maligno non c'è nulla di più pericoloso di un uomo disposto a scendere fin negli abissi della malvagità solo per amore. Mai distrarsi, quindi. Ogni cosa buona che accade nel mondo va affidata a un confratello che operi per la sua distruzione. Te ne lasci scappare una e i danni, per noi, rischiano di essere enormi. Succede. Chesterton, questo convertito inglese del secolo scorso torna con forza nelle librerie, ripubblicato e ridiscusso nei convegni, affascinando soprattutto i laici intelligenti. Basti pensare alle dichiarazioni di amore di Italo Calvino: «Amo Chesterton perchè voleva essere il Voltaire cattolico e io volevo essere il Chesterton comunista», o quest'altra di Jorge Luis Borges: «La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton». A quasi ottantanni dalla morte questo eccentrico inglese ci tiene ancora compagnia col suo umorismo, ci sorprende con i suoi paradossi, e soprattutto ci fa ragionare. Infatti ebbe l'ardire di scrivere: «Potrei dimostrare tutta la dottrina cattolica se mi si permettesse di partire dal valore sommo di due cose: la
e del ribelle, settimanale fondato da Massimo Fini indecente e anarchica di Gilbert Keith Chesterton
ci
fuori campo
ragione e la libertà». Eppure anch'egli fu a lungo ostracizzato. Certo, un cantore della felicità di esistere non poteva essere amato dai lamentosi corifei del disagio che loro provoca l'essere al mondo. Egli svelava anche l'ipocrisia di sedicenti ricercatori, perchè non si cerca una cosa per cercarla, ma per trovarla. L'uomo moderno, infatti, più che non vedere la risposta all'enigma, «non vede l'enigma». Borges diceva che i suoi racconti racchiudevano poesia e magia e lo collocava tra Poe e Kafka «ritraendolo come un autore che sente la fascinazione dell'incubo, costeggiando spesso la vertigine dell'abisso, coinvolgendo il lettore nei brividi di un bosco pauroso, per poi finire però per ricondurlo per mano a casa. Poe e Kafka nel bosco ti ci lasciano». Il personaggio letterario "Padre Brown" è un sacerdote cattolico e detective, protagonista di diversi racconti gialli di Chesterton. In Italia è noto soprattutto attraverso l'interpretazione di Renato Rascel nella miniserie televisiva "I racconti di padre Brown". «La nostra civiltà moderna mostra molti sintomi di cinismo e decadenza» dice Chesterton, «ma di tutti i segnali della fragilità moderna e della mancanza di principi morali, non c'è ne nessuno così superficiale o pericoloso come questo: che i filosofi di oggi abbiano cominciato a dividere l'amore dalla guerra, e a collocarli in campi opposti. Non c'è sintomo peggiore di quello che vede l'uomo, fosse pure Nietzsche, affermare che dovremmo andare a combattere invece che amare. Non c'è sintomo peggiore di quello che vede l'uomo, fosse pure Tolstoj, affermare che dovremmo amare invece di andare a combattere.
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di Antonio Zoretti
di Antonio Zoretti
Massimo Fini e sopra la copertina di un suo libro
Una cosa implica l'altra. Una cosa implicava l'altra nel vecchio romanzo e nella vecchia religione, che erano le due cose permanenti dell'umanità. Non si può amare qualcosa senza voler combattere per essa. Non si può combattere senza qualcosa per cui farlo». Bene. Mentre noi ci diamo da fare per essere figli del nostro tempo, Chesterton andava alla radice delle cose, in una sorta di radicalismo metafisico; cercando di ritrovare se stesso. «Perchè l'io non è una cosa scontata» egli diceva, citando Ortodossia : «Un uomo può conoscere l'universo e ignorare se stesso. L'io può essere qualcosa di più distante di una stella qualsiasi. Puoi amare Dio e non sapere chi sei. (...) Ignorante è l'uomo che ragionevolmente si rende conto che
non sa cosa sarà di lui, fra un secondo, fra due anni, fra cinquant'anni: non sappiamo che cosa accadrà tra un minuto, lo ignoriamo. Eppure tutte le nostre aspettative si rifugiano nel pensiero di un futuro migliore del presente. Questa non è speranza, è illusione. L'idea comune del progresso ci illude dicendoci: le cose ora vanno male, ma vedrai, miglioreranno. La vera idea rivoluzionaria (nel senso che mette realmente sottosopra quello che pensi) è che l'universo è buono anche se peggiorerà. Noi non sappiamo come andranno a finire le cose, ma sappiamo come sono cominciate. Dio ha creato il mondo e ha detto che era cosa buona. Questo sigillo di bontà resta nonostante tutte le cattiverie di cui l'uomo è stato, è e sarà capace. Questa è la spe-
ranza radicata nel mondo, il bene non arriverà domani, ci accompagna fin dalla prima alba». L'ignoranza, indi, può divenire certezza e fonte di speranza. C'è una logica in questo. Basta farsi tentare. Togliere le bende alla rivelazione. La vita è la vita e basta. Non c'è bisogno di ricrearla. E' lì davanti a noi, sotto i nostri occhi. E' l'armonia celeste. E' il creato. Ma vaglielo a dire, non hanno fede. E allora tanto vale star qui, attendere, e guardare Urania la celeste. E' così bella. *** La voce del ribelle è su: http://www.ilribelle.com/
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Libri
I
l profumo di stampa non colma la sete, già tanto si conosce dal titolo del libro, come d’abitudine dello scrittore che raccoglie e racchiude lì la vicenda, allora aguzzi gli occhi, alzi leggermente un labbro e lasci sgusciare via un sorriso. Benvenuti a Cipìernola, ovvero Don Fefè e Ciccillo coinvolti nell’intricata vicenda della gatta immobile Brici, la lotta di classe, la sacra reliquia di Sant’Antonio Abate e la cacciata del Satanasso Gasparotto e alla fine si tira un sospiro di sollievo, prima di cominciare il viaggio. E voltando pagina siamo immersi nelle stanze di don Fefè, nel suo palazzo, tra i suoi servitori, con la Tecla che fa le polpette, il tempo “truppo” come l’umore del padrone di casa. E sono proprio le “purpetti” ad aprire la vicenda, a far sì che la Tecla sia la fautrice inconsapevole della trasformazione della gatta in animale-tramite, in fantoccio e mistificazione, dove si incontrano la magia e la malia, le volontà si piegano e il popolino impazzisce prostrandosi a sgranare il rosario. *** Il romanzo si divide in due parti, nel primo si dipana la storia, si tendono le fila di vari discorsi, si vuole guidare con mano sicura da affabulatore – e lo è di sicuro il nostro autore – questo lettore in attesa, se già non conosce i personaggi alemanniani, perché non si può fare a meno di richiamare i precedenti lavori, Terra nera, da una parte, e Le vicende notevoli di don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo dall’altra, proprio perché nel corso della vicenda verranno richiamati. Il doppio binario narrativo corre lungo tutta la prima parte, dove le vecchie vicende lasciate in sospeso nel libro precedente trovano responso, giustificazione e senso. Don Fefè e Ciccillo da una parte, coi loro destini e le loro difficoltà – ciascuno a suo modo, avrebbe detto un grande scrittore – ma non bastano a rendere esilarante e amara questa storia, ma il bandolo viene fatto esplodere pagine e pagine dopo, al cospetto di zio Leò, col suono di questa voce che narra e getta nel silenzio e nell’incredulità lo spavaldo Fefè, già vinto e bastonato dal viaggio lungo tutta l’Italia. In questa narrazione anche
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“Benvenuti a Cipìernola...” di Giuse Alemanno per Città Futura Edizioni
Nelle stanze
di Don Fefè
di Gianni Minerva
Giuse Alemanno con alle spalle Rina Durante ritratto alla Libreria Icaro di Lecce e la copertina del libro edito da Città Futura
coloro che si sono macchiati in vita di nefandezze, si veda la vicenda legata al mutismo del sarto Cappellino, vogliono trovare un nodo per rendere giustizia al ricordo e alle malefatte, ridare così senso alla vita che non è solo momento e gaudio, bellezza e piaceri della carne, ma anche lascito e cambiamento. E il sorriso è sempre dietro l’angolo, o al di là della porta, stampato sulla faccia di Ciccillo, esterrefatto e confuso. E se qui troviamo un segreto legato alla famiglia, nella cucina del palazzo di don Fefè si trovano tutte le credenze e tutte le più ancestrali paure che il popolino possa accettare. L’autore le stende sul panno, le batte al sole conoscendo le molte tradizioni popolari, la storia passata e quella natura così terrena e atavica che avvolge ogni religione dell’uomo. E don Gregorio non è certo un pretonzolo di campagna con la vocazione delle anime pie, lui
ben conosce i colpi di coda del popolino e delle donne che vedono demoni e fantasmi ovunque, di quelle stesse donne fatte di carne, sanguigne fin sotto la gonna, che non si fermano davanti a nulla, certe della sincerità e fondatezza delle loro azioni e pensieri. La fascinazione del demonio va scacciata andando contro anche al padrone di casa stesso che poco conosce o vuol vedere. Molto interessante l’aneddoto dell’agonizzante, lo specchio e lo zolfanello, dove viene racchiusa tutta la cultura dicotomica che separa i due mondi: quello ricco da una parte e povero dall’altra, sapienza e magia, scienza e credenza: “il popolino è convinto che il massimo della protezione può ottenerlo solo attraverso una totale integrazione dei santi nella sfera del proprio vissuto esistenziale” e ancora “il popolino difende a denti stretti il suo spazio alternativo ma comunque congiunto
alla chiesa, quel mescolato di cattolicesimo e magia popolare”. E la gatta solleva il putiferio, la gatta così immobile è capace di sconvolgere un intero paese. Anche qui c’è chi trama dietro la tenda, chi accumula amuleti per ricavare monete, chi cospira e getta reti. Mentre in paese si inneggia allo sciopero, scandito e voluto dal novello comunista e oratore Rocco Carone, altrove, al cospetto di zio Leone, tutt’assieme attorno al desco, che elogia l’amore dello jonico salentino, lasciando forse trapelare l’amore per il buon cibo da parte dell’autore e la sicurezza che quel “minuto d’amore” sia ben compreso da molti lettori. La prima parte del libro si chiude con la storia del satanasso Gasparotto e della preoccupazione di Carmela e della reliquia di Sant’Antonio abate ricevuta per vie traverse e lì pronta a proteggere Cipìernola tutta, assieme al fuoco e alla preghiera. Curioso lo strizzare l’occhio al cinema con il dialogo dei due “uastasi” con il “soggettone lungo e mazzo, modello canna di fiume” che richiama un altro dialogo esilarante del cinema d’autore. E della seconda parte lasciamo al lettore l’ardire e la parole, diremo solo che i due protagonisti ritornano dal viaggio, i comizi e le furberie aumentano, la tensione sale e si rischia la sommossa, come altrove in quei luoghi e in quegli anni, fino alla venuta del sub commissario prefettizio, dell’ispettore generale di pubblica sicurezza e dell’esercito e del governo tutto se fosse stato necessario. E ancora delle pietre, dei fuochi, della processione e delle voci. Poi il tutto trova risposta, i nodi così intricati disegnano un arabesco e l’unico sangue che si vede è quello che galoppa nel cuore di Ciccillo, uomo nuovo e aperto al mondo, con lo sguardo rivolto al cielo mentre stringe tra le mani la promessa del futuro.
Appuntazzi Gianluca Costantini ci mostra Luzzara
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L’iniziativa
Franco Arminio a Melpignano dal 12 al 13 aprile
Per un cuore comune
N
on sono un filosofo, non sono uno che produce concetti. Non sono un politico, uno che dovrebbe risolvere problemi. Sono uno che scrive, produco visioni senza l’obbligo che siano coerenti, senza il rigore e la consequenzialità del lavoro scientifico. Il terreno in cui si muove da sempre la mia vita e la mia scrittura è un terreno che frana. Sono costantemente sospeso tra ritiri autistici e slanci comunitari. E forse proietto questa mia condizione anche sui luoghi che vado a vedere o a filmare nel mio lavoro che definisco di paesologo. La mia terra è una terracarne che mi appare a volte come segno del pericolo e altre volte come segno dell’opportunità. In certi giorni sento che in qualche modo forse stiamo già guarendo, che il mondo è bene accordato e che qui forse la vita ha ancora un senso proprio perché persiste nostro malgrado una trama comunitaria. Basta un soffio e mi ritrovo in un’altra percezione. Mi pare che anche qui l’autismo corale abbiamo steso i suoi teloni, sia la serra in cui stiamo appesi a maturare le nostre indifferenze, la nostra mancanza di compassione. *** Sono nato nel 1960. Ho vissuto dentro la comunità del paese e dentro la comunità dell’osteria di famiglia. Quella casa era un luogo del paese, ma allo stesso tempo un luogo dell’altrove. Mi sono fatto l’idea che oggi nei luoghi in cui vivo sia accaduta una cosa molto complicata da spiegare. Mi pare che comunità e autismo corale stiano qui in una forma rassegnata di infelice compresenza. Sono, come il nastro di Moebius, facce in cui non è dato distinguere l’interno e l’esterno. Non mi fido delle astrazioni e non mi fido delle scienze umane in generale, per il semplice fatto che sono appunto umane e mi pare che risentano dello sfinmento mo-
rale e cognitivo della creatura che le ha prodotte. E allora invoco altre posture, invoco un sentimento del mondo che parta da riflessi più semplici. Per me la scrittura è un riflesso semplice, è un esercizio percettivo in cui la vecchia cassa con gli attrezzi servita fin qui per indagare il mondo mi pare piuttosto inutile. Abbiamo un martello che non batte, una pinza che non stringe, un giravite che non avvita niente. A me pare che il discorso sull’esistenza o meno della comunità sia inficiato dal fatto che alla fine noi pensiamo sempre a un individuo con uno statuto forte, un muro di cemento che guarda il mondo come una grande palla di cemento. Con questa ottica nessuna comunità tiene, anzi lo stare insieme, la comunità diventano l’autostrada per arrivare in modo più diretto all’autismo corale. Il rischio drammatico che corriamo, che forse abbiamo già corso è quello che un volto di una donna, un albero, un telefonino, ormai siano sullo stesso piano, appartengano allo stesso ordine di cose e possano farci compagnia o darci solitudine, possano darci perplessità più che certezze. Ma il problema non è il nostro singolo cuore e la costruzione di un cuore comune, è la capacità di accettarci come creature sgretolate in un mondo che si sgretola. La nostra esperienza delle cose consiste nel loro perenne svenimento. Nel primo bacio sentiamo l’ultimo. Nella parola che diciamo sentiamo l’agguato di altre parole che diremo o che diranno altri. Non c’è tempo, non c’è salvezza se non accettiamo questa nostra radicale disappartenenza. Siamo estranei alla comunità paesi, ma siamo in qualche modo estranei anche alla comunità di organi che costituisce il nostro corpo. Il cuore e la mente si parlano, il fegato e lo stoma-
La locandina del week end melpignanese
co si parlano, ma noi dove siamo, dov’è questa fantomatica creatura che chiamiamo io? Dovremmo essere capaci di accettare questa nostra radicale contumacia, questa impossibilità di incontrare noi stessi. Soltanto possiamo disporci verso l’esterno, come un lenzuolo al vento. È necessario depensare se stessi e il mondo, è necessario in qualche modo depennarsi dal mondo, dimettersi dal commercio quotidiano in cui il nostro io ogni giorno firma assegni in bianco che non può onorare. La comunità, la vera comunità è possibile solo nel-
la morte. Lì si è in un regno senza soprusi, dove nessuno ruba il fiato ad altri. In attesa di accedere a quella comunità perfetta e se non vogliamo marcire nell’inferno dell’autismo corale, dobbiamo disporci ad accogliere forme di comunità provvisorie. Franco Arminio Comunità e autismo corale tratto da corrieredelmezzogiorno.it 25 marzo 2011 http://paesologia.corrieredelmezzogiorno.corriere.it/
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L’emozione di lasciarsi contaminare
L Bagna caoda
Racconti salentini a strada scorre fra Lecce e Patù. Là ci stanno le cento pietre, è un monumento funerario utilizzato come mausoleo sepolcrale per Geminario, il generale, uomo di pace, trucidato dai saraceni. Costruita con cento blocchi di roccia presi dalla vicina Vereto, città messapica, divenne poi chiesa. È strano, pensavo, come gli uomini di pace possano morire trucidati da quelli di guerra. Pare una storia infinita. La strada scorreva ma non siamo andati a vedere le cento pietre, già la conoscevamo. In realtà non abbiamo visto nulla quel sabato sera. Arrivati in piazza c’erano ragazzi che giocavano, alcuni stavano seduti a raccontarsela, come succede in primavera nei paesini, d’estate saranno di più, e ci saranno signore sedute qua e là a raccontarsela. Illuminazione gialla, come si conviene ai centri storici. Pavimentazione in basoli. Il silenzio è quello dei paesi tranquilli del basso Salento, pochissime auto, voci dei ragazzi, voci di noi che parlottiamo aspettando di finire la sigaretta prima di entrare dove dovevamo andare. “Vieni a Patù? Cucina piemontese” mi ha detto l’amico al telefono. Come rinunciare alla cucina piemontese nel basso Salento? La Rua De Li Travaj si chiama il locale (la strada del lavoro). Immediato il pensiero corre ad un antico detto piemontese “scapa travaj ca riv” (scappa lavoro che arrivo io), ovviamente dedicato agli scansafatiche. Il locale è una trattoria, la dicitura è “cucina tipica salentina”. Però c’è la signora Fiorina che arriva dritta da Alba, città del tartufo bianco fra Asti e Cuneo. *** Terra di Langhe e Roero, un tempo poverissima, ne dice Nuto Revelli nel “Il mondo dei vinti” il libro che nessun piemontese dovrebbe ignorare, soprattutto quelli che lanciano strali contro gli immigrati. Intervistò contadini, Nuto, li fece parlare e loro dicevano parole di emigrazione in Francia e non solo. Della povertà e dei pasti fatti di castagne e castagne, polenta e polenta con castagne. Il mito del tartufo sarebbe arrivato dopo. Allora c’erano le ragazze che vendevano i loro lunghi capelli a chi li trasformava in parrucche per signore nobili, ricche, belle. Città di origine preromane,
a Patù
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Lecce, 30 marzo 2014 - spagine n° 0 - della domenica 22
di Gianni Ferraris
Sopra, le cose della Bagna Caoda in una illustrazione di Gabriele Genini e sotto Patù,le Centopietre
divenne Alba romana, poi passò attraverso la storia, il Medio Evo, con le sue mura fortificate dalle “cento torri”, divenne giacobina dopo la rivoluzione francese. Poi accolse Napoleone in trionfo. Lui, anticipando altri governi del secolo XXI°, chiese un contributo per le spese militari pari a 123.000 lire dell’epoca. Assurdo, ingiusto, esoso. Alba inviò due ambasciatori a Parigi per trattare una cifra più equa, uno solo tornò, l’altro venne fucilato e divenne eroe (suo malgrado). Inutile dire che dovettero pagare. Fino ad arrivare alla Resistenza, l’effimera Repubblica di Alba venne raccontata da Fenoglio (I 23 giorni della città di Alba), poi fu medaglia d’oro per il prezioso contributo alla liberazione dal nazi fascismo. Altre libere Repubbliche in altre terre echeggiano, Nardò insegna! Oggi è famosissima per il miglior tartufo bianco al mondo e per i vini d’eccellenza, nelle sue terre si bevono vini DOC (Bar-
bera, Dolcetto, Nebbiolo) e DOCG (Barbaresco e Moscato). Tradizioni culinarie eccellenti: bagna caoda, Bolliti e bagnet, Agnolotti, Fritto misto piemontese, Bonet, Insalata russa, Brasato e via dicendo. *** Fiorina a Patù si è portata tutto il suo patrimonio e si è lasciata contaminare da quello che ha trovato qui. Ha cucinato per noi ottima bagna caoda, agnolotti, bolliti con bagnetto verde, brasato (al negramaro) e bonet. Un tripudio. Tutto mangiato sotto gli occhi attenti di Felice Cavallotti che ci guardava da una foto, e dalle fotografie in bianco e nero appese ai muri, tempi andati di quando c’erano tabacchine e andare da Patù a Lecce era viaggio vero, ci voleva un sacco di tempo. Il prezzo è stato in linea con la quantità e qualità del cibo, tenendo conto che non è cucina usuale. Poi di nuovo in strada, di nuovo verso Lecce, con profu-
mi e sapori da ricordare. Pensando senza troppo livore ai casi della vita, ai non salentini che contaminano Salento con le loro conoscenze, la loro musica, le loro parole scritte, volatili, affabili, dure come sassi, o con il loro cibo. Ed il Salento accoglie e guarda, insegna e impara. Abbiamo cenato ed io pensavo ai casi della vita, l’amico medico in Salento per lavoro, campano di nascita e formazione, piemontese con i tentacoli della sua famiglia, il nonno lo era. Io piemontese, per caso in Salento. Altri amici di Lecce Lecce (come si diceva qui per indicare i cittadini), Lecce austera e fiera che diceva "Poppeti" indicando chi arrivava da fuori città, dal Capo forse. E pensavo a Pavese, Fenoglio, a Davide Lajolo, scrittore e parlamentare del PCI, che nel 1977 pubblicò lo stupendo “Vedere l’erba dalla parte delle radici” in cui raccontava di quella notte in cui venne colto da infarto e gli passò davanti tutta la sua vita. Sopravvisse, ne scrisse. Tutti langaroli e monferrini, figli di quelle terre fatte di colline dolci, sinuose, ora piene di filari, un tempo anche di ulivi in qualche parte. Terra dalla quale si vede l’arco alpino dove il sole tramonta. Campi e lavoro duro. Storia e storie. Come in Salento, in fondo. E pensavo a chi veniva fin quaggiù a comprare uva per rendere più corposo l’ottimo vino di Langa e Monferrato, agli scambi culturali. Mani che si stringono a distanza di mille Km, occhi che si guardano e imparano a osservare. Profumi di mosto e di finocchio selvatico. E pensavo che è bello, in fondo, conoscere il sapore delle cime di rapa e della bagna caoda, mischiarli nella memoria con i ricordi. Ed è bello bere negramaro con agnolotti piemontesi che fondono due culture. Anche alla faccia dei puristi che forse sapranno di cucina dotta e colta, ma rischiano di scordare l’emozione del lasciarsi contaminare.
Copertina
S
velata finalmente l'identità del brand BITUME, ovvero un festival urbano che vede nella fruizione pubblica della fotografia la massima espressione di cultura diffusa. Bitume Photofest porta la fotografia per le strade della città, rendendo accessibile alla comunità il fascino della contemporaneità, slegata dagli abituali contesti espositivi. Il Bitume Photofest ospita alcuni dei maggiori protagonisti della fotografia contemporanea in numerose esposizioni “outdoor” che invadono il tessuto storico urbano, dai balconi dei palazzi storici alle facciate di abitazioni private. Gli esercizi commerciali del centro cittadino ospitano invece artisti emergenti, selezionati tramite open call (per maggiori informazioni fare click sul link), i cui progetti sono presentati in maniera insolita su supporti alternativi. Il festival propone inoltre un approfondimento storico sul patrimonio identitario della città, attraverso il recupero di archivi fotografici locali di grande valore e fascino. Bitume Photofest rappresenta anche un momento di studio e confronto sul tema fotografico, con un calendario formativo che comprende workshop, seminari, convivi, presentazioni di libri e serate culturali in compagnia di buona musica. *** Per seguire il progetto tramite la pagina Facebook: www.facebook.com/bitumepf e per maggiori informazioni il sito ufficiale: www.bitumephotofest.org. Cecilia Leucci
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bitume photofest
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